17/04/13

Restaurati i graffiti di NOF4, il paziente del manicomio di Volterra che decorò 150 metri di parete con una fibbia.




Preservare e far conoscere al mondo l"arte del matto', impressa, in tanti anni di degenza, sui muri del manicomio di Volterra. Con questo obiettivo e' stata distaccata e restaurata una parte del grande graffito, considerato uno degli esempi piu' significativi di 'Art Brut', realizzato su due muri esterni dei padiglioni dell'ex ospedale psichiatrico Poggio alle Croci di Volterra da Fernando 'Oreste'Nannetti (Roma 1927-Volterra 1994), in arte Nof4, che in totale dipinse 150 metri di pareti.


Il progetto di conservazione e' stato illustrato dall'assessore toscano alla cultura Cristina Scaletti insieme al Comune di Volterra e all'associazione Onlus 'Inclusione Graffio e parola'. Utilizzando la fibbia della sua divisa come una sorta di 'matita di ferro', Nannetti - che entro' nel manicomio di Volterra nel 1958 - volle cosi' lasciare un suo segno di vita, raccontando se' stesso, le sue visione del mondo, la sue fantasie astrali e deliranti osservazioni ma anche la voglia di rivedere la sua citta' natale e una famiglia che praticamente non conobbe ne' visse mai.


Dell'opera e del suo autore parla anche Antonio Tabucchi definendo, in un articolo, il graffito come un "libro di pietra". Quella distaccata e restaurata e' solo una piccola parte, circa 8 metri, del grande graffito che versa pero' in un cattivo stato di conservazione a causa dell'abbandono della struttura, chiusa dal 1978. 

Il complesso oggi e' oggetto di un progetto di recupero per ospitare unita' residenziali e ricettive e anche un museo della memoria che in futuro ospitera' le parti restaurate dell'opera di Nof4. 

Il prossimo weekend le parti restaurate saranno invece visibili al pubblico presso la Pinacoteca di Volterra. Il primo ad accorgersi dell'opera di Nannetti, e' stato stato Mino Trafeli, professore dell'istituto d'arte di Volterra che nel 1980 vide e comprese il valore del graffito. All'opera, nel 1981, dedico' un libro anche l'ultimo direttore dell'istituto psichiatrico. 

Negli anni piu' recenti alla riscoperta dell'opera si e' adoperata l'associazione 'Inclusione Graffio e parola', con l'aiuto anche del cantante Simone Cristicchi. Nel 2011 il museo de l'Art Brut di Losanna (Svizzera) ha invece presentato una grande retrospettiva su Nannetti, grazie a 23 fotografie di grande formato sul suo "libro graffito". 

16/04/13

Boston - Requiem per il piccolo Martin.





Si chiamava Martin Richard il bimbo di 8 anni morto nell'attentato alla maratona di Boston. Martin era un bimbo di Dorchester, quartiere residenziale circondato dal verde, qualche chilometro a sud del centro della città. Il piccolo, figlio di un maratoneta, era corso al traguardo per abbracciare il padre, William, che si stava approssimando alla linea d'arrivo. Una giornata radiosa, una festa di famiglia, fino all'esplosione di quella bomba riempita di con cuscinetti a sfera e schegge di ferro. Progettata per stravolgere la fisionomia di una città parata a festa. Tra le 140 persone ferite nell'esplosione ci sono anche la sorellina di Martin - che secondo la stampa americana avrebbe perso una gamba - e la madre, Denise.

Questo è il requiem che vorrei dedicare a questa giovane anima pura, che ha abbandonato le miserie di questa vita. 




14/04/13

Annapaola Cancogni, ovvero Quentin Clewes: 'Lei', un libro straordinario.






Ci sono scrittori da cento libri.  Scrittori bulimici, la cui opera somiglia alla pianta della mangrovia, che attecchisce nelle paludi con il clima umido e si ramifica all'infinito, senza soluzioni di continuità.

Ci sono scrittori, invece, la cui opera è fragile come un fiore notturno, che la mattina è già appassito e il suo profumo intenso ha inebriato così intensamente l'aria da permanere a lungo nonostante la sua brevissima vita. 

E' il caso dell'opera di Annapaola Cancogni, la figlia del grande Manlio Cancogni, morta a soli cinquant'anni nel 1993 a New York, dove viveva e insegnava letteratura italiana, traduceva (Eco, Pontiggia), scriveva saggi.

La morte prematura di Annapaola svelò all'epoca un'autore vero, raffinato e pienamente formato. 

Un solo romanzo scritto  e pubblicato - Jetlag. 

Più quattro straordinari brevi racconti, che nel 1998 furono pubblicati in Italia dall'editore Fazi - con testo inglese a fronte - per l'iniziativa meritoria di Simone Caltabellota.



Il libro si intitola Lei, ed è firmato con lo pseudonimo maschile di Quentin Clewes.

E, come scrisse Giulia Borgese per il Corriere della Sera, in questi racconti si sente un'aria di autobiografia: nel primo, Lapsang Souchong, il giovane uomo che e' l'io narrante parla della ragazza arrivata chissa' da dove: La prima volta che la vidi mi parve uno di quei gigli bianchi dal collo lungo che si slancia in su e poi s'arriccia agli orli. Ma sbagliavo. Per un giglio, era troppo riservata... Aveva il collo lungo e orgoglioso del giglio ma insieme la modestia e la dignita' della fresia

Un chiaro indizio di quell'interesse per la duplicita' (maschile/ femminile; il giglio/la fresia), che viene rinforzato da questo altro passo: Rammentava come a quattordici anni, infastidita del fatto che l'identita' delle persone fosse per forza determinata da qualcosa di relativamente irrilevante come il loro sesso, aveva deciso che da quel momento in poi sarebbe stata "it".

Un tentativo cioè inedito di uscire dalla terza persona, da "she" e da "he", dall'essere per forza "lei" o "lui", per ritrovare - o almeno tentare di ritrovare - l'io.

Ma a parte questo, i quattro racconti in questione: Salammbo, Erie-Lackawanna e Lei, sono autentici gioielli di sintetica forza emotiva espressi in uno stile limpido ed essenziale che incide e tocca lasciando il segno. 

Si pensa ad Alice Munro, si pensa a Anne Tyler, ma si pensa anche ai grandi maestri del racconto breve, a Fitzgerald o all'immenso Maupassant.  

Eppure, il fiore Annapaola ha seminato il suo profumo nell'aria soltanto per una notte...

Fabrizio Falconi. 

13/04/13

Si nasce soli, si vive insieme, si muore soli. .. O no ?






Il pensiero contemporaneo - quel che ne rimane, spappolato in mille apps, in mille rivoli, in mille frammenti - sembra non volerci convincere altro che di questo: Si nasce soli, si vive insieme, si muore soli.

E' la nostra condizione umana, viene asserito. 

Ma è proprio così? Nasciamo soli ? Se nascere soli vuol dire che nel trapasso dalla non-vita alla vita, cioè nel momento del parto siamo soli (l'avventura è da soli), non è propriamente vero. Anzi: non è vero in senso assoluto.   Quando un bambino nasce, non nasce solo. Nasce propriamente dal corpo stesso della madre. Vive dapprima una vita segreta nel corpo della madre e quando viene al mondo lo fa attraverso la partecipazione stessa del corpo della madre. 

Viviamo insieme ?  Indubitabilmente sì.  Sembra che per nessuno sia possibile vivere completamente solo. L'uomo è un animale sociale, anzi l'animale sociale per eccellenza. Ciò che gli ha permesso di dominare il pianeta è esattamente questo.  Per quanto siano esistiti uomini che hanno scelto la solitudine o l'eremitaggio, nessun uomo ha vissuto mai la sua intera vita isolato, da solo. Solo nella socialità, nei rapporti umani, nella parentela, nella cura, nell'amore, nella generosità, nell'amicizia, ma anche nella guerra e nell'antagonismo, l'uomo ha realizzato la sua indole, la sua missione su questa terra. 

Moriamo soli ? Se per questo si intende che ogni uomo è chiamato a compiere in prima persona il trapasso dalla vita senza poterlo condividere con altri, non c'è dubbio che ciò è profondamente vero. 

La morte sembra essere l'elemento connaturale di ogni vivente. (Anche se oggi sappiamo che esistono forme di vita quasi eterne, nella profondità dei ghiacci antartici o nelle viscere degli oceani o della terra, che esistono immutate nella loro costituzione da milioni e milioni di anni).

Ma cosa è la morte ? E cosa ne sappiamo esattamente ?  Ogni cosa in natura - e nelle grandi leggi della fisica e dell'astrofisica moderne - ci insegna che nulla sparisce definitivamente - o si annichilisce, nel linguaggio della fisica - ma tutto si trasforma.  In qualcos'altro.  Siamo abituati a pensare in forma di individuazione, di forma. Ma nella vita universale l'energia, i moti, e soprattutto le relazioni tra oggetti sono molto più importanti degli oggetti stessi. 

E' la relazione, il rapporto, che determina tutto. 

Pensiamoci. 

Pensiamoci anche quando l'istinto - se non altro verbale - ci suggerisce che dopo una nascita da soli - almeno nella individualità del trapasso alla vita - e dopo una vita insieme e una morte da soli, si potrebbe concludere la sequenza affermando che si ri-nasce insieme.  

Fabrizio Falconi


10/04/13

Edouard Manet: Grandi Eventi a Londra e a Venezia.





Padre dell'arte moderna, ispiratore di tanti a cominciare da Cezanne, Matisse, Picasso, Edouard Manet e' protagonista di grandi mostre da Londra a Venezia e al cinema, con l'evento di domani Manet: ritratti di vita che inaugura Exhibition, la serie di tre film dedicati a maestri dell'arte che in contemporanea mondiale permetteranno agli spettatori di visitare idealmente importanti esposizioni.

Alla Royal Academy di Londra, la mostra Manet: Portraying life, acclamata dai critici, chiudera' il 14 aprile ma una visita guidata, commentata, ricca di suggestioni, sulle note di Chopin e di Schumann viene proposta dal film che domani alle 20 in Italia (elenco delle sale su www.nexodigital.it) e in tante altre nazioni dall'Inghilterra all'Argentina fara' entrare nel cuore della mostra londinese attraverso il grande schermo, con la guida dello storico dell'arte Tim Marlow e dei curatori della mostra, MaryAnne Stevens e Larry Nichols. 

 Per una mostra che si chiude, pochi giorni dopo un'altra che si apre ancora su Manet. Manet Ritorno a Venezia e' il titolo dell'esposizione che aprira' il 24 aprile (fino al 18 agosto) nelle monumentali sale di Palazzo Ducale, progettata con la collaborazione speciale del Musee D'Orsay di Parigi, l'istituzione che conserva il maggior numero di capolavori di questo straordinario pittore, alcuni dei quali usciranno per la prima volta dal museo francese. Le due esposizioni fanno percorsi diversi. 

Quella di Londra, tra gli eventi d'arte piu' importanti del 2013, e' un viaggio tra le tele ma anche nella vita di Manet e del suo tempo: dalle esposizioni ufficiali al Salon dei Refuses, dalla passione per il Giappone a quella per i boulevard parigini di Haussmann, dalla pittura di Couture ai temi innovativi di Courbet attraverso la fascinazione per la cultura spagnola, dall'attenzione per gli elementi naturali a quella per la vita cittadina, rivoluzionata dalle novita' tecnologiche e dall'avvento della fotografia, dalla poesia di Baudelaire e di Mallarme' alla prosa di Zola, dall'amicizia con Antonin Proust a quella con Monet. 

Quella dei Musei civici a Palazzo Ducale riserva sorprese: approfondisce i modelli culturali che ispirarono il giovane Manet negli anni del suo precoce avvio alla pittura, evidenziando che, diversamente dagli studi fino ad oggi quasi esclusivamente riferiti all'influenza della pittura spagnola sulla sua arte, questi modelli furono invece assai vicini alla pittura italiana del Rinascimento. 

Cosi' nell'esposizione veneziana accanto ai suoi capolavori si vedranno alcune eccezionali opere ispirate ai grandi tableaux della pittura veneziana cinquecentesca, da Tiziano a Tintoretto a Lotto in particolare. 

Curata da Stephane Guegan, con la direzione scientifica di Guy Cogeval e Gabriella Belli, la mostra si propone come un autentico evento. In sala dopo il film su Manet alla Royal Academy, il ciclo Exhibition, distribuito in Italia da Nexodigital, proseguira' con Munch 150 dal Museo Nazionale e dal Museo Munch di Oslo, giovedi' 27 giugno alle 20.00 e Vermeer e la musica: l'arte dell'amore e del piacere, dalla National Gallery di Londra, giovedi' 10 ottobre alle 20.00. 

09/04/13

Intervista a Peter Greenway: "Sto pensando a un film sul "Figlio di Maria" "




"Oggi abbiamo una nuova Trinita': cellulare, cinepresa e computer portatile. Stiamo solo aspettando che le grandi case le diano una nuova forma, ma e' dietro l'angolo. E poi 'Star Wars', 'Avatar', 'Titanic' sembreranno qualcosa di vecchio, del secolo scorso". 

A parlare, sotto la volta affrescata del Trionfo della divinita' di Pietro da Cortona, e' Peter Greenaway, il regista che più al mondo ha saputo mettere in movimento le opere d'arte, da Leonardo da Vinci a Rembrandt (con La Ronda di notte che ha ispirato il suo 'Nightwatching'), ospite della rassegna Il gioco serio dell'Arte promossa da Lottomatica a Palazzo Barberini. 

Un incontro, condotto da Massimiliano Finazzer Flory, che diventa insieme uno spettacolo e una coltissima lezione del regista che molti definiscono "un pittore su celluloide" e che, rivelera' all'ANSA, sta pensando a un film sul "figlio di Maria". 

"Io sono fortunato a poter ancora dipingere, ma c'è un'inevitabile continuita' tra pittura e cinema - esordisce il regista - Da Pompei ad 'Avatar', e' la stessa attività, solo con differenti tecnologie". 

A dimostrarlo, nove grandi capolavori, da L'ultima cena di Leonardo alle Nozze di Cana di Paolo Veronese, che Greenaway ha moltiplicato, scomposto, illuminato, animato, fino a trasformale in un piccolo film, davanti a una platea che forse poco capisce del digitale, ma ne rimane estasiata come davanti a un Giudizio Universale di Michelangelo. 

"Oggi il montatore e' il vero re del cinema", prosegue Greenaway, che per vent'anni si e' occupato di montaggio prima che di regia. "Con le nuove tecnologie - spiega - e' lui che puo' creare, trasformare le immagini. Il 3D? Non sono un gran devoto, non credo abbia molto da aggiungere al cinema. E' un fenomeno piuttosto effimero". 

Piuttosto, il futuro del cinema dovrebbe affrancarsi dal legame troppo stretto con la parola ("una delle grandi bestemmie e' il suo rapporto con la letteratura: andiamo a vedere storie che in realtà sono romanzi del XIX secolo, da Jane Austin a Flaubert e Zola") e puntare a inglobare l'esperienza dello spettatore. "'Anche 'Avatar' di James Cameron - dice - e' limitato perché proiettato su schermo piatto e non su uno schermo che circonda architettonicamente lo spettatore, come già avevano intuito artisti italiani come Botticelli e Michelangelo". Ironicamente critico sulle sue origini ("Io vengo da un'isola ventosa e protestante. I Britannici sono antibarocchi, nel senso che sono sospettosi nei confronti degli eccessi e dell'immaginazione. Truffaut diceva che non si puo' essere sia cineasta che inglese") come su un'icona apparentemente intoccabile come Margareth Thatcher che a poche ore dalla morte non esista a definire una donna "stupida, malvagia, diabolica, che ha fatto danni enormi all'Inghilterra", Greenaway usa le nuove tecnologie come il suo più tradizionale pennello, pur restando saldamente ancorato nei suoi racconti agli archetipi di eros e thanatos, al centro anche del suo ultimo film, Goltzius and the Pelican Company.

"Sono provocatorio - risponde - ma il sesso e la morte sono le due attività primarie che coinvolgono ogni essere su questo pianeta. Il resto cambia, ma queste no e non puoi controllarle. Questo mi affascina". 

E i prossimi progetti? "Sto lavorando al remake di 'Morte a Venezia' - rivela a margine dell'incontro all'ANSA - In autunno girero' invece il film dedicato al regista piu' grande di tutti i tempi, Sergej Eisenstein, e molto presto un altro sul pittore austriaco Oskar Kokoschka. E poi ci sara' Joseph. Ha presente 'Rosemary's baby' di Polansky? Beh, io penso a un Mary's baby".

di Daniela Giammusso per ANSA

07/04/13

La poesia della Domenica - 'La china' di Paul Celan.




La china


Tu vivi presso di me, uguale a me:
come un sasso
nella guancia scavata dalla notte.

Oh questa china, amore,
dove senza posa, pei rigagnoli,
come sassi,
rotoliamo.
Più e più rotondi.
Più simili. Più estranei.

Oh quest'occhio ebbro,
che in questi stessi luoghi va errando
e su di noi insieme posa
talvolta lo sguardo e si stupisce.



Paul Celan,  da Di soglia in soglia,  Einaudi 1996, traduz. di Giuseppe Bevilacqua, pag. 66.


Die Halde                                                                                       
   

      Neben mir lebst du, gleich mir:
      als ein Stein
      in der eingesunkenen Wange der Nacht.
      O diese Halde, Geliebte,
  5  wo wir pausenlos rollen,
      wir Steine, von Rinnsal zu Rinnsal.
      Runder von Mal zu Mal.
      Ähnlicher. Fremder.
10 O dieses trunkene Aug,
      das hier umherirrt wie wir
      und uns zuweilen
      staunend in eins anschaut.


Paul Celan(1920 – 1970)



05/04/13

La splendida Mole Antonelliana di Torino compie 150 anni.




Alla Mole Antonelliana ho dedicato uno dei capitoli del nuovo libro, Monumenti Esoterici d'Italia, in uscita tra poche settimane in tutte le librerie.  La celebre, bellissima Mole compie proprio in questi giorni, 150 anni di vita. 

Osservando il solido monumento che da oltre un secolo simboleggia Torino, pochi immaginerebbero che subito dopo essere stata ultimata la Mole Antonelliana fosse sul punto di crollare. 

Il Comune aveva fatto predisporre un piano di evacuamento della zona e tentato di puntellare l'edificio, che aveva retto fino al consolidamento in cemento armato realizzato negli anni Venti del Novecento. 

 Lo ha raccontato l'architetto Gianfranco Gritella, responsabile dell'ultimo restauro, un cantiere di otto anni che ha trasformato la mancata sinagoga commissionata dalla comunita' ebraica torinese il 7 aprile 1863 nell'attuale sede del Museo Nazionale del Cinema. 

In occasione dei 150 anni, la Mole e' al centro di numerose iniziative, a partire da uno speciale di Bell'Italia illustrato questa sera a Torino dal direttore del magazine Emanuela Rosa-Clot. All'appuntamento anche l'assessore alla Cultura del Comune, Maurizio Braccialarghe, e lo scrittore Giuseppe Culicchia, che al monumento ha dedicato il suo ultimo libro Badabum, in uscita da Feltrinelli. 

E' un monologo di 150 pagine in cui Antonelli, ossessionato dalla contemporanea costruzione della Tour Eiffel a Parigi, rivela come prevarico' la committenza ebraica per realizzare l'ardita architettura che da allora segna lo sky-line torinese. Per Rosa-Clot, la Mole Antonelliana e' ''l'icona stravagante di una citta' altrettanto originale: poco italiana, paradossalmente - anche se da qui e' partita' l'Unita' nazionale - e molto europea''. 

Ed e' stato proprio per non superare i suoi 167,5 metri, che Renzo Piano ha dovuto fermare al di sotto di quell'altezza il nuovo grattacielo che sta costruendo a Torino. L'edificio, ha ricordato Gritella, avrebbe dovuto ospitare la sinagoga, un asilo, dei negozi e perfino una stazione di posta. Il progetto approvato dagli ebrei torinesi prevedeva una costruzione di 47 metri. Ma quando fu chiaro che Antonelli ignorava i committenti e si spingeva sempre piu' in alto, la comunita' ebraica si rifiuto' di continuare a pagare. Della Mole dovette cosi' farsi carico il Comune di Torino mentre l'architetto, ormai novantenne, si faceva issare in una cesta tirata da carrucole per seguire da vicino i lavori. 

 Oggi la Mole viene scalata dall'esterno da Maurizio Puato, che per un intero anno vi si appese allo scopo di monitorarne la salute in occasione dell'ultimo restauro. E' lui che ha montato il 'collare' tricolore che ha cinto la base della guglia nel 2011, lui che ha realizzato le fotografie che illustrano il servizio di Bell'Italia. 

E' ormai conosciuto come 'lo scalatore della Mole', tanto da essere diventato il protagonista di un fumetto di Espress Edizioni nel quale gli fanno scoprire un diario del maestro, in realtà inesistente.

''La Mole - sostiene l'alpinista - e' come una montagna, dalla cupola in su e' fatta di granito e pietra di Luserna. Sono certo che Antonelli nel progettarla si sia ispirato al Monviso, che le svetta di fronte''. Per chi volesse tentare una scalata meno pericolosa, e' in programma l'apertura al pubblico entro la prossima estate di una parte dell'edificio finora rimasta occulta, l'intercapedine con scala interna che sale dal livello terra fino in cima alla cupola. Da quel punto verso l'alto nessuno e' ammesso, anche se l'affilata guglia e' stata ricostruita molto solidamente dopo il crollo avvenuto nel 1954 durante un temporale.

04/04/13

Somerset Maugham e Alister Crowley, la "Bestia": un incontro ad alta tensione.





E' circondato da un alone di mistero - ma molto affascinante - l'incontro che ebbe luogo, un certo giorno del 1906 a Parigi, tra uno dei più grandi scrittori del novecento, William Sumerset Maugham, autore di libri famosissimi come Il filo del rasoio, Schiavo d’amore, La luna e sei soldi e Aleister Crowley, detto La Bestia, il grande occultista (e satanista). 

Nella capitale francese Maugham era nato, nel 1874 e ad essa era tornato dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorsa in Inghilterra, dove era stato allevato dallo zio, un pastore protestante e dopo aver peregrinato per mezza Europa. 

A Parigi, dunque, Maugham – che è sempre divorato da una fame incontenibile di incontri e di scoperte di caratteri umani, vero serbatoio per la sua ispirazione – incontra, in un noto caffè - Le Chat Blanc in rue d’Odessa – quell’Aleister Crowley, di cui ha già sentito molto parlare negli scandalizzati salotti della ville lumière: forse soltanto un abile ciarlatano dalla conversazione fin troppo brillante, provocatore, irriverente, vagamente minaccioso, dall’aspetto inquietante, calvo e con occhi magnetici che sembrano in grado di trapassare l’interlocutore.  


Anche Crowley ha trovato a Parigi terreno fertile: nella capitale francese l’occultismo sembra essere diventato una nuova moda, dopo la pubblicazione di un libro maledetto, firmato da Joris-Karl Huysmans, Là-bas, ovvero L’abisso, pubblicato nel 1891, testo che aveva messo a soqquadro i salotti buoni di Parigi con la sua minuziosa descrizione di una messa nera. 

Non sappiamo esattamente cosa accadde in quell’incontro: Maugham, incuriosito da Crowley e da quel che si racconta su di lui, dai trucchi (o quelli che vengono ritenuti tali) che usa per spaventare gli ospiti durante le sue serate parigine, ne ricava sicuramente una impressione negativa, di totale repulsione, pur avvertendone, evidentemente, le doti carismatiche. 

Usa Crowley, plasma completamente su di lui il personaggio di Oliver Haddo, il protagonista del suo nuovo romanzo The Magician, il Mago, pubblicato qualche anno più tardi, nel 1908. 

Uno strano romanzo, nel quale Maugham descrive la discesa agli inferi di una giovane donna, Margaret, promessa sposa di un medico, abbandonato per fuggire con il ripugnante Haddo e precipitare con lui là bas, nell’abisso per l’appunto. In The Magician, Maugham esplora i misteri della psiche umana e del male, annidato nell’anima di alcuni uomini, capace di contagiare chiunque e di proliferare come le cellule malate di un organismo. 

Crowley, all’uscita del libro, quasi si compiace di tanta attenzione, al punto di scriverne la recensione sulle pagine di Vanity Fair, firmandosi proprio con il nome di Oliver Haddo. 

Su quel romanzo poi, la Grande Bestia, tornerà ancora più tardi: nei suoi libri e nei suoi diari si vanterà di essere l’autore di molte delle frasi che Maugham ha usato nel suo libro e accuserà lo scrittore di averlo tradito, insultandolo e accusandolo di aver costruito un artificioso pasticcio di materiale rubato. 

Ciò che comunque aveva interessato Maugham, era proprio la capacità di Crowley di plagiare i suoi adepti, un fenomeno non nuovo nella storia, ma certamente moderno nelle modalità – le stesse che gli valsero le accuse, in Sicilia su quel che di scandaloso si svolgeva nelle stanze della Abbazia di Thelema - precursore di molte di quelle sette, esoteriche o parareligiose, che vedremo poi proliferare in tutto il Novecento, in Occidente.

© Fabrizio Falconi

02/04/13

La Necropoli Vaticana - (Dieci Luoghi dell'Anima).


       


Ieri un Papa - Papa Francesco/Bergoglio - è per la prima volta sceso all'interno della Necropoli Vaticana, e ha sostato in preghiera di fronte alla tomba dell'apostolo Pietro, nel luogo dove - secondo le acquisizioni archeologiche di M.Guarducci e altri - sono custodite da due millenni le sue ossa.  Riporto qui un brano dal capitolo che ho dedicato alla Necropoli Vaticana nel volume 'Dieci Luoghi dell'Anima'  (Cantagalli - 2009).

  L’esperienza di discendere nella Necropoli, sotto la Basilica, è una esperienza raccomandabile se si vuole capire meglio l’origine della fede cattolica, proprio perché – come scriveva Maria Zambrano – Roma non è soltanto viva e divoratrice, a Roma i morti parlano.  Ma non è impresa facile: i recenti restauri e i continui scavi hanno indotto i responsabili della Fabbrica (di S.Pietro) a limitare gli accessi a un numero di persone al giorno che non supera le poche centinaia. E considerando che le richieste arrivano da tutto il mondo, può anche capitare di aspettare mesi e mesi, prima che si offra la possibilità di visitare il sotterraneo.
           Quando accade, si è accompagnati da una guida autorizzata e da un gruppo che non supera le venti unità.  Si accede al piano degli scavi da una entrata laterale, sul fianco sinistro della basilica, proprio di fronte alla lapide interrata che ricorda il luogo esatto dove si ergeva l’obelisco neroniano, prima dello spostamento cinquecentesco.
           Per entrare nel corpo della basilica si attraversa un pertugio che fora il muro perimetrale della basilica, spesso diversi metri.   Poi si scende una ripida scala, fino ad una doppia porta a vetri elettrica che mantiene sigillato l’ambiente della necropoli. 
           Uno alla volta, in fila indiana, si entra trovandosi subito di fronte il primo dei mausolei, quello degli Aebutii.
           A questo punto ci si trova a circa 9 metri al di sotto del pavimento della Basilica Odierna, e circa 4 metri sotto il piano delle Grotte Vaticane, che è ad esso sottostante. 
           La ricostruzione delle vicende storiche che portarono alla scoperta e alla restituzione della Necropoli è – come ho già scritto – appassionante, e composta di diverse fasi. Perché se è vero che l’impulso definitivo e sistematico agli scavi venne dato nel secolo scorso da Papa Pacelli, in realtà sondaggi estemporanei al di sotto della Basilica erano stati fatti più volte nel corso dei secoli, specialmente in occasione della costruzione della nuova Basilica nel Cinquecento, che sostituì quella costantiniana.
          E in una di queste perlustrazioni, attraverso di un buco grezzo nel pavimento delle Grotte, si era intravista proprio una porzione del Mausoleo M, quello di Maximus e di sua moglie Iulia.  
            Era esattamente il 1547. E si lavorava alla realizzazione di un piccolo portico davanti all’altare maggiore dell’antica San Pietro. Da un anno architetto della Basilica era stato nominato Michelangelo Buonarroti.
            Il primo ritrovamento del sepolcro degli Iulii avvenne per opera di Tiberio Alfarano, chierico beneficiario di San Pietro, di origini calabresi, archeologo, letterato ed architetto che in undici anni realizzò una monumentale opera, il De Basilicae Vaticanae antiquissima structura, dove con certosina passione annotò minuziosamente ogni arredo, epigrafe, lapide, fregio o iscrizione contenute all’interno della Basilica, accumulate nel corso di più di un millennio di vita.
           Alfarano, dunque,  descrisse anche cosa era stato ‘visto’, mentre si scavava per trarre la fondazione di quel portico: un antichissimo sepolcro, decorato riccamente, con una epigrafe sepolcrale – oggi purtroppo perduta – che doveva trovarsi sopra la porta d’ingresso, ed era appunto proprio quella che faceva menzione dei coniugi Iulii e del loro figlio prematuramente scomparso.
           Per giungere oggi al Mausoleo M, bisogna invece seguire il percorso indicato dalla guida, che si snoda lungo la fila dei sepolcri (ciascuno contrassegnato da una lettera dell’alfabeto) ancora oggi allineati, com’erano all’origine, prospicienti un antico vicus divisorio,  che doveva essere, all’epoca del suo interramento,  lungo centinaia di metri .
           E’ bene non dimenticare infatti, la guida lo ricorda ai visitatori, che la Necropoli oggi restituita alla luce, e quindi scavata,  è soltanto una piccola porzione di quella che esisteva fino al IV secolo dopo Cristo. Originariamente, i sepolcri correvano a valle, fin quasi al Tevere, e ancora oggi molto ci sarebbe da scavare, al di sotto dell’attuale Piazza San Pietro e  di Via della Conciliazione.
           Il Mausoleo M è, come detto, il più piccolo tra quelli visitabili, e per accedervi, o meglio, per poterlo osservare da vicino, i visitatori devono entrare uno alla volta in uno stretto cunicolo, dal soffitto assai basso, che termina davanti ad una vetrata.
           Si ha modo soltanto attraverso il cristallo protettivo di ammirare il minuscolo interno, a pianta quadrata, con la decorazione disposta su due ordini, com’era consuetudine di allora.


31/03/13

La poesia di Pasqua - 'Ecco ancora una finestra' di Marina Cvetaeva.




Ecco ancora una finestra


Ecco ancora una finestra,
dove ancora non dormono.
Forse - bevono vino,
forse - siedono così.
O semplicemente - le due
mani non staccano.
In ogni casa, amico,
c'è una finestra così.

Non candele o lampade hanno acceso il buio:
ma gli occhi insonni!

Grido di distacchi e d'incontri:
tu, finestra nella notte!
Forse, centinaia di candele,
forse, tre candele...
Non c'è, non c'è per la mia
mente quiete.
Anche nella mia casa
è entrata una cosa come questa.

Prega, amico, per la casa insonne,
per la finestra con la luce.



Marina Cvetaeva

30/03/13

La Sindone e la Cappella del Guarini - anticipazione dal nuovo libro.





In questi giorni di ricorrenze pasquali, si torna a parlare molto della Sindone, anche in occasione della ostensione straordinaria di Torino. 
Riporto qui sotto una anticipazione del capitolo dedicato alla Cappella della Sindone del Guarini, nel capoluogo piemontese - uno dei 30 capitoli del mio nuovo libro dedicato ai Monumenti esoterici d'Italia, in uscita dall'editore Newton Compton nel mese di maggio. 


Nel 1997, il destino era nuovamente in agguato per minacciare da vicino quella che senza alcun dubbio viene definita la più importante reliquia della cristianità, la Sindone. Il Mandylion, creduto dalle popolazioni di fedeli il sudario originale in cui fu avvolto il corpo di Cristo nel sepolcro, dopo la crocefissione, ha subìto infatti come vedremo, ogni forma di traversia e di manomissione, ed è stato più volte in serio pericolo nel corso della sua secolare storia, da quando a metà del 1300 esistono le prime notizie certe e documentate attestanti l’esistenza del Sacro Lino.
In quella notte del 1997, dunque, ed esattamente la notte dell’11 aprile (secondo molti esoterici il numero 11 ha valenze potenzialmente molto negative, essendo il primo dei numeri con proprietà palindrome e ovviamente anche il primo numero primo con questa caratteristica, e basti a questo proposito ricordare la coincidenza dei due attentati terroristici dell’11 settembre 2001 delle Torri Gemelle a New York e dell’11 marzo 2004 a Madrid) proprio mentre stavano per volgere al termine i lavori di restauro di quel gioiello del barocco italiano che è la Cappella del Guarini, a Torino, un violentissimo e misterioso incendio minacciò seriamente di distruggere una volta per tutte la preziosa Reliquia.
La Cappella della Santa Sindone appariva ormai completamente restaurata – per risolvere gli annosi problemi legati alla sua stabilità strutturale – e ripulita. Ancora qualche giorno e, tolti gli ultimi ponteggi, si sarebbe proceduto alla grande inaugurazione.
Quella notte, però, proprio mentre nel vicino Palazzo Reale, si svolgeva un ricevimento in onore dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, un banale contatto elettrico – almeno così fu raccontato in seguito – innescò un incendio che si propagò immediatamente alle strutture di legno dei ponteggi che stavano per essere smontati. Un incendio spaventoso in pochi minuti avviluppò la Cappella interamente: le fiamme si levarono altissime all’interno dell’edificio, propagandosi in men che non si dica al torrione nord-ovest del Palazzo Reale.
Per un puro caso, la Sindone, si salvò: poco tempo prima, infatti, il 24 febbraio del 1993, la reliquia, per consentire i lavori di restauro della Cappella, era stata spostata, all’interno della teca che la custodiva, al centro del coro della Cattedrale, proprio dietro l’Altare Maggiore.
Se fosse rimasta al posto dov’era conservata da secoli, e cioè nell’altare costruito da Antonio Bertola nel 1694, la distruzione sarebbe stata certa. 
Questo particolare consentì ad uno dei primi soccorritori, un coraggioso vigile del fuoco, proprio mentre l’incendio si sviluppava al centro della Cappella, di riuscire a rompere a colpi di mazza la teca di cristallo contenente la Sindone e a mettere in salvo il sacro sudario, come fu testimoniato da alcune foto che fecero immediatamente il giro del mondo.

© - Fabrizio Falconi (Monumenti esoterici d'Italia)

28/03/13

'Stoner' di John Williams - Recensione.




Non è facile trovare un romanzo come questo. 

Stoner, il nome del protagonista, ci fa pensare ad una pietrificazione.  Eppure, nulla in questo romanzo è pietrificato. Tutto vibra, tutto si muove, tutto vive di vita interiore. 

Si sa poco di John Williams,  per decenni oscuro docente universitario e autore soltanto di una manciata di romanzi, morto nel 1994.

Stoner però è diventato un piccolo grande caso letterario, prima negli Stati Uniti, poi in Italia dove il passa parola lo ha trasformato in successo, e dove ha suscitato l'entusiasmo di molti scrittori, tra cui Emanuele Trevi.

La vicenda dell'oscuro, anonimo professore di Letteratura Inglese alla Missouri University, a partire dagli anni della depressione fino al dopoguerra, sembrerebbe - come scrive Peter Cameron nella postfazione - l'antitesi di quello che oggi il mercato editoriale, soprattutto in Italia, considera come gli ingredienti sicuri per un libro di successo. 

Una vita apparentemente grigia, quella di Stoner. 

Una vita dove sembra non succedere niente. 

John Williams, però, è un vero maestro.   Se ne ha la riprova perché descrive la vita di un uomo virtuoso: di gran lunga l'operazione più difficile oggi (anzi, quasi impossibile).   E' molto più semplice cimentarsi con un Limonov, tanto per dire. 

Ma tutti sanno, dai tempi di Dostoevskij, che descrivere il bene è enormemente più difficile, in narrativa specialmente, che descrivere il male. 

Stoner è virtuoso anche senza volerlo. Segue la sua via. Tende o spera a ciò che è meglio.  Ma nulla di quello che ha immaginato o sperato, si verifica nei modi in cui egli auspica. 

Il suo unico punto fermo, la sua ciambella di salvataggio, sembra essere il suo lavoro, il suo insegnamento: eppure anche qui sembra non eccellere, non sembra nulla di speciale. 

La sua mid-way, la sua common-life è però solo apparenza appunto: grazie alla lingua sublime, di cui Williams fa uso, lentamente caliamo nella profondità di questo uomo. 

Scopriamo quanto esso ci parli. 

Svela, lentamente e inesorabilmente, la sua più inquieta umanità.    Ciò che rende una vita, in definitiva, vissuta. 

Senza giri di parole, e senza artifizi inutili,  la prosa di Stoner affonda come un bisturi nella coscienza, e la fende con naturalezza, tenerezza e decisione brutale. 

Abbiamo la vita davanti.  La (nostra) vita.

Quel che di più sublime, la letteratura, la grande letteratura, riesce - quando è in stato di grazia - a donarci. 

Fabrizio Falconi 



27/03/13

Costantin Kavafis. 'Quando ti metterai in viaggio per Itaca'.






Ho visitato Itaca, anni fa. Ed è molto diversa da come la immaginavo. Vista da Cefalonia, all'alba, è quasi un miraggio. Quando ci arrivi ti colpisce la sua nuda semplicità. Il mistero che hai rimasticato in tanti anni di letture. 
Questi versi di Kavafis, immortali, ci parlano sempre di lei, di questo luogo profetico della nostra anima. 



Quando ti metterai in viaggio per Itaca,
devi augurarti che la strada sia lunga.

Soprattutto non affrettare il viaggio;
fa' che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco,
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.


Costantin Kavafis, da Itaca, (trad. F.M.Pontani, 1961)

26/03/13

100.000 visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi. Grazie a tutti.




Vorrei ringraziarvi tutti, per aver tagliato, dopo così poco tempo,  il traguardo ragguardevole dei 100.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio mira a rivolgersi, con umiltà, dal basso, alle cose vere e importanti delle quali spesso non ci occupiamo, troppo presi a fare altro. Letteratura, poesia, temi di attualità, senso spirituale della vita, grandi questioni ultime.  

Ma sempre più è diventato anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno, insieme alla vita che viviamo.

Grazie.

Fabrizio

24/03/13

La poesia della Domenica - 'Amore a prima vista' di Wislawa Szymborska




Amore a prima vista


Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E' bella una tale certezza
ma l'incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano -
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno "scusi" nella ressa?
un "ha sbagliato numero" nella cornetta?
- ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all'altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell'infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Wislawa Szymborska (La fine e l'inizio, Scheiwiller, 1993)

19/03/13

19 marzo - Upanisad: la Trasmissione Padre-figlio.






Le Upaniṣad (sanscrito, sostantivo femminile, devanāgarī: उपानिषद) sono un insieme di testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le quattordici Upaniṣad vediche) anche se progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo raggiungendo un numero complessivo di circa trecento opere.  Trasmesse per via orale, furono messe per iscritto per la prima volta nel 1656. 

Il termine Upaniṣad deriva dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi vicino", ma più in basso (ad un guru, o maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti spirituali. 

Questo qui è un brano riferito alla cosiddetta 'cerimonia Padre-figlio' o della Trasmissione.  E la propongo oggi, nella ricorrenza del 19 marzo. 


Un padre, quando sta per morire, chiama il proprio figlio. 
Egli dapprima sparge dell'erba fresca sul pavimento della casa e dispone il fuoco; poi, dopo aver sistemato vicino al fuoco un vaso d'acqua insieme con un piatto di riso, egli si distende, si copre con un abito pulito e resta così. Il figlio viene e si stende sul padre, toccandogli le mani, i piedi e così via con gli organi corrispondenti, oppure il padre può compiere l'atto della trasmissione mentre il figlio siede di fronte a lui. In seguito conferisce il suo potere al figlio, [dicendo]: 

Il padre: Possa io impartire la mia parola a te. 
Il figlio: La tua parola entro di me io ricevo. 
Il padre: Possa io impartire il mio respiro di vita a te. 
Il figlio: Il tuo respiro di vita entro di me io ricevo. 
Il padre: Possa io impartire la mia vista a te. 
Il figlio: La tua vista entro di me io ricevo. 

(Kauṣitakī Upaniṣad)