di Fabrizio Falconi
La prima volta ci sono arrivato per
caso molti anni fa. Sulle tracce degli obelischi.
Roma, per chi non lo sapesse, è la
città al mondo che ne ospita di più. Gli obelischi egiziani - la maggior parte dei quali molto più anziani
di qualsiasi manufatto umano esistente nella ‘città eterna’ - sono ben
tredici. Alcuni assai famosi, come
quello di Ramsete II, che svetta ancora in Piazza del Popolo, oppure quello
scavato nelle cave di Assuan da Tutmosis III ben millecinquecento anni prima di
Cristo. Altri ormai misconosciuti, come quello ‘capitolino’ lasciato ad
ammuffire tra le erbacce di Villa Celimontana.
E anche se oggi se ne parla solo
quando si discute di ‘arredo urbano’ , c’è sempre qualcuno, per fortuna, che
degli obelischi si interessa alla loro storia millenaria.
Avevo letto in un libro di Cesare
d’Onofrio, che al Collegio Romano esistevano ancora tracce di una antica e
prestigiosa collezione di antichi modellini, in scala, degli obelischi egizi di
Roma.
Una mattina varcai la soglia del Liceo
Visconti, che oggi è ospitato nelle sale
del Collegio Romano. Erano appena finite
le lezioni, pochi studenti bighellonavano nel cortile, all’ombra della grande
torre. Chiesi indicazioni alla segreteria del liceo. Una impiegata senza molta voglia di
rispondere, mi rimandò all’ufficio del preside. Ma anche lui era assente. Una
seconda segretaria, questa sua personale, mi chiese il motivo della visita. Spiegai che stavo cercando la collezione dei
modelli degli obelischi.
La signorina, una donna corpulenta e
bionda, dai tratti nordici, chiese di rimando:
“ Quelli di Kircher ?”
Non era la prima volta che sentivo
quel nome, ovviamente.
Ma quel giorno, si scatenò
definitivamente la mia curiosità. Anche
perché la collezione risultò non visitabile.
I modelli degli obelischi – alcuni dei modelli, quelli superstiti - mi spiegò la segretaria, effettivamente erano
ancora lì, conservati sotto chiave, in alcune normalissime teche, nel
sottotetto dell’edificio. Ma per vederli
bisognava disporre di una autorizzazione speciale, della sovrintendenza.
“ Tra l’altro, “ aggiunse la
segretaria, “ non glielo consiglio. Non è che siano tenuti molto bene, sa. Non
capisco perché qualcuno non se ne occupi. Non li restauri, per esempio, e
vengano esposti in un museo vero. Qui
combattiamo con gli studenti, non sa cosa sono capaci di fare quelli.”
Ringraziai la ragazza, rimasi ancora
un po’ a guardarmi intorno nel cortile dell’antico Collegio dei Gesuiti, l’ombra dell’edificio l’aveva ormai occupato
quasi interamente.
Quello stesso giorno, anche se
archiviata l’idea di vedere i modelli – troppo complicato - riuscii ad ottenere la commissione di indagare
– per conto di una rivista – su alcuni aspetti della vicenda terrena di Padre
Athanasius Kircher.
Sul conto del quale molto sapevo, ma
altrettanto ignoravo.
Illustre gesuita tedesco, massimo
erudito, uomo per molti versi misterioso. Autore di bizzarre opere
enciclopediche dai titoli solenni: Ars
Magna Lucis et Umbrae; Itinerarium
Exstaticum; Phonurgia nova;
Prodromus coptus sive aegyptiacus.
Avevo visto qualche giorno prima da vicino, nel Romani Collegii, uno
dei pochi ritratti esistenti, il tondo con l’incisione del volto di Kircher:
quella faccia incorniciata dalla barbetta bianca e dal tricorno nero, il naso
imponente e dritto, gli occhi chiari e vispi, sullo sfondo consueto di quella
che doveva essere la sua sterminata biblioteca.
Uomo religioso, e allo stesso tempo grande scienziato, che non esitava a farsi calare nella bocca del Vesuvio, per studiare da vicino la meccanica dei vulcani. Pio pastore, eppure anche intrepido esploratore dell’occulto, come di qualsiasi materia del conosciuto: dalla matematica alla geometria dei solidi, dallo studio delle lingue – copto, siriaco, egizio - alla interpretazione dei simboli ermetici, cultore di numerologia, cartografia, ottica. Nel suo gabinetto delle scienze, al Collegio Romano – in quelle stesse aule dove oggi stemperano le loro furie ormonali gli allievi del decaduto Liceo Visconti - Athanasius Kircher realizzò tra le altre cose inventò il prototipo della lanterna magica; una delle più antiche calcolatrici; compilò la prima rappresentazione cartografica delle correnti marine; fu il primo ad osservare il sangue umano al microscopio; fu il primo a decifrare la grammatica copta, sperticandosi poi nella interpretazione dei geroglifici egiziani (trascrivendone i segni dagli obelischi romani ) e sbagliando quasi tutto, ma fornendo comunque intuizioni geniali senza le quali – probabilmente – non vi sarebbe stato nessuno Champollion.
Alla ricerca
di notizie e fonti, scoprii che la Vita Reverendi Patris Athanasi Kircheri, l’autobiografia
scritta in latino da sé medesimo prima di morire, avvincente come e più di un romanzo, è
inedita in Italia. Ma buone copie erano
disponibili nelle biblioteche storiche dei gesuiti.
Così,
la prima volta che sfogliai le pagine della Vita, mi imbattei in quel
formidabile incipit:
Nacqui il 2 maggio 1602, giorno di
Sant'Atanasio, alle tre della notte, nell'infelice città di Geisa, a tre ore di
viaggio da Fulda. I miei genitori erano Johann Kircher e Anna Gansek, cattolici
devoti, rinomati per le loro buone opere.
Quell’incipit che pare
già tutta una promessa. E in quel nome – Athanasius, dall’aggettivo
greco athànatos – l’evidenza di
un destino. Athanasius, l’immortale ? Ho
cominciato a pensarlo, quando per l’articolo che dovevo scrivere ho cominciato
a cercare la tomba di Kircher, a Roma. Si comincia sempre da lì, dalla tomba,
in effetti, quando si vuol conoscere qualcosa di più dei segreti di un uomo. E nel caso di Kircher, com’era consequenziale
a tutta la sua vita, i segreti anziché dipanarsi, si sono moltiplicati.
La tomba di Kircher,
per quanti sforzi abbia fatto per cercarla, semplicemente non esiste più.
Dovunque sia stato
sepolto - e io ho trovato numerosi
documenti antichi che riportano tutti la stessa data e il luogo della sua
morte, Roma, 27 ottobre 1680 – nessuno
sa più dire dove si trovino i resti di
quel corpo. I documenti lo danno
sepolto alla Chiesa del Gesù, come doveva essere ovvio per un personaggio di
tal guisa, che all’epoca tutti conoscevano, che aveva lungamente collaborato
con Gian Lorenzo Bernini alla realizzazione di alcune delle più grandi imprese
del barocco romano – e che negli anni aveva allestito, proprio nelle sale del
Collegio Romano uno straordinario museo di meraviglie, raccolte da confratelli
gesuiti in ogni angolo del pianeta allora conosciuto, quel prodigioso Museo
Kicheriano, purtroppo andato quasi del tutto perduto.
Nessuno al mondo, in quel
mondo vantava una collezione simile, con ogni sorta di reperti animali,
esposti ed impagliati, con ogni specie di nuova invenzione ottica o matematica
destinata a stupire i più blasonati visitatori delle corti di mezza Europa.
Nessuno al mondo poteva conferire consulenze così preziose sulle opere da realizzare nella città museo del mondo, Roma. I mostri della Fontana dei Fiumi scolpiti da Bernini vengono lì, come viene da lì, naturalmente, tutto il complicato, esattissimo corredo simbolico del piccolo obelisco e dell’elefante, poco distante, il pulcino della Minerva commissionato da Alessandro VII, e scolpito da Ercole Ferrata.
Eppure, di un così
tanto – e a giusta misura – celebrato personaggio, sorprendentemente, in
nessuno dei registri anagrafici delle antiche chiese parrocchiali di Roma,
conservati nella monumentale registeria storica del Vicariato di Roma, esiste il certificato di morte e sepoltura di
Athanasius Kircher. Sparito. O mai esistito.
Perché ?
Che fine aveva fatto
quel certificato, che pure avrebbe dovuto risultare, se l’enciclopedico morì –
come morì – a Roma ? E soprattutto
perché nella Chiesa del Gesù, che
conserva l’elenco minuzioso e completo di ogni sepoltura, non v’era traccia
della tomba di Kircher ?
Semplicemente, dopo
qualche settimana di appassionante investigazione, e consultazione di ogni tipo
di archivio, e di contatti fruttuosi con i maggiori studiosi di
Kircher, in Italia e all’estero, dovetti rassegnarmi a concludere, che
semplicemente la tomba illustre non si trovava, non c’era, non esisteva, e
nessuno poteva dire con sicurezza dove
fosse stata una volta.
Quasi come se il
corpo stesso dell’Athanasius, si fosse
volatilizzato, adattandosi al destino di quel nome.
Ma le tracce di
Kircher, in mancanza del corpo, non si rivelarono del tutto assenti.
Almeno qualcosa
restava.
E qualcosa di non
poco conto: il suo cuore.
Come molti illustri
contemporanei, Kircher infatti, nelle
ultime volontà, dispose per sé che, dopo la morte, il cuore fosse separato dal
corpo, e deposto in un luogo a parte.
Quel luogo, lo aveva
scelto con massima cura.
Lessi nella Necrologia alfabetica dei Padri Gesuiti,
alla lettera K di Kircher:
“ Il cuore è sepolto
al Santuario della Mentorella, al Monte Guadagnolo.”
Unica traccia
riscontrabile. E, visto il precedente,
meglio verificare di persona.
Così, un pomeriggio
di agosto, ho preso con me una buona cartina stradale, e in macchina mi sono diretto fuori città, verso Sud, alla ricerca del
Santuario, dove – come molti che abitano a Roma – non ero mai stato in vita
mia.
C’è anche una ragione.
La Mentorella, pur
essendo a un tiro di cannone dalla capitale, è
abbarbicata su un impervio sperone di roccia, poco oltre Tivoli, sulla cresta del Guadagnolo, nei monti Prenestini, che è alto
milleduecento metri, eremo del tutto fuori dagli itinerari battuti dal turismo
di massa.
Si passa da
Palestrina, città dalle nobili origini e dalla grande storia, poi la strada
prende a salire su tornanti quasi del tutto spogli di vegetazione, da Capranica
Prenestina fino alla cima del monte. E
arrivati al Passo della Fortuna, nome memorabile, laggiù in basso, a sinistra,
ecco comparire il dorso di tetti rossi del Santuario.
Varcato il cancello di
ingresso, davanti all’ingresso della chiesetta, su un piccolo rialzo di roccia,
una grande croce, moderna. Di fronte,
un altro ventaglio di rocce scoscese, dal profilo piuttosto familiare.
Parcheggiata la macchina
di fronte al cancello di ingresso, e oltrepassatolo, si scopre subito un
cartello verniciato, all’imbocco di un impervio sentiero che discende la
montagna: Cammino Athanasius Kircher.
Lo si capisce
immediatamente: questo luogo deve molto a Kircher, ma la sua lunghissima storia
non comincia certo con il padre gesuita, che in realtà si limitò a riscoprirlo,
a restituirlo a nuova vita dopo secoli di totale abbandono.
Ma la vicenda cristiana
che si fonda sulla Mentorella può
vantare duemila anni di storia. E
comincia, mentre a Roma imperava Traiano,
con la prodigiosa visione dalla solida tradizione attribuita
all’ufficiale pagano Placido, che in questa regione possedeva ville e terreni,
nei quali esercitava la caccia, tra una campagna militare e l’altra.
Un giorno fatale, a
quell’ufficiale un po’ rozzo accade qualcosa di inspiegabile e anche di
inconfessabile. Tra le corna del grande
cervo che sta per ammazzare, e che gli è apparso all’improvviso su una nuda
roccia, vede il volto di Gesù Cristo. Una luce divina, così forte, una visione così
‘intollerabile’ che lo costringe a
cambiare tutta la sua vita, da un momento all’altro.
La visione di Sant'Eustachio del Pisanello
Torna a Roma, si fa
battezzare come fanno i cristiani, e
cambia il nome in Eustachio. Nella Roma
efferata di quei tempi non rinuncia alla nuova fede, non abiura.
Cosa che gli vale il martirio, prima risparmiato dalle belve feroci, poi
insieme a mogli e figli, dentro un toro di bronzo arroventato.
Sul posto dove apparve
il cervo, sulla sommità della rupe, una semplice cappella. Pochi gradini per
arrivarci, un piccolo campanile, con una corda che un bimbo si diverte a
tirare, gli affreschi scrostati, e la massima visione sull’ampia valle del
Giovenzano.
E la storia
prosegue. Dopo Eustachio, il Santo,
venne qui Costantino Imperatore. Impressionato dal sacrificio di
Eustachio, e a lui devoto, si dice, qui
fece costruire un primo tempio. Del quale non restano che sparute colonne.
La visione di Sant'Eustachio del Durer
In questo semplice, essenziale compendio di storia del cristianesimo – che è la Mentorella - arriva poi il tempo del grande monachesimo d’occidente. Con il suo grande patriarca, Benedetto da Norcia. Fu abitata da lui, la piccola e bellissima grotta che si apre sotto la rupe di Eustachio ? Le fonti dicono di sì. E si fermò due anni interi, sembra, prima di andare a fondare il Sacro Speco.
Due anni interi in questa grotta ?
Per
entrarci, oggi, ci si deve mettere di traverso, farsi accarezzare dalla roccia,
in una fenditura strettissima, sorvegliata all’ingresso da ossa umane, in un
tabernacolo incassato dentro la montagna.
Poi, all’interno, poche candele accese, un grande e spoglio crocefisso,
un rosario, il silenzio che non smette di martellare le orecchie.
La memoria di San
Benedetto non deve essere durata a lungo, nel lento oblìo medievale, anche se si consolidò fino all’anno mille, e
dopo, la decisione ripetuta e continua di assegnare il santuario alla
pertinenza dei Benedettini di Roma.
Per la vera rinascita,
però, bisognò aspettare altri secoli, fino all’anno del Signore 1661, quando il volenteroso gesuita di
Fulda, preso da una delle sue frenetiche
ricerche storico-mistiche – stavolta il trattatello
si sarebbe chiamato Historia Eustachio-Mariana - si avventurò da queste parti sulle tracce di
Sant’Eustachio, e della miracolosa visione del cervo.
Non è difficile indovinare il suo
stupore, quando egli – con i mezzi dell’epoca, che possiamo immaginare –
arrivando sulla cima del monte, in un posto dai molti crepacci come questo,
scovò sommerse dagli arbusti le rovine di un antico e perduto tempio cristiano.
Lo racconta lui stesso, nella Vita. La cosa che più lo sconvolse fu
l’abbandono della veneranda statua della Madonna, che pure, come gli
spiegò la gente del luogo, si era resa
protagonista, nel corso dei secoli, di ben evidenti prodigi.
A Kircher non mancavano mezzi ed
intelligenza. E conoscenze. E in pochi
anni rinnovò il luogo e il culto.
Istituendo anche una festa annuale, il 29 settembre, dedicata a San
Michele Arcangelo, che cominciò a richiamare migliaia di fedeli ogni volta.
Illustri protettori – grazie all’influenza del conosciutissimo e influente
gesuita – presero a cuore le sorti del Santuario, da Maria Teresa
d’Austria al conte di Wallenstein,
all’Imperatore Leopoldo I d’Austria, al Viceré di Napoli Pedro D’Aragona.
Non solo. Kircher
trasformò la Mentorella, nel suo eremo personale.
Qui, soltanto qui,
ritrovava la pace del cuore. E il
silenzio necessario ad approfondire i suoi studi, che intanto proseguivano
fertili in tutte le direzioni. Un silenzio che al Collegio Romano era diventato
merce rarissima.
Così, ogni qualvolta
c’era bisogno di lui, come quella volta che a Roma si ritrovarono finalmente
giacenti sotto terra i pezzi del magnifico obelisco solare di Augusto, in Campo
Marzio, e solo a lui si poteva chiedere
un parere, bisognava mandare un messo
fino alla Mentorella, e chiedergli di scendere in città.
Sempre più
recalcitrante, con l’avanzare della vecchiaia,
Kircher si disponeva a sopportare l’umida e stagnante aria di Roma,
salvo tornarsene, il prima possibile,
nell’alto delle vette prenestine.
Fino a quel 27 ottobre
del 1680, quando la morte lo colse alla veneranda età di 78 anni.
Ed esattamente il
giorno dopo, il 28 ottobre, per uno di quegli scherzi del caso che lascia
allibititi, morì a Roma Gian Lorenzo Bernini.
Non è difficile
supporre che i due eventi luttuosi, così ravvicinati, dovettero suscitare
enorme eco a Roma. Kircher e Bernini, le due facce di una stessa trionfante,
erudita, popolarità.
Oggi, cosa resta di
tutto questo ? Alla Mentorella, forse è
la suggestione ad indurre a pensarlo, resta molto.
Il Santuario, da un
secolo e mezzo è custodito dai padri polacchi resurrezionisti. Da quando, nel
1857 i fondatori Semenenko e Kajsiewicz riuscirono ad ottenere da papa Pio IX
la cura del Santuario, realizzando per prima cosa la strada di accesso, dal
Passo della Fortuna al picco della Mentorella.
Alcuni dei padri,
giovani e silenziosi, li incontri oggi nel piazzale di ingresso. Ti salutano
con un sorriso, e pregano soltanto di mantenere la quiete che il posto ha
conservato miracolosamente nei secoli.
Ti raccontano sussurrando, che il loro Papa polacco, Giovanni Paolo II,
pochi lo sanno, fece proprio qui la sua prima uscita, dopo l’inaspettata
elezione al Soglio Pontificio. Era il 29 ottobre 1978, e ventimila persone – in
maggioranza giovani – parteciparono insieme
a lui a quel memorabile pellegrinaggio. Questo luogo mi ha aiutato molto
a pregare, disse una volta papa Wojtyla, e non è difficile crederlo, visto
che qui tornò molte volte, anche fuori dell’ufficialità, durante il suo lungo
pontificato.
Giovanni Paolo II alla Mentorella, 29 ottobre 1978
Vi ritrovò forse
quelle stesse caratteristiche ricercate a suo tempo da Kircher: pace, silenzio
assoluto, raccoglimento, vicinanza al cielo e ai Misteri.
Entrati nella Chiesa,
un canto gregoriano appena udibile in sottofondo, accoglie insieme al senso di
intimità e di purezza.
Tre navate, la
centrale più grande con capriate in legno. Preziosi reperti d’arte,
ovunque. Nella cappella di sinistra
all’altare l’antichissima tavola di quercia, con la scena della consacrazione
della Mentorella, che l’onnipresente Papa Silvestro I, secondo la tradizione,
dovette dispensare. E, sull’altare il
ciborio del 1305, con all’interno quella
piccola statua in legno della Madonna, seduta con il Figlio in braccio, che suscitò l’attenzione e la venerazione di
Padre Kircher.
Ai suoi piedi, per
esplicita volontà, egli volle che fosse deposto il suo cuore.
Dunque basta spostare
di poco lo sguardo, in terra, ed ecco, incastonata nel pavimento, la pietra che
copre l’urna che cercavamo:
Leggo e rileggo l’iscrizione: ATHANASIUS KIRCHER SAC. SOC. IESU / TEMPLI HUIUS INSTAURATOR/ET SACRAE QUAE HEIC QUOTANNIS CELEBRATUR / EXPEDITIONIS AUCTOR / COR SUUM AD ARAE MARIAE D.N. PEDES / CONDI
VOLUIT / OBIIT. ROMAE A.MDCLXXX / AETATIS LXXX.
La lapide con l'iscrizione posta ai piedi dell'Altare della Mentorella che indica il luogo della sepoltura del cuore di Athanasius Kircher (foto dell'autore)
Non solo il
restauratore, quindi, ma anche l’ideatore e il promotore del nuovo rito di
venerazione. E poi: il cuore suo ai
piedi dell’altare della Signora Nostra Maria.
Un esempio destinato
ad essere imitato, se è vero che spostandosi di poco all’interno della Chiesa,
nel pilastro di destra, si scopre un
altro ‘cuore illustre’, quello di Papa Innocenzo XIII, che pur non essendo
propriamente un amico dei gesuiti, destinò la parte più nobile di sé a fianco
di quella di uno dei più celebri rappresentanti della Compagnia.
L'urna murata con il cuore di Papa Innocenzo XIII alla Mentorella (foto dell'autore)
Oggi, dissolta
nell’aria la serenità immota di venti secoli, se non altro per la comodità dei
collegamenti, arrivano quassù sparute comitive
di visitatori, gruppi parrocchiali in gite domenicali, e di scout
attratti dal contorno naturalistico.
D’estate, il numero dei fedeli cresce,
diventa enorme la vigilia del giorno dell’Ascensione, il 14 agosto,
quando una processione notturna di fiaccole illumina la cima del monte,
portando in processione l’immagine del Salvatore.
I padri resurrezionisti
ti confidano allora che il senso di quell’antico isolamento si ritrova solo in
certi giorni d’inverno, quando i mezzi spazzaneve non hanno tempo di spingersi
fino alla cima, e il Guadagnolo resta immerso nel silenzio del vento gelido che
soffia senza ostacoli.
In quei giorni,
dicono, sporgendosi dalla Rupe di Sant’Eustachio, sulla sommità del Santuario,
si apprezzano colori unici, e lo spettacolo pieno di stupore di un silenzio che
sigilla le opere del creato con il loro Creatore.
Athanasius Kircher,
mistico e scienziato, scienziato e mistico, conosceva meglio di chiunque i
segreti di quel silenzio.
Nella seconda pagina
della sua monumentale Ars Magna, scriveva:
Le pianticelle
che giacciono sepolte nel ventre dei loro semi, sotto lo sguardo del Sole,
germogliano ebbre di gioia e presto sbocceranno in foglie, fiori, frutti. Tutti gli animali, sospinti dalla gioia dei
cieli, vale a dire dalla fertile radiazione di luce, sono stimolati, come da un
sorriso, al piacere da movimenti fecondanti. Persino le rocce, remote come
appaiono a ogni contatto con la luce, attratte da qualche forza di radiazione
occulta, inturgidiscono, e nella loro tumescenza si abbracciano l’un l’altra,
tutte unendosi alla danza delle sfere celesti.
Fabrizio Falconi
Riproduzione riservata 2018
testo estratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli, Siena, 2009
Fabrizio Falconi
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testo estratto da: Fabrizio Falconi, Dieci Luoghi dell'Anima, Cantagalli, Siena, 2009
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