La maledizione delle reliquie di Pietro e Paolo.
A Roma, i luoghi dove la forte
e persistente tradizione del passato voleva che fossero stati martirizzati i
due fondatori della cristianità in occidente, ovvero Pietro e Paolo, e dove la stessa tradizione voleva fossero conservati i loro resti mortali, sono
stati a lungo e per molti secoli protetti da un’atmosfera di timore
reverenziale.
Così un erudito romano, Stefano
Borgia, nel 1776 poteva tranquillamente scrivere che nella zona del Vaticano,
ad esempio, mai nessuno aveva tentato di indagare, di scavare o muovere
qualcosa né tanto meno di cercare le spoglie del corpo dell’Apostolo, dai tempi
dell’Imperatore Costantino, da quando cioè una basilica era stata edificata
sulla tomba di Pietro.
Questo timore reverenziale, che
si trasformò in vero e proprio panico all’idea di curiosare nelle tombe dei due
apostoli, era stato espresso molti secoli prima da Gregorio Magno, il quale, in
una lettera indirizzata alla imperatrice di Bisanzio, Costantina, rispondeva
alla richiesta di sovrana di ottenere la reliquia della testa dell’Apostolo
Paolo per adornare la sua cappella Imperiale e proseguirne il culto in Oriente,
scriveva – negando ovviamente la proposta: A Roma e in tutto l’Occidente
sarebbe cosa del tutto intollerabile e sacrilega toccare il corpo dei due santi.
E proprio per evitare qualunque
contatto con i resti mortali di Pietro e Paolo, lo stesso Papa Gregorio I e
molti altri pontefici dopo di lui, raccomandavano l’uso dei cosiddetti brandea, cioè di pezzi di tessuto che erano venuti a
contatto anche indirettamente con i sacri sepolcri.
Tradizione che si è
trasmessa fino ai giorni nostri quando ad esempio, dopo la morte di Giovanni
Paolo II, sono stati diffusi in forma di reliquia, porzioni minime della stoffa
degli abiti indossati dal Papa divenuto già santo.
La paura di profanare le tombe
degli Apostoli si legò nel corso dei secoli alla leggenda nera che riguardava
coloro che avevano osato disturbare il sonno mortale dei discepoli di Cristo.
Un esempio eclatante di questo
terrore, si ebbe nel 1626, allorquando per ancorare le quattro le pesantissime
colonne tortili che sorreggono il baldacchino berniniano al centro della
Basilica di San Pietro, fu necessario scavare al di sotto del pavimento della
Basilica.
Una incredibile serie di
sciagure e di incidenti si abbatterono sulle maestranze al lavoro,
rallentandone l’opera, subito raccolte dalla voce popolare.
Il canonico di San Pietro
dell’epoca, particolarmente colpito da quelle sventure che sembravano non
volersi esaurire (incidenti, morti improvvise, malattie, rovine personali), si
ricordò della lettera di Papa Gregorio, e la fece circolare presso dotti e
indotti per farla interpretare.
Lo spavento fu tale che per
costringere gli operai e i tecnici a completare il lavoro, ci fu bisogno di un intervento
autoritario del Papa – Urbano VII – il quale non poteva consentire che l’immane
lavoro fosse lasciato a metà.
Ma la persistenza della
leggenda legata alla profanazione dei resti di Pietro rimase così a lungo, che
soltanto nel secolo scorso, nel 1939, e per l’esattezza il 28 giugno, un Papa –
Pio XII – ebbe l’ardire di abbassare il pavimento delle Grotte Vaticane, in tal
modo iniziando quei lavori che, durati dieci anni, portarono al rinvenimento
delle più che presunte ossa dell’Apostolo (identificate poi da Margherita
Guarducci e da altri archeologi).
E ovviamente, all’epoca, furono
non pochi quelli che misero in connessione, in rapporto, la sventura che si
abbatté sul mondo intero (con il Secondo Conflitto, le deportazioni, la morte
di milioni di persone innocenti), con la profanazione della tomba dell’Apostolo
che aveva portato a Roma e nell’intero Occidente il verbo di Cristo.
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