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07/04/22
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06/04/22
Libro del Giorno: "Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò" di Raoul Precht
E' di grande interesse, e anche di grande attualità, l'uscita in queste settimane del nuovo libro di Raoul Precht, edito da Bottega Errante, che si concentra sulla vicenda personale, umana e letteraria di Stefan Zweig, inquadrata in un anno cruciale della sua vita, il 1935.
Precht, studioso attento della letteratura europea e tedesca in particolare (lingua quest'ultima che egli conosce come la madre lingua italiana), dopo Kafka (Kafka e il digiunatore, Nutrimenti, 2014) e Sternheim (Carl Sternheim, Schulin, La Camera verde, 2015), si rivolge alla figura di Stefan Zweig, prolificissimo scrittore ebreo, nato a Vienna nel 1881, vissuto a cavallo tra i due secoli, profondo pacifista e umanista, travolto dagli eventi drammatici del Novecento, il quale abbandonò definitivamente il suo paese dopo l'Anschluss nazista, finì i suoi giorni nel lontano Sud America, suicidandosi, nel 1942, insieme alla sua seconda moglie Lotte.
Dal suo primo racconto pubblicato a 19 anni, Primavera al Prater, Zweig fu instancabile, pubblicando una mole incredibile di romanzi e racconti, poesie e testi teatrali, memorie e lettere, saggi e articoli, raccolte e antologie, e numerosissime biografie che vanno da Tolstoj a Fouché, da Maria Stuarda a Toscanini, da Magellano a Montaigne e tantissimi altri.
Il libro di Raoul Precht incrocia la vita di Zweig nel suo anno cruciale, da gennaio del 1935 al gennaio successivo, lo scrittore si trova ad attraversare le sliding doors che ne decideranno il destino: è l'anno in cui la moglie Friderike (che Zweig aveva sposato prendendo con sé anche le due figlie avute dalla donna dal suo precedente matrimonio) scopre la sua relazione con Lotte Altmann, la sua segretaria, alla quale lo scrittore si legherà definitivamente in seguito, sposandola, e condividendo con lei il gesto estremo del suicidio.
Ma è anche l'anno in cui, a seguito di un primo scontro con la polizia locale, Zweig decide di lasciare Salisburgo e l'Austria e di stabilirsi in Gran Bretagna. Il suo paese infatti, come la Germania, è irretito dalle sirene naziste e il clima per gli ebrei comincia a farsi irrespirabile.
Zweig inizia un inquieto pellegrinaggio che lo porta in dodici mesi a spostarsi tra Nizza e New York e poi Vienna, Zurigo e le alpi svizzere, Marienbad, Parigi, Londra e infine nuovamente Nizza.
In questo errare lo scrittore incontra, in giro per l'Europa, scrittori e artisti con i quali è in rapporti di amicizia, da Thomas Mann a Joseph Roth, da Sigmund Freud a Arturo Toscanini.
Precht sceglie la cifra stilistica di un romanzo biografico: né una vera biografia, né un vero romanzo. La ricostruzione accuratissima degli spostamenti, degli incontri, dei particolari anche apparentemente trascurabili, contribuiscono a ricostruire il clima di un tempo difficile, che lo spirito inquieto di Zweig attraversa come sotto effetto di una febbre cerebrale.
Si stringe la morsa intorno a lui e intorno ai suoi amici: si impone di abbandonare le scelte di una vita comoda, facile, colma - nel caso di Zweig - anche di riconoscimenti e onori. Si impone di predisporsi ad abbandonare ciò che è più caro e salpare verso l'ignoto.
Non solo: la vita di quei mesi obbliga anche a scegliere quale atteggiamento opporre di fronte all'avanzare dell'orrore, della discriminazione, dell'odio, incarnata dal tiranno Hitler, pronto a spaccare il mondo in due e a metterlo a ferro e fuoco.
Zweig, anche rischiando l'incomprensione o la censura dei suoi amici più cari - magari ebrei come lui, come è il caso di Roth - sceglie un atteggiamento riservato, di non aperta denuncia: non si schiera, non fa appelli, non dà la caccia al mostro.
Altri gli dicono che è ora, invece, di rompere gli indugi e chiamare il demonio con il suo nome. Ma Zweig temporeggia: la sua indole, il suo credo profondamente pacifista, gli impongono prudenza e desiderio di distacco. E' la natura umana a deluderlo, la triste evoluzione di un destino collettivo - e quindi anche personale - che distrugge il sogno della vita bella, della vita dedicata alla conoscenza, al sapere, alla consapevolezza.
Zweig si avvicina alla fine della sua vita, sentendo che le forze gli vengono meno, dopo anni di vagabondaggio e sa che il porto del ritorno per lui è precluso per sempre. Cerca rifugio dunque, nell'unica cosa che può dargli piacere e in fondo salvezza: il lavoro, il lavoro intellettuale.
Verrà un tempo - e verrà presto, di lì a sette anni - in cui anche questo non basterà più e Stefan abbraccerà il suo desiderio di dissoluzione in compagnia della donna che ha deciso di condividere con lui il suo destino.
Il libro di Raoul Precht, letto in questi tempi in cui i tamburi di guerra hanno ricominciato a rullare così forte - e proprio nel cuore della vecchia Europa - si impone come una lettura non solo qualitativa, ma necessaria.
Stefan Zweig, L'anno in cui tutto cambiò
Fabrizio Falconi - aprile 2022
05/04/22
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04/04/22
Perché la Shoah (l'Olocausto) è un "unicum" nella storia umana?
Specialmente in questi anni così confusi, di negazionismi sfrenati, benaltrismi, narcisismi piccoli e grandi che si esaltano nella confutazione spavalda dell'ovvio e del naturale, col pretestuoso e l'inaccettabile, vale la pena riportare qui la risposta forse più chiara ed esaustiva possibile alla domanda che spesso si sente ripetere, ovvero: per quali motivi la Shoah, l'Olocausto degli ebrei da parte dei nazisti, durante la Seconda Guerra mondiale è un "unicum" nella storia umana, e perché è sbagliato concettualmente e materialmente equipararlo ad altri tipi di genocidi terrificanti che sono stati compiuti nella storia.
01/04/22
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29/03/22
Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma
Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di
specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul
declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa
in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in
quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla
divinità di Flora, dea romana delle piante.
La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi.
La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia
piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi
visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme
distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe. Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il
cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più
anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava
all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando
furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e
spostato proprio nell’area dell’Aventino.
Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto
seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti. In questi tre spazi contigui, per circa 250
anni gli ebrei seppellirono i loro morti.
L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle
autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica. Falliti i primi tentativi di esproprio, per
la opposizione della comunità israelitica, nel
Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte
dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via
della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi
sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.
Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran
fretta traslate al Verano.
I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato
dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i
combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra. E soltanto nel 1950 il comune decise di
trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle
bombe.
La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed
il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a
tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della
originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti
che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate,
formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.
Ancora oggi, i kohanim, i
sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il
divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013
28/03/22
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25/03/22
La famosissima (e commovente) foto di Falcone e Borsellino: chi l'ha scattata? E come nacque?
Anche se non ci vediamo più da qualche anno, conservo un ricordo di stima incondizionata per Tony Gentile, uno dei migliori fotoreporter italiani, in assoluto.
Ho incrociato Tony per la prima volta molti anni fa nelle lunghe attese come cronista nelle aule dei processi più controversi che si sono tenuti in Italia. Ho apprezzato subito il suo sorriso, le sue parole parche, la pazienza, l'intelligenza che emanava e emana dal suo sguardo. Non eravamo propriamente amici, non avevamo questa confidenza, ma credo che ci stimassimo vicendevolmente e in quelle lunghe ore di attese, condividevamo opinioni, impressioni, idee. Mi sembrava che il suo cognome si adattasse magnificamente alla sua personalità.
Tony, nato a Parlermo nel '64, ha un curriculum notevole: fotoreporter e giornalista iniziò a fotografare nel 1989 collaborando con l'Agenzia fotografica Sintesi grazie alla quale pubblicò i suoi reportage dalla Sicilia sui maggiori quotidiani e periodici italiani e stranieri. E in questi anni raccontò con le sue immagini l'attacco stragista della mafia contro lo Stato, fotografando le stragi di Capaci e di via D'amelio. Dal 2003 si trasferisce a Roma dove entra a far parte dell'Agenzia di stampa internazionale Reuters per la quale ha coperto, fino al 2019, storie di attualità, cronaca, costume e sport di interesse internazionale viaggiando tanto in giro per il mondo e fotografando alcuni degli eventi che sono rimasti nella memoria collettiva.
Ma pochi sanno che Gentile è l'autore della fotografia dei magistrati Falcone e Borsellino che sorridono, diventata icona del riscatto di un popolo intero alla violenza della mafia.
Qualche tempo fa, Gentile ha raccontato a Francesca Marani de Il Fotografo, quando e come nacque quella magica fotografia, che oggi è nel cuore di tutti gli italiani
«Il giorno in cui ho realizzato quello scatto» dice Tony Gentile, «non avrei certo potuto prevedere il percorso che l’immagine avrebbe fatto, la vita che avrebbe avuto, anche indipendentemente da me. Mi trovavo a un convegno al quale erano presenti i due giudici come relatori, dovevo coprire l’evento su commissione di un giornale locale. A un certo punto Falcone si avvicina a Borsellino, i due si dicono qualcosa e poi scoppiano in una risata fragorosa che richiama l’attenzione degli astanti. È una frazione di secondo, salto davanti a loro e colgo l’attimo. È solo dopo la strage di Capaci del 23 maggio che recupero lo scatto e lo invio a vari giornali che prontamente l’archiviano in un cassetto e dopo quella di via D’Amelio del 19 luglio, la foto è pubblicata sulle prime pagine di tanti quotidiani italiani. Da quel giorno, sarà stampata sulle magliette, appesa ai muri, conosciuta da tutti. E questo è senza dubbio il lato positivo: aver creato una fotografia che ha il tempo dell’eternità, un’immagine che i ragazzi possono osservare sui libri di storia, un simbolo positivo per le future generazioni»
Tony all'epoca aveva solo 28 anni.
Questa è la stampa dei provini di quel preziosissimo rullino, con le foto scattate quel giorno:
Nella medesima intervista a Il Fotografo, Tony Gentile ricorda i suoi anni giovani, le manifestazioni che frequentava assiduamente, che erano seguite da grandi fotografi come Letizia Battaglia e Franco Zecchin.
Racconta anche il suo veloce apprendistato, quando fin da subito si trovò calato all’interno di un universo di grandi conflitti e cambiamenti politici che investivano, in quegli anni la città di Palermo.
"L’idea di un giovane fotoreporter," dice, "solitamente, è quella di andare per il mondo, partire alla volta di un Paese lontano, ma io non avevo bisogno di andare da nessuna parte. La guerra era lì, di fronte a me. In casa, nella mia città. Essere un fotografo di cronaca in quegli anni in Sicilia significava scontrarsi inevitabilmente con i morti ammazzati per strada e doversi misurare con la documentazione di un fatto mafioso. Attendevo con ansia il momento in cui avrei dovuto fotografare un morto ammazzato perché non sapevo quale sarebbe stata la mia reazione. La mia memoria visiva tuttavia era già costellata di immagini di morte, ero cresciuto con quelle fotografie stampate sui giornali. Quando poi è successo sul serio, quando sono stato chiamato a fotografare il mio primo omicidio, nel maggio del 1990, la macchina fotografica, come spesso accade, ha fatto da filtro e, nonostante l’impressione iniziale, sono riuscito a portare a termine il mio compito. In fondo, un po’ cinicamente, ti concentri solo sul lavoro: portare a casa una buona fotografia. Forse, è un bene perché così non hai il tempo per lasciarti coinvolgere emotivamente".
Quel che è certo è che oggi, certamente non solo e non soltanto per la famosa foto a Falcone e Borsellino, Tony Gentile è uno dei migliori fotoreporter, uno di quelli che hanno fatto - consumando la suola delle scarpe e a prezzo delle cicatrici sul proprio cuore - la storia degli ultimi decenni in questo paese.
22/03/22
The White Lotus, la bellissima e feroce nuova serie HBO che racconta cosa è diventato l'occidente
21/03/22
Le circostanze della tragica morte del grande Keith Emerson, uno dei più grandi tastieristi di sempre
Per diverse generazioni è stato veramente un mito, e ancora oggi il nome di Keith Emerson evoca il virtuosismo tecnico dell'uso delle tastiere (dal pianoforte al moog, a tutte quelle elettroniche) che ha contrassegnato un epoca, prima con formazioni leggendarie come The Nice o Emerson Lake & Palmer e infine con una lunga carriera solista.
Emerson nato nel 1944 in una cittadina del West Yorkshire, dimostrò per decenni una incredibile energia nelle sue esibizioni dal vivo, unita a un talento creativo notevolissimo.
La sua fine, umana, fu però particolarmente severa.
Già nel 1993, il musicista era stato costretto a prendersi un anno di pausa dalla musica, dopo aver sviluppato una sindrome nervosa che aveva colpito la sua mano destra, paragonata a quello che comunemente viene chiamata "crampo dello scrittore", e che è una forma di artrite.
Iniziò un periodo molto duro per Emerson che stava divorziando, dovette affrontare un incendio della sua casa nel Sussex e si trovava alle prese con difficoltà finanziarie.
Cominciò a bere, prima che un corso di psicoterapia lo portasse a trasferirsi a Santa Monica, in California, dove occupò il tempo correndo maratone, andando in giro con la sua Harley-Davidson e scrivendo colonne sonore e la sua autobiografia, Pictures of an Exhibitionist , che si apre e si chiude con un resoconto della sua malattia e della successiva operazione al braccio.
Nel 2002, Emerson aveva riacquistato il pieno uso delle sue mani e poteva suonare come prima.
Più tardi però ricominciarono i problemi con la malattia che gli fu diagnosticata come distonia focale.
Durante la notte tra il 10 e l'11 marzo 2016, all'età di 71 anni, Emerson si uccide nella sua casa di Santa Monica con un colpo di pistola alla testa; soffriva ormai di depressione cronica a causa della malattia alla mano destra, che ormai lo obbligava a suonare la tastiera con otto dita, e con una prognosi di ulteriore peggioramento.
Il medico legale stabilì la morte per suicidio, e concluse che Keith aveva sofferto anche di mal di cuore e di depressione associata all'assunzione di alcolici.
Come dichiarato dalla sua fidanzata Mari Kawaguchi, Emerson era diventato negli ultimi tempi "depresso, nervoso e ansioso" perché il danno ai nervi aveva severamente limitato il suo modo di suonare; era preoccupato che le sue performance nei concerti già in agenda in Giappone potessero risultare troppo povere e non all'altezza del suo nome, così da deludere i fan
Emerson fu sepolto il 1 aprile 2016 al Lancing and Sompting Cemetery, Lancing, West Sussex.
I suoi ex compagni della band ELP, Carl Palmer e Greg Lake, rilasciarono dichiarazioni Palmer disse: "Keith era un'anima gentile il cui amore per la musica e la passione per la sua esibizione come tastierista rimarranno impareggiabili per molti anni a venire". Lake aggiunse: "Per quanto triste e tragica sia la morte di Keith, non vorrei che questo fosse il ricordo duraturo che le persone si portano via. Quello che ricorderò sempre di Keith Emerson è stato il suo straordinario talento di musicista e compositore e il suo dono e la sua passione per intrattenere. La musica era la sua vita e nonostante alcune delle difficoltà che ha incontrato sono sicuro che la musica che ha creato vivrà per sempre". Greg Lake morì nello stesso anno.
Fabrizio Falconi 2022
18/03/22
Il VIDEO più divertente (e intelligente) del mondo...