A proposito de "La Zona di Interesse" di Jonathan Glazer, mi rammarica che ad esso sia stata appiccicato lo slogan stra-logoro e ormai insentibile (che di esso il film dovrebbe essere emblema) di "Banalità del male".
Il titolo del famoso saggio del 1964, di Hannah Arendt, che assistette da giornalista all'intero processo Eichmann a Gerusalemme, è infatti ormai diventato uno straccio buono per tutto, che viene pronunciato a casaccio e senza tenere minimamente conto del contesto originale in cui fu utilizzato dalla grande filosofa.
Mi dispiace, in particolare, che lo abbia usato, per "La Zona di Interesse" anche Steven Spielberg ( "La zona d'interesse è il miglior film sull'Olocausto che ho visto dai tempi del mio" ha detto recentemente il regista al The Hollywood Reporter. "Questo film fa un ottimo lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto sulla banalità del male") in un commento poco elegante sul film di Glazer che era candidato e ha vinto meritatamente l'Oscar 2024, come miglior film internazionale.
Ancora una volta, bisognerebbe chiarire (e tener conto) che Hannah Arendt, quando andò ad occupare i banchi del pubblico/stampa che assisteva al processo ad Adolf Eichmann, il "tranquillo burocrate" che organizzò minuziosamente e diresse l'intero piano di sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, ecc... nei lager nazisti, osservò, giorno dopo giorno, quanto fosse "umanamente" così poco interessante quel tizio, che qualche settimana prima gli agenti del Mossad avevano finalmente rintracciato in Argentina dove si nascondeva da 20 anni sotto falso nome, prelevandolo con un'azione spettacolare e portandolo fino a Gerusalemme per processarlo di fronte ad un'autorità giudiziaria israeliana.
Eichmann apparve alla Arendt per quello che era: un grigio e insignificante burocrate, che viveva la sua vita mediocre e meschina, occupandosi di organizzare i forni crematori per gli ebrei e ogni loro tortura con la stessa "efficente cecità" con cui un altro si occuperebbe di pratiche del catasto.
Un uomo che fuori di questo suo compito, che svolgeva senza porsi la minima domanda morale, era un uomo "normalissimo", che la sera, dopo aver disposto l'uccisione per fame, inedia, o docce allo zyklon di migliaia di persone, tornava a casa, giocava con il suo cane lupo e con i bambini, esattamente come si vede ne "La Zona di Interesse" tratto dallo sconvolgente libro di Martin Amis che descrive la vita familiare, a pochi metri dal campo, del direttore di Auschwitz, Rudolf Hoss.
Bene, ciò che è molto chiaro, a chiunque legga o abbia letto il libro della Harendt, è che la filosofa non parla mai di un "male banale", come purtroppo suggerisce la frase diventata ormai un cliché anche offensivo nei confronti delle vittime. Il male per la Arendt non può MAI essere banale (come potrebbe esserlo del resto?): il male è spaventoso, agghiacciante, orrendo, repulsivo e tutto quello che si può definire. E chiunque lo subisce, lo sa.
Per la Arendt "banale" non è il "male", ma sono - molto spesso - QUELLI CHE LO COMPIONO. Per compiere il male, infatti, non bisogna essere geni o molto intelligenti (anche se viviamo in un'epoca nella quale si mitizzano perfino i serial killers o i gangsters): Stalin e Hitler erano due pover'uomini, intellettivamente limitati, semi-analfabeti, falliti nelle loro rispettive vite prima di inventarsene una dedicata a esercitare il terrore.
Il male è qualcosa che può essere fatto da chiunque, anche da un idiota, anche da chi non sa o non conosce niente. Per questo è praticato molto spesso da persone "ordinarie", meschine, mediocri.
E' semmai il bene che, anche in un'anima semplice, è molto più difficile da compiere sul serio. E per il quale è necessario lo sviluppo di doti umane più elevate e profonde.
Il generale Hoss - descritto da Glazer - non è molto diverso dall'Eichmann della Arendt: un uomo spaventosamente vuoto, senza nessuna conoscenza o consapevolezza di se stesso, un manichino al servizio di un potere che lo utilizza come un arnese, uno strumento, e da cui lui si fa utilizzare a peso morto, con l'illusione di poter, per questo, avere diritto a una qualunque identità.
La Banalità del Male è dunque molto più propriamente: "La Banalità di CHI COMPIE il male". E forse bisognerebbe cominciare a riformularla in questi termini, anche per rispetto di chi non è morto e non può mai essere morto, per una "banalità", ma per qualcosa di spaventoso che (ci) rende al termine della proiezione di un film come quello di Glazer, pieni di vergogna per appartenere alla stesso genere umano cui sono appartenuti mostri (anche i mostri, ahimé possono essere banali) come Eichmann e Hoss.
Fabrizio Falconi - 2024
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