03/01/14

La rinascita di Etty Hillesum - di Giorgio Montefoschi.




La rinascita di Etty Hillesum

La maggior parte delle Lettere che Etty Hillesum scrisse dal lager di Westerbork, pubblicate oggi da Adelphi in edizione integrale (traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani, pp. 269, e 22), sono del 1943 e praticamente cominciano quando smette di scrivere il suo lungo Diario, pubblicato anch’esso da Adelphi. 

In entrambi i casi — il Diario e le Lettere — quello che colpisce chi si avvicina a questi due testi sconvolgenti, rivelatori di una delle grandi anime del Novecento, è l’estrema velocità dei due mutamenti spirituali che segnano la breve vita di Etty Hillesum. 

Una velocità che, insieme all’incalzare drammatico della storia, mostra l’intervento della mano divina. Nel Diario , scritto dal 1941 al 1943, la Hillesum — nata un secolo fa nel gennaio 1914, figlia di un professore di scuola ebreo e di una ebrea russa malata di nervi e dotata di un pessimo carattere, sorella di due fratelli a loro volta fragili e instabili — è la tipica ragazza borghese irrisolta, preda delle sue inquietudini sentimentali, animata da un desiderio tanto nobile quanto confuso di elevarsi. Avendo cattivi rapporti con i genitori, vive in casa di un uomo molto più vecchio di lei, Hendrik Wegerif (Etty lo chiama Pa Han), un ex contabile di cui è l’amante. 

Va in bicicletta lungo i canali dell’incredibile Amsterdam ancora «quieta», benché sull’orlo della catastrofe del 1940; divora i libri (da Dostoevskij a Jung, da Rilke alla Bibbia); ma è confusa, e dentro se stessa sente come di avere una sorgente impedita, una sorgente che non riesce a zampillare. 

In una pagina del Diario può scrivere: «A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza dei secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia sui campi di grano». 

E poche righe più in là: «Le mie idee pendono dal mio corpo come vestiti troppo larghi nei quali devo crescere... Idee vaghe di ogni tipo reclamano ogni tanto una espressione concreta». 

Nella buona sostanza, sa e capisce che l’unico e vero compito della sua vita è quello di portare ordine e armonia nel caos che regna nel suo cuore. Intanto, ha conosciuto un uomo che si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione spirituale. 

Costui è uno psicochirologo ebreo tedesco allievo di Jung, Julius Spier — anch’egli più anziano di lei di oltre venti anni —, che ha lasciato la famiglia per riparare in Olanda. Spier, che ad Amsterdam ha raggiunto una certa fama, studia la mano e sottopone i suoi pazienti a una bizzarra terapia: vale a dire, la lotta. Il medico e il paziente si avvinghiano, combattono, si rotolano per terra, in modo che le forze oscure della psiche nascoste nel nostro corpo possano sciogliersi, liberarsi e armonizzarsi con quelle del corpo. 

Etty è presto attratta da quest’uomo che, oltre alla lotta fisica, le propone letture e argomenti di meditazione profondi, così come Spier è attratto da lei. E non ha molta importanza il fatto che fra i due si stabilisca una relazione sentimentale. Spier è una vera e pietra imprescindibile nel percorso di Etty. Dio pone molte pietre lungo il nostro cammino. A volte, queste pietre sono inciampi, ostacoli che possiamo superare (e il Salmo ci dice che, se glielo chiediamo, Dio ordina ai suoi angeli di sostenerci in modo che possiamo evitarli). 

A volte sono messe lì, proprio dentro noi stessi, per far sì che le riconosciamo come parte di noi stessi, come una nostra pietra che blocca una nostra sorgente, e in uno sforzo sovrumano le solleviamo, lasciando zampillare la sorgente. È quanto accade, miracolosamente, a Etty Hillesum: che un giorno cade in ginocchio e si colma dell’amore di Dio. 

Ora, però, la situazione per gli ebrei olandesi e di tutta Europa sta precipitando. Etty, benché malatissima, si fa internare nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale uscirà per andare a morire ad Auschwitz. 

Questo è il secondo definitivo gradino della sua elevazione: corrispondente al suo sacrificio. Etty sa che l’amore per Dio e per il prossimo rimane lettera vuota, se non si fa carne. 

Le Lettere dal campo di Westerbork non sono soltanto la testimonianza dell’orrore e dell’abisso che l’uomo non avrebbe mai potuto immaginare di raggiungere. Sono la più pura testimonianza dell’agape cristiana. La condivisione del dolore.   

02/01/14

Kintsugi: il dolore è oro, perché ti insegna e ti dice che sei vivo.




Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. 

Questa tecnica è chiamata Kintsugi. Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza adesiva trasparente. 

E la differenza è tutta qui: occultare l'integrità perduta o esaltare la storia della ricomposizione? 

Chi vive in Occidente fa fatica a fare pace con le crepe. "Spaccatura, frattura, ferita" sono percepiti come l'effetto meccanicistico di una colpa, perché il pensiero digitale ci ha addestrati a percorrere sempre e solo una delle biforcazioni: o è intatto, o è rotto. Se è rotto, è colpa di qualcuno. 

Il pensiero analogico -arcaico, mitico, simbolico- invece, rifiuta le dicotomie e ci riporta alla compresenza degli opposti, che smettono di essere tali nel continuo osmotico fluire della vita. 

La Vita è integrità e rottura insieme, perché è ri-composizione costante ed eterna. 

Rendere belle e preziose le "persone" che hanno sofferto......questa tecnica si chiama "amore". Il dolore è parte della vita. A volte è una parte grande, e a volte no, ma in entrambi i casi, è una parte del grande puzzle, della musica profonda, del grande gioco.

Il dolore fa due cose: Ti insegna, ti dice che sei vivo. Poi passa e ti lascia cambiato. E ti lascia più saggio, a volte. In alcuni casi ti lascia più forte. 

In entrambe le circostanze, il dolore lascia il segno, e tutto ciò che di importante potrà mai accadere nella tua vita lo comporterà in un modo o nell’altro.

I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi l'hanno capito più di sei secoli fa - e ce lo ricordano sottolineandolo con l'oro.

01/01/14

Il senso e la poesia. Intervista a Susan Stewart di Roberto Mussapi (Avvenire).



Stewart, versi come atti di fede 

Susan Stewart, nata nel 1952 in Pennsylvania, vive tra Filadelfia e a Princeton. Poeta, critico e traduttore, si occupa anche di critica d’arte. Le sono stati conferiti prestigiosi premi come l’Academy Award per la letteratura. Docente di discipline umanistiche, dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts alla Princeton University. Conosce e frequenta l’Italia. Ha spesso collaborato con artisti italiani, tra cui Sandro Chia. In Italia ha pubblicato due libri, Columbarium e altre poesie, (Ares 2006) e Red Rover, (Jaca Book 2011), a cura di Maria Cristina Biggio.

Nel Paese di tre grandi maestri del Novecento, gli americani Eliot, Pound e Hart Crane, vediamo con Susan Stewart un filo di continuità con la tradizione forte della poesia, la sua linea incandescente. Anche se, nello specifico, il suo maestro americano riconosciuto è Wallace Stevens, e nel passato la tradizione dei metafisici inglesi del Seicento, una magistrale scuola poetica dove prende forma quello che Eliot, teorizzandolo e battezzandolo, definirà sensuous thought, pensiero percepibile dai sensi. Altezza esplorativa ma concretezza massima dell’espressione. Questa arditezza d’impresa, necessaria alla poesia, tende a venir meno nella prevalente produzione poetica dei poeti statunitensi della seconda metà del secolo appena trascorso, che vede dominare un diffuso minimalismo e spesso un formalismo linguistico fine a se stesso. Non mancano le eccezioni, grazie a Dio, e quella di Susan Stewart è un’eccezione forte, una voce composita e sonante, densa di senso metafisico, immersa nell’osservazione anche microscopica del mondo ma con una prospettiva lucidamente visionaria, trasfigurante. Una visionarietà fredda e catturante, che mette in scena il ruolo conoscitivo della poesia ai suoi livelli più intensi.

Lo sguardo del poeta è capace di ampie visioni storiche e di una critica del potere, dall’impero romano agli Stati Uniti, guardando la realtà dal punto di vista degli umili, della stessa sostanza, potremmo dire, delle "foglie d’erba" di Whitman o della zolla calpestata dalle mandrie in cui William Blake vede l’umiltà eroica della poesia. In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente.

Io parto da una premessa, da poeta. La poesia non è un optional. Ma una necessità. Shelley distingueva tra "poetry", la poesia in assoluto come dimensione, bisogno e mancanza dell’uomo, di ogni uomo, cosciente o inconsapevole, e "poem", la singola opera poetica, il risultato perfetto , opera del poeta, che risponde a tale esigenza. L’opera rispetto a quella che, condivido con Shelley, è una necessità. Anche per lei la poesia è necessaria?
«La poesia è lo strumento di pensiero più bello e capace di cui disponiamo. La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

31/12/13

Credere di essere speciali - (J.M.Coetzee)




- E' il modo in cui sono fatti gli esseri umani: io e te e Alvaro e il senor Daga e tutti gli altri.  Il modo in cui veniamo al mondo quando nasciamo. E' quello che tutti abbiamo in comune.

Ci piace credere di essere speciali, ragazzo mio, a tutti piace.  

Ma in senso stretto non può essere così: se fossimo tutti speciali, non ci sarebbe più niente di speciale. E però continuiamo a credere in noi stessi. Scendiamo giù nella stiva della nave, nel caldo e nella polvere, solleviamo i sacchi e ce li mettiamo sulle spalle per poi trascinarli su alla luce, vediamo i nostri amici faticare come noi, fare esattamente le stesse cose.

Non c'è niente di speciale in tutto questo e andiamo fieri di loro e di noi stessi, noi compagni tutti a sgobbare insieme per un obiettivo comune; eppure in un angoletto del nostro cuore che teniamo nascosto sussurriamo a noi stessi:  "E nondimeno, nondimeno, tu sei speciale,  vedrai ! Un giorno quando meno ce lo aspettiamo, un gran fragore risuonerà sopra il fischio di Alvaro e saremo chiamati tutti a raccolta sulla banchina, dove in attesa ci sarà una grande folla e un uomo col vestito nero e il cappello a cilindro; e quell'uomo col vestito nero ti inviterà a fare un passo in avanti, dicendo: "Guardate questo operaio speciale, di cui tutti ci rallegriamo!"  E ti stringerà la mano e ti appunterà sul petto una medaglia - con su scritto "Onore al merito" - e tutti ti acclameranno battendo le mani."

- E' tipico della natura umana fare sogni, anche se sarebbe saggio tenerseli per sè.







29/12/13

Poesia della domenica - Il nostro amore è come Bisanzio di Henrik Nordbrandt.



Il nostro amore è come Bisanzio. 


Il nostro amore è come Bisanzio
deve essere stata
l’ultima sera. Deve esserci stato
immagino
un alone sui volti
di chi si affollava nelle vie
o sostava in piccoli gruppi
agli angoli delle strade e nelle piazze
e parlava a bassa voce
un alone che doveva ricordare quello che ha il tuo volto
quando ne scosti i capelli
e mi guardi.

Immagino che non parlassero
molto, e di cose
piuttosto differenti,
che cercassero di parlare
e si interrompessero
senza aver detto quanto volevano
e cercassero ancora
e rinunciassero ancora
e si guardassero
e abbassassero gli occhi.

Le antichissime icone per esempio
hanno in sé quell’alone
come il bagliore di una città in fiamme
o l’alone che la morte imminente
trasmette alle foto dei morti precoci
nella memoria dei superstiti.

Quando mi volto verso di te
nel letto, ho la sensazione
di entrare in una chiesa
distrutta dalle fiamme
molto tempo fa
in cui solo il buio negli occhi delle icone
è rimasto
piene delle fiamme che le hanno cancellate.


Henrik Nordbrandt, da Il nostro amore è come Bisanzio, a cura di Bruno Berni, Donzelli, 2000.

28/12/13

La differenza tra un cuore inquieto e l'Hallelujah.




La differenza è tra le mille cose che spingono e quella - l'unica - che rimane. La differenza è nel conto delle cose e nella valutazione delle mancanze.

La differenza è nei gesti che contano e nelle parole che non si dicono. La differenza è nel punto del centro dove non arrivi.

La differenza è nelle questioni inadatte, nelle troppe informazioni e nella quiete ipnotica, abissale di un senso che nemmeno tu conosci.

La differenza è nelle notti che non dormi e nei giorni che non vivi.  La differenza è nella metà e nell'uno. La differenza è nel Re confuso che fu capace di comporre l'Hallelujah.







Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

27/12/13

Guardarsi allo specchio (Clarice Lispector)





Guardarsi allo specchio e dirsi meravigliata: come sono misteriosa. Sono così delicata e forte. E la curva delle labbra ha serbato l'innocenza. Non c'è uomo o donna che non si sia guardato per caso allo specchio senza rimanerne sorpreso. Per una frazione di secondo ci vediamo come un oggetto che è guardato. Ciò che si chiamerebbe forse narcisismo, ma io lo chiamo: gioia di essere. Gioia di trovare nella figura esterna le eco della figura interiore: ah, allora è vero che non mi sono immaginata, io esisto.




Clarice Lispector, La scoperta del mondo, Ediz. La Tartaruga, p.15.



25/12/13

Essere fedeli a se stessi è il contrario dell'egoismo.






La cosa appare sotto forma di silenzio. 

Il silenzio inamidato della mattina, quello inquieto, frusciante della sera.  L'ascolto del momento più buio regala voci inaspettate. 

Dormono dentro di te, da secoli.  Ti tengono all'improvviso sveglio, quando le avevi dimenticate.  Capisci d'un tratto che non c'è altro modo di essere fedeli agli altri che esserlo a se stessi. 

Nessuno conosce i molteplici punti di te stesso e tu stesso non puoi contarli tutti e non puoi abbracciarli tutti. Puoi soltanto sentirli. 

Ricominciare ogni volta, senza connivenze e rancori.  Senza ipocrisie e leggi.  

Nel fondo di te stesso, nel fosso o recesso, s'apre una pozza d'acqua cristallina che tutto contiene.  Riflette il tuo volto, contiene la potenza del bardo e la rapidità del serpente.  Il cuore generoso dell'umano. 

Se sarai capace di scendervi ed ascoltare, e di essere quel canto d'acqua fermo, tu sarai utile alla vita e la vita a te. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

in testa : Essere acqua, di Marco Nones  (altorilievo). 


24/12/13

Natale 2013 - Mauriac.




Sotto il regno di Tiberio Cesare, il legnaiuolo Jeschu, figlio di Giuseppe e di Maria che abitava in quella borgata, Nazaret, della quale non è menzione in alcuna storia e che le Scritture non nominano: alcune case scavate nel macigno di una collina, di fronte alla pianura d'Esdrelon. Le vestigia di queste grotte sussistono ancora.

E l'una di esse celò quel fanciullo, quell'adolescente, quell'uomo, tra l'operaio e la Vergine. Là egli visse trent'anni - non già in un silenzio di adorazione e d'amore: dimorava nel bel mezzo di una tribù, fra i litigi, le gelosie, i piccoli drammi d'una numerosa parentela, dei Galilei devoti, nemici dei Romani e d'Ercole; e che nell'attesa del trionfo d'Israel, salivano per le feste a Gerusalemme.

Stavano dunque là dal principio della sua nascosta vita quelli che al tempo dei suoi primi miracoli pretenderanno che sia folle e vorranno impadronirsi di lui; quelli di cui l'Evangelo ci dà i nomi: Giacomo, Giuseppe, Simone, Giuda...

Fino a qual punto si fosse reso simile a tutti i ragazzi della sua età, lo scandalo dei Nazzareni lo prova abbastanza quando per la prima volta predicò nella loro sinagoga. "Non è forse il legnaiuolo" dicevano essi, "il figlio di Maria ? E i suoi fratelli (i suoi cugini) non sono forse qui, in mezzo a noi ?"

Così di lui parlava la gente del vicinato, o con la quale aveva giocato, e della quale poco dianzi ancora eseguiva le ordinazioni: era il falegname, uno dei due o tre falegnami del borgo.



Francois Mauriac, La vita di Gesù, i quaderni della Fenice, Mondadori, Milano, 1937, traduzione di Angiolo Silvio Novaro,  p. 30.

foto in testa: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi (1600?) Olio su tela 268 × 197 cm, Palermo Italia Oratorio di San Lorenzo. Trafugato nel 1969. In base alle risultanze delle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Palermo l’opera, in data imprecisata successiva al furto, sarebbe andata distrutta a causa delle malaccorte modalità con le quali è stata nascosta dagli autori del trafugamento.

23/12/13

Vorrei scrivere qualcosa sul sole. (Natale).





Vorrei scrivere qualcosa sul sole. 

Il sole non è morto ancora. Come in ogni anno ha raggiunto il suo punto più basso sull'orizzonte.  Da decine di millenni l'uomo ha avuto paura.  In questo periodo tutto assomiglia alla fine: la fine del sole, la fine del mondo. 

La conferma della rinascita dell'astro della luce, anno dopo anno, trasmessa e confidata, ha innalzato la fiducia umana nella vita, la possibilità concreta del domani e di un eterno ritorno sempre sperabile. 

Ciò che fu chiamato 'natale', abita qui. 

Promessa cristiana e rinnovamento, riti apotropaici, nascita e rinascita hanno lasciato il posto oggi a una confusa mobilità del tutto in-sensata.   

Ci si muove per sentirsi vivi e per poter dire di essere andati da qualche parte. Si spendono soldi, si fanno viaggi, ma soprattutto si va di corsa, questo è l'importante. 

Di corsa, però, non vediamo niente. Il falso movimento rende perfino invisibile il movimento del sole, la sua effettiva ri-nascita, il suo ritorno alla luce.  Alla nostra luce.


Senza luce niente è possibile. 


Non c'è vita, non c'è oggi e non c'è ieri e nemmeno domani. Fermiamoci, dunque, e celebriamo il nostro rito di sempre: osservando il sole, tributando la luce. 




Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 





22/12/13

La modernità - Robert Pogue Harrison.





"Ecco quello che penso," continuò: "Che quando si tratta di essere moderni siamo scolari senza scuola, iniziati senza riti, devoti senza preghiere. Nessuno è stato all'altezza di insegnarcelo, nessuno ci ha insegnato ad aggiornare le nostre vite interiori.

Siamo entrati in quest'era come neonati, urlando e scalciando, e ancora non c'è neppure un adulto in vista. 

Ecco quello che penso: che mentre ci stiamo avvicinando a un nuovo millennio alla velocità della luce, ancora annaspiamo per trovare un capezzolo che ci consoli, e aspettiamo svegli che una mamma venga a darci il bacio della buonanotte.


Ecco a cosa penso: al colossale crollo di nervi. Come si fa a crescere ? Mi aspetto che me lo dicano gli scrittori moderni, e invece non trovo che gemiti e lamenti: un asilo nido per nostalgici e sconsolati. 


Chi di loro ha mai osato sostenere la propria epoca, o andare nella sua direzione ? Che ne sanno davvero della scienza ? Come fai a pretendere di essere uno scrittore moderno senza sapere niente della scienza ? Musil è l'eccezione.  Ha visto nella nostra epoca l'occasione per sperimentare, una sfida a ciò che è ancora indeterminato nella nostra natura, affinché abbracci la precisione del pensiero, l'esattezza, l'analisi, il processo tecnico, meccanico, standardizzato, anonimo - e in questo processo elevi la nostra umanità.

Al diavolo le trasformazioni stilistiche. Musil ha visto la necessità di una trasformazione spirituale, di una metamorfosi delle nostre strutture interne. 

... Malgrado la sua mancanza di talento, ha cercato di insegnarci un paio di cose sul giusto vivere in condizioni nuove, su come modernizzare le emozioni senza comprometterne la densità.  E' un inizio.  E' quanto ci serviva per l'inizio - un inizio, o almeno un monito che ci ricorda che non abbiamo neppure iniziato a fare i conti con noi stessi. 

Non sono forse gli scrittori i soli che possono iniziare l'opera di trasformazione interna ? 

... Il morire ha fatto progressi e noi siamo all'ultimo respiro.  Come dovremmo usarlo ? Per dire cosa ? Niente. Non c'è più niente da dire, eccetto che non abbiamo più niente da dire, e tutto perché coloro che presumono di parlare per noi si sono votati alla denuncia di ciò che conosciamo come reale invece di collaborare con esso, di investirlo creativamente."



Robert Pogue Harrison, Roma, la pioggia... A che cosa serve la letteratura ? Garzanti editore, 1995, traduzione di Stefano Velotti. 

21/12/13

150.000 visitatori per "il Blog di Fabrizio Falconi". Grazie.






Vorrei ringraziarvi per aver tagliato, dopo così poco tempo, e proprio alla vigilia del natale 2013, il traguardo dei 150.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività, anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno. 
Grazie.

Fabrizio

20/12/13

(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (4.)




(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (4.)  

Allo stesso modo di queste cose sorelle, anche Antonia diventa un cero sui fiori d’autunno. La sua vita, brevemente consumata, si rende eterna in un sacrificio di luce.
     Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite, scrive Antonia nel suo biglietto di addio. (8)
     E’ probabile che l’essere vissuta in un periodo così estremo, nel pieno di rivolgimenti drammatici, abbia giocato un ruolo nella sua decisione finale.  Ma, nel mistero di una fine violenta e prematura – che la accomuna a molte poetesse e poeti del novecento, Ingeborg Bachmann, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, e poi Paul Celan, Cesare Pavese, Carlo Michelstaedter – c’è, in Antonia, nella sua intera opera poetica e ancora di più nella sua sofferta esistenza, un soffio di consapevolezza sacra.
     Un sacro – anche qui – che è difficile restringere nei rigidi recinti della liturgia e della confessione ortodossa. La Pozzi infatti non fu mai religiosa praticante, anche se così tante  pagine della sua poesia, delle lettere, e del Diario (9) sono percorse da un febbrile senso e da un altrettanto inquieto bisogno del divino.
      Con Antonio Maria Cervi – fervente cattolico – sarà proprio questo uno dei punti di attrito e di sofferto fraintendimento.
      Tu, tu che mi dici che io non ho niente di sacro… - scrive Antonia a Cervi il 1. marzo del 1932 – oh, è atroce, è atroce che tu mi dica così, perché vuol dire che dove io tengo le mie cose più sacre tu non sei mai, mai penetrato e non hai nemmeno veduto che per me è sacro tutto quello che è sacro per te. (10)
      Per Antonia, questo punto a quanto pare non riesce a capirlo nessuno di coloro che le sono vicini, è difficile – sperimentando le difficoltà di una vita sovrasensibile e mancante di risposte adeguate – ritrovare quel Dio semplice nel quale, “da bambina, aveva insegnato a credere ai piccoli montanari, che scendevano a Pasturo per frequentarvi la scuola, e sul quale era solita intrattenere per ore la Sandra, la sua compagna di giochi, dopo averla aiutata a fare i compiti di scuola, per dare il tempo  a lei, di condizioni non agiate, di badare ai fratellini”. (11)
     Dio può essere abitato e vissuto pienamente soltanto a prezzo di una vita vera, vissuta.  E Antonia, non riesce a viverla pienamente.  Il suicidio che mette in scena è un vuoto pieno di vita, è una vita pienamente raggiunta – per le possibilità che può offrire – e pienamente, dolorosamente abbandonata.
     Ma in una prospettiva intima, segreta, di speranza.
     Soltanto un anno prima di morire,  il 13 maggio del 1937,  e di trasmettere – del tutto inedito – il suo grande lascito poetico che oggi appare più vitale e più ispirato che mai,  scriveva una poesia intitolata Amor fati che appare,  in appena otto versi,  una specie di summa del suo sofferto percorso spirituale :
      
      Quando dal mio buio traboccherai
      di schianto
      in una cascata
      di sangue – 
      navigherò con una rossa vela
      per orridi silenzi
      ai cratèri
      della luce promessa.  (12)


    (4. - fine) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

       

8.      Il cosiddetto Testamento, ovvero il biglietto d’addio di Antonia, contenuto nella borsetta che aveva il giorno del suicidio, è pubblicato in Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita, op. cit. pag. 112.
9.      I Diari di Antonia Pozzi sono pubblicati in Italia da Scheiwiller, Milano 1988.
10.     Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita, op. cit. pag. 47.
11.     Così Onorina Dino in Le lettere di Antonia Pozzi, in L’età delle Parole è finita, op. cit. pag. 125.
12.      Antonia Pozzi, Parole, op. cit. pag. 293.

19/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (3./)





(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (3./)  



Scrive nella occasione di quel viaggio una poesia, intitolata Viaggio al Nord, che termina con queste parole :
    
    Ripudia
    questo sangue il suo sole e le stagioni
    infuriando
    così  sotterra, nella magica notte.  (5)

    Sente, il suo cuore non può non sentire, quello che si prepara. L’odore del sangue che già si sparge sotto il sole.  Anche i suoi migliori amici, come Paolo Treves – che è fuggito a Londra da dove conduce una rubrica per Radio Londra – sono in pericolo, o sono già morti, come Gianni Manzi, compagno d’università molto amato che si è tolto la vita due anni prima, nel 1935.
    Non gli sono di conforto – se non temporaneo – l’amicizia, la fraternità con altri amici poeti, come Vittorio Sereni, le lunghe discussioni sull’arte, quando si accompagnano a casa la sera.  Oppure come  altri coetanei come Luciano Anceschi, Remo Cantoni, Enzo Paci, Maria Corti.
    Divengono più frequenti, alla fine della sua breve vita, le visite alla nonna, Maria Cavagna, e quelle a Pasturo, l’unico posto dove davvero sembra ritrovare un po’ di pace.
    Probabilmente matura lentamente in lei un desiderio di sparire quietamente, e che del resto abita in lei già da tempo.   In una poesia del 1930,  scritta a diciott’anni,  descrive il raccoglimento interiore di una visita in chiesa, e scrive: 
   
    O lasciate che io sia
    una cosa di nessuno
    per queste vecchie strade
    in cui la sera affonda.

    Non domandatemi se prego
    e chi prego
    e perché prego.

    io entro soltanto
    per avere un po’ di tregua
    e una panca e il silenzio
    in cui parlino le cose sorelle –
     poi ch’io sono una cosa –
     una cosa di nessuno
     che va per le vecchie vie del suo mondo –
     gli occhi
     due coppe alzate
     verso l’ultima luce.  (6)

     Quell’ultima luce è in definitiva la luce beata delle montagne, che Antonia conosce bene, che esplora con gli occhi e con l’obiettivo della sua macchina fotografica. Il suo divenire continuo, il suo mutare, il suo non trovare appigli , è il simbolo di una ricerca che non può che incarnarsi nello spirito vitale che la abita e che non trova un abbraccio sicuro, un luogo stabile nel quale trovare pace, se non nell’immagine paziente di una luce ulteriore, irraggiungibile in questa vita.
    
     Abbandonati in braccio al buio
     monti
     m’insegnate l’attesa:
     all’alba – chiese
     diverranno i miei boschi.
     arderò – cero sui fiori d’autunno
     tramortita nel sole.   (7)

     E’ una delle ultime poesie, senza indicazioni di data precisa, nelle quali si individua il sogno di un’altra vita, che possiede lo spirito di Antonia:  l’attesa di quei monti, di quei boschi che diventano chiese.



(3./ segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

18/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (2./)





(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (2./)  

    E’ ben strana una ragazza di diciassette anni che scrive già con questa intensità.  Una ragazza di diciassette anni capace perfino di offrirsi di dare un figlio al professore, perché lo compensi del lutto inconsolabile del fratello – Annunzio Cervi, poeta, caduto in guerra sul Monte Grappa, nel 1918 – e che ne porti lo stesso nome.
   Si direbbe una smisurata capacità di amare.  Che difatti resterà inadeguata, causa di sofferenza, di mancanze  sempre più difficili da sopportare.
   Sì, perché l’amore con il professore, Cervi, non è di quelli destinati a trovare una soddisfazione terrestre: quando il padre di Antonia scopre la tresca, dapprima ottiene il trasferimento del professore a Roma, poi rifiuta la sua proposta di matrimonio, infine fa allontanare la ragazza da Milano, nel luglio del 1932.
   In questi anni di drammatica lacerazione, vissuti con la sensibilità esasperata della giovinezza, Antonia elabora un particolare percorso di maturità, a prezzo di un sacrificio che le appare impossibile da scontare.
   E’ la poesia a salvarla, a riempirla veramente. Nella poesia trova l’unica completezza che le è possibile sperimentare.
   Il 29 gennaio del 1933 scrive a Tullio Gadenz, un giovane amico poeta a cui invia delle memorabili lettere che hanno per argomento principale la bellezza della montagna: Vivo della poesia come le vene vivono nel sangue. Io so cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.   Perché per me Dio è e non può essere altro che un Infinito, si concreta incessantemente entro forme determinate che ad ogni attimo si spezzano per l’urgere del fluire divino e ad ogni attimo si riplasmano per esprimere e concretare quella Vita che, inespressa, si annienterebbe.   Ora Lei vede che un Dio così non si può né chiamare né  pregare né  porre lungi da noi per adorarLo; Lo si può soltanto vivere nel profondo, poi che è Lui l’occhio che ci fa vedere, la voce che ci fa cantare,  l’amore, ed il dolore che ci fa insonni. 
     Io credo che il nostro compito, mentre attendiamo di tornare a Dio, sia proprio questo: di scoprire quanto più possibile Dio in questa vita, di crearLo, di farLo balzare lucendo dall’urto delle nostre anime con le cose (poesia e dolore), dal contatto delle nostre anime tra di loro (carità e fraternità)   (2).
     Antonia riesce a cogliere l’essenza delle cose.  Forse proprio perché non avrà mai delle cose veramente sue: una casa, una vita, un compagno. (3)
     Scrive infatti, in una delle sue poesie più conosciute:
    
     Sulle rovine della mia casa non nata
     Ho sparso
     Cenere e sale. (4) 

In questo spirito errabondo che la pervade,  questa giovane donna riesce ad incarnare meglio di molti, lo spirito del tempo. Di un tempo, difficile, estremo.   La aiutano, a comprendere e a sentire, i numerosi viaggi che intraprende in giro per l’Europa, soprattutto in Germania, paese di cui ama immensamente la lingua.
      Poi la Francia, l’Austria, Vienna, e poi Praga, Budapest.  Le foto, che diventano una specie di ossessione: quelle che Antonia realizza con la sua macchina fotografica – e che parlano quanto e come le sue poesie – e quelle di altri che colleziona nel chiuso dei suoi cassetti. Quando morirà se ne troveranno più di 5000, che andranno a formare un fondo permanente.

     In una di queste foto Antonia è ritratta, all’inizio del 1937, a Berlino, in una giornata di sole, in strada, in piedi accanto ad una grande macchina sul cui parabrezza posteriore è incollata una svastica nazista. Antonia sorride, ma qualcosa nella sua espressione, nel suo portamento tradisce l’inquietudine. Cosa deve aver provato, in quei giorni, così lontana dall’eremitaggio delle sue montagne, in mezzo alla bolgia inebriante e folle della Germania che si preparava ad incendiare il mondo ? 

(2./ segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

      
2.     Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita, pag.53
3.     Così Alessandra Cenni nella prefazione al volume L’età delle parole è finita, pag.12
4.     E’ la poesia Lamentazione.  Questo, come tutti gli altri testi poetici della Pozzi contenuti in questo capitolo sono tratti dal volume antologico: Antonia Pozzi, Parole, Garzanti, 1989. 

17/12/13

(Dieci grandi anime) - 4. Antonia Pozzi (1./)






Pubblico come ogni mese, il profilo di una grande anima da me riscritto.  Oggi la prima puntata e a seguire nei prossimi giorni le altre. 


(Dieci grandi anime) - Antonia Pozzi (1./)


     

Signore tu lo senti
ch’io non ho voce più
per ridire
il tuo canto segreto.
Signore, tu lo vedi
ch’io non ho occhi più
per i tuoi cieli, per le nuvole tue
consolatrici.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te
ch’io riviva.

Perché tu sai, Signore,
che in un tempo lontano
anch’io tenni nel cuore
tutto un lago, un gran lago,
specchio di Te.
Ma tutta l’acqua mi fu bevuta,
o Dio,
ed ora dentro il cuore
ho una caverna vuota,
cieca di Te.

Signore, per tutto il mio pianto,
ridammi una stilla di Te,
ch’io riviva.

   E’ una poesia – Preghiera -  che Antonia Pozzi scrisse il 20 Ottobre del 1932. Antonia è all’epoca una studentessa universitaria, all’Università Statale di Milano, ha appena vent’anni. La sua giovane vita sta per spezzarsi. Succederà appena sei anni dopo, alla periferia di Milano, in un prato innevato di fronte all’Abbazia di Chiaravalle.  E’ il 3 dicembre del 1938, poche settimane prima Hitler ha iniziato l’occupazione dei Sudeti e in Italia sono state promulgate le leggi razziali. Antonia ha ingerito barbiturici.  Il suo corpo viene ritrovato da un passante.  Nella borsetta, c’è un messaggio di addio indirizzato alla mamma e al papà. Si conclude con queste parole: Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete perché sono in pace.
   Il suicidio viene subito archiviato come uno dei molti di quegli anni bui, in cui la guerra torna a gravare ancora più spaventosamente sul mondo: è soltanto una studentessa che ha deciso di farla finita, Antonia del resto non ha pubblicato fino a quel giorno nemmeno un rigo delle sue poesie. 
   Eppure, proprio a partire da quella morte, avvertita come una vergogna dalla famiglia – il padre, stravolto dal dolore incenerisce perfino il biglietto di addio, ricostruendolo solo più tardi, a memoria – e da un ambiente -  quello della cultura fascista - che non ha molto in simpatia chi sceglie di suicidarsi,  l’opera di Antonia, scritta in soli nove anni, diventa un classico del Novecento poetico italiano, con continue pubblicazioni e studi critici, fino ai giorni nostri. 
   Non è difficile comprendere perché.  Già il testo che abbiamo riportato qui - la Preghiera - dice molto sullo spirito di questa donna, e forse bisognerebbe leggerla più volte, per apprezzarne le sottili sfumature. 
   Che Antonia fosse dotata di una sensibilità fuori dal comune era stato chiaro sin dall’inizio, sin dai suoi anni giovanili.
   Nata in una famiglia di antico lignaggio -  il padre è un’importante avvocato milanese e la madre è la contessa Lina Cavagna Sangiuliani – trascorre l’infanzia e l’adolescenza dapprima nelle grandi ville della nonna materna, a Bereguardo e a Carate Urio, poi nella splendida casa milanese di via Mascheroni.  I periodi di vacanza l’intera famiglia si trasferisce invece a Pasturo, in Valsassina, dove i Pozzi hanno comperato una dimora del Settecento,  Villa Marchiondi, ai piedi delle Grigne, in provincia di Lecco.
   Ad Antonia viene assicurata l’educazione migliore di una famiglia benestante: pianoforte, lo sport - sci, nuoto, equitazione-  l’arte applicata - il disegno e la scultura – le scuole migliori. 
   Ma questa perfezione non si addice o non completa comunque una personalità già teneramente inquieta, già alla ricerca di qualcosa di indefinito, che preme, che vuole uscire, che non si accontenta.
   Si iscrive al Liceo classico Manzoni, di Milano, uno dei più prestigiosi, studia con profitto – imparandole alla perfezione – tre lingue straniere: tedesco, francese, inglese.  Ha la fortuna di avere un brillante professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi.  L’uomo è molto più grande di lei.  Eppure nasce un intenso, profondo e drammatico legame.   Un legame che verrà bruscamente spezzato per lo scandalo che ne consegue e che segnerà profondamente tutta la sua esistenza fino alla morte.
 E’  terribile essere una donna e avere diciassette anni, scrive Antonia in una lettera al professore, all’inizio della loro relazione, il 13 luglio del 1929, al ritorno di un viaggio, dentro non si ha che un pazzo desiderio di donarsi.  Che cosa è un ritorno ? Una cosa che per qualche ora  scioglie i duri groppi che separano l’oggi dall’ieri e fonde il passato e il presente con sicurezza fresca, dove il male non ha luogo. (1) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.     I brani delle lettere citati in questo capitolo sono tratti dal volume: Antonia Pozzi, L’età delle parole è finita – Lettere 1927-1938  Rosellina Archinto Editore, Milano, 1989. 

16/12/13

Non perdersi più.






Quasi nessuno riesce ad imparare la lezione da quel che vive, la lezione di quel che vive. 

Lo si capisce e lo disimpara subito, perché la vita ci chiama altrove a indossare altri panni che non sono i nostri. Li hai trovati e hai pensato che fossero buoni per proseguire. 

Invece nessun indumento ti può proteggere. 

Il freddo e il sonno, l'essere qui e il perché. La disinformazione che hai ricevuto, le istruzioni sbagliate che ti hanno dato e non portano da nessuna parte. 

Perduto, accenderai un fuoco.  Ma non basta, e sussulti come un demonio nella notte per darti respiro, per cercare una via d'uscita, ma la via d'uscita non c'è. 

La vita è legame fatto di niente, fortissimo più della morte.   Ma da solo non riesci a far nulla e l'orgoglio non aiuta e non basta. 
Torni indietro, dirimi un senso, ti svegli nella notte e ricominci all'alba come un uccello sopravvissuto all'inverno. Non trovi requie.

Arriva il giorno dell'abbandono. Come carta invecchiata si sfalda il muro che hai costruito con tanta pazienza intorno a te stesso.  In un minuto sei fuori e ti senti perduto, di nuovo.

Solo che stavolta il mondo si è rischiarato, ha smesso perfino di piovere e avverti l'odore dell'erba che non vedi. 

Hai voglia di distenderti, osservi le nubi in transito e sono bianche. 

Hai imparato: è talmente difficile trovare, che quando si è trovato non si deve perdere.  Se sei riuscito a dare amore, tieni stretto il tuo incontro.  Portalo per il resto della tua vita, non distrarti non fare come tutti, non crederti inutile, non spargere altra inutilità. Coltiva l'albero finché esso non ti sopravviva. E l'albero che hai piantato e che ti è sopravvissuto sarai tu stesso, che l'hai piantato e che gli hai concesso, con cura, di sopravviverti. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.