Prologo. Roma, interno giorno. Finestre chiuse, silenzio, tende tirate, pomeriggio di aprile. In primo piano, Bernardo Bertolucci è nel suo appartamento a due passi dal carcere di Regina Coeli:
«Dall’idea che la sedia a rotelle fosse una galera sono uscito un giorno guardando una serie Marvel. Ho dimenticato gli svizzeri, le loro cliniche, i bisturi, le riabilitazioni e ho ricominciato a vivere».
Gli svizzeri hanno anche altri metodi.
«L’eutanasia? Ma che siamo matti? Non mi è mai passato per la testa. Il testamento biologico l’ho fatto da un sacco di tempo. Non confondiamo».
A 77 anni, l’unico italiano ad aver vinto un premio Oscar per la regia sembra felice come un bambino. Beve lenti sorsi d’acqua da una bottiglia di plastica che pare un biberon e ha ancora bisogno di ridere, giocare, costruire castelli, mettersi in moto, dire «azione»: «Lei casca bene. Per tanto tempo ho creduto che quella gioia molto infantile, quel piacere profondo, quel senso di essere a proprio agio soltanto sul set fosse finito per sempre. Da pochissime settimane, invece, c’è un’idea. Allo stato è molto embrionale, ma inizia a prendere forma. Non so cosa diventerà né che durata avrà, ma so che sono tornato a scrivere e a pensare che sì, un film posso e voglio ancora farlo. Ho letto una colonna in cronaca e mi sono incuriosito. Di solito sento in pochi minuti se andare avanti o meno e questa volta, dopo 5 anni di vuoto pneumatico, l’ho capito subito. Il desiderio di lavorare c’è, tutto il resto viene naturale».
Il tema sarà l’amore?
«L’amore sì, chiamiamolo così. In realtà il tema è la comunicazione e quindi anche l’incomunicabilità. L’argomento prediletto da Michelangelo Antonioni e la condizione che mi trovai ad affrontare anche io quando passai dal cinema per pochi, i miei film degli ani Sessanta, a un cinema più vasto pronto a incontrare un grande pubblico».
Dissolvenza. 1972. Poche settimane prima che Ultimo tango a Parigi, tra i film più dibattuti di sempre, ora di nuovo prossimo all’uscita in sala restaurato, arrivasse nei cinema provocando, con l’onore di un rogo non metaforico, incendi su larga scala, sequestri e censure, Bernardo Bertolucci mostrò l’opera ai suoi genitori. «Mia madre si alzò con un sorriso felice e mi abbracciò con parole rassicuranti: “È bellissimo, non potranno farti niente di male”. Mio padre invece, con un’aria sinistra, scosse la testa. Disse soltanto “Qui finiamo tutti in galera” e non andò poi così lontano dalla verità».
A 46 anni dalla sospensione dei diritti civili – «Scoprii che mi avevano tolto la facoltà di voto perché non ricevetti la scheda elettorale. Andai all’anagrafe e dopo mille faldoni aperti e poi richiusi, un impiegato con le mezze maniche nere sibilò tranquillo: “Non gliel’hanno spedita perché lei semplicemente ha perso il diritto di voto per oltraggio al pudore”» – su Ultimo tango, Bertolucci Bernardo da Parma cova ancora alcuni dubbi:
«Mi chiedo se la parte leggera e quella claustrofobica del film siano davvero in equilibrio. Mi chiedo se la storia tra i due sconosciuti che si amano in un appartamento vuoto senza sapere nulla l’una dell’altro, e tutto il resto del film che gli danza attorno siano proporzionati tra loro. Ancora non l’ho capito e una risposta non so darla. Non me lo chieda e non mi domandi neanche se Ultimo tango sia, tra i non tanti che ho girato in fondo, il mio film preferito. Potrei risponderle distinguendo tra quelli che mi hanno fatto soffrire e quelli che invece mi hanno dato delle overdose di piacere. Ultimo tango è tra loro. Fu un boato. Un’esplosione. Ovunque andassi, da Singapore ad Aspen, a Bangkok, conoscevano la trama, gli attori, le battute».
Ultimo tango a Parigi subì un primo sequestro a fine ’72 per «esasperato pansessualismo fine a se stesso», un processo nel ’73 – «A Bologna, giudice il fratello di Aldo Moro, fummo assolti con formula piena» – e poi una condanna definitiva in Cassazione, a Roma nel 1976. Ad arringhe, giudizi e pregiudizi – «Ultimo tango è un fumettone spettacolare in cui prevale la tesi della distruzione dei valori morali, intenzione evidente del creatore del film» – Bertolucci rispose con la dignità della durezza: «Signori, magistrati, moralizzatori: vorrei sapere in quale forno crematorio sarà bruciato il negativo di Ultimo tango a Parigi. Con la vostra sentenza avete mandato in un campo di sterminio le idee al posto di alcuni milioni di spettatori adulti, gli stessi che si sono guadagnati il diritto di votare, di scioperare e di divorziare, colpevoli di aver amato, odiato o comunque di avere visto Ultimo tango . Ma non fatevi illusioni: nell’Italia del 1976 siete soltanto una minoranza in via di estinzione storica, naturale, biologica».
Cos’era davvero Ultimo tango?
«Forse non era altro che una fantasia su come avrei potuto avere una storia senza pesanti sensi di colpa. Una storia segreta. Una storia senza debiti. Un sogno universale. Tenere tutto chiuso dentro una stanza, l’amore, il dolore, il piacere. Senza ferire nessuno, senza far sapere nulla di sé e senza conoscere nulla dell’altro. Due persone in stato di grazia. Solo questo».
Che fantasia era la sua?
«La fantasia di un ragazzo che professionalmente e creativamente era stato molto precoce, ma che sul piano umano e sessuale pagava un certo ritardo. A ventun anni, dirigendo La commare secca, ero senz’altro il più giovane di tutta la troupe. Dormivo in camera con mio fratello, lui si svegliava e andava a scuola e io mi alzavo e raggiungevo il set. Ero come in trance. La vita però era un’altra cosa. Non ricordo bene, ma credo di non aver fatto l’amore prima dei 19 anni, anche se quella era un’epoca di grandi proibizioni in tutti i sensi e il desiderio di rompere i tabù, di trasgredire e cambiare le regole figlio del ’68 era dietro molte delle scelte che facevamo».
Guardando Ultimo tango il suo ritardo non si scorge.
«Giravo il film come se conoscessi tutto della sessualità, ma stavo ancora scoprendola. Il film nacque da una proposta di Dan Talbot, il mio primo, entusiasta distributore americano, il proprietario del famoso cinema Newyorker . Disse: “Ti voglio produrre un film”. Ero a New York, ci pensai un po’ e poi scrissi una paginetta in cui si parlava degli incontri di due sconosciuti. Il film si intitolava Un giorno e una notte e un giorno e una notte ed era la storia di due amanti che si incontravano in un appartamento vuoto lasciando le loro identità sociali fuori. Oltre la porta, il mondo. Dentro, il territorio magico in cui si riesce a comunicare nell’unico vero linguaggio che abbia un senso, quello dei corpi. In quegli anni il concetto mi stava molto a cuore».
Dov’era l’importanza di Ultimo tango?
«Nella sintesi di due pulsioni. Entrare in una storia così struggente permetteva di andare fino in fondo alla trasgressione. Il racconto colpiva allo stomaco per la disperazione esistenziale del personaggio di Marlon Brando, ma naturalmente la gente sottolineava l’uso del burro nella scena della sodomia. Reazioni che mi facevano capire meglio il film che avevo fatto».
Come mai?
«Un coito anale con l’uso del burro, l’oggetto più comune e quotidiano usato in famiglia mentre Brando grida la sua maledizione contro la famiglia “tempio della menzogna dove ti insegnano a mentire”. Era inevitabile che andasse così, non me ne importava nulla che il film passasse per osceno o addirittura pornografico e che questa fama abbia poi accompagnato Ultimo tango nei decenni. L’unica cosa che mi sembrava rilevante era che la gente lo vedesse comunque e ricevesse l’emozione che il film sapeva dare».
Il primo sequestro si verificò a pochi giorni dall’uscita.
«Attraversai momenti difficili. Subito dopo l’uscita di Ultimo tango iniziai a preparare Novecento. Pochi anni dopo, mentre stavo missando, ricevetti la notizia che per la Cassazione tutte le copie di Ultimo tango andavano distrutte. Per me, Marlon Brando e Alberto Grimaldi, il produttore, era prevista la reclusione di due mesi con la condizionale. Era come se quella condanna si estendesse dal film di allora a Novecento. Il non poter votare per 5 anni mi suonava come un avvertimento sgradevole e ingiusto. Mi sembrava allucinante che usassero l’accusa di oltraggio al pudore per togliermi il voto».
Antonioni disse: «Non solo non sono indignato da Ultimo tango, ma immagino che due amanti in una stanza possano fare cose molto più ardite di quanto non abbia immaginato Bernardo».
«Non me lo ricordavo, ma è un giudizio che mi piace molto, pieno di sense of humour. Michelangelo era una persona amabile, un amico vero, le nostre vite si sono incrociate spesso. Ultimo tango venne fuori così, dalle oscurità dell’inconscio. Un conto è farsi domande a posteriori, un conto è farsele in tempo reale. Quando giro un film non sono in grado di razionalizzare. Forse, e non è neanche detto, posso riuscirci ora, dopo 50 anni».
E dopo 50 anni in quell’appartamento parigino cosa vede?
«Un luogo in cui nessuno è domo, mansueto, completamente vinto. È un incontro di reciproche prevaricazioni con un vincolo sacrale: non sapere nulla dell’altro, non dire nomi, non rivelarsi. Un patto che è l’uomo a tradire per primo. È lui che alla fine lo rompe, parla di sé, interrompe il loro gioco. Se è vero che in una sequenza lui è molto violento nei confronti di lei, sarà poi lei a sodomizzare lui. Non ci sono vittime e aguzzini, ma esiste una complicità nel dolore e nel desiderio, nel piacere».
Lei girò Ultimo tango a 31 anni. Era ambizioso?
«Non avevo l’ambizione di andare a Venezia o a Cannes, volevo direttamente vincere il Nobel. Ricordo di aver avuto ambizioni immense, inconfessabili».
Figlie di cosa?
«Io e Glauber Rocha avevamo deciso di chiamare i nostri film come i tori andalusi dalla pelle di ghisa, i Miura. Tori così impenetrabili, diceva la leggenda, da non permettere neanche a una zanzara di entrargli nel buco del culo. Nello stesso modo, nei cinema nei quali proiettavano i nostri film, non entrava neanche uno spettatore. Non ci interessava l’esito commerciale. Sentivamo di esprimerci al massimo e questo ci bastava».
Come si liberò del dogma dell’autorialità a ogni costo?
«Nel 1968 realizzai Partner, un film suicida. Non lo vide nessuno. Passata la sbornia, ritrovai la serenità con Strategia del ragno e cominciai a immaginare Il conformista come un film della fine degli anni Trenta che avrà il suo pubblico naturale. Pensai: “Sarà bello avere un dialogo con gli spettatori e non tenerli a distanza come, forse per paura, tendevo a fare prima”. Compresi che il film doveva sviluppare un rapporto di sensualità con il pubblico. Un film doveva dire “Ti voglio” a chi lo stava guardando».
Ultimo tango lo dice?
«Credo di sì. Lo dice con tale forza da poter essere rifiutato. Ma lo dice. Di certo non vuole consolare, proteggere o rassicurare».
Più delle immagini, in Ultimo tango sono opprimenti dialoghi e atmosfere.
«Rividi anni dopo quell’appartamento, totalmente trasformato e abitato da una normale famigliola, inconsapevole di quanto era avvenuto lì nel 1972. Ricordo quei corpi in preda all’abbandono che mi riportavano ai quadri di Francis Bacon. In Il piacere del testo, Roland Barthes ragiona sull’importanza di mescolare gli stili: quella era la mia idea di cinema di allora. Un cinema in cui attraverso la contaminazione degli stili si arrivasse al Kamasutra del linguaggio. Lo chiamai Camerasutra… Poi c’era Strindberg. Parte di quel monologo che Marlon Brando dice davanti al corpo di ceramica di Veronica Lazar, sua moglie suicida nel film, veniva proprio da una riflessione di Strindberg: “Un uomo può conoscere e scoprire tutti i segreti dell’universo, ma non potrà mai capire il mistero di sua moglie”».
E il resto?
«Nel monologo che aveva scritto sul gobbo, la lavagna nera dietro la macchina da presa, Marlon aveva aggiunto molto di suo. Però c’era solo qualche frase, non tutto. Non voleva imparare il copione a memoria per essere libero dai condizionamenti del dialogo scritto. Voleva dimenticarlo per poterlo poi ricordare e farlo così definitivamente suo. Quando per la prima volta disse You fucking pig fucker, un’espressione fortissima che io prima neanche conoscevo, tutti sul set ebbero un brivido. Era così che esprimeva il perdono, il rancore, la solitudine e anche l’odio che si può provare per chi ti punisce con il suicidio».
Tratto da Vanity Fair - intervista di Malcom Pagani