Grazie davvero di cuore a tutti i lettori di Questo Blog !
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Pubblcato anni fa in una versione tagliata dalla casa editrice Essedue, “La casa di Parigi” è tornato in libreria pubblicato da Sonzogno nella collana diretta da Irene Bignardi e in versione integrale, tradotto da Alessandra di Luzio accompagnato da una postfazione di Leonetta Bentivoglio.
Da molti considerato il capolavoro di Elizabeth Bowen (1899-1973) una delle più raffinate e importanti scrittrici del novecento anglosassone, irlandese che visse molto a Londra, affiliandosi al celebre circolo di Bloomsbury, profondamente ammirata da Virginia Woolf, "La casa di Parigi" è un romanzo vischioso, che avvolge come un incantesimo e conduce il lettore attraverso un misterioso viaggio nella psicologia e nei destini di pochi personaggi.
Siamo a Parigi, in inverno, la Grande guerra è finita da poco, aleggia sulla città un'atmosfera cupa e grigia. Alla Gare du Nord scende Henrietta, undici anni, con in mano la sua scimmietta di pezza. Viene a prenderla la signorina Fisher, un'amica di famiglia che la ospiterà per una intera giornata in un elegante appartamento, in attesa di farla ripartire per il Sud della Francia.
In quella casa borghese, dal confortevole odore di pulito, Henrietta si imbatte in una gradita sorpresa: c'è un suo coetaneo, il fragile Leopold, avviato verso un futuro incerto.
Tra i due bambini, estremamente sensibili e inquieti, dopo l'iniziale diffidenza, si accende la curiosità: di ciascuno nei confronti dell'altro, e di entrambi verso il misterioso mondo degli adulti.
I due fanciulli, grazie agli indizi disseminati attorno a loro, rivivono, tra immaginazione e realtà, le tormentate storie d'amore dei grandi, in particolare quella scandalosa tra la madre di Leopold e il suo padre naturale.
Acclamato come un classico al momento della pubblicazione (1935), "La casa di Parigi", oltre a mettere in scena una passione sentimentale, è un acuto studio psicologico e un esercizio di finezza letteraria sulla prima irruzione del dolore, sulla scoperta del sesso, sulla perdita dell'innocenza e sull'intrico delle conseguenze e del danno.
Un romanzo importante, dalla cadenza solenne e dalla prosa jamesiana che desta ammirazione per la profondità psicologica e la capacità descrittiva, dei paesaggi naturali e umani.
Elizabeth Bowen
La Casa di Parigi
Sonzogno, Venezia 2016
Traduzione di Alessandra Di Luzio
Postfazione di Leonetta Bentivoglio
286 pagine, Euro 15
Il Colosso di Nerone andato perduto
Un basamento rettangolare in peperino (roccia
magmatica che i romani trasportavano dalla Tuscia) di grandi dimensioni (17 metri
per 15) è quanto rimane del sito dove sorgeva l’imponente statua dedicata a
Nerone, la più grande mai realizzata in bronzo.
Il parallelepipedo, provato
dalle ingiurie del tempo, oggi praticamente ignorato dai turisti e dai
visitatori che a migliaia ogni giorno si mettono in fila per visitare l’Anfiteatro
Flavio, reca una iscrizione in marmo: “Area del basamento del Colosso di
Nerone”. In effetti non si tratta (e non si trattava) propriamente del
basamento, ma delle fondamenta di quella possente struttura di supporto che
doveva sostenere la gigantesca statua dell’imperatore.
Commissionata allo scultore
greco Zenodoro, era alta ben 35 metri e costituiva il massimo tributo alla
divinizzazione di sé che Nerone aveva voluto per autocelebrarsi.
Originariamente il colosso
era posizionato nel vestibolo della Domus Aurea, la residenza imperiale,
proprio per incutere soggezione e timore nei visitatori, e raffigurava l’imperatore
con la testa radiata e nelle vesti del Sole. Dopo la sua caduta, la grande
statua dalla Velia – dove Adriano fece innalzare il tempio di Venere e Roma –
fu trasferita nell’area dell’anfiteatro che Vespasiano fece costruire. Il trasporto eccezionale, riferiscono le
cronache dell’epoca, fu effettuato grazie all’utilizzo di ben dodici elefanti,
incaricati di trainare il Colosso. L’immagine del Sole divinizzata rimase così
nella sua nuova collocazione per diversi secoli. L’imperatore Commodo decise
perfino di “ritoccarla”,
modificandone i lineamenti perché assomigliasse a lui.
Fu proprio comunque la
presenza inconfondibile del Colosso – sembra – a conferire per assonanza il
nome Colosseo all’enorme Anfiteatro Flavio, ancora oggi simbolo di Roma. Ma che
fine ha fatto?
Purtroppo non si sa esattamente. L’ultima citazione che lo riguarda è nel Cronografo del 354 d.C., il calendario illustrato opera di Furio Dionisio Filocalo.
Nessuna cronaca successiva lo riporta, facendo propendere
per l’ipotesi che il Colosso, vero simbolo del potere imperiale romano, e della
sua tracotanza, sia stato abbattuto e distrutto già all’epoca delle prime
invasioni barbariche, e le enormi parti in bronzo subito fuse per realizzarne
armi. Della statua si persero definitivamente le tracce, come della sua omologa
di Rodi considerata una delle sette meraviglie dell’umanità.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015
Fabrizio Falconi - 2021
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono reso conto che il dolore e la sofferenza emotiva
servivano a ricordarmi che stavo vivendo in contrasto con i miei valori.
Oggi so che questa si chiama autenticità.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho capito quanto fosse offensivo voler imporre a qualcun altro i miei desideri,
pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta,
anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama rispetto.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho smesso di desiderare una vita diversa
e ho compreso che le sfide che stavo affrontando erano un invito a migliorarmi.
Oggi so che questa si chiama maturità.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho capito che in ogni circostanza ero al posto giusto e al momento giusto
e che tutto ciò che mi accadeva aveva un preciso significato.
Da allora ho imparato ad essere sereno.
Oggi so che questa si chiama fiducia in sé stessi.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
non ho più rinunciato al mio tempo libero
e ho smesso di fantasticare troppo su grandiosi progetti futuri.
Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e felicità,
ciò che mi appassiona e mi rende allegro, e lo faccio a modo mio, rispettando i miei tempi.
Oggi so che questa si chiama semplicità.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono liberato di tutto ciò che metteva a rischio la mia salute: cibi, persone, oggetti, situazioni
e qualsiasi cosa che mi trascinasse verso il basso allontanandomi da me stesso.
All’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma
oggi so che questo si chiama amor proprio.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho smesso di voler avere sempre ragione.
E cosi facendo ho commesso meno errori.
Oggi so che questa si chiama umiltà.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono rifiutato di continuare a vivere nel passato
o di preoccuparmi del futuro.
Oggi ho imparato a vivere nel momento presente, l’unico istante che davvero conta.
Oggi so che questo si chiama benessere.
Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono reso conto che il mio Pensiero può
rendermi miserabile e malato.
Ma quando ho imparato a farlo dialogare con il mio cuore,
l’intelletto è diventato il mio migliore alleato.
Oggi so che questa si chiama saggezza.
Non dobbiamo temere i contrasti, i conflitti e
i problemi che abbiamo con noi stessi e con gli altri
perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.
Oggi so che questa si chiama vita.
Charles Chaplin
Fondatore della PEA, Grimaldi si affermò negli anni Sessanta con gli Spaghetti Western, realizzando quelli che ormai sono classici del genere come Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima.
Dalla fine degli anni Sessanta Grimaldi divenne uno dei principali produttori del cinema d’autore. Dal 1968, a partire dall’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, iniziò a lavorare con Federico Fellini, un sodalizio che proseguì con Fellini Satyricon (1969), Il Casanova di Federico Fellini (1976) e Ginger e Fred (1986). Fondamentale la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, di cui Grimaldi produsse tutti i film da Il Decameron (1970) all’ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).
Un capitolo a parte merita l’avventura con Bernardo Bertolucci. Con la United Artists, Grimaldi realizzò Ultimo tango a Parigi (1972) e fu coinvolto, insieme a Bertolucci, nella lunga e tormentata vicenda legale, dal sequestro della pellicola alla condanna fino al rocambolesco salvataggio di una copia. Nonostante lo scandalo internazionale, il film riuscì a incassare 36 milioni sul mercato americano e oltre 90 in tutto il mondo, ottenendo due nomination all’Oscar. Nel 1976 fu la volta del kolossal Novecento.
Grimaldi produsse anche Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri (1969), Storie scellerate di Sergio Citti (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Viaggio con Anita di Mario Monicelli (1979). L’ultimo suo grande progetto è Gangs of New York di Martin Scorsese (2002).
fonte: il cinematografo.it
Viviamo tempi nei quali, obnubilati dalle proprie convinzioni su tutto, che difendiamo a ogni costo e sempre anche quando esse poggiano sul nulla, nessuno sembra essere più capace di dire "Non so". Eppure ammettere la propria ignoranza o indecisione su questioni non semplici è una vera e propria fonte di saggezza come insegna questo antichissimo Detto dei Padri del Deserto.
Una volta giunsero dall'abate Antonio dei vecchi e con loro c'era l'abate Giuseppe. Volendo l'anziano metterli alla prova, propose loro un passo delle Scritture e cominciò a chiedere, dal più giovane, di quale luogo si trattasse. Ognuno rispondeva come poteva. Il vecchio replicava: "Non ci siamo." Alla fine chiese all'abate Giuseppe: "Che ne pensi ?" . Egli rispose "Non so".
Allora l'abate Antonio disse: "Sicuramente l'abate Giuseppe ha trovato la via, perchè ha detto 'Non so' ".
Detti dei padri del deserto, Antonio, 17 (scritto verso 290 d.C.)