09/01/14

Emanuele Trevi: lo strano incontro del dott. Stevenson e di Mr. Hyde.


Sullo scorso numero di 'Sette', un bellissimo articolo di Emanuele Trevi racconta l'incredibile vicenda - poco conosciuta - dell'incontro di Robert Louis Stevenson avvenuto nel 1864 (tre anni dopo aver scritto Lo strano caso del Dr. Jeckill e Mr. Hyde), dopo lo sbarco dello scrittore nell'atollo hawaiano di Mokokai, con un pastore protestante che si chiamava di cognome proprio Hyde, e che manifestò strane, sorprendenti assonanze con la malvagità del personaggio immaginato da Stevenson, macchiandosi di una infamante operazione di linciaggio del povero Padre Damiano, missionario cattolico che assitette eroicamente i lebbrosi dell'isola per più di un ventennio. 
La vicenda è ricostruita da Trevi con piglio decisamente letterario (come si conviene all'autore) e merita di essere letta d'un fiato.  La versione on line è tuttora indisponibile. Pubblico le immagini dell'articolo pubblicato da Sette-Il corriere della Sera che si possono apprezzare a piena pagina, leggere e stampare qui, cioè sul sito delle Edizioni Medusa, che hanno pubblicato il libro La difesa di Padre Damiano, di Stevenson, in edizione italiana.  




08/01/14

'L'infanzia di Gesù' di J.M. Coetzee - un libro misterioso e pieno di domande.






Coetzee  ha scritto il suo libro più misterioso. 

L'infanzia di Gesù è sin dal suo approccio - il titolo, che sembra più adatto (e lo è) ad un testo di teologia - sin da suo incipit, spiazzante. 

Di cosa vuole parlarci stavolta ? Che tipo di storia è questa ? 

Si intuisce dalle prime pagine che con il Gesù evangelico, con la storia tramandata, questo romanzo sembra non avere proprio nulla a che fare (ma nutriremo molti dubbi in proposito, andando avanti con la lettura). Il vecchio  (ma scopriremo poi che non è affatto vecchio, ha solo quarantacinque anni) Sìmon, approda, dopo un viaggio in nave (proveniente da dove ? Da quale terra? Da quale vita?) sulle sponde di un continente o di un paese chiamato Novilla, dove tutti parlano spagnolo e tutti sembrano ragionevoli e cordiali (a loro modo accoglienti): una società super-strutturata, su un modello che fa pensare ad  un socialismo effettivo (anche se non si intravvedono vertici totalitari) comunitario: molta burocrazia, centri di smistamento, di istruzione, di assegnazione degli alloggi, perfino il lavoro è strutturato come un'opera astratta, limitata all'uso corrente, senza apparenti fini, senza motivazioni che non siano quelli del puro presente. 

In questo modo apparentemente sereno ma allo stesso modo sottilmente inquietante, i sentimenti e le passioni paiono bandite.  Fanno parte della vita precedente, di quella che gli attuali abitatori di Novilla hanno lasciato alle spalle quando sono sbarcati sulle rive della nuova terra, chi prima chi dopo. 

Sìmon arriva a Novilla in compagnia di un bambino di cinque anni, che alla frontiera hanno battezzato David. Il figlio però non è suo (di chi è figlio ? Perché era da solo ? Da dove viene?). Si sono incontrati sulla nave - ma nulla ci viene riferito di questo incontro - e lui, Sìmon ritiene di dover svolgere il compito di trovare la madre di David, che deve essere da qualche parte a Novilla e che lui troverà non attraverso una ricerca metodica, analitica, ma sentendo che quella è la madre, quando la incontrerà, quando se la troverà di fronte.

La madre viene trovata: Sìmon la identifica in Inès, una tennista elegante che vive nella Residencia (una specie di quartiere residenziale riservato a pochi?) insieme a due scorbutici fratelli e a un cane altrettanto scorbutico. 

Sìmon, sentendo di aver esaurito il suo compito, lascia il bambino dalla madre. Salvo scoprire subito che non può fare a meno di lui. David è un bambino eccezionale. Sembra disporre di poteri e di percezioni particolari.  E' refrattario ad ogni forma di educazione tradizionale, tanto meno quella impartita a Novilla. Non ne vuol sapere. Tempesta Sìmon di domande filosofiche.  

Nelle ultime pagine del libro si cementa un legame tra Inès - che difende strenuamente il bambino e si oppone fieramente ad ogni tentativo dell'autorità di trasferirlo nel temibile centro di Punta Arenas, destinato ai ragazzi disadattati -  e Sìmon.  I tre - una famiglia davvero sui generis - si mettono in viaggio (ed è ovvio che qui il pensiero, come in altri punti del libro, vada alla suggestione del racconto evangelico) per sfuggire alla cattura, insieme al cane, nella vecchia vettura di uno dei due fratelli della donna.  David cercherà di convincere le persone che incontra a seguirli, in una strana e personalissima sequela

Più propriamente il romanzo di Coetzee è - come ha fatto notare Joyce Carol Oates - un'opera che si interroga sul Senso.  Senso con la maiuscola. Quello che sembra essere scomparso dall'orizzonte del mondo contemporaneo. 

Nessun vento è favorevole al marinaio che non sa dove andare, scriveva Seneca. E sembra essere diventato il paradigma del mondo che abitiamo.  Anche Novilla è un po' così: tutto è perfettamente organizzato, tutto ha uno scopo pratico - che sembra principalmente quello di eliminare la sofferenza e ogni tipo di turbamento - ma un senso vero non c'è. E infatti non c'è nessuna vera gioia, nessuna vera felicità. 

David è l'elemento dissonante.  Il bambino parla un linguaggio diverso, è - come direbbe il filosofo Marco Guzzi - l'emblema del Nascente, di quello che di nuovo sta germogliando, e che non è ancora compreso e non può essere compreso. 

David non  fa altro che fare domande. Ciò che il nostro mondo - e Novilla, ovviamente - non vuole e non sa più tollerare. 

David non ubbidisce.  David vede cose che non si vedono, afferma cose che non si possono dimostrare, cambia continuamente le prospettive logiche, chiede continuamente dove esista quel punto dove si può cadere. 

La forza del bambino, come la sua provenienza, è misteriosa. 

Quel che è certo è che egli non ha né padre, né madre. E' del tutto nuovo. Può avere soltanto qualcuno che si occupi di lui, che si prenda cura di lui.

Coetzee sembra arrivato al punto di considerare con stanchezza i mali (denunciati) del mondo, le ingiustizie, le cose sulle quali si gira intorno da sempre.  Quel che sappiamo della natura e del cuore nero dell'uomo e che la letteratura ha indagato in ogni modo (e lui stesso, basti pensare a Vergogna). 

Forse è giunto il momento di volgere lo sguardo ad altro.  A quel punto di universo - orizzontale e verticale - dove serve una vista diversa, come aveva intuito il collega Nobel José Saramago in un altro romanzo, straordinario come questo (e per atmosfere abbastanza consimile),  Cecità. 
Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 



07/01/14

Perdere il compagno di una vita, l'elaborazione del lutto secondo Oates e Barnes.



Julian Barnes 


Esistono vari livelli in cui uno si trova a vivere, nota l'inglese Julian Barnes, che racconta prima di chi cercava nell'Ottocento di alzarsi da terra con precarie mongolfiere, poi di come lui, morta sua moglie, la compagna di oltre 30 anni, sia invece sprofondato sotto terra. Il racconto di una lunga caduta nell'abisso del dolore e' anche quello autobiografico di Joyce Oates, una delle piu' prolifiche e importanti scrittrici americane, che ha scritto il proprio diario a seguito della morte, dopo 48 anni di vita in comune, del marito. 

Due libri sull'elaborazione del lutto, ma molto diversi. Barnes, l'acclamato autore di "Il senso di una fine", ricorda che una mongolfiera poteva, per qualsiasi minimo imprevisto, precipitare a terra sino a conficcarsi nel terreno e cosi' capita a chi arriva improvvisa una disgrazia e si trova costretto a affrontarla in un'epoca in cui non e' piu' possibile, come Orfeo, scendere agli inferi per riportare indietro la propria Euridice, tanto piu' che poi e' praticamente impossibile resistere a non guardarla, quando la si sente di nuovo viva e parlare alle proprie spalle. 

Perche' Barnes Oscilla tra il dirsi che la morte fa parte del meccanismo naturale dell'universo e il bisogno di continuare la propria conversazione interrotta con Pat, giungendo per gradi, per sofferenza ("i dolenti non sono depressi, sono semplicemente, giustamente, matematicamente tristi"), per necessita' a capire che "il fatto che una persona sia morta puo' voler dire che non e' viva, ma non che non esiste". 



                                                                     Joyce Carol Oates 


Un libro intenso, mai retorico, un'elaborazione anche letteraria, sapendo come sempre che la scrittura e' terapeutica, nel cercar di ritrovare un senso dell'essere, con emotivita' ma senza sbavature, recuperando con stile cio' che e' stato e che non puo' andare perduto.

Scrittura terapeutica e' certo anche quella della Oates, che del resto ci propone un racconto di 600 pagine (cinque volte il libro di Barnes) che e' sostanzialmente diario minuzioso della propria disperazione, sino al pensiero non occasionale del suicidio, dopo aver reso conto dell'ultimissimo periodo con Ray, della sua malattia improvvisa, una polmonite, che improvvisamente si aggrava proprio quando sembrava ormai risolversi, tanto che la scrittrice era tornata a casa dall'ospedale e era riuscita a addormentarsi. 

fonte: ANSA/ Libro del giorno: Oates e Barnes, elaborazione di lutti Due racconti diversi di chi ha perso il compagno/a di una vita (di Paolo Petroni) (ANSA)

06/01/14

Essere vivi (Michael Hookman).




E' una percezione che seppelliamo ogni giorno sotto macigni di inutilità.  Le cose mondane, la vita con le sue necessità e bisogni, con i suoi desideri autentici e inautentici ci fa continuamente perdere di vista questo.



Quando vi svegliate allo spazio e alla chiarezza naturale del vostro essere, allora acquistate fiducia e riuscite a lasciar andare il vostro senso dell'io e la vostra idea di aver bisogno di controllare tutto.

Sentiamo quanto sia giusto questo rilasciamento e la mente si riposa in esso. Impariamo a lasciar andare questa impressione costante che "c'è qualcosa che non va." E anzi proviamo una gioia nuova ad essere una persona sulla via del risveglio. 

Non ci sono grandi problemi. Ma poiché abbiamo una tendenza così forte a pensare che il solo fatto di vivere sia in qualche modo un problema, è bene protendersi deliberatamente nella direzione opposta; e, allorché pratichiamo, collegarci intenzionalmente a un sentimento di gloria e meraviglia per il fatto di essere vivi. 


05/01/14

La poesia della Domenica - 'Due sogni' di Gottfried Benn.




Due sogni

Due sogni. Il primo chiedeva,
come è ora il tuo viso:
è ciò che il tuo labbro diceva,
o che singhiozzando fu osato
all'imbrunire della luce ?

Più chiaro il secondo ti vide:
una rosa o un trifoglio
tenero, dolce, - un mirabile
primigenio custode di mondi
delle marine forme di conchiglia.

Dovrà ancora un terzo venire ?
Grave questo sarebbe di pena:
sogno della conchiglia albeggiato,
dai flutti rapita conchiglia,
via, verso un altro mare.


Gottfried Benn, Zwei Traume, da Aprèslude, traduz. di Ferruccio Masini, Einaudi, 1966, pag. 53.

Originale

04/01/14

L'amore è il togliersi dalla Distanza. (Emilio Tadini).




Mi ricapita tra le mani un bellissimo libro di Emilio Tadini (un grande di cui nessuno parla più in Italia),  La distanza, pubblicato da Einaudi nel 1998 e vi ritrovo questa folgorante pagina.


In ogni abbraccio, per un attimo, ogni distanza si toglie. E' come se per un attimo, si togliesse la Distanza.

L'amore, comunque, è immaginare - sognare - il togliersi della Distanza.  E' immaginare - sognare - di perderci. Non nell'altro, ma con l'altro: in qualche totalità.

Soltanto perdendoci nell'atto d'amore ci sembra che potremo sperare nella ricomposizione di una totalità. Al di là di ogni separazione. Al di là di ogni distanza. Liberati dalla distanza. Scampati dalla distanza.

Forse, nel profondo, magari per un attimo, neanche il più osceno padrone-nato abbraccia soltanto per possedere.

E' per questo che il desiderio primario è nostalgia - e cioè dolore per una lontananza ? Nostalgia di una nostra, privata Età dell'Oro...

Emilio Tadini, La distanza, Einaudi 1998, pag. 58 e 39.

03/01/14

La rinascita di Etty Hillesum - di Giorgio Montefoschi.




La rinascita di Etty Hillesum

La maggior parte delle Lettere che Etty Hillesum scrisse dal lager di Westerbork, pubblicate oggi da Adelphi in edizione integrale (traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani, pp. 269, e 22), sono del 1943 e praticamente cominciano quando smette di scrivere il suo lungo Diario, pubblicato anch’esso da Adelphi. 

In entrambi i casi — il Diario e le Lettere — quello che colpisce chi si avvicina a questi due testi sconvolgenti, rivelatori di una delle grandi anime del Novecento, è l’estrema velocità dei due mutamenti spirituali che segnano la breve vita di Etty Hillesum. 

Una velocità che, insieme all’incalzare drammatico della storia, mostra l’intervento della mano divina. Nel Diario , scritto dal 1941 al 1943, la Hillesum — nata un secolo fa nel gennaio 1914, figlia di un professore di scuola ebreo e di una ebrea russa malata di nervi e dotata di un pessimo carattere, sorella di due fratelli a loro volta fragili e instabili — è la tipica ragazza borghese irrisolta, preda delle sue inquietudini sentimentali, animata da un desiderio tanto nobile quanto confuso di elevarsi. Avendo cattivi rapporti con i genitori, vive in casa di un uomo molto più vecchio di lei, Hendrik Wegerif (Etty lo chiama Pa Han), un ex contabile di cui è l’amante. 

Va in bicicletta lungo i canali dell’incredibile Amsterdam ancora «quieta», benché sull’orlo della catastrofe del 1940; divora i libri (da Dostoevskij a Jung, da Rilke alla Bibbia); ma è confusa, e dentro se stessa sente come di avere una sorgente impedita, una sorgente che non riesce a zampillare. 

In una pagina del Diario può scrivere: «A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza dei secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia sui campi di grano». 

E poche righe più in là: «Le mie idee pendono dal mio corpo come vestiti troppo larghi nei quali devo crescere... Idee vaghe di ogni tipo reclamano ogni tanto una espressione concreta». 

Nella buona sostanza, sa e capisce che l’unico e vero compito della sua vita è quello di portare ordine e armonia nel caos che regna nel suo cuore. Intanto, ha conosciuto un uomo che si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione spirituale. 

Costui è uno psicochirologo ebreo tedesco allievo di Jung, Julius Spier — anch’egli più anziano di lei di oltre venti anni —, che ha lasciato la famiglia per riparare in Olanda. Spier, che ad Amsterdam ha raggiunto una certa fama, studia la mano e sottopone i suoi pazienti a una bizzarra terapia: vale a dire, la lotta. Il medico e il paziente si avvinghiano, combattono, si rotolano per terra, in modo che le forze oscure della psiche nascoste nel nostro corpo possano sciogliersi, liberarsi e armonizzarsi con quelle del corpo. 

Etty è presto attratta da quest’uomo che, oltre alla lotta fisica, le propone letture e argomenti di meditazione profondi, così come Spier è attratto da lei. E non ha molta importanza il fatto che fra i due si stabilisca una relazione sentimentale. Spier è una vera e pietra imprescindibile nel percorso di Etty. Dio pone molte pietre lungo il nostro cammino. A volte, queste pietre sono inciampi, ostacoli che possiamo superare (e il Salmo ci dice che, se glielo chiediamo, Dio ordina ai suoi angeli di sostenerci in modo che possiamo evitarli). 

A volte sono messe lì, proprio dentro noi stessi, per far sì che le riconosciamo come parte di noi stessi, come una nostra pietra che blocca una nostra sorgente, e in uno sforzo sovrumano le solleviamo, lasciando zampillare la sorgente. È quanto accade, miracolosamente, a Etty Hillesum: che un giorno cade in ginocchio e si colma dell’amore di Dio. 

Ora, però, la situazione per gli ebrei olandesi e di tutta Europa sta precipitando. Etty, benché malatissima, si fa internare nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale uscirà per andare a morire ad Auschwitz. 

Questo è il secondo definitivo gradino della sua elevazione: corrispondente al suo sacrificio. Etty sa che l’amore per Dio e per il prossimo rimane lettera vuota, se non si fa carne. 

Le Lettere dal campo di Westerbork non sono soltanto la testimonianza dell’orrore e dell’abisso che l’uomo non avrebbe mai potuto immaginare di raggiungere. Sono la più pura testimonianza dell’agape cristiana. La condivisione del dolore.   

02/01/14

Kintsugi: il dolore è oro, perché ti insegna e ti dice che sei vivo.




Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. 

Questa tecnica è chiamata Kintsugi. Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente. 

E la differenza è tutta qui: occultare l'integrità perduta o esaltare la storia della ricomposizione? 

Chi vive in Occidente fa fatica a fare pace con le crepe. "Spaccatura, frattura, ferita" sono percepiti come l'effetto meccanicistico di una colpa, perché il pensiero digitale ci ha addestrati a percorrere sempre e solo una delle biforcazioni: o è intatto, o è rotto. Se è rotto, è colpa di qualcuno. 

Il pensiero analogico -arcaico, mitico, simbolico- invece, rifiuta le dicotomie e ci riporta alla compresenza degli opposti, che smettono di essere tali nel continuo osmotico fluire della vita. 

La Vita è integrità e rottura insieme, perché è ri-composizione costante ed eterna. 

Rendere belle e preziose le "persone" che hanno sofferto......questa tecnica si chiama "amore". Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle, della musica profonda, del grande gioco.

Il dolore fa due cose: Ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio, a volte. In alcuni casi ti lascia più forte. 

In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro.

I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi l'hanno capito più di sei secoli fa - e ce lo ricordano sottolineandolo con l'oro.

01/01/14

Il senso e la poesia. Intervista a Susan Stewart di Roberto Mussapi (Avvenire).



Stewart, versi come atti di fede 

Susan Stewart, nata nel 1952 in Pennsylvania, vive tra Filadelfia e a Princeton. Poeta, critico e traduttore, si occupa anche di critica d’arte. Le sono stati conferiti prestigiosi premi come l’Academy Award per la letteratura. Docente di discipline umanistiche, dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts alla Princeton University. Conosce e frequenta l’Italia. Ha spesso collaborato con artisti italiani, tra cui Sandro Chia. In Italia ha pubblicato due libri, Columbarium e altre poesie, (Ares 2006) e Red Rover, (Jaca Book 2011), a cura di Maria Cristina Biggio.

Nel Paese di tre grandi maestri del Novecento, gli americani Eliot, Pound e Hart Crane, vediamo con Susan Stewart un filo di continuità con la tradizione forte della poesia, la sua linea incandescente. Anche se, nello specifico, il suo maestro americano riconosciuto è Wallace Stevens, e nel passato la tradizione dei metafisici inglesi del Seicento, una magistrale scuola poetica dove prende forma quello che Eliot, teorizzandolo e battezzandolo, definirà sensuous thought, pensiero percepibile dai sensi. Altezza esplorativa ma concretezza massima dell’espressione. Questa arditezza d’impresa, necessaria alla poesia, tende a venir meno nella prevalente produzione poetica dei poeti statunitensi della seconda metà del secolo appena trascorso, che vede dominare un diffuso minimalismo e spesso un formalismo linguistico fine a se stesso. Non mancano le eccezioni, grazie a Dio, e quella di Susan Stewart è un’eccezione forte, una voce composita e sonante, densa di senso metafisico, immersa nell’osservazione anche microscopica del mondo ma con una prospettiva lucidamente visionaria, trasfigurante. Una visionarietà fredda e catturante, che mette in scena il ruolo conoscitivo della poesia ai suoi livelli più intensi.

Lo sguardo del poeta è capace di ampie visioni storiche e di una critica del potere, dall’impero romano agli Stati Uniti, guardando la realtà dal punto di vista degli umili, della stessa sostanza, potremmo dire, delle "foglie d’erba" di Whitman o della zolla calpestata dalle mandrie in cui William Blake vede l’umiltà eroica della poesia. In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente.

Io parto da una premessa, da poeta. La poesia non è un optional. Ma una necessità. Shelley distingueva tra "poetry", la poesia in assoluto come dimensione, bisogno e mancanza dell’uomo, di ogni uomo, cosciente o inconsapevole, e "poem", la singola opera poetica, il risultato perfetto , opera del poeta, che risponde a tale esigenza. L’opera rispetto a quella che, condivido con Shelley, è una necessità. Anche per lei la poesia è necessaria?
«La poesia è lo strumento di pensiero più bello e capace di cui disponiamo. La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

31/12/13

Credere di essere speciali - (J.M.Coetzee)




- E' il modo in cui sono fatti gli esseri umani: io e te e Alvaro e il senor Daga e tutti gli altri.  Il modo in cui veniamo al mondo quando nasciamo. E' quello che tutti abbiamo in comune.

Ci piace credere di essere speciali, ragazzo mio, a tutti piace.  

Ma in senso stretto non può essere così: se fossimo tutti speciali, non ci sarebbe più niente di speciale. E però continuiamo a credere in noi stessi. Scendiamo giù nella stiva della nave, nel caldo e nella polvere, solleviamo i sacchi e ce li mettiamo sulle spalle per poi trascinarli su alla luce, vediamo i nostri amici faticare come noi, fare esattamente le stesse cose.

Non c'è niente di speciale in tutto questo e andiamo fieri di loro e di noi stessi, noi compagni tutti a sgobbare insieme per un obiettivo comune; eppure in un angoletto del nostro cuore che teniamo nascosto sussurriamo a noi stessi:  "E nondimeno, nondimeno, tu sei speciale,  vedrai ! Un giorno quando meno ce lo aspettiamo, un gran fragore risuonerà sopra il fischio di Alvaro e saremo chiamati tutti a raccolta sulla banchina, dove in attesa ci sarà una grande folla e un uomo col vestito nero e il cappello a cilindro; e quell'uomo col vestito nero ti inviterà a fare un passo in avanti, dicendo: "Guardate questo operaio speciale, di cui tutti ci rallegriamo!"  E ti stringerà la mano e ti appunterà sul petto una medaglia - con su scritto "Onore al merito" - e tutti ti acclameranno battendo le mani."

- E' tipico della natura umana fare sogni, anche se sarebbe saggio tenerseli per sè.







29/12/13

Poesia della domenica - Il nostro amore è come Bisanzio di Henrik Nordbrandt.



Il nostro amore è come Bisanzio. 


Il nostro amore è come Bisanzio
deve essere stata
l’ultima sera. Deve esserci stato
immagino
un alone sui volti
di chi si affollava nelle vie
o sostava in piccoli gruppi
agli angoli delle strade e nelle piazze
e parlava a bassa voce
un alone che doveva ricordare quello che ha il tuo volto
quando ne scosti i capelli
e mi guardi.

Immagino che non parlassero
molto, e di cose
piuttosto differenti,
che cercassero di parlare
e si interrompessero
senza aver detto quanto volevano
e cercassero ancora
e rinunciassero ancora
e si guardassero
e abbassassero gli occhi.

Le antichissime icone per esempio
hanno in sé quell’alone
come il bagliore di una città in fiamme
o l’alone che la morte imminente
trasmette alle foto dei morti precoci
nella memoria dei superstiti.

Quando mi volto verso di te
nel letto, ho la sensazione
di entrare in una chiesa
distrutta dalle fiamme
molto tempo fa
in cui solo il buio negli occhi delle icone
è rimasto
piene delle fiamme che le hanno cancellate.


Henrik Nordbrandt, da Il nostro amore è come Bisanzio, a cura di Bruno Berni, Donzelli, 2000.

28/12/13

La differenza tra un cuore inquieto e l'Hallelujah.




La differenza è tra le mille cose che spingono e quella - l'unica - che rimane. La differenza è nel conto delle cose e nella valutazione delle mancanze.

La differenza è nei gesti che contano e nelle parole che non si dicono. La differenza è nel punto del centro dove non arrivi.

La differenza è nelle questioni inadatte, nelle troppe informazioni e nella quiete ipnotica, abissale di un senso che nemmeno tu conosci.

La differenza è nelle notti che non dormi e nei giorni che non vivi.  La differenza è nella metà e nell'uno. La differenza è nel Re confuso che fu capace di comporre l'Hallelujah.







Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

27/12/13

Guardarsi allo specchio (Clarice Lispector)





Guardarsi allo specchio e dirsi meravigliata: come sono misteriosa. Sono così delicata e forte. E la curva delle labbra ha serbato l'innocenza. Non c'è uomo o donna che non si sia guardato per caso allo specchio senza rimanerne sorpreso. Per una frazione di secondo ci vediamo come un oggetto che è guardato. Ciò che si chiamerebbe forse narcisismo, ma io lo chiamo: gioia di essere. Gioia di trovare nella figura esterna le eco della figura interiore: ah, allora è vero che non mi sono immaginata, io esisto.




Clarice Lispector, La scoperta del mondo, Ediz. La Tartaruga, p.15.



25/12/13

Essere fedeli a se stessi è il contrario dell'egoismo.






La cosa appare sotto forma di silenzio. 

Il silenzio inamidato della mattina, quello inquieto, frusciante della sera.  L'ascolto del momento più buio regala voci inaspettate. 

Dormono dentro di te, da secoli.  Ti tengono all'improvviso sveglio, quando le avevi dimenticate.  Capisci d'un tratto che non c'è altro modo di essere fedeli agli altri che esserlo a se stessi. 

Nessuno conosce i molteplici punti di te stesso e tu stesso non puoi contarli tutti e non puoi abbracciarli tutti. Puoi soltanto sentirli. 

Ricominciare ogni volta, senza connivenze e rancori.  Senza ipocrisie e leggi.  

Nel fondo di te stesso, nel fosso o recesso, s'apre una pozza d'acqua cristallina che tutto contiene.  Riflette il tuo volto, contiene la potenza del bardo e la rapidità del serpente.  Il cuore generoso dell'umano. 

Se sarai capace di scendervi ed ascoltare, e di essere quel canto d'acqua fermo, tu sarai utile alla vita e la vita a te. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

in testa : Essere acqua, di Marco Nones  (altorilievo). 


24/12/13

Natale 2013 - Mauriac.




Sotto il regno di Tiberio Cesare, il legnaiuolo Jeschu, figlio di Giuseppe e di Maria che abitava in quella borgata, Nazaret, della quale non è menzione in alcuna storia e che le Scritture non nominano: alcune case scavate nel macigno di una collina, di fronte alla pianura d'Esdrelon. Le vestigia di queste grotte sussistono ancora.

E l'una di esse celò quel fanciullo, quell'adolescente, quell'uomo, tra l'operaio e la Vergine. Là egli visse trent'anni - non già in un silenzio di adorazione e d'amore: dimorava nel bel mezzo di una tribù, fra i litigi, le gelosie, i piccoli drammi d'una numerosa parentela, dei Galilei devoti, nemici dei Romani e d'Ercole; e che nell'attesa del trionfo d'Israel, salivano per le feste a Gerusalemme.

Stavano dunque là dal principio della sua nascosta vita quelli che al tempo dei suoi primi miracoli pretenderanno che sia folle e vorranno impadronirsi di lui; quelli di cui l'Evangelo ci dà i nomi: Giacomo, Giuseppe, Simone, Giuda...

Fino a qual punto si fosse reso simile a tutti i ragazzi della sua età, lo scandalo dei Nazzareni lo prova abbastanza quando per la prima volta predicò nella loro sinagoga. "Non è forse il legnaiuolo" dicevano essi, "il figlio di Maria ? E i suoi fratelli (i suoi cugini) non sono forse qui, in mezzo a noi ?"

Così di lui parlava la gente del vicinato, o con la quale aveva giocato, e della quale poco dianzi ancora eseguiva le ordinazioni: era il falegname, uno dei due o tre falegnami del borgo.



Francois Mauriac, La vita di Gesù, i quaderni della Fenice, Mondadori, Milano, 1937, traduzione di Angiolo Silvio Novaro,  p. 30.

foto in testa: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi (1600?) Olio su tela 268 × 197 cm, Palermo Italia Oratorio di San Lorenzo. Trafugato nel 1969. In base alle risultanze delle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Palermo l’opera, in data imprecisata successiva al furto, sarebbe andata distrutta a causa delle malaccorte modalità con le quali è stata nascosta dagli autori del trafugamento.

23/12/13

Vorrei scrivere qualcosa sul sole. (Natale).





Vorrei scrivere qualcosa sul sole. 

Il sole non è morto ancora. Come in ogni anno ha raggiunto il suo punto più basso sull'orizzonte.  Da decine di millenni l'uomo ha avuto paura.  In questo periodo tutto assomiglia alla fine: la fine del sole, la fine del mondo. 

La conferma della rinascita dell'astro della luce, anno dopo anno, trasmessa e confidata, ha innalzato la fiducia umana nella vita, la possibilità concreta del domani e di un eterno ritorno sempre sperabile. 

Ciò che fu chiamato 'natale', abita qui. 

Promessa cristiana e rinnovamento, riti apotropaici, nascita e rinascita hanno lasciato il posto oggi a una confusa mobilità del tutto in-sensata.   

Ci si muove per sentirsi vivi e per poter dire di essere andati da qualche parte. Si spendono soldi, si fanno viaggi, ma soprattutto si va di corsa, questo è l'importante. 

Di corsa, però, non vediamo niente. Il falso movimento rende perfino invisibile il movimento del sole, la sua effettiva ri-nascita, il suo ritorno alla luce.  Alla nostra luce.


Senza luce niente è possibile. 


Non c'è vita, non c'è oggi e non c'è ieri e nemmeno domani. Fermiamoci, dunque, e celebriamo il nostro rito di sempre: osservando il sole, tributando la luce. 




Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 





22/12/13

La modernità - Robert Pogue Harrison.





"Ecco quello che penso," continuò: "Che quando si tratta di essere moderni siamo scolari senza scuola, iniziati senza riti, devoti senza preghiere. Nessuno è stato all'altezza di insegnarcelo, nessuno ci ha insegnato ad aggiornare le nostre vite interiori.

Siamo entrati in quest'era come neonati, urlando e scalciando, e ancora non c'è neppure un adulto in vista. 

Ecco quello che penso: che mentre ci stiamo avvicinando a un nuovo millennio alla velocità della luce, ancora annaspiamo per trovare un capezzolo che ci consoli, e aspettiamo svegli che una mamma venga a darci il bacio della buonanotte.


Ecco a cosa penso: al colossale crollo di nervi. Come si fa a crescere ? Mi aspetto che me lo dicano gli scrittori moderni, e invece non trovo che gemiti e lamenti: un asilo nido per nostalgici e sconsolati. 


Chi di loro ha mai osato sostenere la propria epoca, o andare nella sua direzione ? Che ne sanno davvero della scienza ? Come fai a pretendere di essere uno scrittore moderno senza sapere niente della scienza ? Musil è l'eccezione.  Ha visto nella nostra epoca l'occasione per sperimentare, una sfida a ciò che è ancora indeterminato nella nostra natura, affinché abbracci la precisione del pensiero, l'esattezza, l'analisi, il processo tecnico, meccanico, standardizzato, anonimo - e in questo processo elevi la nostra umanità.

Al diavolo le trasformazioni stilistiche. Musil ha visto la necessità di una trasformazione spirituale, di una metamorfosi delle nostre strutture interne. 

... Malgrado la sua mancanza di talento, ha cercato di insegnarci un paio di cose sul giusto vivere in condizioni nuove, su come modernizzare le emozioni senza comprometterne la densità.  E' un inizio.  E' quanto ci serviva per l'inizio - un inizio, o almeno un monito che ci ricorda che non abbiamo neppure iniziato a fare i conti con noi stessi. 

Non sono forse gli scrittori i soli che possono iniziare l'opera di trasformazione interna ? 

... Il morire ha fatto progressi e noi siamo all'ultimo respiro.  Come dovremmo usarlo ? Per dire cosa ? Niente. Non c'è più niente da dire, eccetto che non abbiamo più niente da dire, e tutto perché coloro che presumono di parlare per noi si sono votati alla denuncia di ciò che conosciamo come reale invece di collaborare con esso, di investirlo creativamente."



Robert Pogue Harrison, Roma, la pioggia... A che cosa serve la letteratura ? Garzanti editore, 1995, traduzione di Stefano Velotti. 

21/12/13

150.000 visitatori per "il Blog di Fabrizio Falconi". Grazie.






Vorrei ringraziarvi per aver tagliato, dopo così poco tempo, e proprio alla vigilia del natale 2013, il traguardo dei 150.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività, anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno. 
Grazie.

Fabrizio