18/04/18

L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680)




 L’eremo della Mentorella sul Monte Guadagnolo e il genio di Athanasius Kircher (1602-1680) 
di Fabrizio Falconi


  
        La prima volta ci sono arrivato per caso molti anni fa.  Sulle tracce degli obelischi.
        Roma, per chi non lo sapesse, è la città al mondo che ne ospita di più. Gli obelischi egiziani -  la maggior parte dei quali molto più anziani di qualsiasi manufatto umano esistente nella ‘città eterna’ - sono ben tredici.   Alcuni assai famosi, come quello di Ramsete II, che svetta ancora in Piazza del Popolo, oppure quello scavato nelle cave di Assuan da Tutmosis III ben millecinquecento anni prima di Cristo. Altri ormai misconosciuti, come quello ‘capitolino’ lasciato ad ammuffire tra le erbacce di Villa Celimontana.
         E anche se oggi se ne parla solo quando si discute di ‘arredo urbano’ , c’è sempre qualcuno, per fortuna, che degli obelischi si interessa alla loro storia millenaria.
         Avevo letto in un libro di Cesare d’Onofrio, che al Collegio Romano esistevano ancora tracce di una antica e prestigiosa collezione di antichi modellini, in scala, degli obelischi egizi di Roma.
       Una mattina varcai la soglia del Liceo Visconti,  che oggi è ospitato nelle sale del Collegio Romano.  Erano appena finite le lezioni, pochi studenti bighellonavano nel cortile, all’ombra della grande torre. Chiesi indicazioni alla segreteria del liceo.   Una impiegata senza molta voglia di rispondere, mi rimandò all’ufficio del preside. Ma anche lui era assente. Una seconda segretaria, questa sua personale, mi chiese il motivo della visita.  Spiegai che stavo cercando la collezione dei modelli degli obelischi.
         La signorina, una donna corpulenta e bionda, dai tratti nordici, chiese di rimando:
         “ Quelli di Kircher ?”
         Non era la prima volta che sentivo quel nome, ovviamente.
         Ma quel giorno, si scatenò definitivamente la mia curiosità.  Anche perché la collezione risultò non visitabile.  I modelli degli obelischi – alcuni dei modelli, quelli superstiti -  mi spiegò la segretaria, effettivamente erano ancora lì, conservati sotto chiave, in alcune normalissime teche, nel sottotetto dell’edificio.  Ma per vederli bisognava disporre di una autorizzazione speciale, della sovrintendenza.
         “ Tra l’altro, “ aggiunse la segretaria, “ non glielo consiglio. Non è che siano tenuti molto bene, sa. Non capisco perché qualcuno non se ne occupi. Non li restauri, per esempio, e vengano esposti in un museo vero.  Qui combattiamo con gli studenti, non sa cosa sono capaci di fare quelli.”
         Ringraziai la ragazza, rimasi ancora un po’ a guardarmi intorno nel cortile dell’antico Collegio dei Gesuiti,  l’ombra dell’edificio l’aveva ormai occupato quasi interamente.
         Quello stesso giorno, anche se archiviata l’idea di vedere i modelli – troppo complicato -  riuscii ad ottenere la commissione di indagare – per conto di una rivista – su alcuni aspetti della vicenda terrena di Padre Athanasius Kircher.
         Sul conto del quale molto sapevo, ma altrettanto ignoravo.
       Illustre gesuita tedesco, massimo erudito, uomo per molti versi misterioso. Autore di bizzarre opere enciclopediche dai titoli solenni:  Ars Magna Lucis et Umbrae;  Itinerarium Exstaticum;  Phonurgia nova; Prodromus coptus sive aegyptiacus.   Avevo visto qualche giorno prima da vicino, nel Romani Collegii, uno dei pochi ritratti esistenti, il tondo con l’incisione del volto di Kircher: quella faccia incorniciata dalla barbetta bianca e dal tricorno nero, il naso imponente e dritto, gli occhi chiari e vispi, sullo sfondo consueto di quella che doveva essere la sua sterminata biblioteca.
        
      
 Uomo religioso, e allo stesso tempo grande scienziato, che  non esitava a farsi calare nella bocca del Vesuvio, per studiare da vicino la meccanica dei vulcani. Pio pastore, eppure anche intrepido esploratore dell’occulto, come di qualsiasi materia del conosciuto: dalla matematica alla geometria dei solidi, dallo studio delle lingue – copto, siriaco, egizio -  alla interpretazione dei simboli ermetici,  cultore di  numerologia, cartografia, ottica. Nel suo gabinetto delle scienze, al Collegio Romano – in quelle stesse  aule dove oggi stemperano le loro furie ormonali gli allievi del decaduto Liceo Visconti -  Athanasius Kircher realizzò tra le altre cose inventò il prototipo della lanterna magica;  una delle più antiche calcolatrici;  compilò la prima rappresentazione cartografica delle correnti marine; fu il primo ad osservare il sangue umano al microscopio; fu il primo a decifrare la grammatica copta, sperticandosi poi nella interpretazione dei geroglifici egiziani (trascrivendone i segni dagli obelischi romani ) e sbagliando quasi tutto, ma fornendo comunque intuizioni geniali senza le quali – probabilmente – non vi sarebbe stato nessuno Champollion.
    Alla ricerca di notizie e fonti, scoprii che la Vita Reverendi Patris Athanasi Kircheri, l’autobiografia scritta in latino da sé medesimo prima di morire,  avvincente come e più di un romanzo, è inedita in Italia. Ma  buone copie erano disponibili nelle biblioteche storiche dei gesuiti.
         Così, la prima volta che sfogliai le pagine della Vita, mi imbattei in quel formidabile incipit:
        Nacqui il 2 maggio 1602, giorno di Sant'Atanasio, alle tre della notte, nell'infelice città di Geisa, a tre ore di viaggio da Fulda. I miei genitori erano Johann Kircher e Anna Gansek, cattolici devoti, rinomati per le loro buone opere.
          Quell’incipit che pare  già tutta una promessa. E in quel nome – Athanasius, dall’aggettivo greco athànatos   l’evidenza di un destino. Athanasius, l’immortale ?  Ho cominciato a pensarlo, quando per l’articolo che dovevo scrivere ho cominciato a cercare la tomba di Kircher, a Roma. Si comincia sempre da lì, dalla tomba, in effetti, quando si vuol conoscere qualcosa di più dei segreti di un uomo.  E nel caso di Kircher, com’era consequenziale a tutta la sua vita, i segreti anziché dipanarsi, si sono moltiplicati.
           La tomba di Kircher, per quanti sforzi abbia fatto per cercarla, semplicemente non esiste più.
           Dovunque sia stato sepolto -  e io ho trovato numerosi documenti antichi che riportano tutti la stessa data e il luogo della sua morte,  Roma, 27 ottobre 1680 – nessuno sa più dire dove si trovino  i resti di quel corpo.   I documenti lo danno sepolto alla Chiesa del Gesù, come doveva essere ovvio per un personaggio di tal guisa, che all’epoca tutti conoscevano, che aveva lungamente collaborato con Gian Lorenzo Bernini alla realizzazione di alcune delle più grandi imprese del barocco romano – e che negli anni aveva allestito, proprio nelle sale del Collegio Romano uno straordinario museo di meraviglie, raccolte da confratelli gesuiti in ogni angolo del pianeta allora conosciuto, quel prodigioso Museo Kicheriano, purtroppo andato quasi del tutto perduto.
        Nessuno al mondo, in quel mondo vantava una collezione simile, con ogni sorta di reperti animali, esposti ed impagliati, con ogni specie di nuova invenzione ottica o matematica destinata a stupire i più blasonati visitatori delle corti di mezza Europa.

           
     Nessuno al mondo poteva conferire consulenze così preziose sulle opere da realizzare nella città museo del mondo, Roma. I mostri della Fontana dei Fiumi scolpiti da Bernini vengono lì, come viene da lì, naturalmente, tutto il complicato, esattissimo corredo simbolico del piccolo obelisco e dell’elefante, poco distante, il pulcino della Minerva commissionato da Alessandro VII, e scolpito da Ercole Ferrata. 
           Eppure, di un così tanto – e a giusta misura – celebrato personaggio, sorprendentemente, in nessuno dei registri anagrafici delle antiche chiese parrocchiali di Roma, conservati nella monumentale registeria storica del Vicariato di Roma,  esiste il certificato di morte e sepoltura di Athanasius Kircher. Sparito. O mai esistito.
           Perché ?
          Che fine aveva fatto quel certificato, che pure avrebbe dovuto risultare, se l’enciclopedico morì – come morì – a Roma ?  E soprattutto perché  nella Chiesa del Gesù, che conserva l’elenco minuzioso e completo di ogni sepoltura, non v’era traccia della tomba di Kircher ?
         Semplicemente, dopo qualche settimana di appassionante investigazione, e consultazione di ogni tipo di archivio, e di contatti fruttuosi con i maggiori studiosi di Kircher, in Italia e all’estero, dovetti rassegnarmi a concludere, che semplicemente la tomba illustre non si trovava, non c’era, non esisteva, e nessuno poteva dire  con sicurezza dove fosse stata una volta. 
            Quasi come se il corpo stesso dell’Athanasius,  si fosse volatilizzato, adattandosi al destino di quel nome.
            Ma le tracce di Kircher, in mancanza del corpo, non si rivelarono del tutto assenti.
            Almeno qualcosa restava.
            E qualcosa di non poco conto: il suo cuore.
            Come molti illustri contemporanei,  Kircher infatti, nelle ultime volontà, dispose per sé che, dopo la morte, il cuore fosse separato dal corpo, e deposto in un luogo a parte. 
            Quel luogo, lo aveva scelto con massima cura.
            Lessi  nella Necrologia alfabetica dei Padri Gesuiti, alla lettera K di Kircher:
            “ Il cuore è sepolto al Santuario della Mentorella, al Monte Guadagnolo.”
            Unica traccia riscontrabile. E, visto il precedente,  meglio verificare di persona.
             Così, un pomeriggio di agosto, ho preso con me una buona cartina stradale,  e in macchina mi sono diretto  fuori città, verso Sud, alla ricerca del Santuario, dove – come molti che abitano a Roma – non ero mai stato in vita mia.
           C’è anche una ragione.
          La Mentorella, pur essendo a un tiro di cannone dalla capitale, è  abbarbicata su un impervio sperone di roccia,  poco oltre Tivoli, sulla cresta del  Guadagnolo, nei monti Prenestini, che è alto milleduecento metri, eremo del tutto fuori dagli itinerari battuti dal turismo di massa.
           Si passa da Palestrina, città dalle nobili origini e dalla grande storia, poi la strada prende a salire su tornanti quasi del tutto spogli di vegetazione, da Capranica Prenestina fino alla cima del monte.  E arrivati al Passo della Fortuna, nome memorabile, laggiù in basso, a sinistra, ecco comparire il dorso di tetti rossi del Santuario.
        Varcato il cancello di ingresso, davanti all’ingresso della chiesetta, su un piccolo rialzo di roccia, una grande croce, moderna.   Di fronte, un altro ventaglio di rocce scoscese, dal profilo piuttosto familiare. 

        Parcheggiata la macchina di fronte al cancello di ingresso, e oltrepassatolo, si scopre subito un cartello verniciato, all’imbocco di un impervio sentiero che discende la montagna: Cammino Athanasius Kircher.
        Lo si capisce immediatamente: questo luogo deve molto a Kircher, ma la sua lunghissima storia non comincia certo con il padre gesuita, che in realtà si limitò a riscoprirlo, a restituirlo a nuova vita dopo secoli di totale abbandono.
        Ma la vicenda cristiana che si fonda sulla Mentorella  può vantare duemila anni di storia.   E comincia, mentre a Roma imperava Traiano,  con la prodigiosa visione dalla solida tradizione attribuita all’ufficiale pagano Placido, che in questa regione possedeva ville e terreni, nei quali esercitava la caccia, tra una campagna militare e l’altra.
        Un giorno fatale, a quell’ufficiale un po’ rozzo accade qualcosa di inspiegabile e anche di inconfessabile.  Tra le corna del grande cervo che sta per ammazzare, e che gli è apparso all’improvviso su una nuda roccia,  vede il volto di Gesù Cristo.  Una luce divina, così forte, una visione così ‘intollerabile’  che lo costringe a cambiare tutta la sua vita, da un momento all’altro.

La visione di Sant'Eustachio del Pisanello

        Torna a Roma, si fa battezzare come fanno i cristiani,  e cambia il nome in Eustachio.  Nella Roma efferata di quei tempi non rinuncia alla nuova fede, non  abiura.  Cosa che gli vale il martirio, prima risparmiato dalle belve feroci, poi insieme a mogli e figli, dentro un toro di bronzo arroventato.
         Sul posto dove apparve il cervo, sulla sommità della rupe, una semplice cappella. Pochi gradini per arrivarci, un piccolo campanile, con una corda che un bimbo si diverte a tirare, gli affreschi scrostati, e la massima visione sull’ampia valle del Giovenzano.
         E la storia prosegue.  Dopo Eustachio, il Santo, venne qui Costantino Imperatore. Impressionato dal sacrificio di Eustachio,  e a lui devoto, si dice, qui fece costruire un primo tempio. Del quale non restano che sparute colonne.

La visione di Sant'Eustachio del Durer
         
           In questo semplice, essenziale compendio di storia del cristianesimo – che è la Mentorella -  arriva poi il tempo del grande monachesimo d’occidente. Con il suo grande patriarca,  Benedetto da Norcia.  Fu abitata da lui, la piccola e bellissima grotta che si apre sotto la rupe di Eustachio ?   Le fonti dicono di sì.  E si fermò due anni interi, sembra, prima di andare a fondare il Sacro Speco.
          Due anni interi in questa grotta ?
          Per entrarci, oggi, ci si deve mettere di traverso, farsi accarezzare dalla roccia, in una fenditura strettissima, sorvegliata all’ingresso da ossa umane, in un tabernacolo incassato dentro la montagna.  Poi, all’interno, poche candele accese, un grande e spoglio crocefisso, un rosario, il silenzio che non smette di martellare le orecchie. 
          La memoria di San Benedetto non deve essere durata a lungo, nel lento oblìo medievale,  anche se si consolidò fino all’anno mille, e dopo, la decisione ripetuta e continua di assegnare il santuario alla pertinenza dei Benedettini di Roma. 


          Per la vera rinascita, però, bisognò aspettare altri secoli, fino all’anno del Signore  1661, quando il volenteroso gesuita di Fulda,  preso da una delle sue frenetiche ricerche storico-mistiche  – stavolta il trattatello si sarebbe chiamato Historia Eustachio-Mariana -  si avventurò da queste parti sulle tracce di Sant’Eustachio, e della miracolosa visione del cervo.
          Non è difficile indovinare il suo stupore, quando egli – con i mezzi dell’epoca, che possiamo immaginare – arrivando sulla cima del monte, in un posto dai molti crepacci come questo, scovò sommerse dagli arbusti le rovine di un antico e perduto tempio cristiano. Lo racconta lui stesso, nella Vita. La cosa che più lo sconvolse fu l’abbandono della veneranda statua della Madonna, che pure, come gli spiegò  la gente del luogo, si era resa protagonista, nel corso dei secoli, di ben evidenti prodigi.
           A Kircher non mancavano mezzi ed intelligenza. E conoscenze.   E in pochi anni rinnovò il luogo e il culto.  Istituendo anche una festa annuale, il 29 settembre, dedicata a San Michele Arcangelo, che cominciò a richiamare migliaia di fedeli ogni volta. Illustri protettori – grazie all’influenza del conosciutissimo e influente gesuita – presero a cuore le sorti del Santuario, da Maria Teresa d’Austria  al conte di Wallenstein, all’Imperatore Leopoldo I d’Austria, al Viceré di Napoli Pedro D’Aragona.
           Non solo. Kircher trasformò la Mentorella, nel suo eremo personale.
           Qui, soltanto qui, ritrovava la pace del cuore.  E il silenzio necessario ad approfondire i suoi studi, che intanto proseguivano fertili in tutte le direzioni. Un silenzio che al Collegio Romano era diventato merce rarissima.
           Così, ogni qualvolta c’era bisogno di lui, come quella volta che a Roma si ritrovarono finalmente giacenti sotto terra i pezzi del magnifico obelisco solare di Augusto, in Campo Marzio,  e solo a lui si poteva chiedere un parere,  bisognava mandare un messo fino alla Mentorella, e chiedergli di scendere in città.
          Sempre più recalcitrante, con l’avanzare della vecchiaia,  Kircher si disponeva a sopportare l’umida e stagnante aria di Roma, salvo tornarsene, il prima possibile,  nell’alto delle vette prenestine.
           Fino a quel 27 ottobre del 1680, quando la morte lo colse alla veneranda età di 78 anni. 
           Ed esattamente il giorno dopo, il 28 ottobre, per uno di quegli scherzi del caso che lascia allibititi, morì a Roma Gian Lorenzo Bernini. 
           Non è difficile supporre che i due eventi luttuosi, così ravvicinati, dovettero suscitare enorme eco a Roma. Kircher e Bernini, le due facce di una stessa trionfante, erudita, popolarità.
           Oggi, cosa resta di tutto questo ?  Alla Mentorella, forse è la suggestione ad indurre a pensarlo, resta molto. 
            Il Santuario, da un secolo e mezzo è custodito dai padri polacchi resurrezionisti. Da quando, nel 1857 i fondatori Semenenko e Kajsiewicz riuscirono ad ottenere da papa Pio IX la cura del Santuario, realizzando per prima cosa la strada di accesso, dal Passo della Fortuna al picco della Mentorella.
            Alcuni dei padri, giovani e silenziosi, li incontri oggi nel piazzale di ingresso. Ti salutano con un sorriso, e pregano soltanto di mantenere la quiete che il posto ha conservato miracolosamente nei secoli.  Ti raccontano sussurrando, che il loro Papa polacco, Giovanni Paolo II, pochi lo sanno, fece proprio qui la sua prima uscita, dopo l’inaspettata elezione al Soglio Pontificio. Era il 29 ottobre 1978, e ventimila persone – in maggioranza giovani – parteciparono insieme  a lui a quel memorabile pellegrinaggio. Questo luogo mi ha aiutato molto a pregare, disse una volta papa Wojtyla, e non è difficile crederlo, visto che qui tornò molte volte, anche fuori dell’ufficialità, durante il suo lungo pontificato.

Giovanni Paolo II alla Mentorella, 29 ottobre 1978

           Vi ritrovò forse quelle stesse caratteristiche ricercate a suo tempo da Kircher: pace, silenzio assoluto, raccoglimento, vicinanza al cielo e ai Misteri.
           Entrati nella Chiesa, un canto gregoriano appena udibile in sottofondo, accoglie insieme al senso di intimità e di purezza.
           Tre navate, la centrale più grande con capriate in legno. Preziosi reperti d’arte, ovunque.  Nella cappella di sinistra all’altare l’antichissima tavola di quercia, con la scena della consacrazione della Mentorella, che l’onnipresente Papa Silvestro I, secondo la tradizione, dovette dispensare.  E, sull’altare il ciborio del 1305,  con all’interno quella piccola statua in legno della Madonna, seduta con il Figlio in braccio,  che suscitò l’attenzione e la venerazione di Padre Kircher. 
           Ai suoi piedi, per esplicita volontà, egli volle che fosse deposto il suo cuore.
           Dunque basta spostare di poco lo sguardo, in terra, ed ecco, incastonata nel pavimento, la pietra che copre l’urna che cercavamo:
Leggo e rileggo l’iscrizione: ATHANASIUS KIRCHER SAC. SOC. IESU / TEMPLI HUIUS INSTAURATOR/ET SACRAE QUAE HEIC QUOTANNIS CELEBRATUR / EXPEDITIONIS AUCTOR / COR SUUM AD ARAE MARIAE D.N. PEDES / CONDI  VOLUIT  /  OBIIT. ROMAE A.MDCLXXX / AETATIS LXXX.


La lapide con l'iscrizione posta ai piedi dell'Altare della Mentorella che indica il luogo della sepoltura del cuore di Athanasius Kircher (foto dell'autore)

            Non solo il restauratore, quindi, ma anche l’ideatore e il promotore del nuovo rito di venerazione.  E poi: il cuore suo ai piedi dell’altare della Signora Nostra Maria.
            Un esempio destinato ad essere imitato, se è vero che spostandosi di poco all’interno della Chiesa, nel  pilastro di destra, si scopre un altro ‘cuore illustre’, quello di Papa Innocenzo XIII, che pur non essendo propriamente un amico dei gesuiti, destinò la parte più nobile di sé a fianco di quella di uno dei più celebri rappresentanti della Compagnia. 

L'urna murata con il cuore di Papa Innocenzo XIII alla Mentorella (foto dell'autore)


            Oggi, dissolta nell’aria la serenità immota di venti secoli, se non altro per la comodità dei collegamenti, arrivano quassù sparute comitive  di visitatori, gruppi parrocchiali in gite domenicali, e di scout attratti dal contorno naturalistico.  D’estate, il numero dei fedeli cresce,  diventa enorme la vigilia del giorno dell’Ascensione, il 14 agosto, quando una processione notturna di fiaccole illumina la cima del monte, portando in processione l’immagine del Salvatore. 
             I padri resurrezionisti ti confidano allora che il senso di quell’antico isolamento si ritrova solo in certi giorni d’inverno, quando i mezzi spazzaneve non hanno tempo di spingersi fino alla cima, e il Guadagnolo resta immerso nel silenzio del vento gelido che soffia senza ostacoli.
           In quei giorni, dicono, sporgendosi dalla Rupe di Sant’Eustachio, sulla sommità del Santuario, si apprezzano colori unici, e lo spettacolo pieno di stupore di un silenzio che sigilla le opere del creato con il loro Creatore.
             Athanasius Kircher, mistico e scienziato, scienziato e mistico, conosceva meglio di chiunque i segreti di quel silenzio.
             Nella seconda pagina della sua monumentale Ars Magna, scriveva:
             Le pianticelle che giacciono sepolte nel ventre dei loro semi, sotto lo sguardo del Sole, germogliano ebbre di gioia e presto sbocceranno in foglie, fiori, frutti.  Tutti gli animali, sospinti dalla gioia dei cieli, vale a dire dalla fertile radiazione di luce, sono stimolati, come da un sorriso, al piacere da movimenti fecondanti. Persino le rocce, remote come appaiono a ogni contatto con la luce, attratte da qualche forza di radiazione occulta, inturgidiscono, e nella loro tumescenza si abbracciano l’un l’altra, tutte unendosi alla danza delle sfere celesti.


Fabrizio Falconi 
Riproduzione riservata 2018 
testo estratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli, Siena, 2009

16/04/18

Il 21 Aprile, Natale di Roma, uno straordinario concerto al Mausoleo di Santa Costanza per celebrare il restauro dell'organo monumentale.




Il lavoro di restauro, ad opera della ditta Tamburini di Crema, ha previsto la rifusione e sostituzione delle canne piegate e pericolanti, il rifacimento dei cinque mantici, la sostituzione del motore e altri lavori di sostituzione, manutenzione e pulizia. 

Con l’aiuto di tanti fedeli e amici, della parrocchia e non, il complesso monumentale di Sant’Agnese riabbraccia così uno dei suoi elementi storici: l’organo - ma non solo… ricordiamo anche il nuovo sistema di riscaldamento elettrico della basilica e la sostituzione dell’organo elettronico nel Mausoleo di Costanza. 

Il Maestro Paolo De Matthaeis - organista della Basilica e del Mausoleo - suonerà alcuni celebri brani per organo, tra cui la celebre Toccata e Fuga in re minore BWV 565 di J.S.Bach, trascrizioni e brani. 

Si aggiungeranno gli Archi della Cappella Musicale Costantina per suonare insieme all’organo altre pagine famose come l’Adagio di Albinoni nella trascrizione di Giazotto per Organo e Archi, seguirà la trascrizione dell’Ave Maria di Gounod di Ettore Bonelli e una stagione di Antonio Vivaldi - L’Estate - perché proprio nella partitura originale il violinista veneziano volle specificare la presenza dell’organo. 

L’ultima parte del concerto - oltre alla presenza dell’organo - prevede la partecipazione dei solisti, del coro e del resto dell’orchestra fino al noto Alleluja di Haendel. 

PROGRAMMA 
organo solo 
J.S.Bach Preludio e fuga in mi minore BWV 533  
D.BuxtehudeCiacona in mi minore BUXWV 160 
J.S.BachAria in re maggiore 
J.S.BachToccata e Fuga in re minore BWV 565 

con l’orchestra 
T.Albinoni Adagio in sol minore per Organo e Archi 
C.Gounod Ave Maria 
A.Vivaldi Estate con il coro e con l’orchestra 
C.Franck Domine non secundum (offertorio) 
G.Caccini Ave Maria 
W.A.Mozart Dixit 
G.F.Haendel Alleluja dal Messiah 

Il concerto è previsto alle ore 20.15, dopo la Messa delle ore 19. L’ingresso è gratuito. 

Ci sarà al termine la possibilità di contribuire liberamente alla raccolta di fondi per completare il pagamento dei lavori di restauro dell’organo stesso.

15/04/18

Apre a Palazzo Braschi a Roma la magnifica mostra retrospettiva su Canaletto, fino al 19 agosto!


Giovanni Antonio Canal (Venezia 1697 -1768) noto come Canaletto, viene celebrato con una grande retrospettiva negli spazi espositivi del Museo di Roma Palazzo Braschi a Piazza Navona da oggi al 19 agosto 2018

La mostra "Canaletto 1697-1768", promossa dall'Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale - Sovrintendenza Capitolina con l'organizzazione dell'Associazione Culturale MetaMorfosi in collaborazione con Ze'tema Progetto Cultura e a cura di Bozena Anna Kowalczyk, intende celebrare i 250 anni dalla morte del grande pittore veneziano presentando il piu' grande nucleo di opere di sua mano mai esposto in Italia: 42 dipinti, inclusi alcuni celebri capolavori, 9 disegni e 16 libri e documenti d'archivio. 

La mostra e' accompagnata da un ciclo di visite guidate gratuite per le scuole di Roma e della citta' metropolitana e da una serie di attivita' didattiche a pagamento per il pubblico non scolastico secondo questo calendario: sabato 14 aprile ore 16.30; sabato 28 aprile ore 17; venerdi' 4 maggio ore 17; sabato 12 maggio ore 11; domenica 27 maggio ore 11; domenica 3 giugno ore 11; venerdi' 8 giugno ore 17; domenica 17 giugno ore 17; giovedi' 21 giugno ore 17; venerdi' 6 luglio ore 17; sabato 14 luglio ore 11; venerdi' 20 luglio ore 17; domenica 5 agosto ore 11. 

Canaletto e' uno dei piu' noti artisti del Settecento europeo. Con il suo genio pittorico ha rivoluzionato il genere della veduta, ritenuto fino ad allora secondario, mettendolo alla pari con la pittura di storia e di figura, anzi, innalzandolo a emblema degli ideali scientifici e artistici dell'Illuminismo. 

Il suo percorso affascina e coinvolge. Dalla giovinezza tra Venezia e Roma come uomo di teatro e impetuoso pittore di rovine romane, al suo ritorno da Roma come stella nascente sulla scena delle vedute veneziane. 

Prosegue poi arrivando al successo internazionale, con le commissioni degli ambasciatori stranieri per le ampie tele che rappresentano le feste della Serenissima in loro onore - in mostra si puo' ammirare il magnifico 'Bucintoro di ritorno al Molo il giorno dell'Ascensione' del Museo Pushkin - e l'entusiasmo dei turisti inglesi del 'Grand Tour'. 

Per loro le luminose vedute di Venezia, cosi' ricche di dettagli architettonici e di vita quotidiana, rappresentano i piu' incantevoli souvenir del viaggio. 

Non mancano, pero', imprevisti e sfortune: a Londra deve pubblicare annunci sulla stampa per rispondere ad alcune voci denigratorie e, tornato a Venezia, viene eletto accademico delle Belle Arti con difficolta'. Infine, come accade a molti geni, la morte lo coglie in poverta'. 

Le opere in mostra provengono da alcuni tra i piu' importanti musei del mondo, tra cui il Museo Pushkin di Mosca, il Jacquemart-Andre' di Parigi, il Museo delle Belle Arti di Budapest, la National Gallery di Londra e il Kunsthistorisches Museum di Vienna. 

Presenti anche alcune opere conservate nelle collezioni britanniche per le quali sono state appositamente create e altre provenienti dai musei statunitensi di Boston, Kansas City e Cincinnati. 

Tra le istituzioni museali italiane presenti in mostra con le loro opere: il Castello Sforzesco di Milano; i Musei Reali di Torino; la Fondazione Giorgio Cini. Istituto per il Teatro e il Melodramma e le Gallerie dell'Accademia di Venezia; la Galleria Borghese e le Gallerie Nazionali d'arte Antica Palazzo Barberini di Roma. 

Tra i capolavori in mostra, oltre al gia' menzionato dipinto del Museo Pushkin, spiccano due opere della Pinacoteca Gianni e Marella Agnelli di Torino: 'Il Canal Grande da nord, verso il ponte di Rialto', e 'Il Canal Grande con Santa Maria della Carita'', esposti per la prima volta assieme al manoscritto della Biblioteca Statale di Lucca che ne illustra le circostanze della commissione e della realizzazione. 

Una sala ricca di prestiti eccezionali - dal museo di Cincinnati e da collezioni private - e' dedicata alle vedute di Roma che Canaletto realizza negli anni della maturita', sulla base dei propri disegni o delle stampe di Desgodets, Falda, Specchi e Du Pe'rac, alcune delle quali sono raccolte negli album provenienti dal Museo di Roma. 

Tra i dipinti, alcuni dei quali esposti per la prima volta in Italia, vanno menzionate le due parti di un'unica, ampia tela, raffigurante Chelsea da Battersea Reach, tagliata prima del 1802 e riunita in questa mostra per la prima volta. La parte sinistra proviene da Blickling Hall, National Trust, Regno Unito, quella destra dal Museo Nacional De Bellas Artes de la Habana, eccezionalmente concessa in prestito dal governo cubano. 

Accanto ai dipinti sono esposti 9 disegni, dai piccoli studi preparatori ai magnifici fogli di ampie dimensioni accuratamente rifiniti e destinati ai piu' raffinati collezionisti o a essere incisi, come 

L'incoronazione del doge sulla Scala dei Giganti, della serie delle Solennita' dogali, concesso in prestito da Jean-Luc Baroni Ltd. di Londra. La scelta e' intesa a illustrare la genesi delle creazioni dell'artista, svelando il lavoro "dietro le quinte", la sua capacita' di catturare la realta' e di trasformarla con la fantasia, facendo cosi' dissolvere l'immagine stereotipata di "Canaletto fotografo". 

Viene presentata la sua intera parabola come pittore e disegnatore per definirne le diverse fasi tecniche e stilistiche: dalla maniera libera e drammatica delle prime opere - sulle quali si e' posto un accento particolare - alle immagini piu' affascinanti di Venezia e a quelle eleganti del soggiorno di nove anni in Inghilterra, fino ai tardi, sofisticati capricci. 

Altro tema ricorrente in mostra e' l'indagine sul collezionismo delle sue opere. Il percorso, concepito come un vero e proprio dossier sulla personalita' e la creativita' di Canaletto, si snoda attraverso otto sezioni che raccontano il suo rapporto con il teatro, il capriccio archeologico ispirato alle rovine dell'antica Roma, i primi successi a Venezia, gli anni d'oro, il rapporto con i suoi collaboratori e l'atelier e la presenza del nipote Bernardo Bellotto (con alcuni precisi confronti tra le versioni del maestro e dell'allievo della stessa veduta), le vedute di Roma e dell'Inghilterra, gli ultimi fuochi d'artificio al ritorno a Venezia. Completano il percorso espositivo alcuni documenti dell'Archivio di Stato di Venezia. 

In occasione dell'esposizione viene pubblicato un ricco ed esaustivo catalogo, edito da Silvana Editoriale e a cura di Bozena Anna Kowalczyk, che include alcuni saggi sull'artista e la sua opera, presentando al pubblico e agli studiosi gli esiti delle piu' recenti ricerche storiche e archivistiche, cosi' come i risultati degli studi sulla sua tecnica e il suo metodo di lavoro.

Assalto alla Democrazia, guerre & soldi - un profetico articolo di Remo Bodei



ripropongo, in questo blog e in queste ore così delicate per gli equilibri internzionali, un illuminante e profetico articolo di Remo Bodei scritto nel 2009 e pubblicato in quell'anno nel Domenicale del Sole 24 Ore. Da riflettere. 

Nel suo ultimo libro, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Spectre of Inverted Totalitarism, Sheldon S. Wolin offre non solo una precisa diagnosi della democrazia americana, ma anche utili indicazioni sulla deriva che questo regime subisce in altre parti del mondo

Nega la radicata convinzione che gli Stati Uniti siano la culla della democrazia moderna. 

In origine la Costituzione americana è infatti elitaria: ci sono voluti tre quarti di secolo prima di abolire formalmente la schiavitù e molto di più per assicurare il diritto di voto ai Neri ed alle donne e quello di associazione ai sindacati. 

A partire dalla Grande depressione e fino ad oggi la democrazia viene per Wolin progressivamente svuotata dall’interno

La diminuzione del tasso di uguaglianza e partecipazione dei cittadini ai procesi decisionali - assieme alla trasformazione del paese in Superpower - ha prodotto quello che egli chiama il totalitarismo rovesciato o, meglio, rivolto verso l’interno (inverted totalitarism)

Questa nuova creatura si basa non sulla mobilitazione, ma sulla smobilitazione delle masse e, soprattutto, sulla commistione tra sfera pubblica e sfera privata, tra politica ed affari: in particolare sulla robusta rete di allenze tra stato e grandi corporations, tra governo e chiese evangeliche, tra centri di ricerca e un poderoso apparato militare-industriale che ha speso, solo nello scorso anno 623 miliardi di dollari, ossia quanto erogano per gli stessi scopi tutte le altre nazioni della Terra messe insieme

Per spontanea evoluzione la democrazia stessa genera questo mutante, che dirotta la paura provata nei confronti dei totalitarsmi noceventeschi su nemici ubiqui, sia esterni come i terroristi, che interni, come i delinquenti (un altro primato mondiale degli USA è costituito dalla percentuale dei detenuti 751 per 100.000 abitanti). 

Non esistono campi di concentramento, né persecuzioni di massa, né abolizione del diritto di voto, anzi questo serve a legittimare l’ autocrazia elettiva. 

I cittadini vengono indotti all’indifferenza o spinti ad assistere, più che a partecipare alla vita politica. 

Questo tipo di potere ha avuto in Occidente il suo humus più fertile; esso poggia sui miti e sulle aspettative di una cultura che privilegia il principio di piacere rispetto al principio di realtà, i desideri e i sogni di massa rispetto alla sobria analisi dei vincoli imposti e delle possibilità suggerite dalle condizioni storiche effettive. 

Ciò favorisce la propensione di chi comanda a plasmare la realtà secondo la propria interessata visione del mondo, accrescere cioè sistematicamente la quantità e la qualità delle menzogne utilizzate per governare. 

Il potere di persuasione, con i relativi apparati, rappresenta pertanto l’arma più potente dell’ inverted totalitarism (v. armi di distruzione di massa in Iraq, la collusione di Saddam Hussein con Osama Bin Laden o la perfetta salute del sistema finanziario globale). 

 A tale sofisticata strategia contribuisce la ripresa di rozzi, ma collaudati strumenti di manipolazione del consenso, quale l’appello al popolo inteso quale blocco omogeneo e compatto che diffida dei politici di professione, ma si fida di chi si autoproclama suo genuino interprete ed è in grado di travestire le decisioni che scendono dall’alto in esigenze che salgono dal basso

Comune a tutte le democrazie occidentali è il fenomeno del crescente abbandono della divisione dei poteri, avvertita come un intralcio, a favore dell’esecutivo (con la conseguente strisciante riduzione del parlamento a cassa di risonanza delle scelte del governo e la limitazione delle prerogative del giudiziario). 

Da diversi segni sembra che - complice la crisi finanziaria - molti cittadini si siano svegliando dal letargo politico. 

 Il rischio è che, dopo aver dettato legge, godendo di un’ampia delega pubblica, le oligarchie finanziarie ed economiche, rinegoziando le quote di potere con la politica (talvolta più debole dei potentati economici), mantengano il loro effettivo, seppur ridotto, potere in fogge sempre più “camaleontiche”.

Remo Bodei. 

14/04/18

E' morto il grande Milos Forman !



E' morto all'eta' di 86 anni nel Connecticut il famoso regista ceco, Milos Forman. Lo ha comunicato oggi all'agenzia Ctk la moglie, Martina Formanova.

Forman e' deceduto ieri dopo una breve malattia. "Se ne e' andato tranquillo, circondato dalla famiglia", ha detto Formanova.

Ed è veramente un brutto colpo per il cinema mondiale, e per gli appassionati di cinema di tutto il mondo. Scompare infatti uno dei più grandi autori del Novecento, la cui vita personale è stata forgiata dalla lotta ai totalitarismi.

I genitori di Forman infatti furono deportati e uccisi ad Auschwitz, la Cecoslovacchia comunista lo costrinse a fuggire e, una volta negli Stati Uniti di cui divenne cittadino nel 1975, non smise di combattere ogni sistema di potere, questa volta incarnato nel mondo capitalista.

Milos Forman (Jan Tomas Forman il suo vero nome) era nato a Cáslav, una piccola citta ad est di Praga, il 18 febbraio 1932 da una famiglia ebrea deportata e sterminata nel campo di concentramento di Auschwitz.

Fece parte di quella nouvelle vague di giovani registi della Cecoslovacchia che tanta parte ebbero nella Primavera di Praga prima che fosse messa a tacere dai carri armati russi.

E cosi' fu costretto a fuggire, prima in Francia, poi negli Usa.

Prima di trasferirsi studio' alla Scuola di Cinema di Praga, firmando "Gli amori di una bionda" (1965), manifesto della Nova Vlna praghese, e "Al fuoco, pompieri!" (1967), che fece scandalo suscitando le proteste dei vigili del fuoco cecoslovacchi e vietato dal presidente Novotny.

Milos Forman sul set di Qualcuno volò sul Nido del Cuculo, 1976

Ma i suoi capolavori arrivano negli anni settanta, negli Stati Uniti.

Vincitore di due premi Oscar come miglior regista nel 1976 per "Qualcuno volo' sul nido del cuculo", il film con Jack Nicholson che ha raccontato con poesia il disagio degli istituti psichiatri, e nel 1985 con "Amadeus", per i quali vinse anche due Golden Globe.

A questi se ne aggiunge un terzo, vinto nel 1996, per "Larry Flynt - Oltre lo scandalo".

Amadeus di Milos Forman, 1985

Tra i suoi lavori piu' amati anche il musical contro la guerra in Vietnam "Hair", "Ragtime" e "Man on the Moon", orso d'Argento a Berlino, con Jim Carrey dedicato al comico Andy Kaufman, dal quale prendono nome anche i suoi due figli: Jim ed Andy.

Le riprese di Amadeus gli permisero anche di rientrare in Patria con un permesso speciale e sotto la supervisione della Polizia segreta. Les bien-aime's (2011) con Chiara Mastroianni e Catherine Deneuve e' stato scelto come film di chiusura del 64esimo festival di Cannes.

Fonte Askanews e ANSA 

13/04/18

Finalmente restaurato "Novecento", il capolavoro di Bernardo Bertolucci - In Anteprima stasera a Palermo.




Finalmente restaurato uno dei capolavori del cinema italiano, "Novecento", realizzato da Bernardo Bertolucci nel 1976, con uno straordinario cast di attori tra i quali Robert De Niro e Gerard Depardieu, come protagonisti.

"Novecento", di Bernardo Bertolucci, I e II atto, sara' proiettato a Palermo, in questa nuova versione restaurata, in anteprima nazionale, stasera 13  aprile alle ore 21 e il 20 aprile alla stessa ora al Cinema De Seta dei Cantieri alla Zisa, per iniziativa della dell'associazione Lumpen, con la direzione artistica di Franco Maresco. 

Il film sara' preceduto da un'intervista inedita a Bertolucci, realizzata dalla Cineteca di Bologna

Le pellicole si potranno vedere anche il 16 e il 23 aprile, alle 21 (precedute alle 20.30 dalla presentazione di Gianmauro Costa e Dario Oliveri), al cinema Rouge et Noir. 

 "Con Novecento - spiega la direzione artistica del Rouge et Noir - avviamo un discorso sul secolo delle rivoluzioni, nel cinquantenario del '68, ideato con Panormos International Weeks di Evelina Santangelo e Paola Caridi, in collaborazione con Marina di Libri e Institut Francais, dal titolo "Rivoluzioni a fondo perduto?" che prevede altri film, mostre, dibattiti. Ai maggiorenni sara' offerto, in omaggio al tema, un Cuba Libre. 

12/04/18

Adelphi pubblica le lettere di Samuel Beckett: Una vocazione unica e complessa.



Scrivere di Samuel Beckett e' difficilissimo, ovviamente. Perché lui, come nessun altro, ha saputo incarnare lo scrittore del Novecento, perché come nessun altro ha saputo potare drasticamente ogni parola non necessaria, fino ad arrivare in alcuni casi che si possono solo definire "assoluti" al puro silenzio, come per esempio alla fine de "L'ultimo nastro di Krapp".

Perché i suoi testi sono cosi' carichi di densita' e di consapevolezza da rendere quasi impossibile dire "altro". Anche per questi motivi la pubblicazione per Adelphi - casa editrice che in Italia fa un lavoro che oggi non riesce a fare nessun altro, per respiro, diversita' e complessita' - del primo volume delle "Lettere" di Beckett e' un evento editoriale vero, cosi' vasto da richiedere addirittura quattro curatori internazionali, a cui si affianca, per l'edizione italiana, Franca Cavagnoli.

Il primo tomo copre il periodo giovanile dello scrittore, tra il 1929 e il 1940 ed e', come sottolinea la prefazione, una ampia occasione (500 sono le pagine del libro) di incontrare la voce di Beckett in un periodo nel quale "la sua attivita' pubblica non ardisce ancora farne uso".

Una voce che, anche per le modalita' di costruzione delle lettere, e' piena della sua consapevolezza di scrittore (e il fatto che i testi contengano innumerevoli volte i dubbi su questa scelta e le ricorrenti incertezze legate alla fatica del distillare delle frasi, se non addirittura delle singole parole - "L'idea stessa di scrivere mi sembra, come dire, grottesca" - e' una ulteriore conferma di tale consapevolezza) e che gia' si nutre di sistemi di riferimento, come quello che potremmo definire "escrementizio", che saranno poi cruciali nella poetica dello scrittore e drammaturgo futuro ("Le lettere - si legge nella lunga introduzione al volume, firmata da Dan Gunn - sono, come e' sempre piu' chiaro, non soltanto il mezzo, ma anche il fine, grazie al quale la strada bloccata del presente diventa, nello scrivere, l'autostrada sgombra di un futuro").

Beckett, a proposito di se stesso, parla di "aspermatismo mentale" (in relazione alla "masturbazione mentale" che lui riferisce a Huxley), poi, in una lettera del 4 agosto 1932 da Londra al suo corrispondente piu' intimo, Thomas McGreevy, in qualche modo, carica di quello che potremmo chiamare "ottimismo", forse definisce meglio il concetto: "Se riuscissi a inventarmi dei pretesti per scrivere una poesia, un racconto, qualsiasi altra cosa, starei bene. In verita' credo di stare bene. Ma a volte mi terrorizza l'idea di essere guarito dal solletico della scrittura. Immagino che sia questo posto fornicante con il suo clima fornicante. Tuono letale e pioggia a torrenti".


Poi, con un colpo di genio che scavalca a pie' pari tutto Proust, la lettera prosegue cosi': "Oggi pomeriggio ero seduto in St. James's Park su una sdraio da 2 pence e mi sono debitamente commosso, fin quasi all'occhio lucido, per un bambino che giocava a 'bus vuoti' con una bambinaia, dalla stessa identica espressione tipo granito sgretolato, che aveva la mia prima di sposare il giardiniere e diventare polipara, e la chiamava Tata. 1/8... 3/8 Presto mandero' un cablo a mia madre che venga a darmi il bacio della buonanotte".

Dire che il senso dell'intero Novecento letterario sia, cripticamente quanto volete, espresso in queste poche righe, e' forse troppo. Ma di una buona parte perche' no? Samuel Beckett, il giovane Samuel Beckett di queste lettere, probabilmente risponderebbe "Tant piss" e anche questo sarebbe coerentemente novecentesco (e, dato non trascurabile, oggi l'aggettivo ha senso compiuto proprio attraverso Beckett, che lo ha forgiato parola su parola su parola. Quindi tutto si ricompone in un circolo che e' divertente, seppur non particolarmente originale, definire "assurdo". E ci fermiamo qui, saluti e ossequi a James Joyce).

Le "Lettere" completano l'opera di Samuel Beckett, la arricchiscono, diventano "opera" a loro volta e ci parlano di una vocazione univoca, per quanto perennemente insicura, verso la letteratura che ha un unico pari nel XX secolo, il vero "companion" dell'irlandese: Franz Kafka, che pure mai compare in tutte queste missive, salvo che in una nota dei curatori, senza alcun diretto riferimento al testo beckettiano.

"Le lettere di Beckett - scrive ancora Dan Gunn, ed e' come se parlasse anche di Kafka - rivelano compromessi e fieri rifiuti, il desiderio di autoaffermazione e il ribrezzo per la notorieta', le strade sbagliate non intraprese per un soffio e l'intimo convincimento che l'unica strada da seguire davvero sia quella della letteratura".

L'unica strada. La strada. Murphy dopo Josef K., Malone come l'agrimensore. "Finale di partita" per Gregor Samsa.

Fonte: Leonardo Merlini per askanews