15/04/22

Quando "Ultimo Tango a Parigi" di Bertolucci finì al rogo, e come il regista riuscì a salvare dalle fiamme i negativi


Iscritto obtorto collo a Giurisprudenza (mio padre e mia madre erano operai e mio zio, il sapiente della famiglia non vedeva di buon grado la scelta di iscriveri a Lettere "vai a fare il professore a scuola?") sopravvissi 4 anni laureandomi in tempo, ma cercai anche di infilare lì dentro la mia passione per il cinema.

Così per la tesi scelsi come argomento la legittimità costituzionale della censura cinematografica, vexata quaestio in diritto costituzionale. La costituzione italiana non sancisce all'Art.21 la libertà di manifestazione del pensiero? Il comune senso del pudore può limitarla? Dove sta scritto? E in che modo? E chi lo decide?
Studiai per nove mesi ogni udienza del processo penale contro Ultimo Tango a Parigi (1972-1974) dove Bertolucci, Marlon Brando e Maria Schneider sedevano fisicamente sul banco degli imputati; processo terminato con la condanna alla "distruzione fisica" (esattamente al rogo) delle copie in pellicola del film.
Come è noto il film si salvò soltanto perché Bertolucci riuscì - nascondendole nel cofano della macchina - a trafugare 5 pizze - negativi - della pellicola, passando il confine svizzero.
La storia dell'istituto della censura cinematografica è molto interessante perché riassume in modo simbolico la storia del nostro paese nel novecento, dalla retorica fascista del ventennio e dalle censure politiche del Minculpop, al tetro moralismo democristiano, provinciale e bigotto, che considerava i cittadini italiani come bambini da preservare, soprattutto dagli imbarazzi del sesso.
A partire dagli anni '70 la storia dell'istituto divenne grottesca: mentre cominciavano a nascere le sale "a luci rosse", dove si vedevano tranquillamente hard movie, con riprese ravvicinate delle 87 posizioni del Kamasutra, venivano perseguitati i film dei nostri più importanti autori, da Bertolucci a Pasolini, da Fellini a Petri, tagliuzzando i loro film perché potessero ottenere il famoso "visto".
Un'altra bellissima storia si potrebbe costruire sulla composizione di queste famose "commissioni" di Censura cinematografica, formate da eterogenei e strampalati "esperti" che in cambio di gettoni di presenza decidevano per tutti gli italiani cosa poteva essere visto e cosa andava assolutamente proibito.
L'annuncio dato qualche anno fa dal ministro della cultura Franceschini della soppressione dell'istituto della censura è dunque risuonato fuori tempo massimo, anacronistico e piuttosto inutile. Ormai da almeno tre decenni la censura in Italia non contava più nulla, anche se sono restate sempre le famose "commissioni", più che altro per stabilire i divieti ai 14 e ai 18 anni.
Resta invece agli atti la storia ingloriosa di questo istituto che fece parecchi danni e che fece soffrire terribilmente molti autori del nostro cinema, nei suoi anni più felici e creativi.

Fabrizio Falconi - 2022

07/04/22

Le ultime foto di Kurt Cobain, a Roma, un mese prima di morire

 

Cobain all'uscita dall'Hotel Excelsior nel marzo del 1994 un mese prima di morire


Sono le utime, drammatiche immagini scattate a Roma che ritraggono Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, un mese prima della sua morte. 

Furono scattate probabilmente il 3 marzo del 1994 quando Kurt Cobain era a Roma, visto che i Nirvana avevano in programma un tour in Europa, con i concerti già ampiamente pubblicizzati, molti dei quali furono poi annullati, proprio per le condizioni di salute di Cobain. 

Kurt soffriva di una forte depressione e aveva iniziato a stare male già prima del suo arrivo in Italia. Pochi giorni prima del suo soggiorno romano, aveva tenuto il suo ultimo concerto con i Nirvana al Terminal 1 di Monaco, in Germania. 

Ma l'abuso di droghe, la relazione complicata con Courtney Love e i suoi fantasmi personali stavano già portando l’artista sull’orlo del precipizio. 

Lui e Courtney avevano pesantemente litigato e lei se n'era andata in Spagna a lavorare ai suoi progetti. 

Kurt la chiamò al telefono, in lacrime. 

Kurt Cobain nel suo primo viaggio a Roma in visita al Colosseo, nel 1989 

Stava sempre peggio. A Roma era sopraggiunto anche un fortissimo mal di gola, che gli impediva di cantare. 

Courtney Love decise così di raggiungere il marito. Ma nella notte tra il 3 e il 4 marzo del 1994 la situazione cominciò a precipitare: il cantante e la moglie alloggiavano all’Hotel Excelsior, in via Veneto. Con loro c’era anche la figlia, la piccola Frances Bean, di due anni. Nella foto qui sotto si vede Kurt proprio nei pressi dell'albergo, seduto in strada, in difficoltà.



La mattina seguente, quando Courtney si svegliò trovò Kurt sul pavimento privo di sensi e col sangue che gli colava dal naso. Come risultò dai rilievi, Cobain aveva assunto qualcosa come 50 compresse di Rohypnol, un forte farmaco con effetti ipnotici, ansiolitici e sedativi, usato per il trattamento dell’insonnia, in combinazione con alcol – champagne, nello specifico.

La cantante chiamò subito la reception dell’hotel che a sua volta chiamò un’ambulanza: Kurt fu portato di corsa al Policlinico Umberto I dove gli fu fatta una lavanda gastrica, per overdose. In seguito fu trasferito all’American Hospital dove riprese conoscenza qualche ora dopo. Dopo cinque giorni di ricovero Cobain fu dimesso e fece ritorno negli Stati Uniti, annullando il resto della tournée europea. Poco meno di un mese dopo, l’8 aprile 1994, il cadavere di Cobain fu ritrovato dall’elettricista Gary Smith – chiamato per installare un sistema d’allarme - presso la casa che il leader dei Nirvana occupava con la famiglia a Seattle.

Si è molto discusso negli anni se l'episodio romano fu un tentativo di suicidio o un incidente. Courtney Love non ha dubbi, visto che in quella occasione il marito aveva lasciato anche un biglietto con su scritto: 

Ancora Cobain a Roma nel viaggio del 1989 mentre visita San Pietro con i suoi compagni di band

"Il Dottor Baker dice che dovrei scegliere tra la vita e la morte. Io scelgo la morte".  

Incredibilmente comunque, questo campanello d'allarme fu ignorato: si iniziò a valutare questa ipotesi solo dopo che Kurt si suicidò davvero, circa un mese dopo quella overdose, il 5 aprile. 

Di certo l'episodio fu sottovalutato o non affrontato con la giusta determinazione. Quel che è certo è che la morte di Cobain fu l'ennesima tragedia, riservata ad un giovane talento assoluto del rock, una tragedia di sicuro ... preannunciata. 

Fabrizio Falconi -2022 

Kurt Cobain saluta i giornalisti con una Fanta in mano il 3 marzo del 1994 



06/04/22

Libro del Giorno: "Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò" di Raoul Precht

 


E' di grande interesse, e anche di grande attualità, l'uscita in queste settimane del nuovo libro di Raoul Precht, edito da Bottega Errante, che si concentra sulla vicenda personale, umana e letteraria di Stefan Zweig, inquadrata in un anno cruciale della sua vita, il 1935. 

Precht, studioso attento della letteratura europea e tedesca in particolare (lingua quest'ultima che egli conosce come la madre lingua italiana), dopo Kafka (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, 2014) e Sternheim (Carl Sternheim, Schulin, La Camera verde, 2015), si rivolge alla figura di Stefan Zweig, prolificissimo scrittore ebreo, nato a Vienna nel 1881, vissuto a cavallo tra i due secoli, profondo pacifista e umanista, travolto dagli eventi drammatici del Novecento, il quale abbandonò definitivamente il suo paese dopo l'Anschluss nazista, finì i suoi giorni nel lontano Sud America, suicidandosi, nel 1942, insieme alla sua seconda moglie Lotte. 

Dal suo primo racconto pubblicato a 19 anni, Primavera al Prater, Zweig fu instancabile, pubblicando una mole incredibile di romanzi e racconti, poesie e testi teatrali, memorie e lettere, saggi e articoli, raccolte e antologie, e numerosissime biografie che vanno da Tolstoj a Fouché, da Maria Stuarda a Toscanini, da Magellano a Montaigne e tantissimi altri. 

Il libro di Raoul Precht incrocia la vita di Zweig nel suo anno cruciale, da gennaio del 1935 al gennaio successivo, lo scrittore si trova ad attraversare le sliding doors che ne decideranno il destino: è l'anno in cui la moglie Friderike (che Zweig aveva sposato prendendo con sé anche le due figlie avute dalla donna dal suo precedente matrimonio) scopre la sua relazione con Lotte Altmann, la sua segretaria, alla quale lo scrittore si legherà definitivamente in seguito, sposandola, e condividendo con lei il gesto estremo del suicidio. 

Ma è anche l'anno in cui, a seguito di un primo scontro con la polizia locale, Zweig decide di lasciare Salisburgo e l'Austria e di stabilirsi in Gran Bretagna. Il suo paese infatti, come la Germania, è irretito dalle sirene naziste e il clima per gli ebrei comincia a farsi irrespirabile. 

Zweig inizia un inquieto pellegrinaggio che lo porta in dodici mesi a spostarsi tra Nizza e New York e poi Vienna, Zurigo e le alpi svizzere, Marienbad, Parigi, Londra e infine nuovamente Nizza. 

In questo errare lo scrittore incontra, in giro per l'Europa, scrittori e artisti con i quali è in rapporti di amicizia, da Thomas Mann a Joseph Roth, da Sigmund Freud a Arturo Toscanini. 

Precht sceglie la cifra stilistica di un romanzo biografico: né una vera biografia, né un vero romanzo. La ricostruzione accuratissima degli spostamenti, degli incontri, dei particolari anche apparentemente trascurabili, contribuiscono a ricostruire il clima di un tempo difficile, che lo spirito inquieto di Zweig attraversa come sotto effetto di una febbre cerebrale.  

Si stringe la morsa intorno a lui e intorno ai suoi amici: si impone di abbandonare le scelte di una vita comoda, facile, colma - nel caso di Zweig - anche di riconoscimenti e onori.  Si impone di predisporsi ad abbandonare ciò che è più caro e salpare verso l'ignoto. 

Non solo: la vita di quei mesi obbliga anche a scegliere quale atteggiamento opporre di fronte all'avanzare dell'orrore, della discriminazione, dell'odio, incarnata dal tiranno Hitler, pronto a spaccare il mondo in due e a metterlo a ferro e fuoco. 

Zweig, anche rischiando l'incomprensione o la censura dei suoi amici più cari - magari ebrei come lui, come è il caso di Roth - sceglie un atteggiamento riservato, di non aperta denuncia: non si schiera, non fa appelli, non dà la caccia al mostro. 

Altri gli dicono che è ora, invece, di rompere gli indugi e chiamare il demonio con il suo nome. Ma Zweig temporeggia: la sua indole, il suo credo profondamente pacifista, gli impongono prudenza e desiderio di distacco. E' la natura umana a deluderlo, la triste evoluzione di un destino collettivo - e quindi anche personale - che distrugge il sogno della vita bella, della vita dedicata alla conoscenza, al sapere, alla consapevolezza. 

Zweig si avvicina alla fine della sua vita, sentendo che le forze gli vengono meno, dopo anni di vagabondaggio e sa che il porto del ritorno per lui è precluso per sempre. Cerca rifugio dunque, nell'unica cosa che può dargli piacere e in fondo salvezza: il lavoro, il lavoro intellettuale. 

Verrà un tempo - e verrà presto, di lì a sette anni  - in cui anche questo non basterà più e Stefan abbraccerà il suo desiderio di dissoluzione in compagnia della donna che ha deciso di condividere con lui il suo destino. 

Il libro di Raoul Precht, letto in questi tempi in cui i tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare così forte - e proprio nel cuore della vecchia Europa - si impone come una lettura non solo qualitativa, ma necessaria. 


Raoul Precht

Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò

Bottega Errante Edizioni,2022 

pagg. 198, Euro 17


Fabrizio Falconi - aprile 2022


05/04/22

Qual è il ruolo effettivamente avuto da Giuda Iscariota nella Passione e nella Morte di Gesù Cristo?


Da circa duemila anni teologi e filosofi disquisiscono su quale sia stato il ruolo effettivo avuto da Giuda l'apostolo Iscariota, nell'epilogo della Passione e nella morte di Gesù.

Il suo tradimento fu "opera del diavolo" come per secoli fu sostenuto oppure anche Giuda, dotato di libero arbitrio, scelse liberamente? Oppure il tradimento di Giuda fu "voluto" da Dio e Dio scelse Giuda dandogli questo ruolo, come a Maria conferì il ruolo di generare Gesù? Giuda tradì per troppo amore, perché amava troppo Cristo e lo aveva a tal punto idealizzato, aspettandosi che capeggiasse a fil di spada la rivolta contro gli invasori romani e quando non lo fece, decise di abbandonarlo (come sostiene una vulgata assai duratura che arriva fino a Jesus Christ Superstar)? Giuda non fu piuttosto "necessario" alla Passione e quindi non fece altro che "obbedire" a quanto gli fu chiesto da Cristo stesso, come raccontano i Vangeli gnostici (e in particolare Il Vangelo di Giuda)? In questo caso, sarebbe ben immeritato il ruolo riservato al "povero" Giuda da Dante nella Commedia.
Nel 1944 Jorge Luis Borges andò ancora oltre, nel racconto "Tre versioni di Giuda", nel quale espone le tesi di un fantasioso teologo, Nils Runenberg che adddirittura ipotizza una incarnazione di Dio proprio in Giuda (contemporanea a quella di Gesù? Alternativa? Non si comprende bene).
E' ovvio che il mistero di Giuda non verrà mai risolto. Il suo tradimento fu "così necessario?" Gesù Cristo non sarebbe stato comunque, in un modo o nell'altro, catturato e comunque eliminato fisicamente? Resta il suo ruolo sacrificale nell'economia della Passione: anche Giuda infatti muore, si suicida, e la sua morte favorisce (o accelera) in qualche modo quella di Gesù.
Gesù e Giuda sono legati, il bacio nell'Orto di Getsemani è il simbolo di ogni debolezza, di ogni dubbio, di ogni ambiguità umana. E' l'inadeguatezza dell'uomo dentro il piano di prospettiva divina, che solo la morte di un "dio fattosi uomo" può rovesciare.

Fabrizio Falconi - 2022

04/04/22

Perché la Shoah (l'Olocausto) è un "unicum" nella storia umana?


Specialmente in questi anni così confusi, di negazionismi sfrenati, benaltrismi, narcisismi piccoli e grandi che si esaltano nella confutazione spavalda dell'ovvio e del naturale, col pretestuoso e l'inaccettabile, vale la pena riportare qui la risposta forse più chiara ed esaustiva possibile alla domanda che spesso si sente ripetere, ovvero: per quali motivi la Shoah, l'Olocausto degli ebrei da parte dei nazisti, durante la Seconda Guerra mondiale è un "unicum" nella storia umana, e perché è sbagliato concettualmente e materialmente equipararlo ad altri tipi di genocidi terrificanti che sono stati compiuti nella storia. 

La risposta è piuttosto evidente e ciascuno di noi dovrebbe conoscerla, ma Lisa Palmieri-Billig dell'American Jewish Committee l'ha spiegato recentemente con poche parole essenziali che meritano di essere divulgate il più possibile: 

"La Shoah è stata pianificata a sangue freddo secondo precisi concetti di efficienza e tecnologia moderna. Fu eseguita da una civiltà altamente istruita, colta, avanzata, con l'uso di un diabolico, meticoloso piano di omicidio di massa mirato alla totale estinzione di tutti i membri di un certo popolo, una certa religione, una certa tradizione e cultura. Erano condannati per il loro Dna: uomini, donne, bambini, neonati, vecchi e infermi, tutto coloro a quella che era considerata una "razza inferiore". 

Più chiaro di così. 

Fabrizio Falconi - 2022

01/04/22

L'incredibile destino di Dag Drollet, ucciso dal figlio di Marlon Brando

 


Questa foto è davvero un reperto piuttosto terribile. Fu scattata nel 1988 e ritrae, da sinistra a destra Cheyenne Brando (la figlia di Marlon Brando e dalla tahitiana Tarita, terza moglie di Brando), insieme al fidanzato Dag Drollet (che aveva cominciato a frequentare l'anno prima), e alla madre di lui, Lisette. 

Due anni dopo questa foto, Dag Drollet fu ucciso con un colpo di pistola da Christian Brando, anche lui figlio dell'attore, fratellastro di Cheyenne, la quale all'epoca era incinta di Dag all'ottavo mese. 

Fu un evento scioccante per l'opinione pubblica mondiale: Christian Brando se la cavò con 5 anni di galera (Cheyenne non fu ritenuta testimone attendibile perché gravemente instabile psichicamente e dipendente da droghe). E l'evoluzione delle cose fu ancora più tragica: Christian, morì il 26 gennaio 2008, a 50 anni, a causa di una polmonite fulminante. Cheyenne Brando, invece, si impiccò il 16 aprile 1995 a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti, quando aveva soltanto 25 anni.

Ma perché Christian uccise il fidanzato della sorella? 

Christian Brando al momento dell'arresto

Dag Drollet, come si vede dalla foto, era un bellissimo ragazzo. Suo padre, Jacques Drollet, era membro dell'Assemblea della Polinesia francese. Cheyenne lo conobbe nel 1987, quando aveva 17  anni, a una cena perché la famiglia Brando e i Drollets erano amici di lunga data. 

Due anni dopo, Cheyenne rimase incinta. Su richiesta di Marlon Brando, la coppia si trasferì negli Stati Uniti, nella casa di Marlon's Mulholland Drive in attesa della nascita del loro bambino. 

Il 16 maggio 1990, il fatto di cronaca che mise fine alla vita del giovane:  Drollet fu infatti colpito a morte dal fratellastro maggiore di Cheyenne, Christian , proprio nella casa del padre. 

Christian Brando, che era un attore intento a ricavarsi un suo posto oltre il cliché di essere figlio del grande Marlon Brando, fu subito arrestato e accusato di omicidio di primo grado. Nei primi interrogatori sostenne che la sparatoria era stata accidentale. 

Raccontò che all'inizio di quella serata Cheyenne gli aveva confessato che Drollet la stava abusando fisicamente. 

Più tardi quella notte, Christian affrontò Drollet e questi rimase ucciso. Christian affermò che dalla pistola fosse partito un colpo mentre Drollet cercava di portargli via l'arma. 

Il processo iniziò, con grande eco mediatica. I pubblici ministeri del caso tentarono di citare in giudizio Cheyenne come testimone al processo di Christian, poiché ritenevano che il suo resoconto dell'evento della notte fosse cruciale per dimostrare che la sparatoria era premeditata. 

Tuttavia, Cheyenne rifiutò di testimoniare contro il fratellastro e fuggì a Tahiti. 

Sempre più provata psicologicamente, il 26 giugno 1990 diede alla luce un figlio che chiamò Tuki Brando. 
Cheyenne durante il periodo di riabilitazione psichiatrico


Subito dopo la nascita di Tuki, Cheyenne tentò il suicidio per due volte e fu ricoverata in ospedale psichiatrico per disintossicarsi dalla droga di cui faceva uso. 

A dicembre del 1990, Cheyenne fu dichiarata "disabile mentale" da un giudice francese e ritenuta incapace di testimoniare nel processo di suo fratello. 

Senza la testimonianza di Cheyenne, i pubblici ministeri conclusero di non poter più provare che la morte di Drollet fosse premeditata e presentarono a un patteggiamento a Christian Brando, che accettò l'accordo e si dichiarò colpevole dell'accusa minore di omicidio volontario . Fu condannato a dieci anni di reclusione. 

In totale ne scontò cinque e fu posto in libertà vigilata per tre anni. 

In un'intervista rilasciata dopo il suo rilascio, Christian ha dichiarato di dubitare delle accuse di abusi fisici di Cheyenne contro Drollet, a causa della instabilità mentale della sorella. "Mi sento un completo idiota per averle creduto", disse. 

Negli anni successivi alla morte di Drollet e al processo del fratellastro Christian, la salute mentale di Cheyenne continuò a peggiorare. Entrò ripetutamente in cure di riabilitazione dalla droga e ricoveri in ospedali psichiatrici. 

In questo periodo Cheyenne scatenò le sue accuse anche contro il padre, Marlon Brando, accusandolo  di averla molestata e di essere complice della morte di Drollet: Marlon Brando negò entrambe le accuse. 

A Cheyenne fu successivamente formalmente formulata la diagnosi di schizofrenia, fu isolata dai suoi ex amici e perse la custodia di suo figlio, Tuki, che fu affidato a sua madre, che lo ha cresciuto a Tahiti. 

Il 16 aprile 1995 il tristissimo epilogo: Cheyenne si impiccò a casa di sua madre a Puna'auia, Tahiti. 

Né suo padre né il suo fratellastro Christian poterono partecipare al suo funerale. 

Fu sepolta nel cimitero cattolico romano di Uranie a Papeete nella cripta di famiglia della famiglia di Dag Drollet.

Fabrizio Falconi - 2022 

La tomba di Dag Drollet e Cheyenne Brando a Papeete 



31/03/22

La grande amicizia e stima tra Kundera e Fellini: due geni che (però) non si incontrarono mai

 

      

Un lungo viaggio alla scoperta di Milan Kundera, il geniale, timido e riservatissimo scrittore, poeta e drammaturgo ceco. A regalarci un ritratto inedito dell'autore de 'L'insostenibile leggerezza dell'essere' attraverso un'amicizia nata sotto il segno di Federico Fellini e' Stefano Godano in 'Kundera e Fellini. L'arte di non incontrarsi' che è in libreria per Rizzoli, con la prefazione di Vincenzo Mollica. 

Kundera considerava Fellini la vetta dell'arte della seconda meta' del Novecento e Fellini ricambiava definendolo il piu' grande scrittore contemporaneo: si scrivevano e si stimavano ma non si sono mai incontrati, racconta nel libro Godano, giornalista, per molti anni confidente e amico fedele di Fellini, studioso appassionato dei rapporti tra letteratura e cinema. 

Qualche anno dopo la morte di Fellini nel 1993, Godano e la moglie Daniela Barbiani, nipote e assistente del regista, incontrano Milan e Vera Kundera. E' il 2001 e nasce una straordinaria amicizia, fatta di incontri, lettere e lunghe telefonate, di ore e ore a chiacchierare a casa Kundera e nei ristoranti di Saint-Germain, a Parigi. 

Lo scrittore piu' inaccessibile e irraggiungibile si confida con l'autore sull'onda di una forte amicizia esaltata dalla passione per Federico Fellini e dalla ricerca dei punti di contatto creativi e immaginifici con il lavoro del grande regista. 

I romanzi di Kundera, la fuga dalla Cecoslovacchia, l'amore per la Francia e l'insofferenza per la gauche caviar, la passione per Venezia, Capri e Roma e i giudizi su alcuni grandi scrittori contemporanei vengono ripercorsi in un ritratto fedele dello scrittore, arricchito dai suoi disegni e da quelli di Fellini. 

Godano ha lavorato con Daniela Barbiani anche alla realizzazione del 'Dizionario intimo di Federico Fellini' (Piemme 2019), per il quale ha raccolto il testo inedito di Milan Kundera posto all'inizio del libro. 


29/03/22

Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma

 



Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla divinità di Flora, dea romana delle piante.

La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi. 

La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe.   Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e spostato proprio nell’area dell’Aventino.

Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti.  In questi tre spazi contigui, per circa 250 anni gli ebrei seppellirono i loro morti.

L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica.  Falliti i primi tentativi di esproprio, per la opposizione della comunità israelitica, nel 1934, in pieno fascismo, tutta l’area fu definitivamente sottratta al cimitero, dopo un lungo e infruttuoso braccio di ferro da parte degli ebrei di Roma che cercarono protezione anche presso il rabbinato europeo.  Ma erano tempi molto difficili e anche da parte delle autorità religiose del continente arrivò il consiglio di cedere per evitare complicazioni ancor più pericolose.

Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.

Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran fretta traslate al Verano.

I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra.  E soltanto nel 1950 il comune decise di trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle bombe.

La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate, formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.

Ancora oggi, i kohanim, i sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013


28/03/22

Il film definitivo sulla guerra: "Apocalypse Now" e i versi profetici di T. S. Eliot che Coppola utilizzò nel film

 


Se c'è un film che bisognerebbe riguardare oggi, mentre la guerra insensata e feroce infuria in Ucraina, dopo l'invasione russa, quello è Apocalypse Now, il capolavoro di Francis Ford Coppola (1979), che soprattutto nell'ultima mezz'ora, in cui giganteggia la figura di Marlon Brando nei panni del misterioso e terrorizzante colonnello Kurtz, ci si interroga sul senso profondo della guerra, di questa terribile contro-figurazione umana, che sembra inscritta nel nostro Dna e comunque inestirpabile. 

Coppola lo fa utilizzando, nelle sequenze precedenti la morte del colonnello Kurtz, i versi della poesia di T. S. Eliot " The Hollow Men" (Gli uomini vuoti, 1925). 

La poesia, quando fu pubblicata, era preceduta nelle edizioni a stampa dall'epigrafe che Eliot aveva tratto da Heart of Darkness (Cuore di Tenebra, 1899), il celebre racconto di Joseph Conrad e che recita "Mistah Kurtz - he dead", ovvero la frase pronunciata da un servitore nero che annuncia la morte di Kurtz (sarebbe "Il Signore Kurtz .. è morto"). 

Nella famosa sequenza finale del film, quella con Marlon Brando, avvolto nella penombra, si intravedono chiaramente anche le copertine di due libri aperti sulla scrivania di Kurtz, che sono esattamente From Ritual to Romance di Jessie Weston e The Golden Bough di Sir James Frazer, proprio i due libri che T. S. Eliot citò come le principali fonti e ispirazione per il suo celebre poema "The Waste Land" (La Terra Desolata, 1922). 

Anche in questo caso l'epigrafe originale di Eliot per "The Waste Land" è un passaggio da Heart of Darkness, che termina con le ultime parole di Kurtz descritte dal suo servitore:  " (Kurtz) ha vissuto di nuovo la sua vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e resa durante quel momento supremo di completa conoscenza? Di sicuro a un certo punto iniziò a piangere in un sussurro in seguito a qualche immagine, a una visione,gridò due volte, un grido che non era altro che un respiro – "L'orrore! L'orrore!" 

Sono le parole pronunciate appunto da Marlon Brando nel celebre finale monologo: è l'orrore che Kurtz ha seminato, di cui è stato l'artefice implacabile e il fiero servitore, che si riduce in polvere nella consapevolezza di un fallimento estremo che conduce a una solitudine dannata e finale. 

Quando, nel film, Willard (Martin Sheen) viene presentato per la prima volta al personaggio di Dennis Hopper, il fotoreporter descrive il proprio valore in relazione a quello di Kurtz con una frase anch'essa tratta da un'altra famosissima poesia di Eliot,  "The Love Song of J. Alfred Prufrock" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, 1910/11): "I should have been a pair of ragged claws/Scuttling across the floors of silent seas", ovvero Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli Che corrono sul fondo di mari silenziosi" 

Inoltre, il personaggio di Dennis Hopper parafrasa i versi finali di "The Hollow Men", in uno dei dialoghi con Martin Sheen con queste parole: "This is the way the /expletive/ world ends! [...] Not with a bang, but with a whimper.", ovvero: E’ questo il modo in cui finisce il mondo/ Non già con uno schianto ma con un lamento."

La profezia di Eliot si adatta bene ad ogni guerra e anche alla guerra a cui stiamo assistendo.

Una volta, spiegando il significato di Apocalypse Now, Coppola, ha detto che il film può essere considerato contro la guerra, ma è ancora più contrario alla menzogna: "... il fatto che una cultura può mentire su ciò che sta realmente accadendo nella guerra, che le persone vengono brutalizzate, torturate , mutilato e ucciso, e in qualche modo presentare questo come morale è ciò che mi fa orrore e perpetua la possibilità di una guerra".

E anche queste, sono parole che oggi fanno riflettere.

Fabrizio Falconi - 2022 

27/03/22

La Poesia della Domenica: "Variazioni Belliche" di Amelia Rosselli






Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l'ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione!
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l'incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d'ogni male, d'ogni bene, d'ogni battaglia, d'ogni dovere
d'ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell'incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.

Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.


Amelia Rosselli 

26/03/22

Storia di un Matrimonio - un meraviglioso film da non perdere


Storia di un Matrimonio (Marriage Story) di Noah Baumbach è un meraviglioso film uscito soltanto per qualche settimana nelle sale nel 2019 e attualmente visibile su Netflix.

Baumbach ha realizzato una sorta di requiem per il matrimonio tra due creativi, il regista tetrale off Charlie, e l'attrice Nicole, sua musa e moglie. I due sono in crisi. La terapia non aiuta. La decisione di Nicole - che si sente schiacciata dalla personalità e dalla creatività del marito - di lasciare New York e trasferirsi insieme al figlio piccolo a Los Angeles, nella casa dove abitano la madre e la sorella, scatena il conflitto.
Ne nasce una quasi involontaria battaglia legale, perché Charlie non è in nessun modo disposto a trasferirsi sulla West Coast e nello stesso tempo pretende che il figlio divida il suo tempo tra New York e Los Angeles.
Scaturisce così un film a quadri assai doloroso, dove l'intelligenza e la sensibilità di due persone evolute si scontra con le tentazioni di distruggere con la guerra ciò che si è costruito.
Qualcuno ha accostato questo film a Kramer contro Kramer, ma è una vera eresia.
K. contro K. era un film totalmente hollywoodiano. Storia di un matrimonio ricorda invece, per lo stile con cui è girato, Cassavetes.
Un film e una scommessa simile può essere vinta solo se si dispone di due attori dalla capacità espressiva mostruosa come Scarlet Johansson e Adam Driver.
Con la camera sempre stretta intorno ai visi, a spalla, per lunghi monologhi e atroci litigi, la Johansson e Driver si superano in bravura.
Un film di rara intelligenza che apre il cuore e lo fa dolorare.
Alle due grandissime prove d'attore - la Johansson si cimenta in un monologo in piano sequenza che dura quasi 10 minuti, Driver, nella scena del furibondo litigio tira fuori ogni nervo espressivo dalla sua faccia estremamente mobile - si uniscono i "comprimari" Laura Dern (che per questo film ha vinto l'Oscar) e addirittura il grande Alan Alda, nei panni dei due avvocati.
Un vero spettacolo di film, non perdetelo.

Fabrizio Falconi

25/03/22

La famosissima (e commovente) foto di Falcone e Borsellino: chi l'ha scattata? E come nacque?

Falcone e Borsellino nella iconica foto scattata da Tony Gentile 

Anche se non ci vediamo più da qualche anno, conservo un ricordo di stima incondizionata per Tony Gentile, uno dei migliori fotoreporter italiani, in assoluto. 

Ho incrociato Tony per la prima volta molti anni fa nelle lunghe attese come cronista nelle aule dei processi più controversi che si sono tenuti in Italia. Ho apprezzato subito il suo sorriso, le sue parole parche, la pazienza, l'intelligenza che emanava e emana dal suo sguardo. Non eravamo propriamente amici, non avevamo questa confidenza, ma credo che ci stimassimo vicendevolmente e in quelle lunghe ore di attese, condividevamo opinioni, impressioni, idee. Mi sembrava che il suo cognome si adattasse magnificamente alla sua personalità. 

Tony, nato a Parlermo nel '64, ha un curriculum notevole: fotoreporter e giornalista iniziò a fotografare nel 1989 collaborando con l'Agenzia fotografica Sintesi grazie alla quale pubblicò i suoi reportage dalla Sicilia sui maggiori quotidiani e periodici italiani e stranieri. E in questi anni raccontò con le sue  immagini l'attacco stragista della mafia contro lo Stato, fotografando le stragi di Capaci e di via D'amelio.  Dal 2003 si trasferisce a Roma dove entra a far parte dell'Agenzia di stampa internazionale Reuters per la quale ha coperto, fino al 2019, storie di attualità, cronaca, costume e sport di interesse internazionale viaggiando tanto in giro per il mondo e fotografando alcuni degli eventi che sono rimasti nella memoria collettiva. 

Ma pochi sanno che Gentile è l'autore della fotografia dei magistrati Falcone e Borsellino che sorridono, diventata icona del riscatto di un popolo intero alla violenza della mafia. 

Qualche tempo fa, Gentile ha raccontato a Francesca Marani de Il Fotografo, quando e come nacque quella magica fotografia, che oggi è nel cuore di tutti gli italiani

«Il giorno in cui ho realizzato quello scatto» dice Tony Gentile, «non avrei certo potuto prevedere il percorso che l’immagine avrebbe fatto, la vita che avrebbe avuto, anche indipendentemente da me. Mi trovavo a un convegno al quale erano presenti i due giudici come relatori, dovevo coprire l’evento su commissione di un giornale locale. A un certo punto Falcone si avvicina a Borsellino, i due si dicono qualcosa e poi scoppiano in una risata fragorosa che richiama l’attenzione degli astanti. È una frazione di secondo, salto davanti a loro e colgo l’attimo. È solo dopo la strage di Capaci del 23 maggio che recupero lo scatto e lo invio a vari giornali che prontamente l’archiviano in un cassetto e dopo quella di via D’Amelio del 19 luglio, la foto è pubblicata sulle prime pagine di tanti quotidiani italiani. Da quel giorno, sarà stampata sulle magliette, appesa ai muri, conosciuta da tutti. E questo è senza dubbio il lato positivo: aver creato una fotografia che ha il tempo dell’eternità, un’immagine che i ragazzi possono osservare sui libri di storia, un simbolo positivo per le future generazioni» 

Tony all'epoca aveva solo 28 anni. 

Questa è la stampa dei provini di quel preziosissimo rullino, con le foto scattate quel giorno:

Borsellino

Nella medesima intervista a Il Fotografo, Tony Gentile ricorda i suoi anni giovani, le manifestazioni che frequentava assiduamente, che erano seguite da grandi fotografi come Letizia Battaglia e Franco Zecchin. 

Racconta anche il suo veloce apprendistato, quando fin da subito si trovò calato all’interno di un universo di grandi conflitti e cambiamenti politici che investivano, in quegli anni la città di Palermo. 

"L’idea di un giovane fotoreporter," dice, "solitamente, è quella di andare per il mondo, partire alla volta di un Paese lontano, ma io non avevo bisogno di andare da nessuna parte. La guerra era lì, di fronte a me. In casa, nella mia città. Essere un fotografo di cronaca in quegli anni in Sicilia significava scontrarsi inevitabilmente con i morti ammazzati per strada e doversi misurare con la documentazione di un fatto mafioso. Attendevo con ansia il momento in cui avrei dovuto fotografare un morto ammazzato perché non sapevo quale sarebbe stata la mia reazione. La mia memoria visiva tuttavia era già costellata di immagini di morte, ero cresciuto con quelle fotografie stampate sui giornali. Quando poi è successo sul serio, quando sono stato chiamato a fotografare il mio primo omicidio, nel maggio del 1990, la macchina fotografica, come spesso accade, ha fatto da filtro e, nonostante l’impressione iniziale, sono riuscito a portare a termine il mio compito. In fondo, un po’ cinicamente, ti concentri solo sul lavoro: portare a casa una buona fotografia. Forse, è un bene perché così non hai il tempo per lasciarti coinvolgere emotivamente". 

Quel che è certo è che oggi, certamente non solo e non soltanto per la famosa foto a Falcone e Borsellino, Tony Gentile è uno dei migliori fotoreporter, uno di quelli che hanno fatto - consumando la suola delle scarpe e a prezzo delle cicatrici sul proprio cuore - la storia degli ultimi decenni in questo paese. 

Tony Gentile davanti a una foto di Giovanni Falcone

Fabrizio Falconi - 2022 

22/03/22

The White Lotus, la bellissima e feroce nuova serie HBO che racconta cosa è diventato l'occidente

 


The White Lotus è una ferocissima, splendida serie (2021), una delle migliori dell'anno, che non smentisce la qualità del marchio HBO, ormai una garanzia assoluta. 

L'ha scritta il geniaccio Mike White immaginando e descrivendo una settimana in un prestigioso resort hawaiano chiamato appunto "The White Lotus". Protagonista è il concierge Armond (uno stupefacente Murray Bartlett) che deve vedersela con clienti ricchi sfondati e pazzoidi (una coppia in luna di miele, una famiglia disfunzionale, una attempata signora depressa venuta a disperdere le ceneri della madre). 

Siamo dalle parti dei Coen (e di Fargo, in particolare), in quanto a toni e atmosfere: domina il grottesco, la satira tagliente, ma si vira decisamente sul dolente e sul drammatico mano a mano che ci si avvicina alla fine. 

Scene sessualmente esplicite, ma non insistite o volgari, e la capacità talentuosa di far evolvere un'ambientazione o "scenario" già visto (il resort di lusso, i ricchi che si comportano male, l'isola esotica) in qualcosa di veramente e del tutto originale. 

E' una descrizione feroce di quello che è diventato l'Occidente e in tempi come questi viene da pensare quanto sia facile per la propaganda di Putin (ma del resto anche per quella araba/musulmana) puntare il dito su un Occidente alla deriva, in preda alla depravazione dei costumi, al consumo abissale di droghe e alcol, alla dipendenza da farmaci e tecnologia, alla mancanza assoluta di un qualsiasi punto di riferimento alto (non diciamo "morale") superstite, in grado di riempire quel vuoto di senso miserevole in cui è precipitata la vita. 

Eppure, grazie proprio ad opere come questa di Mike White, l'Occidente dimostra una capacità reattiva, autoconsapevole e autocritica durissima (come già accadeva in Don't Look up): il fatto che in Occidente si possano immaginare storie come queste, descriverle, farle vedere a un pubblico, è esattamente la differenza che ancora esiste - e non è poco - tra l'Occidente (o quel che resta di esso) e i regimi di Putin o panislamici fondamentalisti, che si illudono di fermare il tempo solo con la censura e la dura repressione dei comportamenti e delle libertà.

Fabrizio Falconi - 2022 

21/03/22

Le circostanze della tragica morte del grande Keith Emerson, uno dei più grandi tastieristi di sempre

 


Per diverse generazioni è stato veramente un mito, e ancora oggi il nome di Keith Emerson evoca il virtuosismo tecnico dell'uso delle tastiere (dal pianoforte al moog, a tutte quelle elettroniche) che ha contrassegnato un epoca, prima con formazioni leggendarie come The Nice o Emerson Lake & Palmer e infine con una lunga carriera solista. 

Emerson nato nel 1944 in una cittadina del West Yorkshire, dimostrò per decenni una incredibile energia nelle sue esibizioni dal vivo, unita a un talento creativo notevolissimo. 

La sua fine, umana, fu però particolarmente severa.

Già nel 1993, il musicista era stato costretto a prendersi un anno di pausa dalla musica,  dopo aver sviluppato una sindrome nervosa che aveva colpito la sua mano destra, paragonata a quello che comunemente viene chiamata "crampo dello scrittore", e che è una forma di artrite. 

Iniziò un periodo molto duro per Emerson che stava divorziando, dovette affrontare un incendio della sua casa nel Sussex e si trovava alle prese con difficoltà finanziarie. 

Cominciò a bere, prima che un corso di psicoterapia lo portasse a trasferirsi a Santa Monica, in California, dove occupò il tempo correndo maratone, andando in giro con la sua Harley-Davidson e scrivendo colonne sonore e la sua autobiografia, Pictures of an Exhibitionist , che si apre e si chiude con un resoconto della sua malattia e della successiva operazione al braccio. 

Nel 2002, Emerson aveva riacquistato il pieno uso delle sue mani e poteva suonare come prima. 

Più tardi però ricominciarono i problemi con la malattia che gli fu diagnosticata come distonia focale.

Durante la notte tra il 10 e l'11 marzo 2016, all'età di 71 anni, Emerson si uccide nella sua casa di Santa Monica con un colpo di pistola alla testa; soffriva ormai di depressione cronica  a causa della malattia alla mano destra, che ormai lo obbligava a suonare la tastiera con otto dita, e con una prognosi di ulteriore peggioramento.

Il medico legale stabilì la morte per suicidio, e concluse che Keith aveva sofferto anche di mal di cuore e di depressione associata all'assunzione di alcolici

Come dichiarato dalla sua fidanzata Mari Kawaguchi, Emerson era diventato negli ultimi tempi "depresso, nervoso e ansioso" perché il danno ai nervi aveva severamente limitato il suo modo di suonare; era preoccupato che le sue performance nei concerti già in agenda in Giappone potessero risultare troppo povere e non all'altezza del suo nome, così da deludere i fan

Emerson fu sepolto il 1 aprile 2016 al Lancing and Sompting Cemetery, Lancing, West Sussex.

I suoi ex compagni della band ELP, Carl Palmer e Greg Lake, rilasciarono dichiarazioni Palmer disse: "Keith era un'anima gentile il cui amore per la musica e la passione per la sua esibizione come tastierista rimarranno impareggiabili per molti anni a venire".  Lake aggiunse: "Per quanto triste e tragica sia la morte di Keith, non vorrei che questo fosse il ricordo duraturo che le persone si portano via. Quello che ricorderò sempre di Keith Emerson è stato il suo straordinario talento di musicista e compositore e il suo dono e la sua passione per intrattenere. La musica era la sua vita e nonostante alcune delle difficoltà che ha incontrato sono sicuro che la musica che ha creato vivrà per sempre". Greg Lake morì nello stesso anno. 

Fabrizio Falconi 2022 


18/03/22

Il VIDEO più divertente (e intelligente) del mondo...

 

 


In questi tempi così cupi, c'è bisogno di leggerezza.

Costituiscono una ottima panacea questi 3 minuti del video di una allegra canzone, Toe Jam,  singolo di debutto della band elettronica britannica The Brighton Port Authority, pubblicato il 5 agosto 2008, tratta dal loro album di debutto I Think We're Gonna Need a Bigger Boat

La canzone è stata composta  insieme a David Byrne, che la canta insieme al rapper Dizzee Rascal . 

La canzone fu elencata al numero 14 nell'elenco delle 100 migliori canzoni del 2008 della rivista Rolling Stone. 

Ma brilla soprattutto il video musicale della canzone, diretto da Keith Schofield, che ricostruisce i colori e le atmosfere degli anni '70 con uomini e donne che ballano spiritosamente, spogliandosi nudi.

Le barre di censura poste sopra le loro aree genitali e i seni delle donne formano geniali figure geometriche sullo schermo. 

Il video musicale ha all'epoca spopolato su Internet. E forse oggi, per la sua ironia e la sua intelligenza creativa, merita di essere rivisto.

Fabrizio Falconi - 2022   





17/03/22

Putin e il Monaco Nero - una chiave per capire la psicologia di questa guerra

Anton Cechov in una foto del 1903 colorizzata da Klimbim


Credo che chiunque voglia capire un po' di più dello spirito russo, della psicologia di questa guerra e di colui che l'ha scatenata, farebbe bene a riprendere o prendere per la prima volta in mano uno dei più grandi racconti Anton Cechov, Il Monaco Nero, pubblicato nel 1894.

Il racconto ha per protagonista Andrej Vasil'ič Kovrin, un giovane professore universitario di psicologia, stanco e oberato dal lavoro, che decide perciò di trascorrere qualche mese in campagna presso il suo ex tutore Egor Pesockij, un orticultore che vive con la figlia Tanâ in una tenuta ricca di giardini e frutteti meravigliosi. 

La trama, come quasi sempre nei grandiosi testi di Cechov, è piuttosto semplice e può essere descritta così: 

Andrej è affascinato da una leggenda riguardante le apparizioni soprannaturali un monaco nero, e finisce per vederlo. 

Dapprima si preoccupa, sapendo che le allucinazioni sono segno di malattia mentale. Il monaco tuttavia gli parla, mette a tacere i suoi timori e lo convince di dover svolgere un compito importante per il progresso dell'umanità. 

Andrej si sente un eletto destinato a «servire la verità eterna, annoverarsi fra quelli che con migliaia d'anni d'anticipo avrebbero reso l'umanità degna del regno di Dio». 

Andrej sposa Tanâ e ritorna in città con la moglie. Costei si accorge però della malattia del marito e lo convince a farsi curare. Andrej guarisce, le allucinazioni sono scomparse, ma con esse è scomparsa anche la gioia di vivere, essendo Andrej convinto che senza il monaco nero come guida sarà destinato alla mediocrità («Come furono fortunati Buddha, Maometto e Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall'estasi o dall'ispirazione! (...) I dottori e i buoni parenti tanto faranno che alla fin fine l'umanità rimbecillirà, la mediocrità sarà considerata genio e la civiltà perirà»). 

Insofferente Andrej si separa da Tanâ e si unisce a Varvara Nikolaevna, una donna «che aveva due anni più di lui e lo accudiva come un bambino». 

Intanto Andrej si ammala di tubercolosi polmonare. Per giovare alla propria salute si reca in Crimea con Varvara. La malattia progredisce e nelle fasi finali appare nuovamente il monaco nero il quale rimprovera Andrej di non aver avuto fiducia nella sua missione di genio. 

«Quando Varvara Nikolaevna si svegliò e uscì da dietro il paravento, Kovrin era già morto, e sul suo volto si era fissato un sorriso di beatitudine».

Perché è grande questo racconto e perché ha qualcosa di così attuale che riguarda da vicino quello a cui stiamo assistendo in queste settimane di guerra?

Perché nello spirito umano - e particolarmente nello spirito russo, così incline alle perturbazioni dell'anima e alla esaltazione - è insito questo desiderio di grandezza, questo istinto di megalomania che la coscienza e la ragione tengono normalmente a bada in limiti considerati sociali, ma che sono pronti a esplodere quando una psicologia si "ammala". 

Il Monaco Nero è suadente perché dice a Andrej quello che lui vuole sentirsi dire: che lui non è nato per caso, che è venuto al mondo per uno scopo molto preciso e per un compito grandioso. Lui non sarà un mediocre, lui influirà nella storia, addirittura preparerà il cammino al regno di Dio! 

Andrej intuisce di essere pazzo, ma lentamente si lascia convincere che quel che il monaco ha da dirgli sia la cosa più importante, il motivo stesso per cui vive. Senza quella visione, e cioè "guarito", Andrej è profondamente infelice, nel suo ritorno alla "normalità". 

In fondo, un qualche Monaco Nero sussurra sicuramente anche alle orecchie di Putin, gli suggerisce che c'è per lui un posto privilegiato nella storia, un compito fondamentale da portare avanti prima di morire, e che gli garantirà forse, perfino una vita dopo la morte. 

Non c'è nulla di più irresistibile - e di più pericoloso - di una pazzia che si trasforma in ragione di vita e di autoaffermazione. 

Fabrizio Falconi . 2022