Un luogo sicuramente
affascinante per ogni appassionato del mistero a Roma – e anche sinistro e
tetro – è la Chiesa dei Cappuccini che si trova nella
centralissima Via Veneto.
È un posto che i Romani
conoscono bene e che ancora meglio conoscono i turisti, specie quelli
anglosassoni che ne apprezzano il contorno gotico.
La Chiesa, il cui nome esatto è Santa Maria della Concezione, fu edificata da Antonio Casoni,
famoso architetto che lavorò per le più blasonate famiglie dell’epoca, per
conto del cardinale Antonio Marcello Barberini. Costui era un componente della famosa
casata, il cui aspetto severo si può ancora oggi ammirare in un ritratto di
Antonio Alberti che fa bella mostra di sé nel Coro della Chiesa stessa.
Antonio Marcello Barberini
era nato a Firenze nel 1569 ed era il fratello di Urbano VIII, il 235mo papa
della storia della Chiesa, che lo aveva elevato al rango di Cardinale nel 1624.
Ma Antonio Barberini era anche – e prima
di tutto – un fervente frate cappuccino, e di questo Ordine fu anche – vista la
potenza della famiglia da cui proveniva – un grande benefattore.
Una volta divenuto Cardinale
ordinò che fosse edificata una Chiesa, che fu riccamente adornata, e destinata
ad ospitare le reliquie di S. Felice da Cantalice, il primo santo dell’Ordine dei
Cappuccini.
Ma il motivo per cui questa
Chiesa è famosa oggi, è nascosto nelle
sue cinque cappelle sotterranee – alle quali si accede da uno stretto passaggio
a destra dell’altare maggiore – che ospitano un arredo davvero unico al mondo.
Tutte le pareti delle cinque
cappelle infatti sono fittamente ricoperte da teschi e ossa di circa 4.000
frati cappuccini morti nel corso dei secoli e qui seppelliti fino al 1870. A
conferire un aspetto particolarmente macabro poi, c’è il pavimento di nuda
terra. Nuda terra che – come si tramanda – è quella prelevata dai monaci
cappuccini ( i francescani sono da secoli Custodi della Terra Santa) nella
prossimità del Calvario di Cristo in Palestina.
In questo luogo oscuro, i frati del convento attiguo
scendevano ogni sera a pregare, prima di andare a dormire, circondati dagli amabili resti dei loro confratelli che venivano periodicamente
riesumati a causa della ristrettezza dello spazio a disposizione.
Con il passare del tempo,
furono allestite e completate una dopo l’altra, una di fila all’altra, la Cripta dei Teschi, dove
compare anche una clessidra alata, e scheletri di cappuccini in piedi che
sembrano quasi camminare; la
Cripta dei Bacini, con un baldacchino dal quale cala un
pendaglio di vertebre umane; la Cripta delle Tibie e dei
Femori, con un tondo nella volta realizzato soltanto con mandibole e infine la Cripta dei Tre Scheletri,
con al centro un piccolo scheletro che raffigura la morte e brandisce un
falcetto, e un orologio che indica con eloquente sintesi la finitudine della
vita umana e il passaggio all’aldilà.
Il fascino che esercitò
questo singolare luogo – che ancora oggi suscita brividi nel visitatore - sugli intellettuali e gli artisti di mezza
Europa cominciò quando un visitatore illustre, il Marchese De Sade varcò la
soglia della cripta nel 1775. In Italia
il Marchese si era rifugiato dopo che un ennesimo scandalo – aveva coinvolto il
suo segretario, cinque ragazze e una domestica in scatenate orge che metteva in
scena nelle stanze del suo castello e
alle quali partecipava insieme alla moglie – gli aveva attirato le ira
dei tribunali. L’allora trentacinquenne
De Sade intentò allora un lungo viaggio in Italia, visitando Torino, Firenze
Venezia e infine anche Roma. E uno dei
luoghi descritti nel resoconto che scrisse al ritorno – Viaggio in Italia – fu proprio la Chiesa dei Cappuccini, che descrisse minutamente,
definendolo un monumento funebre degno di
una testa inglese.
Non sorprende questo
riferimento, perché in effetti questo luogo sembra, con i suoi macabri
scheletri ricomposti nelle pose più bizzarre e con le sue tetre cappelle,
sembra proprio appartenere al culto gotico tipicamente anglosassone.
E fu proprio un grande
scrittore anglosassone a celebrarne più di altri il mito, e a raccontarne (con
uno sforzo inventivo che probabilmente tenne conto di una leggenda reale) il
risvolto più terrorizzante con la materializzazione di un fantasma che divenne
l’assoluto protagonista di uno dei suoi più celebrati romanzi.
Stiamo parlando di Nathaniel
Hawthorne, l’autore de La lettera
scarlatta, che – nato a Salem nel
Massachussets il 4 luglio del 1804 – è considerato uno dei più grandi scrittori
americani. Hawthorne, come è evidente
dall’intera sua opera letteraria, era un
cultore dello straordinario e dell’insolito, forse proprio a causa degli stessi
geni che si portava dietro, nel suo dna: un suo antenato era stato infatti uno
dei giudici dei celebri processi alle streghe di Salem, andati in scena alla
fine del 1600 proprio nella città dove lo scrittore era nato: venti persone,
uomini donne e bambini furono giustiziati nel più vergognoso processo per
stregoneria allestito nelle nuove terre degli Stati Uniti contro persone che in
modo diverso avevano avuto l’imprudenza di raccontare contatti ravvicinati con
fantasmi.
La memoria di quegli
orribili fatti che pesavano sin dall’infanzia sulla psicologia di Hawthorne
trovò la sua catarsi proprio nella Lettera
Scarlatta, il romanzo che lo scrittore pubblicò nel 1850 e che lo consacrò
ad un’immensa fortuna letteraria.
È ovvio che per Hawthorne,
proveniente dal puritano stato del New England, la cattolica Italia, con la sua
storia millenaria di imperi e di persecuzioni, di magia nera e di bellezza
rinascimentale, di intrighi e corruzione, di seduzioni e piaceri, dovesse
apparire come una specie di Eden e allo stesso tempo come un luogo pericoloso.
Furono esattamente le sensazioni che lo scrittore provò quando, il 24 gennaio
del 1858, già piuttosto in là con gli anni, mise piede per la prima volta a
Roma.
La città eterna esercitò
sullo scrittore americano un fascino sottilmente ambiguo: all' incanto delle
rovine, dei paesaggi romantici che scorrono sotto ai suoi occhi, fanno da
contraltare notazioni di costume, caratterizzate dal sospetto, dal profilo
inquietante che – come sotto l’occhio di una lente allucinata – intravvede
anche nel paesaggio, come quando descrivendo i cipressi di Roma li paragona a fiamme scure di enormi ceri funebri.
A Roma, Hawthorne soggiorna
per un periodo abbastanza lungo, per
immaginare e poi scrivere una delle sue storie più sconcertanti, quella che
finirà nel romanzo Il Fauno di Marmo,
pubblicato tre anni dopo, nel 1860.
In questo romanzo Hawthorne
racconta la storia di un gruppo di
amici: Kenyon,
uno scultore americano che vive e lavora a Roma, il suo ospite Donatello,
giovane e ricco rampollo di una nobile casata toscana, e Miriam, pittrice amica di Kenyon, e della
giovane studentessa Hilda, anch’essa un’americana trasferitasi in Italia. Donatello
è per la sua bellezza, scherzosamente accostato dagli amici, al Fauno di marmo di Prassitele, esposto ai
Musei Capitolini; ma il clima di apparente giocosità tra i quattro si
interrompe bruscamente quando, durante una visita alle catacombe, Miriam si
perde e cercata affannosamente dai tre
amici, viene ritrovata in compagnia di un misterioso figuro, un uomo
incappucciato. Lo spettrale individuo sostiene di essere ben noto a Miriam, che
appare atterrita dallo strano incontro.
Il persecutore, l’uomo incappucciato,
torna a farsi visita con apparizioni frequenti a Miriam, che nel frattempo ha
intrecciato una storia d’amore con Donatello, e la suggestione malefica dello
strano personaggio alla fine produce i suoi effetti: sorpreso con Miriam dal
Persecutore presso il parapetto della rupe Tarpea, sul Campidoglio, Donatello
affronta lo sconosciuto e lo getta nel vuoto.
Anche Hilda ha assistito non vista alla
drammatica scena, e scappa via terrorizzata, disertando la visita che la
mattina dopo, i tre amici, Kenyon, Miriam e Donatello hanno in programma
proprio alla Chiesa dei Cappuccini, in Via Veneto.
Ed è qui che Hawthorne immagina una
delle scene più forti del libro, nel quale il fantasma del persecutore, che è
stato appena ucciso da Donatello, torna a farsi vivo e presente, in un capitolo
intitolato Il cappuccino morto: nella navata centrale della Chiesa visitata
dai tre amici, infatti si sta celebrando il funerale di un frate morto: si trattava del corpo vero e proprio –
scrive Hawthorne – o come si sarebbe
potuto supporre a prima vista, del volto di cera abilmente modellato e della
figura vestita con cura – di un frate morto. Questa immagine di cera – o di
fredda creta viva che fosse – giaceva su una bara leggermente sollevata dal
suolo, con tre lunghi ceri accesi da ogni lato.
Ed ecco che accostandosi a quel corpo, deposto
nella bara aperta, Miriam – con un brivido di raccapriccio - ravvisa atterrita nel morto proprio le
fattezze del Persecutore ucciso la sera prima, ed ha persino l’impressione chiara
di udirne l’odiosa voce accusatrice. Il
cadavere ha un aspetto inquietante: il cappuccio incornicia un volto purpureo, a differenza del classico pallore dei
cadaveri, le palpebre sono solo parzialmente abbassate,
e dal di sotto di esse si intravvedono i bulbi oculari.
Ad un tratto accade qualcosa di
incredibile, una «circostanza che parrebbe troppo fantastica a raccontarsi, se
non fosse proprio come la scriviamo». Difatti, mentre i tre amici si trovano intorno
alla bara, un rivolo di sangue comincia a scendere dalle narici del frate
morto.
Kenyon prova a dare una spiegazione
scientifica: il frate sarà morto di apoplessia. Ma Miriam non l’accetta, spinge
via Donatello, non sa spiegarsi come quel cadavere strano e sconosciuto abbia
potuto assumere, mentre lo guarda, i tratti di quella faccia così terribile,
impressa nel suo ricordo. E mentre gli
altri si accingono a lasciare la lugubre chiesa, torna indietro, rivolge un
ultimo sguardo a quel volto, giunge fino a toccare con la punta delle dita una
delle mani giunte del frate.
« È lui, » dice Miriam, « Ecco sul suo
sopracciglio c’è la cicatrice che conosco così bene. E non è una visione; posso
toccarlo ! Non voglio più dubitare della realtà, l’affronterò meglio che posso
».
Pur sconvolta, Miriam non sa allontanarsi
da quel luogo: convince anzi Donatello a seguire il sacrestano che li conduce
nel cimitero sotto la chiesa, con lo spettacolo di scheletri che abbiamo
descritto, e che a sua volta Hawthorne descrive minuziosamente nelle pagine
seguenti del capitolo.
Il sacrestano rivela ai due fidanzati
il nome del morto – frate Antonio – e indica loro il luogo della sepoltura, «
al posto di un frate che morì trent’anni fa e che adesso si è levato per
lasciargli il posto ».
È la legge di quel luogo, che il
sacrestano spiega ai suoi ospiti: quella che per nessuno dei confratelli è
previsto un luogo definitivo. Ma un
continuo dissotterrare e smembrare, e riassemblare e fare posto ai nuovi.
Miriam e Donatello vanno via
comprensibilmente angosciati, dopo aver lasciato un’offerta per far celebrare
una messa in suffragio dell’anima di frate Antonio.
Tutto finirebbe lì, se non fosse che
nei giorni seguenti nessun giornale parla di omicidi o cadaveri rinvenuti, e
che il lampione che Donatello credeva di aver distrutto nella colluttazione è ancora
intatto, come riscontra il giovane tornando sul luogo del delitto.
Sarà soltanto l’inizio di una serie di
nuove persecuzioni, nelle quali si scoprirà che il fantasma del Persecutore non
ha smesso affatto di perseguitare Miriam e i suoi amici, in primis Donatello,
che ha avuto la sfrontatezza di affrontarlo, fino alla catarsi finale – che non
riveliamo qui per chi desiderasse avventurarsi nella lettura di questo classico
del fantastico – che ha per cornice la più classica delle feste del Carnevale
romano, che ai tempi di Hawthorne era davvero qualcosa di memorabile.
A testimoniare il fatto che il fantasma
della Chiesa dei Cappuccini continua ad inquietare anche in epoca moderna, bisognerà
ricordare al termine di questo capitolo che dal Fauno di Marmo fu liberamente tratta - ambientandola ai tempi d’oggi - in Italia,
nel 1977, una miniserie televisiva prodotta dalla RAI, con la regia di Silverio
Blasi e Marina Malfatti nei panni di Miriam,
serie che ebbe un notevole successo e divenne in breve tempo un piccolo
classico del mystery italiano, sulle
orme dell’altrettanto celebre Il segno
del comando che aveva fatto da apripista del genere, nel 1971, con un’altra
storia di fantasmi che metteva insieme i diari di Lord Byron e i vicoli di
Roma.
Fabrizio Falconi - tratto da I Fantasmi di Roma - Newton Compton Editore, 2010, 2018