12/03/17
Poesia della Domenica: "Canto alla durata" di Peter Handke.
"Si era rivolta a me [...] e come dall'alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. [...]
Ecco, la durata è la sensazione di vivere. [...]
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita.
E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell'affetto
per i vivi
- per uno di loro -
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
E questo non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovraumana,
non è guerra, non è un allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
Sì, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa più importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un'espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitareun anno dopo l'altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo. [...]
Ma anche continuare per anni a essere ben disposto nei tuoi confronti
può darti durata.
Sapermi guardare amichevolmente negli occhi
talvolta mi assolve. [...]
Essere indulgente con i miei difetti [...]
rabbonirmi, se mi viene fatto un torto,
come mio unico parente,
battermi il petto
in trionfo per una parola felice
al posto giusto
e urlare un «sì» nella foresta della mia stanza
può ringiovanirmi
come una bottiglia di prelibatissimo vino
(con effetto però diverso).
Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto. [...]
Anche a casa mi si fa accanto molte volte
quando cammino su e giù per il giardino
nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale,
[...] oppure quando mi siedo nella mia stanza
al cosiddetto tavolo da lavoro -
non per attendere alla mia occupazione, al testo,
ma per fare tutti quei soliti gesti secondari:
spostare indietro la sedia,
dare uno sguardo nel cassetto [...]
sbirciare dalla finestra in giardino
dove i gatti lasciano le loro tracce
nella neve profonda e tra l'erba alta,
mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento
il fischio e il trabalzare
dei treni che percorrono la pianura.
O durata, mia quiete!
O durata, mia sosta! [...]
La durata è il mio riscatto,
mi lascia andare ed essere. [...]
Chi non ha mai provato la durata
non ha vissuto.
La durata non stravolge,
mi rimette al posto giusto".
Da Canto alla durata, Peter Handke, Einaudi, 1995, traduz. H. Kitzmuller.
11/03/17
Trovata una statua gigante di Ramsete II al Cairo tra la spazzatura: "una scoperta eccezionale".
Gli archeologi egiziani hanno
rinvenuto una statua gigante, lunga otto metri, in un quartiere
popolare del Cairo che si ritiene raffigurasse il Faraone
Ramses.
Lo riferisce al Ahram. Accanto alla statua gigante anche
un'altra di circa un metro di Seti II. Il ritrovamente e'
avvenuto in un'area nei pressi di un tempio di Ramses II dove
sorgeva l'antica Heliopolis.
Le due statue regali risalgono
alla XIX dinastia, ha precisato in una nota il ministero delle
Antichita' egiziano riferendo che la scoperta e' stata fatta da
una missione archeologica tedesco-egiziana nel distretto di
Matareya.
La statua che dovrebbe raffigurare Ramses II e'
"spezzata in grandi pezzi" ed e' fatta di "quarzite", scrive il
sito Egypt Independent riferendosi a un tipo di roccia composta
quasi esclusivamente da quarzo granulare.
Sono emerse solo
"parte della testa, con un orecchio e un occhio" e della corona,
aggiunge citando il capo del Dipartimento antichita' egiziane del
dicastero, Mahmud Afifi.
La statua di Seti II, di cui sono stati
rinvenuti circa 80 centimetri, e' "a grandezza naturale".
La scoperta "e' una delle piu' importanti" fra quelle
"recenti", scrive ancora il sito sintetizzando dichiarazioni del
capo della missione egiziana, il professor Ayman al-Ashmawy, in
occasione dell'annuncio fatto ieri.
Il tempio di Ramses "e' uno
dei piu' grandi dell'antico Egitto visto che raggiungeva il
doppio delle dimensioni del tempio di Karnak a Luxor", viene
aggiunto.
"Ovviamente e' una scoperta
sensazionale, ma le notizie sono ancora scarse, aspettiamo di
saperne di piu'".
L'egittologo Christian Greco, direttore del
museo egizio di Torino, non nasconde l'emozione per il
ritrovamento al Cairo della colossale statua di Ramses II, "conosco molto bene Dietrich Rowe, l'archeologo tedesco che sta
scavando li' nella missione tedesco-egiziana, e anche uno dei
nostri curatori e' li' con lui. Heliopolis e' uno dei siti piu'
importanti dell'antico Egitto, li' ha scavato anche l'egittologo
italiano Ernesto Schiaparelli (al quale il Museo Egizio dedica
una mostra che si inaugura oggi a Torino ndr).
E' un sito pero'
anche molto difficile da scavare perche' si trova in una zona
molto abitata de Il Cairo, vicina all'aeroporto".
Nelle foto e nel video diffuse sul ritrovamento si precisa che
le due statue sono emerse nel distretto di Souq al-Khamis,
nell'area di al-Matareya nelle vicinanze del tempio di Ramses
II.
L'eccezionalita' della scoperta viene sottolineata anche
dall'egittologo Khaled Nabil Osman : "era il luogo culturale piu'
importante dell'Egitto, anche la Bibbia ne parla", ha detto
all'Associated Press, "la cattiva notizia e' che ora l'intera
zona dovra' essere ripulita, le fognature e il mercato dovranno
essere spostati" .
Secondo Osman, osservando la grande testa
emersa dal terreno e' molto probabile che si tratti proprio di
Ramses II, anche se al momento non sono state ritrovate
iscrizioni che ne confermino l'identita'.
Il tempio di Ramses II, viene ricordato, era enorme, tra i piu'
grandi d'Egitto, grande il doppio rispetto ai templi di Karnak e
Luxor. Venne distrutto in epoca greco romana. Gli obelischi e le
statue del tempio vennero trasferiti ad Alessandria e in Europa.
In epoca islamica molte pietre del tempio vennero usate per la
costruzione di palazzi de Il Cairo.
Se si riuscira' a ricostruirla, la
statua gigante di Ramses II appena rinvenuta al Cairo sara'
esposta al "Grande museo egizio" che dovrebbe essere inaugurato
l'anno prossimo nella capitale egiziana.
Lo riferisce il sito
Daily News Egypt sottolineando che il ministero delle Antichita'
ha negato che il simulacro del faraone alto otto metri sia
stato danneggiato da una scavatrice durante i lavori di
recupero.
La foto della testa della statua nella pala meccanica ha
"causato un putiferio", sintetizza il sito segnalando critiche
al mancato uso di tecniche piu' sofisticate per spostare l'enorme
reperto.
Il capo delle Antichita' egiziane del dicastero, in una
dichiarazione pubblicata giovedi' sera, ha sottolineato che solo
la testa e' stata spostata usando la scavatrice sotto la
supervisione di archeologi anche tedeschi e sono state usate
travi di legno e sughero per evitare danni.
La nota cita il capo
della missione archeologica tedesca, Dietrich Raue, per
sostenere che la statua non e' stata rotta durante lo
spostamento, riferisce il sito, ricordando che monumenti
faraonici subirono molti danni in epoca greco-romana.
09/03/17
Il conto dei corner (di F. Falconi).
Il conto dei corner non vuol dire niente.
Lo sa bene chi si diletta col gioco del calcio. Puoi dominare nel conto dei corner, batterne trenta in una partita, tempestare l'area avversaria di cross taglienti o tagliati, allungare la parabola sul secondo palo e oltre, batterlo corto sul difensore che sopravviene, o a sorpresa verso il mediano che si è liberato al limite dell'area per battere; puoi tentare la foglia morta dalla bandierina sul palo più lontano, puoi tirarla forte e bassa sul primo palo sperando nel tocco fortuito, puoi batterlo a casaccio nel mucchio in area sperando nella spizzata di testa, o nella papera del portiere che perde la palla in uscita e la lascia scivolare ai piedi del centravanti; puoi perfino sperare nel colpo di mano in area del difensore avversario che è saltato per liberare. Ma niente, in certe partite, quella maledetta palla non vuole entrare.
E potresti batterne anche centodieci di corner, non servirebbe a niente. Sguinzagliare tutta l'artiglieria dei corner, da destra e da sinistra, quella maledetta porta resterebbe inviolata.
Il conto dei corner non vuol dire niente.
Puoi aver dominato il conto dei corner, essere 50 a 0 e perdere quella dannata partita per un solo tiro avversario, con quella squadra di mezzi brocchi che di corner non ne ha battuto nemmeno uno.
E' superfluo dunque, il conto dei corner. E' statistica, campionario, vuoto numero che non c'entra nulla e non dice nulla sulla sostanza delle palle che sono finite in rete.
E quella odiosa bandierina resta simulacro di sconfitta. Bandiera bianca, resa al destino o agli eventi.
Prima di disperderti, prima di consumare il conto dei corner, cerca di ricordarti questo: la linea di gesso bianco sulla linea di porta non sa che farsene dei tuoi corner. Il cuore coraggioso oltre l'ostacolo colpisce con la zampata sporca da fuori area. Una deviazione, un rimorso, una fitta al muscolo della gamba: la palla, schizzando imprevedibile, entrerà proprio sotto il sette.
E nessuno si ricorderà mai di tutti quei corner che hai battuto invano.
Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata)
08/03/17
Scoperto un misterioso, unico Dolmen in Israele, di 4.000 anni fa.
Un dolmen di 4.000 anni fa, del
peso di 50 tonnellate, e' stato scoperto nei campi del kibbutz
Shamir, nell'alta Galilea, ed ha subito emozionato gli
archeologi israeliani perche' per molti versi appare unico nel
suo genere nella Regione.
La sua presenza fa inoltre supporre
che nella Media eta' del bronzo nell'attuale Galilea - e
possibilmente anche nelle vicine alture del Golan - ci fosse una civiltà dotata di notevoli capacita' tecnologiche e di un
sistema gerarchico rigido, in grado di mobilitare per un
notevole lasso di tempo la manovalanza necessaria alla
realizzazione di un progetto monumentale.
Ma di quella ipotetica
societa' - viene anche fatto notare - non sono rimaste tracce di
insediamenti ed il dolmen di Shamir puo' dunque rappresentare un
punto di partenza per l'esplorazione di quel mistero che affonda
nella notte dei tempi.
Secondo quanto hanno riferito oggi l'Autorita' israeliana per
la archeologia, l'Universita' ebraica di Gerusalemme e il
Collegio accademico di Tel Hay (alta Galilea), il dolmen in
questione e' stato scoperto fortuitamente dal professor Gonen
Sharon, di Tel Hay.
Il dolmen - ha spiegato il professor Gonen -
si trova al centro di un gigantesco tumulo di pietre dal
diametro di 20 metri circa.
Il loro peso complessivo e' di 400
tonnellate: la loro sistemazione fu un'operazione
"monumentale", ha aggiunto, che ha totalmente cambiato la
fisionomia della zona.
La ragione di tanto sforzo e' forse da
ricercarsi all'interno di un locale di due metri per tre situato
sotto al dolmen principale (nelle immediate vicinanze ce ne sono
altri quattro, di dimensioni inferiori).
Qua i ricercatori israeliani sono stati totalmente colti di
sorpresa perche' nel "soffitto" di quell'ambiente, con un
martello e con un oggetto analogo, erano state incise forme di
carattere artistico.
"Si tratta di linee rette - ha spiegato il
professor Sharon - che vanno a congiungersi con un arco". Ad
occhio nudo ne ha viste nitidamente alcune: poi, con l'aiuto di
un laboratorio di archeologia computerizzata, ha potuto
stabilire che ce n'erano una quindicina.
Inoltre sul pavimento
sono state trovate alcune perline colorate di vetro.
"E' la prima volte che in un dolmen del Medio Oriente viene
trovato un lavoro artistico" secondo Uri Berger, un ricercatore
dell'Autorita' israeliana per l'archeologia.
"Le forme che
abbiamo visto a Shamir sono senza eguali in questa regione. Ed
il loro significato - ha ammesso - e' per noi un mistero.
07/03/17
"Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento..." Dietrich Bonhoeffer, 1944.
Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento che interessa tutti gli strati sociali; e nello stesso tempo ci troviamo di fronte alla nascita di un nuovo stile di nobiltà che coinvolge uomini provenienti da tutti gli strati sociali attualmente esistenti.
La nobiltà nasce e si mantiene attraverso il sacrificio, il coraggio e la chiara cognizione di ciò cui uno è tenuto nei confronti di se e degli altri; esigendo con naturalezza il rispetto dovuto a se stessi e con altrettanta naturalezza portandolo agli altri, sia in alto che in basso.
Si tratta di riscoprire su tutta la linea esperienze di qualità ormai sepolte, si tratta di un ordine fondato sulla qualità.
La qualità è il nemico più potente di qualsiasi massificazione.
Dal punto di vista sociale questo significa rinunciare alla ricerca delle posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta della cerchia intima degli amici, significa saper gioire di una vita nascosta ed avere il coraggio di una vita pubblica.
Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dallo snobismo alla modestia, dall’esagerazione alla misura.
Le quantità si contendono lo spazio, le qualità si completano a vicenda.
Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.
06/03/17
Rivelazioni: il progetto Adelphi (grazie a Bazlen) avrebbe potuto realizzarsi a Trieste e non a Milano.
C'e' mancato poco che una casa
editrice come la Adelphi nascesse, invece che a Milano nel 1962,
a Trieste alla fine del 1949.
Lo si evince dalla scoperta, fatta
dalla Libreria antiquaria Drogheria 28 di Simone Volpato, del
carteggio intercorso tra i triestini Bobi Bazlen, uno dei
fondatori-ispiratori della Adelphi appunto, con Anita Pittoni
che proprio nel 1949 crea la casa editrice Lo Zibaldone.
Il carteggio e' composto di dieci lettere scritte tra la fine
del 1949 e il 1953 e comincia con l'invito della Pittoni a
Bazlen di entrare nello Zibaldone, editore da lei ideato con
Giani Stuparich e Luciano Budigna.
L'invito e' insistente: sotto
qualsiasi forma "come mozzo, come timoniere, come conoscitore
dei venti? aspettiamo consigli o silenzi, qualche scritto o un
messaggio in bottiglia".
Bazlen non si fa pregare: comincia col mandare messaggi e
subito dopo orienta la casa editrice in direzione della
Mitteleuropa, una zona mentale e linguistica che sara' fortemente
rappresentata ovviamente proprio nel catalogo Adelphi tra gli
anni 70-80 con autori come Kraus, Roth, Schnitzler, Canetti.
Bazlen consiglia alla Pittoni di lasciar stare la letteratura
triestina, che ha una vena stanca, per aprirsi "alla
Mitteleuropa ... farei una casa editrice che viaggia mentalmente
tra Trieste, Gorizia, Vienna, Budapest, Lubiana ... pubblicando
scrittori di queste ampie zone tu entreresti in una mentalita' di
ordine, di pulizia, di scrittura aurea e scopriresti il
disordine, il decadimento progressivo che corrompe corpi, mente
e sogni; una letteratura simile ad uno scheletro con una divisa
impeccabile".
Gli autori da pubblicare sono quelli: Schnitzler,
Trakl, Daubler, Rilke, Heine, Grillparzer. La Pittoni riflette e
si scontra con problemi pratici, come le traduzioni, espone i
dubbi ma Bazlen non demorde e le consiglia di leggere le poesie
di Holderlin curate da un giovane Gianfranco Contini e Kaethchen
di Heilbronn di Von Kleist e Misteri di Knut Hamsun.
Bazlen
afferma che Svevo e' autore irrinunciabile per le generazioni
future di scrittori (e si chiede se Svevo fosse nato ad
Agrigento e Pirandello a Trieste) e consiglia alla Pittoni di
pubblicare le poesie di Carlo Michelstaedter, mitteleuropeo,
scrittore "giovane e' un po' acerbo che gia' contiene i fuochi
della disperazione (Gorizia e' scenografia schizofrenica).
Il piccolo ma ricco carteggio, dove compaiono anche giudizi
acidi su Saba e sulla sua Libreria e amorevoli su Giotti
(proprio a 60 anni dalla loro morte) e' stato acquistato da
Giampiero Mughini; tuttavia sara' visibile alla Mostra
Internazionale Libri Antichi e di pregio che si terra' a Milano
tra il 24-26 marzo 2017.
Etichette:
adelphi,
bazlen,
bobi bazlen,
canetti,
editori italiani,
editoria italiana,
kraus,
libri,
milano,
mitteleuropa,
roth,
schnitzler,
trieste
03/03/17
Federico Fellini, il Genio Nevrotico.
Ci manca.
Manca il grande genio nevrotico di Federico Fellini. Sentiamo la sua mancanza ogni giorno di più, perché solo attraverso quell'occhio forse avremmo potuto oggi decifrare, accendere una luce su giorni sempre più caotici, insensati, grotteschi.
Ho il sospetto che in fondo Fellini si sia sentito sempre un alieno rispetto al tempo che viveva. Era come se provenisse da un altro mondo. La sua anima si elevava probabilmente su strati diversi, lontana dalle apparenze, anche se le apparenze degli altri, le manie, i tic, le deformazioni, le deformità, erano quelle che più affascinavano il suo cinema.
Si sentiva un alieno perché - pur essendo pienamente epigono della italianità (un concetto ambiguo e temporalmente breve visto che l'Italia esiste solo da un secolo e mezzo) - era estraneo alle masse, come recitava uno slogan di qualche tempo fa.
Anche se - ennesima contraddizione - delle masse egli seppe perfino diventare il cantore.
Si sentiva un alieno perché era sostanzialmente un nevrotico, tendenzialmente depressivo. Gli giovò l'analisi (junghiana), gli giovarono le escursioni nel folle e nel magico (come le visite da Rol), gli giovò la contiguità con il senso cattolico dell'esistenza, di cui seppe essere - estrema contraddizione - il massimo dissacratore, come nella celebre scena della sfilata degli abiti talari.
Fu tutto sommato sempre un sofferente (e massimo gaudente), fragile e potentissimo dal punto di vista psicologico. Sofferente perché disadattato alla realtà che viveva e che non riusciva ad accettare per colmo di volgarità (il vero tarlo che lo uccideva e che riusciva ad esorcizzare pienamente solo traducendolo in paradigma).
Sofferente perché estraneo in un mondo sbagliato che lo affascinava oltre ogni misura e che gli incuteva timore.
Sofferente al punto che aveva bisogno di ricrearlo, il mondo, nel chiuso confortevole dello Studio 5 di Cinecittà.
Soltanto tra quelle mura si sentiva padrone del gioco, si sentiva libero, in grado di trasformare e sublimare la sua nevrosi in arte creativa.
Ricreato il mondo, lui era finalmente libero di rovesciarne i lati angosciosi in gioco, le ossessioni in girandole, la morale in sentimento nostalgico.
Nostalgia di quello che non esiste e non può esistere, di ciò che è libero e non è prigioniero degli incardinati meccanismi della prosa.
Nella vita si sentiva spesso vittima - di se stesso, degli eventi, della fortuna, delle relazioni - nell'arte era libero e vittorioso perché libero di poter fallire.
Il Genio in fondo è questo. Libertà dall'essere e dal dover essere. Libertà di essere (tutto) per se stessi e quindi per il mondo e nel mondo.
Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata).
02/03/17
Nel 5 anniversario della morte (e nel 73mo della nascita) apre per un mese ai visitatori la Casa di Lucio Dalla.
Un mese di apertura straordinaria
per la casa di Lucio Dalla.
Visto il successo di 'A Casa di Lucio va in citta" - la tre giorni di apertura in occasione del quinto anniversario (1 marzo) della morte dell'artista allargata ad alcuni luoghi bolognesi di Dalla in programma da oggi al 4 marzo, curata da Elastica - con visitatori in arrivo da tutta Italia e anche dall'estero (in particolare Grecia, Olanda e Svizzera), la Fondazione Dalla ha deciso di tenere aperti gli spazi di via D'Azeglio dal 9 marzo al primo aprile nei giorni di giovedi', venerdi' e sabato.
Nel frattempo si arricchisce il programma degli eventi serali di 'A Casa di Lucio': Alessandro Haber leggera' brani di Dalla (domani, 3 marzo) e altri giovani talenti affiancheranno gli annunciati Dente e Brunori SAS il 4, tra cui Ermal Meta, terzo posto all'ultimo Sanremo, e il cantautore salentino Antonio Maggio.
Salta invece la prevista partecipazione di Gabriele Muccino, che ha dovuto rinunciare all'ultimo momento per il protrarsi delle riprese di un progetto video.
fonte ANSA
Visto il successo di 'A Casa di Lucio va in citta" - la tre giorni di apertura in occasione del quinto anniversario (1 marzo) della morte dell'artista allargata ad alcuni luoghi bolognesi di Dalla in programma da oggi al 4 marzo, curata da Elastica - con visitatori in arrivo da tutta Italia e anche dall'estero (in particolare Grecia, Olanda e Svizzera), la Fondazione Dalla ha deciso di tenere aperti gli spazi di via D'Azeglio dal 9 marzo al primo aprile nei giorni di giovedi', venerdi' e sabato.
Nel frattempo si arricchisce il programma degli eventi serali di 'A Casa di Lucio': Alessandro Haber leggera' brani di Dalla (domani, 3 marzo) e altri giovani talenti affiancheranno gli annunciati Dente e Brunori SAS il 4, tra cui Ermal Meta, terzo posto all'ultimo Sanremo, e il cantautore salentino Antonio Maggio.
Salta invece la prevista partecipazione di Gabriele Muccino, che ha dovuto rinunciare all'ultimo momento per il protrarsi delle riprese di un progetto video.
fonte ANSA
01/03/17
La storia dei "Monument Man" italiani che salvarono i capolavori. Da domani il libro di Alessandro Marzo Magno.
L’Italia è un enorme museo a cielo aperto: nelle sue città, fra le sue colline, lungo le sue spettacolari coste sono nati alcuni dei più grandi capolavori artistici della nostra civiltà.
Ma sono tante le opere create in Italia che hanno vissuto destini travagliati: rubate in guerra, a volte restituite a volte no, spesso perdute. Non c'è da stupirsi quindi che i più temuti personaggi della storia, da Napoleone fino a Hitler, abbiano preso di mira lo stivale d’Europa e i suoi tesori. Ma in loro difesa si sono battuti eroi, spesso sconosciuti, che hanno rischiato la vita per riportare in patria parte del bottino, e di cui oggi Alessandro Marzo Magno ricostruisce le gesta: Antonio Canova in missione a Parigi per conto del papa, l’ambiguo Rodolfo Siviero, agente segreto dall’oscuro passato, che ha dedicato tutta la vita al recupero delle opera trafugate dai nazisti.
E poi ancora le Monuments Women italiane: Palma Bucarelli a Roma, Noemi Gabrielli a Torino e Genova, Fernanda Wittgens a Milano.
Quasi come in un thriller, grazie alla capacità dell’autore di farci leggere il passato come una straordinaria avventura del presente, rivivono le storie coraggiose di quelle donne e di quegli uomini che hanno recuperato e messo in salvo la bellezza del nostro paese.
Alessandro Marzo Magno, veneziano, laureato in storia, vive e lavora tra Milano e Trieste. È stato per quasi dieci anni caposervizio esteri del settimanale «Diario». Ha scritto, tra l’altro, Il leone di Lissa. Viaggio in Dalmazia (2003), La carrozza di Venezia. Storia della gondola (2008), Piave. Cronache di un fiume sacro (2010), Atene 1687. Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone (2011). Con Garzanti ha pubblicato L’alba dei libri(sette edizioni, tradotto in inglese, giapponese, coreano e spagnolo), L’invenzione dei soldi(sei edizioni, tradotto in coreano e in turco), Il genio del gusto (seconda edizione 2015, tradotto in coreano) e Con stile (2016).
|
|
|
28/02/17
All'asta in Francia disegni foto e scritti di Jules Verne, tra i quali anche la Mappa de "L'Isola Misteriosa".
Disegnata a mano da Giulio Verne,
con tanto di note in inchiostro rosso e nero, la mappa
dell'"Isola misteriosa", sinonimo di avventura per generazioni di
lettori, sarà messa all'asta domani da Drouot, a Parigi.
"Lincoln Island", ultimo porto del Nautilus e santuario del
capitano Nemo, fa parte di queste contrade immaginarie che non
hanno mai smesso di far sognare. Realizzato nel 1874 per quello
che in molti considerano il più bel romanzo di Verne, il disegno
dell'"Isola misteriosa" costituisce il pezzo forte di questa asta
dedicata all'universo del grande romanziere francese.
La mappa
(che assomiglia a una testa di elefante) con i nomi scritti in
inglese è stimata fra i 100.000 e i 150.000 euro.
In tutto 166 pezzi appartenuti a Eric Weissenberg (scomparso
nel 2012), uno dei più grandi collezionisti di oggetti
dell'autore di "Venti mila leghe sotto i mari", sono in vendita.
Fotografie, lettere personali, copie originali dei romanzi di
Giulio, gouaches, incisioni, manifesti Hetzel saranno messi
all'incanto da Drouot.
Fra i numerosi lotti figura anche una fotografia di Giulio Verne
del 1856 circa - aveva allora 28 anni - considerata l'unica
originale conosciuta, appartenuta allo scrittore.
Questa foto
dove lo scrittore posa "in atteggiamento romantico", è stimata
fra i 5.000 e i 6.000 euro. All'asta anche la prima edizione
illustrata di "Il giro del mondo in 80 giorni", primo grande
romanzo di Giulio Verne destinato ai giovani.
Il volume conteneva
una fotografia di Estelle Hénin, amante supposta dello scrittore,
risalente al 1873, firmata Nadar. La stima è fra gli 8.000 e i
10.000 euro.
27/02/17
La terribile Mannaja Romana e il Carnevale Romano: Il Conte di Montecristo.
La mannaja romana e il Conte di Montecristo
L’invenzione di una macchina per la
decapitazione, cioè del taglio della testa per i condannati dei reati più
gravi, affonda nella notte dei tempi. Macchine simili alla ghigliottina erano
già in uso in Gran Bretagna a partire dal 1300 d.C. e ben prima che il dottor
Joseph-Ignace Guillotin mettesse la sua egida e il suo nome sulla macchina
taglia-teste (fu introdotta con un progetto di legge in sei articoli
all’Assemblea Nazionale il 9 ottobre del 1789 alla vigilia della Rivoluzione),
pochi sanno che un efficace e macabro precursore della Ghigliottina francese
era già usato a Roma, nella Roma papalina, da molto tempo, da almeno due secoli
prima, da quando nel Cinquecento si dava la morte ai rei confessi e agli
omicidi con la cosiddetta Mannaja romana
il cui uso restò in vigore fino alla conquista della città da parte del Regno
d’Italia, nel 1870.
Per molto tempo le esecuzioni a Roma
furono organizzate proprio all’inizio del celebre Carnevale Romano, erano
pubbliche – vi assisteva una grandissima folla – ed erano accompagnate spesso
da torture, come quella della frusta:
i ladri venivano caricati su somari, con le mani legate sulla schiena e un
cartello appeso al collo che descriveva con minuzia il delitto commesso. Il
macabro corteo attraversava le vie cittadine capeggiato da un subalterno del
boia (in genere vestito con l’abito da Pulcinella) che conduceva il corteo,
chiuso dal boia in persona, la faccia coperta da un cappuccio bianco. Al
cosiddetto cavalletto, situato
all’inizio della Via del Babuino, tra le urla di scherno della folla, il
condannato veniva frustato a sangue con il nervo di bue. Oppure, sempre a Via del Corso, all’angolo
con Via della Frezza, nello slargo che viene chiamato Piazzetta della Corda, si
praticava un'altra spaventosa tortura che era appunto quella della corda: il condannato veniva appeso ad
una specie di carrucola e legato ad un’asta per i piedi, e quindi veniva
sollevato e tirato per l’alto finché non si arrivava a slogargli del tutto le
giunture. Ma era nell’anfiteatro classico di Piazza del Popolo che si celebrava
invece il rito più cruento, quello riservato ai delitti più gravi: la
decapitazione.
Della Mannaja e del suo funzionamento
si ha una fedele e accurata descrizione nel celebre capolavoro di Dumas, Il Conte di Montecristo, che il
romanziere ambientò tra Italia e Francia tra il 1815 e il 1838.
A Roma Dumas era giunto una prima
volta nell’estate del 1835 e qui era rimasto per tre settimane, prendendo
affitto nell’Hotel de Londres, una
locanda famosa in quei tempi, in Piazza di Spagna, che il romanziere trovò il
modo di riprodurre fedelmente nel suo romanzo, compreso l’eccentrico
proprietario Pastrini, che finì anche lui nel libro come personaggio di
contorno, tenutario dello stesso albergo nel quale Dumas fece scendere i principali protagonisti della
storia, in visita a Roma.
A Roma Dumas si fermò anche sei mesi
più tardi, nel viaggio di ritorno, quando conobbe la nobildonna Teresa
Guiccioli (che era stata l’amante di Byron), di cui si innamorò. Le circostanze
dei due soggiorni offrirono al romanziere la possibilità di documentarsi con
esattezza sui luoghi e sulle usanze romane, specialmente quelle del grandioso
carnevale e delle brutali esecuzioni che avvenivano nella Capitale.
Nella celebre scena del carnevale
romano, nel Montecristo, a Franz
d’Epinay, in compagnia del Conte, capita di assistere ad una cruenta
decapitazione in Piazza del Popolo.
Dumas, che era sempre scrupoloso nelle sue ricostruzioni attinse a
testimonianze dirette. Il passo in questione recita:
Franz non intese che
imperfettamente le parole del conte, e forse non apprezzò al giusto valore
questa nuova gentilezza, poiché tutta la sua attenzione era rivolta allo
spettacolo che rappresentava la piazza del Popolo ed allo strumento terribile
che ne formava in quell'ora il principale ornamento. Era la prima volta che
Franz vedeva una ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, ma la falce romana è
presso a poco della stessa forma del nostro strumento di morte. La falce ha la
forma di una mezza luna, taglia dalla parte convessa cade da minore altezza:
ecco tutta la diversità! Due uomini, seduti sulla tavola ad altalena, dove
viene steso il condannato, aspettavano, e mangiavano, a quanto sembrò a Franz,
del pane e della salsiccia. Uno di essi sollevò l'asse, e ne estrasse un fiasco
di vino, ne bevve e passo il fiasco al suo compagno: erano gli aiutanti del
carnefice!
A questa sola vista,
Franz aveva sentito venirgli il sudore fino alla radice dei capelli. I
condannati erano stati trasportati, dalla sera innanzi, dalle carceri nuove
alla chiesa di Santa Maria del Popolo, ed avevano passata tutta la notte
assistiti ciascuno da due preti in una cappella chiusa da un cancello, davanti
al quale passeggiavano le sentinelle cambiate d'ora in ora. Una doppia fila di
gendarmi posti da ciascun lato della chiesa si estendeva fino al patibolo,
intorno al quale formava un circolo di dieci piedi di spazio fra la
ghigliottina ed il popolo. Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di
teste d'uomini e di donne delle quali molte avevano i loro bambini sulle
spalle, e questi vedevano meglio di tutti, perché venivano ad aver la testa al
di sopra delle altre... Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi è
di più curioso nella vita è lo spettacolo della morte.
L’evidenza che la mannaja romana cioè un prototipo della ghigliottina fosse usata a
Roma da molto tempo, e anche alcuni secoli prima della decapitazione raccontata
da Dumas, c’è nel resoconto della esecuzione pubblica forse più famosa che si
sia mai svolta nella Capitale, quella di Beatrice Cenci, accusata di
parricidio, e della sua matrigna Lucrezia Petroni, decapitate nella piazza
antistante il Castel Sant’Angelo l’11 settembre del 1599. Nella relazione del supplizio della Cenci si
legge che Lucrezia – la prima ad essere giustiziata – anche a causa della sua
mole, della sua corporatura, faticò non poco a cavalcare la tavoletta del ceppo – come gli comandò il boia - e accomodarsi con il corpo sotto la mannaia, a
cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo, non era capace per
l’appoggio delle mammelle. E quando toccò a Beatrice, essa cavalcò senza
indugi la tavola e pose il collo sotto la
mannaia, affrettando questo suo ultimo atto, circostanza che causò la tardanza del colpo. E se il colpo non poteva affrettarsi come aveva
fatto la condannata, è chiaro che questo non poteva venire dal braccio del
boia, ma dal congegno di una macchina, la mannaja
romana, per l’appunto, predisposta per fare giustizia dei condannati con la
freddezza chirurgica del taglio della testa.
Al supplizio di Beatrice fra l’altro,
si ispirò direttamente proprio Alexandre Dumas che alla celebre donzella romana
e alla sua sfortunata vicenda umana dedicò una serie di racconti: Les crimes celebres: Les Borgia; La marquise
de Ganges; Les Cenci.
tratto da:
26/02/17
Cesare Viviani: "Dov'è finito il tempo dei sentimenti ?"
Oggi, guardando alla vita di chi lavora, una cosa salta subito agli occhi: il tempo è occupato per la maggior parte dall'attività (e dal suo valore, che sta nei risultati, nell'autostima e nella stima degli altri).
Certamente il lavoro condensa grandi significati.
Poi, nel tempo libero c'è il divertimento e lo svago (gli hobby e le diverse opzioni per distrarsi e giocare, oggi accresciute dalle attraenti novità tecnologiche): un modo questo per bilanciare il sacrificio e l'impegno delle ore occupate.
Perciò la vita è lavoro e divertimento.
E il sentimento ? C'è un tempo, non striminzito, per gli affetti, per viverli, nutrirli e approfondirli ? Ci sono ore per l'ascolto e per il cuore ?
Oppure, sia per il gran lavoratore che per l'appassionato hobbista è tutto tempo perso ?
25/02/17
Pedro Calderòn de la Barca - L'Anno Santo di Roma (1650) - un magnifico testo finora inedito in Italia.
E' un volume prezioso quello uscito da poco per La Camera Verde: la pubblicazione di un auto sacramental scritto da Calderon de la Barca per il Giubileo del 1650, inedito in Italia.
Pubblico qui di seguito il testo scritto dal curatore e traduttore del volume Raoul Precht per Succede oggi, poco prima dell'apertura del Giubileo della Misericordia.
Tra qualche giorno verrà dato il via alle celebrazioni dell’Anno Santo straordinario della Misericordia, fortemente voluto dall’attuale Pontefice e deciso, a quanto pare, in piena autonomia, senza alcuna consultazione con le autorità comunali e statali per le quali l’evento avrà un impatto anch’esso straordinario, in termini di entrate ma anche di uscite e di complicazioni organizzative.
Sulle ripercussioni per la città di Roma del probabile afflusso di un ingente numero di pellegrini è già stato scritto abbastanza, e sebbene le stime possano variare, e anche di molto, di certo l’avvenimento, che oltre tutto si protrae per quasi un anno, non migliorerà le condizioni di vita già difficili dei romani.
C’è però da chiedersi se questi ultimi dal 1300 (anno del primo Giubileo) in poi ne abbiano mai tratto vantaggi, ma questa sarebbe una questione complessa e fors’anche oziosa.
Di certo, a Bonifacio VIII più che il benessere della città ospite premeva all’epoca la buona riuscita del traffico delle indulgenze, elargite ai pellegrini che avessero compiuto il viaggio a Roma e visitato le basiliche prescritte; quel traffico che avrebbe tra l’altro contribuito al disgusto provato due secoli dopo da un sacerdote per qualche mese di passaggio a Roma, tale Martin Lutero, e alla nascita dello scisma protestante.
Pure, ai tempi di Bonifacio VIII il Giubileo viene istituito ancora come misura straordinaria, addirittura ogni cento anni; sarà Clemente VI, nel 1342, ad abbreviare il lasso di tempo fra un Anno Santo e l’altro a cinquant’anni, seguendo alla lettera quanto prescritto dal Signore a Mosè sul Monte Sinai (Levitico: 25, 8-55, lettura tra l’altro interessante per chi si occupi di agricoltura e messa a maggese delle terre); peggio di lui (o meglio, a seconda dei punti di vista) faranno Urbano VI nel 1390, diminuendo la distanza fra un Giubileo e l’altro a 33 anni, e Paolo II, che nel 1475 la riduce a 25 anni.
Fino a quando, nel 1500, Alessandro VI la riporta a cinquant’anni e definisce una volta per tutte le cerimonie di celebrazione, con l’apertura e la chiusura delle quattro Porte Sante a S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S. Paolo fuori le mura.
Se gli aspetti commerciali dell’operazione sono innegabili – e non è un caso che ai Giubilei ordinari oggi se ne aggiungano di straordinari, come questo che ci attende –, dal punto di vista dottrinale la celebrazione del Giubileo induce a una riflessione approfondita su diversi aspetti della fede, riflessione che fra l’altro ha portato alla nascita di un genere teatrale a sé stante.
E se parlo di teatro, è perché di sicuro in passato il Giubileo permetteva al popolo anche di divertirsi un po’, sia pure nei limiti imposti dalla devozione, con spettacoli e feste sfarzose da cui altrimenti sarebbe stato escluso.
Viene in mente, a mo’ d’esempio, la grande festa offerta dagli spagnoli a Piazza Navona nel 1650, con spettacolari fuochi d’artificio e una scenografia provvisoria con due grandi cappelle (una dedicata al Resuscitato, l’altra alla Vergine) davanti alla Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore (in passato San Giacomo degli Spagnoli, appunto, chiesa del Regno di Castiglia, ricolma di statue e altari dedicati a Santiago).
Va detto che l’architettura barocca della piazza non era ancora ultimata, in quanto la fontana del Bernini è dell’anno successivo e della chiesa di Borromini non c’erano neanche i progetti: in un certo senso Piazza Navona offriva quindi uno spazio scenico ideale, lasciando mano libera agli organizzatori dello spettacolo e permettendo alle folle di goderne pienamente.
Un esempio di questi spettacoli è offerto dal genere teatrale cui accennavo poc’anzi, gli autos sacramentales, genere nato nel Medioevo (il primo è la Representación de los Reyes Magos, nel 1145), ma perfezionatosi poi nella Spagna della Controriforma.
Il sottogenere che ci interessa qui, l’auto allegorico, trova il suo primo rappresentante in Lucas Fernández, con il suo Auto de la Pasión, intorno al 1500, ma avrà consacrazione definitiva con Pedro Calderón de la Barca (nell’illustrazione).
In pratica, il misterio o moralidad medievale va pian piano approfondendo i contenuti dottrinali, anche in conseguenza del Concilio di Trento, e sul palcoscenico compaiono personaggi simbolici chiamati a incarnare concetti astratti.
Sembrerebbe qualcosa di estremamente asciutto e poco attraente, non fosse stato per l’apparato scenografico, le trappole teatrali e gli effetti speciali, che facevano di questi spettacoli qualcosa di simile ai nostri film in 3D sui dinosauri.
Con una piccola differenza: i temi centrali erano di volta in volta l’esaltazione dell’eucaristia, l’ultima cena, la vita dei santi, episodi dell’Antico Testamento, parabole evangeliche, e così via. In altre parole, essendo il plot meno che avvincente, gli ultimi ritrovati della pittura, della scultura, dell’architettura e, perché no, della musica diventavano imprescindibili per la fruizione di questo tipo di rappresentazioni, che non a caso si sviluppano solo in Spagna, mentre in tutto il resto d’Europa il teatro religioso attraversa una profonda crisi.
La maestria di Calderón sta nel saper conciliare elementi teologici e dottrinali con le correnti letterarie alla moda (concettismo e gongorismo) e soprattutto con gli espedienti spettacolari offerti dalle macchine teatrali di allora.
Proprio nel 1650 Calderón scrive e fa mettere in scena L’Anno Santo di Roma, il cui protagonista, l’Uomo, assistito dai dieci comandamenti, si mette in viaggio da pellegrino per poter raggiungere Roma e ottenere l’indulgenza.
Il viaggio si fa davvero drammatico quando il Mondo, all’uomo se non ostile, indifferente, gli fa incontrare la Lascivia, ovvero il principale fra i vizi, e Lucifero, che rappresenta il Demonio e che con la sua complice tenterà in tutti i modi di allontanarlo dalla retta via.
Oggi può sembrarci un’impresa improba, ma all’epoca su questo canovaccio si era capaci di costruire un evento spettacolare, con danze, musica, oggetti scenici bizzarri, costumi, battute (quasi sempre affidate al libero arbitrio che fa le veci del gracioso nella commedia classica), effetti speciali e sorprese a non finire, con cui intanto il drammaturgo veicolava sornione la visione del peccato, delle passioni e del riscatto che Santa Madre Chiesa imponeva ai suoi sudditi.
Chissà se in Vaticano qualcuno ci ha pensato, o ci sta pensando: recuperare Calderón e metterlo in scena sarebbe davvero uno spettacolo, senz’altro più degno di quelli a cui certi monsignori e cardinali ci hanno abituato negli ultimi secoli.
Sulle ripercussioni per la città di Roma del probabile afflusso di un ingente numero di pellegrini è già stato scritto abbastanza, e sebbene le stime possano variare, e anche di molto, di certo l’avvenimento, che oltre tutto si protrae per quasi un anno, non migliorerà le condizioni di vita già difficili dei romani.
C’è però da chiedersi se questi ultimi dal 1300 (anno del primo Giubileo) in poi ne abbiano mai tratto vantaggi, ma questa sarebbe una questione complessa e fors’anche oziosa.
Di certo, a Bonifacio VIII più che il benessere della città ospite premeva all’epoca la buona riuscita del traffico delle indulgenze, elargite ai pellegrini che avessero compiuto il viaggio a Roma e visitato le basiliche prescritte; quel traffico che avrebbe tra l’altro contribuito al disgusto provato due secoli dopo da un sacerdote per qualche mese di passaggio a Roma, tale Martin Lutero, e alla nascita dello scisma protestante.
Pure, ai tempi di Bonifacio VIII il Giubileo viene istituito ancora come misura straordinaria, addirittura ogni cento anni; sarà Clemente VI, nel 1342, ad abbreviare il lasso di tempo fra un Anno Santo e l’altro a cinquant’anni, seguendo alla lettera quanto prescritto dal Signore a Mosè sul Monte Sinai (Levitico: 25, 8-55, lettura tra l’altro interessante per chi si occupi di agricoltura e messa a maggese delle terre); peggio di lui (o meglio, a seconda dei punti di vista) faranno Urbano VI nel 1390, diminuendo la distanza fra un Giubileo e l’altro a 33 anni, e Paolo II, che nel 1475 la riduce a 25 anni.
Fino a quando, nel 1500, Alessandro VI la riporta a cinquant’anni e definisce una volta per tutte le cerimonie di celebrazione, con l’apertura e la chiusura delle quattro Porte Sante a S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S. Paolo fuori le mura.
Se gli aspetti commerciali dell’operazione sono innegabili – e non è un caso che ai Giubilei ordinari oggi se ne aggiungano di straordinari, come questo che ci attende –, dal punto di vista dottrinale la celebrazione del Giubileo induce a una riflessione approfondita su diversi aspetti della fede, riflessione che fra l’altro ha portato alla nascita di un genere teatrale a sé stante.
E se parlo di teatro, è perché di sicuro in passato il Giubileo permetteva al popolo anche di divertirsi un po’, sia pure nei limiti imposti dalla devozione, con spettacoli e feste sfarzose da cui altrimenti sarebbe stato escluso.
Viene in mente, a mo’ d’esempio, la grande festa offerta dagli spagnoli a Piazza Navona nel 1650, con spettacolari fuochi d’artificio e una scenografia provvisoria con due grandi cappelle (una dedicata al Resuscitato, l’altra alla Vergine) davanti alla Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore (in passato San Giacomo degli Spagnoli, appunto, chiesa del Regno di Castiglia, ricolma di statue e altari dedicati a Santiago).
Va detto che l’architettura barocca della piazza non era ancora ultimata, in quanto la fontana del Bernini è dell’anno successivo e della chiesa di Borromini non c’erano neanche i progetti: in un certo senso Piazza Navona offriva quindi uno spazio scenico ideale, lasciando mano libera agli organizzatori dello spettacolo e permettendo alle folle di goderne pienamente.
Un esempio di questi spettacoli è offerto dal genere teatrale cui accennavo poc’anzi, gli autos sacramentales, genere nato nel Medioevo (il primo è la Representación de los Reyes Magos, nel 1145), ma perfezionatosi poi nella Spagna della Controriforma.
Il sottogenere che ci interessa qui, l’auto allegorico, trova il suo primo rappresentante in Lucas Fernández, con il suo Auto de la Pasión, intorno al 1500, ma avrà consacrazione definitiva con Pedro Calderón de la Barca (nell’illustrazione).
In pratica, il misterio o moralidad medievale va pian piano approfondendo i contenuti dottrinali, anche in conseguenza del Concilio di Trento, e sul palcoscenico compaiono personaggi simbolici chiamati a incarnare concetti astratti.
Sembrerebbe qualcosa di estremamente asciutto e poco attraente, non fosse stato per l’apparato scenografico, le trappole teatrali e gli effetti speciali, che facevano di questi spettacoli qualcosa di simile ai nostri film in 3D sui dinosauri.
Con una piccola differenza: i temi centrali erano di volta in volta l’esaltazione dell’eucaristia, l’ultima cena, la vita dei santi, episodi dell’Antico Testamento, parabole evangeliche, e così via. In altre parole, essendo il plot meno che avvincente, gli ultimi ritrovati della pittura, della scultura, dell’architettura e, perché no, della musica diventavano imprescindibili per la fruizione di questo tipo di rappresentazioni, che non a caso si sviluppano solo in Spagna, mentre in tutto il resto d’Europa il teatro religioso attraversa una profonda crisi.
La maestria di Calderón sta nel saper conciliare elementi teologici e dottrinali con le correnti letterarie alla moda (concettismo e gongorismo) e soprattutto con gli espedienti spettacolari offerti dalle macchine teatrali di allora.
Proprio nel 1650 Calderón scrive e fa mettere in scena L’Anno Santo di Roma, il cui protagonista, l’Uomo, assistito dai dieci comandamenti, si mette in viaggio da pellegrino per poter raggiungere Roma e ottenere l’indulgenza.
Il viaggio si fa davvero drammatico quando il Mondo, all’uomo se non ostile, indifferente, gli fa incontrare la Lascivia, ovvero il principale fra i vizi, e Lucifero, che rappresenta il Demonio e che con la sua complice tenterà in tutti i modi di allontanarlo dalla retta via.
Oggi può sembrarci un’impresa improba, ma all’epoca su questo canovaccio si era capaci di costruire un evento spettacolare, con danze, musica, oggetti scenici bizzarri, costumi, battute (quasi sempre affidate al libero arbitrio che fa le veci del gracioso nella commedia classica), effetti speciali e sorprese a non finire, con cui intanto il drammaturgo veicolava sornione la visione del peccato, delle passioni e del riscatto che Santa Madre Chiesa imponeva ai suoi sudditi.
Chissà se in Vaticano qualcuno ci ha pensato, o ci sta pensando: recuperare Calderón e metterlo in scena sarebbe davvero uno spettacolo, senz’altro più degno di quelli a cui certi monsignori e cardinali ci hanno abituato negli ultimi secoli.
Pedro Calderòn de la Barca
L'Anno Santo a Roma (1650)
La Camera Verde
Roma, 2017
L'Anno Santo a Roma (1650)
La Camera Verde
Roma, 2017
24/02/17
La poesia del Venerdì: "I malpensieri" di Franco Marcoaldi.
I malpensieri
Arrivano nella notte i malpensieri,
erigendo picchi di insormontabili
problemi, cumuli d'angosce, oscure
colpe, sentimenti neri, Arrivano
nella notte i malpensieri. E non c'è
modo di uscire dalla loro rete
a maglie strette. Il sonno s'allontana
e dentro al portacenere si assommano
i resti di due, tre, cinque, dieci
sigarette. Gonfiano il loro ventre
i malpensieri, come rospi giganti
che minacciano la luna. E proprio quando
sembra che arrida loro la fortuna,
ecco lo schianto: tardivo, Morfeo rapisce
al sonno un corpo esausto di stanchezza,
mentre l'aurora cancella con un alito
di vento quel mare di fantasmi di cupezza.
Franco Marcoaldi
da: Il tempo ormai breve, Einaudi, Torino, 2008.
22/02/17
Colosseo, Un'icona - Dall'8 Marzo una Grande Mostra racconta la storia del Monumento più famoso.
Il Colosseo si racconta per la prima volta in una grande mostra.
Dall’8 marzo 2017 al 7 gennaio 2018, nell’ambulacro
del secondo ordine i milioni di visitatori dell’anfiteatro Flavio potranno conoscere tutta la storia del monumento.
La rassegna Colosseo. Un’icona va oltre la narrazione del tempo dei Cesari, per ripercorrere la lunga e intensa vita del sito nei secoli, fino ai giorni nostri.
La Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma, con Electa,
promuove la rassegna.
La mostra è curata da Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenzani.
Progetto di allestimento di Francesco Cellini.
In sei sezioni ordinate cronologicamente, l’influenza storico-culturale dell’anfiteatro si riscontra negli ambiti più diversi:
dalla pittura al restauro, dall’architettura all’urbanistica, dallo spettacolo alla letteratura, dalla sociologia alla politica.
Nel tempo, il monumento diventa simbolo per eccellenza di eternità e potenza, di civiltà e cultura.
Ancora oggi all’attenzione della cronaca internazionale, il Colosseo è presente nell’immaginario collettivo non solo degli italiani: il suo mito continua.
Alla mostra si accompagna il volume The Colosseum Book e seguirà il catalogo, editi da Electa.
Colosseo. Un’icona
A cura di
Rossella Rea
Serena Romano
Riccardo Santangeli Valenzani
Promossa da
Soprintendenza Speciale per il Colosseo
e l’area archeologica centrale di Roma
con Electa
Periodo
8 marzo 2017 – 7 gennaio 2018
Organizzazione e catalogo
Electa
Orari
8.30 – 17.00 dal 8 al 15 marzo
8.30 – 17.30 dal 16 al 25 marzo
8.30 – 19.15 dal 26 marzo al 31 agosto
8.30 – 19.00 dal 1 settembre al 30 settembre
8.30 – 18.30 dal 1 al 28 ottobre
8.30 – 16.30 dal 29 ottobre 2017 al 7 febbraio 2018
L’ultimo ingresso si effettua un’ora prima della chiusura
del monumento.
Biglietto
Intero € 12,00; ridotto € 7,50 comprensivo delle mostre
in corso nell’area archeologica Foro Romano–
Palatino–Colosseo.
Riduzioni e gratuità secondo la normativa vigente.
Lo stesso biglietto consente l’accesso al Colosseo, al
Foro romano e al Palatino.
È valido 2 giorni per un solo ingresso al Colosseo e un
solo ingresso al Foro Romano–Palatino
I biglietti sono acquistabili online sul sito
www.coopculture.it.
Per evitare la fila leggere con
smartphone e tablet il QRcode all’ingresso del
monumento.
21/02/17
In mostra a Roma alla Galleria Corsini due meravigliosi e rari quadri di Daniele da Volterra.
Una mostra preziosa, perché rara.
A cura di Barbara Agosti e Vittoria Romani si presentano alla Galleria Corsini l’Elia nel deserto e la Madonna con il Bambino, san Giovannino e santa Barbara di Daniele da Volterra, l’artista più vicino a Michelangelo nella sua esperienza creativa e umana, del quale si sono conservati pochissimi dipinti.
I due quadri sono capolavori unanimemente riconosciuti e da più di un secolo appartengono all’antica collezione senese Pannocchieschi d’Elci e sono quindi scarsamente visibili.
I dipinti furono realizzati a Roma al tempo di papa Paolo III Farnese (1534-1549) e sono il riflesso del determinante impatto che ebbero su Daniele da Volterra il Giudizio finale di Michelangelo e le sue ultime e più drammatiche opere.
La mostra è anche l'occasione per visitare uno dei gioielli romani, il Palazzo Corsini alla Lungara, situato nel rione di Trastevere, proprio di fronte alla Villa Farnesina, e edificato alla fine del XV secolo dai Riario, nipoti di Sisto IV della Rovere.
Nel XVII secolo il palazzo come è noto fu la residenza di Cristina di Svezia che vi fondò l'Accademia dell'Arcadia (la cui sede è attualmente poco lontano, alle pendici del Gianicolo).
Fu Ferdinando Fuga a trasformare la piccola villa suburbana dei Riario in una vera e propria reggia, raddoppiando l'estensione della facciata e ovviando alla notevole larghezza con l'aggiunta di dieci lesene giganti, più addensate in corrispondenza dell'asse centrale.
Nel 1856 gran parte dei giardini sul Gianicolo furono uniti alla confinante Villa Doria Pamphilj, mentre nel 1883 il principe Tommaso Corsini vendette al Governo Italiano il palazzo, donando la biblioteca e la galleria ivi custodite.
Il palazzo divenne quindi sede degli uffici e della biblioteca della Reale Accademia dei Lincei e della Galleria d'Arte Antica, costituita con l'occasione per accogliere le raccolte Corsini.
All'interno del palazzo sono oggi collocate la Galleria Corsini (opere di Beato Angelico, Jacopo Bassano, Caravaggio, Rubens, Jusepe de Ribera ecc.) e la sede dell'Accademia dei Lincei con la relativa Biblioteca dell'Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana.
Nel giardino ha sede l'Orto botanico di Roma.
I DIPINTI D’ELCI
16 Febbraio 2017 - 07 Maggio 2017
Galleria Corsini
ORARI
Il lunedì; mercoledì-sabato 14.00 – 19.30
Domenica 8.30 – 19.30
La biglietteria chiude alle 19.00
20/02/17
Domenica a Roma : L'Obelisco di Villa Celimontana - Fabrizio Falconi Racconta (Capitolium produzione - 2a puntata) - Youtube.
In questo breve video, oggi vi porto a conoscere l'Obelisco di Villa Celimontana, un piccolo tesoro nascosto, non molto conosciuto.
"Fabrizio Falconi racconta #Roma": L'Obelisco di Villa Celimontana (Obelisco Capitolino o Matteiano).
Una produzione http://www.capitolivm.it
Blog di Fabrizio Falconi: http://fabriziofalconi.blogspot.it/
Uno speciale ringraziamento a Trastevere App.
19/02/17
Domenica a Roma : L'Obelisco di Villa Celimontana - Fabrizio Falconi Racconta (Capitolium produzione - 2a puntata).
In questo breve video, oggi vi porto a conoscere l'Obelisco di Villa Celimontana, un piccolo tesoro nascosto, non molto conosciuto.
"Fabrizio Falconi racconta #Roma": L'Obelisco di Villa Celimontana (Obelisco Capitolino o Matteiano).
Una produzione http://www.capitolivm.it
Blog di Fabrizio Falconi: http://fabriziofalconi.blogspot.it/
Uno speciale ringraziamento a Trastevere App.
Iscriviti a:
Post (Atom)