06/10/15

Il ritorno dell'anima - di Fabrizio Falconi.





Il ritorno dell’anima



“Guidami, anima mia.”
“ Eccomi.”
“ Dunque, ci sei ?”
“ Io ci sono sempre, lo sai.  Anche quando pensi di avermi dimenticato o confinato, o peggio ancora, segregandomi, ritieni di potermi controllare. Sei sempre così ossessionato tu dal controllo. Pensi sempre che niente ti sfugga, la vita non ti ha insegnato che le cose migliori accadono quando abbandoni  la tua smania di considerare tutto, di controllare tutto ? Non ti sei accorto che è propizio lasciare andare ?”
“ Sì, lo so anima mia, ma non ci riesco.”
“ Ti aiuterò”.
“Solo con te, in effetti posso farcela. Il mondo mi appare confuso. Io stesso sono confuso. Non so più chi sono, anzi non l’ho mai saputo. Un momento mi sembra di desiderare una cosa, il momento seguente non la desidero più.  Desidero ciò che non voglio, voglio ciò che non desidero. Tutto mi appare privo di senso.”
“ Lo so. Ma vuoi lasciarti andare alla deriva come fanno tutti ? Vuoi solo lasciarti trasportare dalla corrente come un relitto ?”
“No. Non lo vorrei.  Non penso di essere venuto al mondo solo per questo.”
“Certo che no. Per questo devi sforzarti di essere, prima di tutto. Di avvicinarti al centro. Te ne sei troppo allontanato. Ti ha sovrastato il fragore inutile.  Dovresti fare silenzio.”
“Silenzio per cosa, anima mia ?”
“Il silenzio è il presupposto di ogni cosa.  In mezzo al fragore non puoi pensare di poter percepire un sussurro. Dirai che non esiste. Ma il sussurro c’è. Sei tu che non puoi ascoltarlo perché c’è troppo rumore.”
“Un sussurro ?”
“Sì. Tutte le cose nuove nascono con un sussurro.”
“Insegnami, anima mia.”
“Non ho nulla da insegnarti. Posso solo camminare insieme a te.”
“E’ quel che vorrei fare. Con te mi sento meno solo. Ho scoperto che sognare mi serve a poco.”
“Certo, se si sogna da soli. Ma noi sogneremo in due. Ed è per questo che il sogno diventerà reale.”
“Sono pronto, anima mia. Dove andremo?”
“Andremo dentro una storia di luoghi. Perciò cammineremo. E camminando, parleremo.  Sarà un bel dialogo, vedrai. Scopriremo molte cose insieme. Alcune le troveremo, altre le ri-troveremo.  E vedrai, ritrovare sarà ancora meglio che trovare.” 
“Eccomi anima mia, sono già innamorato di te.”
“Ascolta, anche l’amore nasce con un sussurro.  Non dire più niente, seguimi.”
“Da dove cominceremo ?”
“Cominceremo dalla morte.”
“La morte, anima mia ?”
“Sì.”
“Ne ho paura.”
“Ma è necessario, la morte è la fine di tutto, noi pensiamo, data la nostra mortalità. Tutto finisce. Ma la morte è inizio. E noi cominceremo dalla morte e finiremo con la morte.  Vedrai, sarà un viaggio tutt’altro che mortifero.”
“Dalla morte alla morte?”
“Sì, ma sono due tipi diversi di morte, l’inizio e la fine.  Cominceremo da Roma e finiremo il nostro viaggio in un luogo chiamato Finisterre. Saremo stanchi, la terra sarà finita, e noi potremo riposare.”
“Potremo anche amarci allora, anima mia ?”
“Lo faremo anche prima, vedrai.”
“Conducimi dunque. Perché Roma?”
“Perché da qui inizia la nostra storia. Tutti i luoghi che visiteremo sono magici.  Hanno il segno dell’umano, di chi li ha costruiti, ma rimandano continuamente a qualcosa di altro e di oltre. Per questo sono magici. Perché chi li ha costruiti e chi li ha concepiti è stato soltanto il tramite di un discorso che proveniva da molto lontano.”
“Roma è una città molto grande. Rischio di perdermi.”
“Vieni. C’è un luogo molto particolare, che in pochi conoscono.  Dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla metà del 1600 quando c’era, in questa città, una famiglia molto importante. Venivano dalla Toscana e avevano un brutto nome addosso, il nome di un insetto molto fastidioso: il tafano. Un insetto che punge e succhia il sangue.  Forse questo era già il loro destino visto che la Storia oggi li ricorda come quelli che saccheggiarono i tesori di Roma.”
“Nefasti come Tafani ? Cosa abbiamo da imparare da loro ?”
“No, ogni cosa, lo sai non è bianca o nera. Ogni cosa contiene tutte le sfumature dei colori possibili. Ogni cuore umano dispone di tutto. I Barberini, così presero a chiamarsi per cancellare quell’onta di un cognome non proprio nobile,  cambiarono anche il loro simbolo araldico e scelsero le api.  Ce ne sono molte scolpite sui muri di Roma anche oggi, che li ricordano.”
“Sì, ma cosa hanno da insegnarci ?”
“Tutto. Le api sono insetti immensamente utili e produttivi.  Così furono anche i Barberini. Nel 1623 un’ape Barberiniana divenne anche Papa con il nome di Urbano VIII.”
“E cosa fece ?”
“Molte insigni opere, che ancora abbelliscono la città. Ma quella che interessa ora a noi qui è una piccola Chiesa che oggi si trova alla fine di Via Veneto, chiamata Santa Maria dell’Immacolata, che però viene chiamata Chiesa dei Cappuccini.”
“In onore dei Frati ? Ho sempre nutrito interesse per questi strani camminanti, anima mia.  So che hanno cercato il bene e spesso l’hanno sparso per il mondo, partendo dall’umile, dal basso, dal più piccolo.”
“Sì. Seguivano le orme di uno dei più grandi illuminati, San Francesco d’Assisi, che lo ricorderai bene, era anche lui bianco e nero, visto che spese parte della sua vita tra i piaceri mondani, le feste, la fatuità, prima di accorgersi quanto tutto questo non gli bastasse.”
“E perché questa Chiesa, dunque?”
“Ti ho detto che mi interessava la morte. Questo edificio, voluto dai  Barberini per proteggere e dare una casa ai Cappuccini, qualche decennio dopo la sua costruzione divenne una specie di grandioso e spaventoso monumento alla morte. Vi sono contenute le ossa di più di quattromila frati – di uomini che vissero su questa terra – accumulate nei secoli, provenienti da altri conventi e qualcuno, non sappiamo bene chi, si divertì (non credo sia il termine giusto, ma forse sì…) ad allestire cinque cappelle, nella cripta della Chiesa, utilizzando i più disparati frammenti degli scheletri di quegli uomini (ossa del bacino, vertebre, scapole, clavicole, costole, omeri, femori) per realizzare composizioni di tutti i tipi: fiori, rosoni, bilance, clessidre, simboli legati al tempo, figure geometriche, perfino.. lampadari.”
“Qualcosa di macabro.”
“Sì, c’è chi ha visto solo il macabro di questo luogo. Visitatori illustri come il Marchese De Sade o Nathaniel Hawthorne (che vi ambientò il suo romanzo più gotico, Il Fauno di Marmo), rimasero soggiogati dall’elemento sulfureo. Ma se cammini al mio fianco e vedi questa nuda terra che fa da pavimento alle cripte (i francescani la portarono direttamente dalla Terra Santa, di cui erano e sono custodi), potrai ascoltare le voci. Senti niente ? Lo senti ? Come una specie di richiamo.”
“Aspetta… sì.. mi sembra di sentire un sottofondo lontano, come un coro..”
“Sì.”
“Chi sono?”
“Parlano ciascuno con la propria voce, ma insieme compongono una armonia quasi impercettibile. Sono i morti.”
“Cosa dicono?”
“Sono tristi per aver dovuto interrompere il cammino, ma se ascolti bene il loro canto, sono anche molto felici perché vivono ora in una nuova sostanza.”
“E’ il vecchio sogno di noi umani.  Che esista una dimensione dopo la morte. Dunque è così ?”
“Silenzio… non correre. Non è il tempo delle risposte. E’ soltanto il tempo delle domande.  Ed è così importante che le nostre domande siano quelle giuste. E’ così difficile comprenderlo. Dipende soltanto da quello.  Quante domande sbagliate, insulse, inutili ci ripetiamo oggi…”
“E qual è la domanda giusta?”
“La domanda giusta è quella che ci suggeriscono loro. Prova ad ascoltare…”
“…Ascolto… E’ come se indicassero qualcosa… Non capisco bene.. Dicono di cercare, di camminare.”
“ E’ la stessa cosa, camminare e cercare sono la stessa cosa.”
“E’ vero, anima mia, ora che ci penso.”
“Chi non cerca, è fermo. Non ha bisogno di andare da nessuna parte.”
“Dunque, dobbiamo metterci in cammino ?”
“Sì, è necessario.  E guarda, c’è anche qualcuno che ci indica la direzione..”
“Intendi quello scheletro ?”
“Sì… Vedi, sono due piccoli scheletri. Probabilmente di bambini. Quello di sinistra mostra con la destra, chiaramente, un’asta o una freccia che indica una direzione e da quello strumento pende una lamina dove è scritto:                  

LEGI
TIME
DENO
TAT.”

“Si.. vedo. Cosa significa ?”
“E’ abbastanza misterioso.  Legitime denotat.  Significa qualcosa come: Distingue ciò che è legittimo,  oppure Indica a dovere. Ma non sappiamo a chi o a cosa si riferisca. E’ l’enigma che ci accompagnerà nel nostro cammino. Forse il suo contenuto sarà più chiaro, alla fine del viaggio. Ma deve essere legato alla direzione. E la direzione è chiara, come vedi: indica l’Occidente.”
“E’ lì che dovremo andare anima mia ?”
“Sì, è la direzione giusta: è dove il sole va a morire.  E forse noi dovremo scoprire cosa c’è in quella terra dove anche il sole va a morire. Vuoi andare ?”
“Non temo nulla, se tu sei con me.”
“Andiamo allora.”

Fabrizio Falconi -   (C) - 2014 riproduzione riservata
(foto in testa dell'autore). 

05/10/15

Oltre la Mente - Il senso di colpa. Un veleno (solo a volte) necessario.




Il senso di colpa è una forma della mente umana e una sua caratteristica principale. 

Gli animali non provano colpa. La colpa è legata alla nascita della coscienza.  Si potrebbe anzi dire che l'uomo si è differenziato dal resto della creazione naturale quando ha avvertito il senso di colpa per le proprie azioni (come è esplicato in molti racconti fondativi della religione, come la cacciata dall'Eden nel cristianesimo/ebraismo, per la colpa di aver mangiato il frutto proibito, quindi di aver trasgredito all'ordine divino). 

Il senso di colpa è un meccanismo naturale dunque per l'umano.  Colui che non prova mai colpa per il proprio operato, infatti, potrebbe definirsi non-umano o dis-umano. 

Ma c'è un ordine in cui il senso di colpa può diventare o diventa a tutti gli effetti un veleno per la nostra vita. 

Il senso di colpa è un sistema di allarme della coscienza.  Hemingway, semplificando nella sua elegante stringatezza, affermava che egli aveva un metodo infallibile per stabilire la morale dei suoi atti: come si sentiva dopo aver commesso una certa azione. Se si sentiva bene, l'azione era giusta, se si sentiva male (senso di colpa), era sbagliata. 

Certamente un metodo siffatto non può essere garanzia di un metodo universale. 

Molto spesso infatti, il senso di colpa ha a che fare molto di più con noi stessi che con la natura dell'atto che compiamo. 

Sensi di colpa di ogni tipo (giustificati e non) sono instillati infatti in noi sin dai primi o primissimi anni di vita.  Vi sono anzi non rari casi nei quali un intera sistema educativo - di una persona - è stato fondato sui sensi di colpa. 

Vi sono persone nelle quali questo senso è stato inoculato costantemente come un veleno. E da adulti, queste persone non sono più in grado di dire se il frutto delle loro azioni è la causa di ciò che vogliono veramente o di ciò che temono per evitare un senso di colpa divorante. 

E che dunque per riprendere in mano la loro vita hanno bisogno di depurarsi, di liberarsi del fardello che il senso di colpa fa gravare sulla loro vita, paralizzandole.

Vi sono anche persone che gratificate da questa liberazione, giungono al punto di rifuggire, per contrasto, qualunque senso di colpa.  E credono che la chiave per la felicità - ahimé grandemente illusoria - sia sostanzialmente l'infischiarsene della conseguenza dei propri atti. 

Il senso di colpa è, come ogni forma della mente, necessario. Ma è necessario solo se assolve alla sua funzione: quella di limite del libero arbitrio

Il senso del limite è connaturale alla mente.  Quasi subito la mente del bambino si accorge della presenza di limiti, che regolano il suo possibile comportamento (si può forse rifiutare il cibo, ma non si può infilare un coltello nella mano della mamma). 

Questo è dunque il senso ultimo della vita: l'accettazione del limite.  Inteso non come prigione, ma come possibilità di sviluppo. 

Nessuna pianta può svilupparsi, crescendo in orizzontale, nell'ombra. 

Ogni forma di vita ha bisogno di spingersi verso l'alto, osservando i propri limiti. 

Il riconoscimento dei limiti permette dunque anche di scoprire quali sensi di colpa siano inutili e anzi dannosi alla propria crescita.  E quali invece siano le sentinelle del nostro operare. Se abbiamo sbagliato, e siamo in grado di riconoscerlo, ciò è dovuto alla presenza della forma del senso di colpa.  
Se siamo convinti di aver trovato la chiave della nostra vita, anche i sensi di colpa devono essere attentamente valutati (e smontati del loro abito formale - quello che fa paura) per quello che ci chiedono e per quello che esprimono.  Soltanto così l'anima può pienamente ritrovarsi. Solo una com-prensione delle proprie zone erronee garantisce una evoluzione verso la piena consapevolezza.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata




02/10/15

Il frate artista di San Bonaventura al Foro Romano: Sidival Fila.

Fabrizio Falconi e Sidival Fila

Qualche giorno fa mi sono spinto fino alla piccola e fascinosissima chiesa di San Bonaventura, nel cuore del Palatino e del Foro Romano, da cui si accede unicamente attraverso la Via Sacra. 

La chiesa è tenuta dall'Ordine dei Frati Minori francescani, che vivono nell'attiguo convento, ispirandosi al Vangelo, cercano di seguire le orme di Gesù Cristo nello stile di San Francesco d’Assisi (nel servizio di Pastorale Giovanile e Vocazionale, offrono anche ai giovani spazi di formazione, preghiera e condivisione).

Tra loro, c'è un frate particolare.  
Un vero artista.

Si chiama Sidival Fila, ed è brasiliano, nato nello Stato del Paranà nel 1962. 

Già da adolescente, Sidival comincia ad appassionarsi alle arti plastiche, prediligendo la pittura. Trasferitosi a San Paolo per gli studi, frequenta spesso i musei di questa citta’, e dipinge guardando soprattutto ai movimenti artistici del primo Novecento europeo. 

Dal 1985, alla ricerca della sua identità artistica e personale, Sidival si trasferisce in Italia per approfondire la sua conoscenza della pittura e della scultura. 

Dopo qualche anno dal suo arrivo e varie esperienze lavorative, decide di ascoltare la sua vocazione alla vita religiosa, abbandonando cosi’ tutti i suoi progetti personali, ed entrando nell’Ordine dei Frati Minori di San Francesco d’Assisi. 

Nel 1999 è ordinato sacerdote a Roma, dove esercita il suo ministero al Policlinico Agostino Gemelli, al carcere di Rebibbia come volontario, in seguito nel convento di Vitorchiano e in quello di Frascati. 

Per diciotto anni non si dedica più all’rte, ma gradualmente, attraverso piccoli lavori di restauro, si riavvicina alla creazione artistica. 

Nel 2006 ricomincia a dipingere, guardando specialmente l’ Action Painting di J. Pollock, e sentendo affinità con l’arte Informale europea e con lo Spazialismo. 

In questi primi anni di “vita nuova artistica”, crea opere di grande intensità e rigore formale, tutte realizzate grazie al recupero di materiali poveri o obsoleti: carta, legno, tele, vecchie tele e stoffe, svariati metalli, materassi consunti, gesso. Nello stesso 2006 realizza la sua prima mostra personale nel convento di S. Bonaventura di Frascati e da lì il suo lavoro viene sempre più apprezzato e considerato, con molte mostre collettive e personali, in Italia e all'estero

Oggi le opere di Sidival Fila, realizzate con tecnica mista e cuciture ad ago e filo, fanno parte di importanti collezioni private in Francia, nel Principato di Monaco, in Svizzera, in Brasile e a New York. In Italia sue opere sono presenti, ad esempio, nella collezione della Fondazione Puglisi Cosentino di Catania e nella Collezione d’Arte Contemporanea dei Musei Vaticani.


Opera di Sidival Fila

Visitare lo studio di Sidival Fila è una vera e propria esperienza totale.  Il suo luogo di lavoro infatti, il Convento di San Bonaventura, è già di per sé un'opera d'arte. Dalle finestre del suo laboratorio, si gode una vista impareggiabile a 360 gradi su Roma.

Sidival alterna il lavoro continuo, alla celebrazione delle messe e devolve le somme delle vendite delle sue opere alle missioni francescane nel mondo.

Sidival è anche poeta, e uno sguardo al suo lavoro può essere dato visitando il sito: 

Ho trascorso un pomeriggio memorabile in sua compagnia.  E spero si ripeta presto l'occasione. 

Fabrizio Falconi 



L'atelier francescano di Sidival Fila




01/10/15

Folgoranti citazioni da 'Tipi psicologici' di Carl Gustav Jung






Nulla turba tanto il sentimento quanto il pensiero.
(pag.390)
*
Quanto più i sentimenti sono rimossi, tanto maggiore è l'influenza dannosa che essi esercitano segretamente sul pensiero, il quale altrimenti funzionerebbe perfettamente.
(pag.382)
*
La tendenza monistica appartiene all'atteggiamento introverso, quella pluralistica all'atteggiamento estroverso.
(p.345)
*
Il gran parlare che si fa del progresso umano è infatti divenuto sospetto e non ispira fiducia.
(p.308)
*
Ogni eccessiva "purezza" manca di vita. Ogni rinnovamento della vita passa attraverso zone torbide per procedere verso la chiarezza.
(p.265)
*
Normalmente l'uomo, oltre a uno suo stato deve avere anche lo stato opposto, per trovarsi necessariamente nel mezzo. In omaggio alla sola ragione egli non potrà mai rinunciare alla pienezza di vita e alla ricchezza di sensazioni offertegli direttamente dal suo stato momentaneo.  E' necessario che contro la potenza e il piacere di ciò che è temporale vi sia in lui la gioia dell'eterno, e contro la passione della realtà sensibile vi sia l'estasi del soprasensibile. Come l'uno è per lui innegabilmente reale, così occorre che anche l'altro sia per lui coercitivamente imperante.
(p.246)
*
L'optimum di vita non è rappresentato dal crudo egoismo; né l'uomo raggiungerà mai il suo optimum di vita attenendosi all'egoismo, giacché in fondo egli è fatto in modo che la gioia del prossimo, della quale egli è causa, costituisca per lui qualcosa di indispensabile.
(p.231)
*
Il mondo ha sempre da soffrire a causa delle coppie di opposti. E' quindi un dovere etico di essenziale importanza non lasciarsi influenzare dagli opposti (nirdvanda= libero, non tocco dagli opposti), ma elevarsi al di sopra di essi, giacché la liberazione dagli opposti conduce alla redenzione.
(p.212)
*
"Pensare è così difficile che la maggior parte degli uomini emette giudizi". Riflettere richiede innanzitutto tempo, perciò chi riflette non può continuamente esprimere giudizi.
(p.171)
*
Vi sono non solo verità razionali, ma anche verità irrazionali e le cose umane che sembrano impossibili mediante il ricorso all'intelletto, si sono spesso realizzate mediante il ricorso alle facoltà irrazionali. E infatti i più grandi mutamenti intervenuti nell'umanità non sono accaduti grazie ad un calcolo dell'intelletto , ma per vie che sfuggirono agli occhi dei contemporanei o che essi rigettarono come assurde e di cui l'intima necessità fu compresa solo molto più tardi.
Ma ancor più spesso esse non vengono affatto comprese, giacché per noi le leggi più importanti dell'evoluzione spirituale dell'umanità sono ancora un libro chiuso con sette sigilli.
(p.98)
*
Non l'artista soltanto, ma ogni uomo creativo deve alla fantasia tutto ciò che di più grande gli accade di compiere nella sua vita.
(p.70)
*
La verità non è eterna, è un programma. Quanto più una verità è "eterna", tanto più è priva di vita e di valore in quanto che, essendo divenuta intelligibile da sè, non ci dice più nulla.
(p.67)
*
non bisogna dimenticare che la scienza non è la "summa" della vita, ma soltanto uno degli atteggiamenti psichici, o meglio una forma del pensiero umano.
(p.47)

citazioni tratte da:

Carl Gustav Jung, Tipi psicologici. 2011, XX-584 p., brossuraTraduttore Musatti C. L.; Aurigemma L.Editore Bollati Boringhieri (collana I grandi pensatori).



30/09/15

I "Tipi psicologici" di Carl Gustav Jung - Un'opera fondamentale.



I Tipi psicologici scritto da Jung nel 1921 e più volte rivisto nel corso della sua lunga vita è un testo capitale. 

Appena terminata la monumentale edizione di Bollati Boringhieri (integrale), si ha la sensazione di aver scalato un'erta montagna e di aver potuto ammirare, dalla sua cima, un paesaggio nuovo, aperto, totale, inesplorato. 

A distanza di molti anni infatti, Tipi psicologici mantiene una chiarezza illuminante e dispensa una luce esatta su una materia considerata da sempre inafferrabile. 

E' a tal punto innovativa, questa grande opera, che si deve proprio a C.G.Jung e a questo studio, la nascita dei due termini "introverso" ed "estroverso" entrate stabilmente nel linguaggio comune e che ancora oggi usiamo per descrivere il carattere di una persona, anche se la maggior parte ignora la loro origine e al fatto che si debbano all'intuizione di uno dei grandi padri della psicologia, frutto di vent'anni di ricerche sulle specificità che compongono il carattere individuale. 

E' importante sottolineare che nella dottrina di Jung i termini “estroverso” e “introverso” non sono usati per esprimere un giudizio, ma per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno, quello che Jung chiama l'oggetto

E scorrendo le intense pagine del suo studio si scopre quanto le attuali semplificazioni abbiano del tutto snaturato l'originale teoria junghiana, che al contrario di Freud non  concepisce la psicologia come scienza esatta, ma come espressione di fattori soggettivi. 

Jung definisce e descrive  otto tipi psicologici principali, a partire dai due caratteri fondamentali, apollineo e dionisiaco, che hanno dominato lo spirito nella filosofia e nelle arti da Platone e Aristotele fino a Goethe e Nietzsche. 

Semplificando un pensiero estremamente complesso come quello junghiano, l'estroverso ha un rapporto positivo con l'oggetto: lo osserva, studia tutte le circostanze e cerca di adattarsi ad esse il più possibile. La persona estroversa cerca l'approvazione altrui e tende a esprimere giudizi non troppo difformi da quelli del gruppo. 

L'introverso invece tende a rimanere distante dall'oggetto, perché è più attratto dal suo mondo interiore. A differenza dell'estroverso, le sue energie non sono rivolte all'esterno ma si concentrano sulla dimensione individuale. Più che con fatti e parole – la dimensione preferita dall'estroverso – si sente a suo agio con emozioni e pensieri. Ama la solitudine, ha un atteggiamento schivo e tende a essere diffidente e pessimista. 

Ma oltre alla dicotomia Estroversione-Introversione Jung individua quattro funzioni psichiche principali: Sentimento, Pensiero, Sensazione e Intuizione. Ognuna di queste indica un diverso modo di rapportarsi al mondo. 

Dall'interazione di attitudine e funzione psichica dominante si possono definire almeno otto tipi psicologici principali, come riportato dagli attuali manuali di psicologia: 

1. Sentimentale Estroverso: diplomatico, espansivo e molto socievole, si inserisce con estrema facilità in ogni tipo di gruppo. 2. Sentimentale Introverso: taciturno, riservato, spesso malinconico, vive i sentimenti in modo esclusivo senza esprimerli all'esterno. 3. Pensatore Estroverso: riformatore, moralizzatore, per lui contano solo i fatti concreti e poco o nulla le teorie. 4. Pensatore Introverso: riflessivo, chiuso al mondo esterno, insegue pensieri astratti ed è del tutto indifferente all'oggetto. 5. Sensoriale Estroverso: esteta, alla ricerca dei piaceri della vita, realista e gaudente, crede solo nei fatti concreti e tangibili. 6. Sensoriale Introverso: animo da artista, per lui conta solo la sua soggettività, attraverso la quale interpreta e si relaziona al mondo circostante. 7. Intuitivo Estroverso: opportunista, dinamico, guidato da uno spiccato senso degli affari e da una notevole carica di entusiasmo. 8. Intuitivo Introverso: sognatore, è colui che più di ogni altro crede nel potere dell'immaginazione. 

Una lettura comunque fondamentale, per capire qualcosa di più dell'oceano psichico dal quale siamo abitati e che abitiamo.


Fabrizio Falconi


29/09/15

Oltre la Mente. La vita è chiaroscuro.


La mente non è un corpo rigido.  Nemmeno la visione lo è.  Nemmeno i suoni che percepiamo, o le sensazioni tattili delle nostre mani.   La mente elabora i tracciati vibrati dei sensi, ma è già a sua volta elaborata per essere duttile o elastica. 

Un pianto si risolve in riso, un riso in pianto. L'evoluzione della mente umana, basata su esperienza e conoscenza, è come una pianta che si solleva dal terreno e cresce sovrapponendo cellula a cellula, con il passare degli istanti. 

Come la pianta formata di tessuto cellulare, anche la mente è elastica, mutevole, si adatta all'ambiente circostante, seguendo la propria natura. 

La sperimentazione del vuoto della mente avviene in alcuni stati, come l'incoscienza o la meditazione profonda.  Ma anche in quei momenti, la mente non è mai vuota. 

Come insegnano le moderne conoscenze scientifiche, il vuoto non esiste.  

Nella fisica moderna il vuoto è ben lungi dall'essere vuoto, scrive Fritjof Capra  Al contrario, esso contiene un numero illimitato di particelle che vengono generate e scompaiono in un processo senza fine.  Il "vuoto fisico" non è uno stato di semplice "non-essere", ma contiene la potenzialità di tutte le forme del mondo delle particelle.

Il vuoto è dunque potenzialità.  Quel che noi chiamiamo 'vuoto' è una zona grigia, dove il bianco non è del tutto bianco (e non può esserlo) e il nero non è del tutto nero (né può esserlo). Il grigio, in ogni sua possibile gradazione, è possibilità, infinite possibilità.

Alla Mente dunque, se è concesso di individuarsi solo per contrasto, cioè differenziandosi, è consentito di fare esperienza e quindi di crescere, soltanto per gradazioni, per variazioni: il sole se è pieno uccide, il buio se è pieno uccide. 

La vita può prosperare solo nello spazio intermedio, la vita della mente può prosperare solo nello spazio intermedio. 

Come scrive C.G.Jung, purtroppo, come tutto ciò che è sano e durevole, la verità si tiene più sulla via di mezzo che noi a torto detestiamo. 


E quel purtroppo è molto eloquente (specialmente detto da Jung): tutti vorremmo infatti un bel piatto caldo, già pronto da mangiare.  Tutti vorremmo non interrogarci troppo.  Tutti vorremo come l'aspirante pittrice de Lo stato delle cose (Wenders,1982) non dover diventare matti con il chiaroscuro, che rende irriproducibile quello che vediamo, impossibile da catturare. 

Una mia cara amica ha detto: Io sento in me istinti che devo combattere e contrastare. Tutta la mia tensione interiore è generata da una lotta continua tra ciò che sento giusto e buono e ciò che in realtà faccio quotidianamente.

Sembra essere lo stato permanente in cui si muove la nostra mente. Che è come un mare inquieto, liquido, in movimento. Il che stabilisce anche la nostra incompletezza, perché qualcosa in noi aspira o aspirerebbe ad un porto sicuro, ad un confine certo.  Ad un bianco o nero.

Ma questa imperfezione o incompletezza E' la vita.

Che non è data da altro se non da questo.   Una volta appresa, con profonda consapevolezza, questa lezione, si può o si potrebbe dire, insieme a Simone Weil:

Io desidero, io supplico che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi, interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché esso guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità.


Fabrizio Falconi (C) - 2015 riproduzione riservata.




28/09/15

James Tissot - Una vita tormentata, un grande artista. La Mostra al Chiostro del Bramante.





Ho visto al Chiostro del Bramante, la mostra allestita sul  sul grande pittore francese James Tissot (Nantes, 1836 - Buillon 1902),  un artista ancora poco celebrato. In mostra 80 opere provenienti da musei internazionali quali la Tate di Londra, il Petit Palais e il Museo d’Orsay di Parigi, che raccontano l’intero percorso artistico del pittore e l’influenza che su di lui ebbe l’ambiente parigino e la realtà londinese, dando conto della sua vena sentimentale e mistica, del suo incredibile talento di colorista e del suo interesse per la moda.

Donne bellissime immerse in giardini fioriti, in abiti sontuosi a teatro o nelle sale da ballo, eleganti e dinamiche in viaggio, scortate da corteggiatori o circondate da bambini in festosi pic nic: è questo l' Ottocneto ricco e felice di James Tissot. , 

'James Tissot' e' stata prodotta dal Dart - Chiostro del Bramante in collaborazione con Arthemisia Group e curata da Cyrille Sciama, che ha portato a Roma i capolavori piu' famosi dell'artista, celebrato a Londra come a Parigi, interprete acclamato e conteso del bel mondo internazionale, cantore dell'eta' vittoriana tra rivoluzione industriale e colonialismo, unico nel trasformare la quotidianità agiata e oziosa di dame e nobiluomini in imprese dal gusto eroico, a tratti vagamente esotico, con un occhio soggiogato dagli estetismi del sol levante. 

Figlio di un commerciante di stoffe e di una modista disegnatrice di cappelli (dalla quale eredita la passione per i dettagli alla moda), Jacques Joseph Tissot (Nantes, 1836 - Buillon, 1902), si colloca all'interno della corrente del Realismo sviluppatasi in Francia nel 1840, accanto a Courbet, Daumier e Millet.

Al principio, pero' i suoi quadri sono prevalentemente di carattere storico e risentono dell'influenza della scuola olandese. 

Ma presto Tissot cambia soggetto alle sue opere, dedicandosi alla rappresentazione di ambienti e personaggi della Parigi mondana, soprattutto grazie alla capacità di esprimere magistralmente il fascino femminile. 

La sua precisione e' cosi' realistica da far apparire i suoi ritratti come fotografie istantanee: costumi e accessori, resi con dovizia e ricchezza di particolari, rivelano infatti i gusti dell'aristocrazia e sanciscono lo status dei personaggi immortalati nelle tele o nelle splendide grafiche. 

Una tecnica questa che approfondisce soprattutto durante il lungo soggiorno londinese, dopo aver lasciato una Parigi travolta dalla guerra franco-prussiana e quindi dall'assedio della citta' (1870-71).

Importante in quegli anni l'incontro con una bellissima irlandese divorziata, Kathleen Newton, che diventa la sua musa ispiratrice, ritratta in molti celebri dipinti in particolare nella serie della convalescente

Malata di tisi, muore a soli 28 anni, facendo sprofondare Tissot in una profonda disperazione che lo riporta nella capitale francese

Lì torna a immortalare, tra gioia e tedio, la mondanità parigina che si avvicenda in salotti e balli, ma una nuova delusione sentimentale lo segna a tal punto da provocare nel pittore una vera e propria crisi mistica. 

La definitiva conversione al cattolicesimo lo porterà a passare il resto della vita a illustrare la Bibbia e a viaggiare per dieci anni in Medio Oriente e in Palestina. 

INFO E PRENOTAZIONI T +39 06 916 508 451 

BIGLIETTERIA ONLINE http://www.ticket.it/tissot 

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27/09/15

Poesia della domenica. "Il tuo nome è una rondine nella mano" di Marina Cvetaeva.



Il tuo nome è una rondine nella mano

Il tuo nome è rondine nella mano,
il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua,
un solo unico movimento delle labbra.
Il tuo nome sono sei lettere,
una pallina afferrata al volo,
un sonaglio d'argento nella bocca.

Un sasso gettato in un quieto stagno
singhiozza come il tuo nome suona.
Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni
il tuo nome rumoroso rimbomba.
E ce lo nomina lo scatto sonoro
del grilletto contro la tempia.

Il tuo nome - ah non si può! -
il tuo nome è un bacio sugli occhi,
sul tenero freddo delle palpebre immobili.
Il tuo nome è un bacio dato alla neve.
Un sorso di fonte, gelato, turchino.
Con il tuo nome il sonno è profondo.


M.Cvetaeva, tratto da Achmatova, Mandel'stam, Cvetaeva, Esenin, Poeti russi del novecento, a cura di Raffaele Belletti e Gabriele Mazzitelli, Lucarini, Roma, 1990.

26/09/15

"Libertà" di Jonathan Franzen, il grande romanzo americano (Recensione).



Ho nutrito per anni un pregiudizio nei confronti di Jonathan Franzen.

Troppo successo, troppo rumore, troppo fenomeno. In genere diffido a priori.  Ci sono arrivato quindi dopo parecchio tempo e a partire da questo Libertà, il suo quarto romanzo, pubblicato nel 2011, a dieci anni di distanza da Le Correzioni, che nel 2001 avevano dato a Franzen il National Book Award e la notorietà internazionale. 

Ma già dopo poche pagine, ho dovuto ricredermi. 

Libertà è un grande romanzo. 

Anzi, devo dire, dopo molti molti anni, ho ritrovato l'impressione di leggere un Grande Romanzo Americano (Great American Novel), l'ambizione più o meno segreta di ogni romanziere nordamericano, che prima o poi incappa nella velleità di scrivere un ampio romanzo capace di racchiudere e sostenere lo spirito contemporaneo americano. 

In effetti forse è da Le avventure di Augie March, di Saul Bellow (1953), che non riscontravo da lettore un esito così ben riuscito. 

Soltanto che quello è un romanzo di formazione classico, mentre questo è un romanzo intessuto sulla storia di un matrimonio. 

Patty e Walter Berglund sono «i giovani pionieri di Ramsey Hill», nella cittadina di St. Paul, Minnesota. Vivono in una casa vittoriana che hanno acquistato per pochi soldi e impiegato dieci anni per ristruttura. Hanno due figli ventenni, Jessica e Joey; sono moderni e liberali, democratici e ecologisti.

Agli occhi dei vicini di casa, Patty e Walter sono una coppia solida.  Come molte coppie, invece nascondono vuoti e frustrazioni

La costruzione del romanzo è perfetta; perfetta la sua struttura.  Nelle prime 250 pagine - un capolavoro di equilibrio - Franzen affida la biografia di Patty alla stessa voce della protagonista.  Così apprendiamo i dubbi e le ferite di questa donna come tante, forte e debole allo stesso momento, del suo matrimonio sbagliato, delle circostanze fuorvianti che ve l'hanno condotta, la passione segreta per il miglior amico del marito - la rockstar pragmatica e impenitente Richard Katz - cui viene data libera espressione nel momento più delicato della vicenda. 

Nelle parti successive -  dedicate a Joey (il figlio viziato e intraprendente della coppia, il suo strambo matrimonio con la vicina di casa Connie, la passione per la bella e viziata Jenna) e a Walter (la sua dedizione alla causa ecologista per la salvaguardia di un piccolo uccello migratore, la sua passione per Lalitha, una giovane assistente indiana innamorata di lui) la vicenda si compone con le diverse voci e i diversi tempi di un quartetto d'archi ben assemblato. Ciascuna voce passa la voce alla successiva. E le trame non si confondono, ma formano un tessuto dal disegno lucido e preciso. 

Vargas LLosa diceva recentemente che due sono essenzialmente i presupposti per scrivere un grande romanzo: la scelta della voce narrante (chi è che parla al lettore) e la scelta dei tempi, del tempo dell'azione. 

Franzen vince entrambe le sfide: sceglie una voce polifonica, ovvero composta di diverse voci, assoggettate al progetto comune; sceglie un presente e un 'a ritroso' che dialogano per tutto il corposo romanzo, lasciando ganci aperti alla fine delle parti, suscitando il coinvolgimento sempre diretto del lettore. 

La felicità del racconto è strutturalmente legata al fine che si persegue: quello di una lunga meditazione sul matrimonio, sulla relazione sentimentale, e sulla libertà individuale.  

Tutti i personaggi di Libertà sono alle prese con la ricerca affannosa di una libertà individuale, e devono fare i conti  con gli impedimenti e gli intralci che si sono autoimposti con i loro errori. 

L'imponderabile scivola nelle vite già fortemente compromesse dalla catena delle ferite/risposte, dalle incapacità individuali, dalla confusione di una apparente e sostanziale mancanza di senso generale. 

L'ipocrisia, il dolore, la trasandatezza, l'insano masochismo, la voglia di sfidare i propri limiti, l'intemperanza, l'impazienza. la paura, la sofferenza, la gioia improvvisa, la sproporzione tra i demeriti e i meriti, la passione vissuta come via di fuga: questi sono i veri protagonisti di Libertà

Specchio antropologico e simbolico della civiltà americana, arrivata ad un punto dove ogni desiderio individuale sembrerebbe esaudito o a portata di mano, tranne quello della felicità personale, che passa per forza di cose attraverso la consapevolezza (un conto eternamente rinviato, fino all'inevitabile). 

La scrittura di Franzen è limpida e circolare, come nella più classica delle lezioni tolstojane. i dialoghi sono sempre all'altezza, le trovate mai fini a se stesse. Il dolore è autentico, il disorientamento anche.  

Nelle vite di Patty e Walter è lecito sbirciare, entrare, lasciarsi perfino trascinare. Essendo difficile alla fine restare alla pura distanza dell'oggettivo punto di vista del lettore, visto che tutto questo ci riguarda da vicino, più di quanto forse vorremmo. 

Jonathan Franzen, Libertà, Einaudi 2014 Super ET pp. 656 € 14,00 Traduzione di Silvia Pareschi

Fabrizio Falconi (C) - riproduzione riservata


24/09/15

Nasce "SP-JOY", una piccola e coraggiosa casa editrice di temi sociali.





E' davvero una iniziativa meritoria quella della neo casa editrice Sp-Joy di Alba, in provincia di Cuneo. 

Si tratta di un editore orientato a pubblicare libri di impatto sociale, libri di testimonianza e quella che loro stessi chiamano in modo eloquente letteratura edificante.

I titoli pubblicati finora sono interessanti ed eloquenti: 

Gualtiero Giovando - Non pensare mai all'orso bianco. Un libro di testimonianza e terapie complementari del Parkinson, l'autore è un inventore, produttore di  brevetti industriali, affetto dal Parkinson che tratta la malattia come i problemi produttivi, che studia e cerca di risolvere per l'industria - 

AAVV - Per un soffio diVento - Undici racconti per cambiare e scambiarsi sguardi - realizzato in collaborazione con l'Associazione di Promozione Sociale Yepp Langhe, e sono racconti davvero sorprendenti, scritti da ragazzi tra i 15 e i 20 anni... 

Patrizia Ciccani - Zia, lo sai che sei un po' strana ?! -  Il racconto biografico ironico e graffiante di una donna con la tetraparesi spastica. L'autrice raccontando se stessa e le contraddizioni del mondo in cui abita, mette a nudo con gusto, dolcezza e severità l'attitudine dei "normodotati" nei confronti delle persone con disabilità.

Altri volumi sono poi in preparazione, tra i quali un volume per ragazzi a fumetti Fauna Disturbata - una raccolta di vignette di Umberto Giordano che narra le storie  di alcuni animaletti selvatici che vivono in una discarica pensando che si tratti della natura.

Per ogni informazione e contatti si può visitare il sito on line: www.booksandjoy.com

Fabrizio Falconi

23/09/15

La "Casa delle scuffie", in Via Nomentana a Roma.



La “casa delle scuffie” di via Nomentana 

Per un considerevole tratto, la via Nomentana rientra nei confini dell’attuale quartiere Salario.

E in questo tratto, al civico numero 175, si può ammirare un singolare edificio oggi noto principalmente come “casa delle battaglie”, per via del fatto che sulla sua facciata vi sono altorilievi di terracotta raffiguranti scene popolaresche riferite al Risorgimento – il che lo rende assolutamente unico. 

Ma un tempo, il palazzo in questione era detto “casa delle scuffie”,perché sulla sua sommità erano presenti delle antefisse, particolari elementi decorativi architettonici raffiguranti volti di donna ornati da ricchi decori intorno alle teste. 

La fantasia popolare identificò quei volti come appartenenti a monache o a donne con cuffie, da qui il nome popolare “casa delle scuffie” – la scuffia che in romanesco indica anche lo scappellotto dato ai bambini sulla testa. 

Le decorazioni del palazzo erano opera dell’architetto Ettore Bernich, che le realizzò nel 1885, e rappresentano un primo esempio di architettura archeologica nella Roma moderna.

Bernich, infatti, riempì il palazzo di citazioni colte – come le tegole curve nel tetto che richiamavano l’architettura etrusca – miscelando gli elementi antichi, etrusco-romani, con quelli moderni, che rappresentavano le gloriose battaglie del Risorgimento, compresa quella vinta dai bersaglieri a porta Pia. 

Nell’arco delle finestre l’architetto inserì volti femminili e quattro grandi scudi (al terzo piano) con le immagini allegoriche di una lupa, di un cavallo, di una biscia e di un toro, alludenti a città italiane, sostenuti da protomi leonine.


22/09/15

Il matrimonio di Jonathan Franzen: vita e ispirazione.




tratto da Repubblica online, 30 ottobre 2012.

Jonathan Franzen, Farther Away, 2012.

Vorrei dedicarmi al concetto di diventare la persona giusta per scrivere il libro che volete scrivere. 

Riconosco che parlando del mio lavoro,e raccontando la storia del mio passaggio dal fallimento al successo, corro il rischio di sembrare immodesto o innamorato di me stesso. Non è poi così strano o deprecabile che un scrittore vada fiero della sua opera migliore e passi molto tempo a esaminare la sua vita. Ma deve anche parlarne? 

In passato avrei risposto di no, e il fatto che ora risponda di sì potrebbe anche rivelare qualcosa di negativo sul mio carattere. 

Ma intendo comunque parlare delle Correzioni, e descrivere alcune delle lotte che ho affrontato per diventarne l' autore

Faccio notare in anticipo che buona parte di quelle lotte hanno riguardato - come credo accadrà sempre agli scrittori profondamente impegnati nel problema del romanzo- il superamento della vergogna, del senso di colpa e della depressione

Faccio anche notare che il semplice fatto di parlarne rinnoverà la mia vergogna

La prima cosa che dovetti fare all' inizio degli anni Novanta fu uscire dal mio matrimonio

Infrangere la promessa e il legame emotivo non è facile quasi per nessuno, e nel mio caso era ulteriormente complicato dal fatto di aver sposato una scrittrice. Mi rendevo vagamente conto che eravamo troppo giovani e inesperti per votarci a una monogamia perpetua, ma le mie ambizioni letterarie e il mio idealismo romantico ebbero la meglio.

Ci sposammo nell' autunno del 1982, quando avevo appena compiuto ventitré anni, e cominciammo a lavorare insieme, in squadra, per produrre capolavori letterari. Avevamo progettato di lavorare fianco a fianco per tutta la vita.

 Non ritenevamo necessario avere un progetto di riserva, perché mia moglie era una newyorkese sofisticata e piena di talento che sembrava destinata al successo, probabilmente molto prima di me,e io sapevo che sarei sempre riuscito a cavarmela.

E così ci mettemmo entrambi a scrivere romanzi, e restammo entrambi sorpresi e delusi quando mia moglie non riuscì a vendere il suo. 

Quando io vendetti il mio, nell' autunno del 1987, mi sentii emozionato ma anche molto, molto in colpa.

21/09/15

"L'Assenzio" di Edgar Degas. Il quadro della condizione umana.



L'absinthe o Dans un café fu dipinto da Edgar Degas tra il 1875 e 1876.

Anche il  Café de la Nouvelle Athènes, dove la scena è ambientata, ha una lunga storia: si trovava a Place Pigalle ed era un famoso ritrovo degli impressionisti. Il Café prendeva il nome da un quartiere di Parigi di fine Ottocento.  Nel corso degli anni il caffè cambio nome più volte: negli anni quaranta, divenuto un locale di spogliarelliste, venne chiamato Sphynx divenne il luogo di incontro dei militari nazisti prima e statunitensi poi. Più recentemente, tra gli anni ottanta e gli anni novanta, fu chiamato New Moon. Il caffè fu poi chiuso definitivamente nel 2004 ed il palazzo che lo ospitava, completamente ristrutturato. 

La terrazza del Café offriva ai pittori impressionisti un luogo ideale da cui ritrarre i loro modelli. 

Degas ne sceglie due particolari: l'attrice Ellen Andrée e il pittore Marcellin Desboutin, un aristocratico caduto in disgrazia divenuto un vagabondo pieno di orgoglio e dignità e pittore senza troppa fortuna.  

L'uomo ha il gomito sul tavolo, la pipa in bocca e guarda fuori dal locale.   La donna, come ipnotizzata davanti ad un bicchiere di assenzio - bevanda poi definitivamente abolita, definita la droga dei poveri - con lo sguardo perso nel vuoto. 

I due sono vicini, ma non hanno nulla in comune. Sembrano ciascuno dei due prigionieri del proprio mondo, delle proprie fantasie, della propria visione del mondo

L'isolamento popola questa tela, la abita.

Lo sguardo di Ellen è la diagonale che attraversa il quadro, e fuoriesce da esso verso un altrove sconosciuto.  Il bicchiere sembra non ancora sfiorato.  Il liquido verdognolo lo riempie fin quasi all'orlo. Ma la caraffa è vuota. E forse, anzi, certamente, quello non è il primo bicchiere. 

Desboutin ha gli occhi rossi e il suo aspetto arruffato - il cappello inclinato - testimonia il dissidio aperto con il mondo. 

I giornali sono avvolti nelle stecche, in primo piano.  Nessuno li vuol leggere, non servono. La scena si svolge ben oltre l'attualità, l'ordinarietà della vita.   Soltanto la firma di Degas si può leggere sopra. 

Ellen e Marcellin sono incompleti. 

Aspettano qualcosa che forse - o quasi certamente -  non arriverà mai. Aspettano. 

Edgar Degas, L'absinthe, olio su tela, 92 x 68 cm, lascito del conte Isaac de Comondo, 1911, Musée d'Orsay, Parigi. 

Fabrizio Falconi









18/09/15

Il fregio di Kentridge sul Tevere - Intervista. "Ogni trionfo corrisponde a una sconfitta di qualcun altro".





"Ogni storia ha una sua parte negativa o di vergogna. Ogni trionfo corrisponde a un lamento, alla sconfitta di qualcun altro".

Cosi' William Kentridge spiega cosa sara' il suo Triumphs and laments, imponente opera site specific che proprio nel cuore di Roma, sui muraglioni del Tevere, raccontera' miti e dolori della storia millenaria della città. 

Un fregio lungo 550 metri, nel tratto da Ponte Sisto a Ponte Mazzini, popolato di 80 figure alte fino a 10 metri, che emergeranno sul muro come grandi ombre danzanti, senza colori ne' vernici, ma solo pulendo la patina biologica accumulata negli anni sul travertino bianco dei muraglioni.

Artista sudafricano celebrato in tutto il mondo (e' ora nel Padiglione Italia della Biennale e ad aprile sara' al Macro), per realizzare l'opera Kentridge ha dovuto pero' attendere tre anni di polemiche e incertezze. 

"Ci scusiamo perche' noi italiani siamo bravi a fare le cose, ma abbiamo percorsi un po' lunghi - ammette l'Assessore alla cultura del Comune, Giovanna Marinelli - E' una scelta importante non solo per la grande firma dell'autore, ma anche per il luogo e la storia della nostra citta'. Bisognava costruire un consenso e una collaborazione istituzionale, che non e' secondaria". 

Cosi' Triumphs and laments, promosso daTevereterno e realizzato interamente con fondi privati, sara' inaugurato il 21-22 aprile in occasione del Natale di Roma, ma anche, caso ha voluto, nel pieno dell'anno giubilare, in "mostra" per i milioni di pellegrini proprio a due passi dal Vaticano. 

A festeggiarlo, due giorni di concerti gratuiti con due processioni musicali del compositore Philip Miller. 

"La storia di Roma e' fatta di avvenimenti, ma anche di pietre", spiega Kentridge, mostrando gli schizzi a carboncino dei giganti che incarneranno piu' di duemila anni di tensioni della storia sociale della citta'. 

"Ho fatto una lunga ricerca iconografica - dice - perche' fossero facilmente riconoscibili". 

Si va dalla Lupa capitolina al trionfo di Cesare, dalla Vittoria alata, prima integra e poi spezzata, a Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella Fontana di Trevi per la Dolce vita. 

E poi, Santa Teresa, Michelangelo, Papa Clemente, la Morte di Remo accostata a quella di Pasolini, con citazioni da Mantegna alla Colonna Traiana, da Tiziano a Mirys. Lo stesso luogo "e' parte dell'opera". 

Non solo perche' il Tevere, "con San Pietro su una sponda e il Ghetto ebraico dall'altra", da sempre attraversa la storia di Roma. Ma perchè le figure, in qualche modo, sono già sui muraglioni, proprio come le sculture, diceva Michelangelo, esistono gia' nei blocchi di pietra.

Bisogna solo lavorare per sottrazione. Ecco allora che dopo la creazione di grandi stencil, le immagini emergeranno lavando con acqua il "nero" che copre i muraglioni. 

Primi test a ottobre nel tratto di Ponte Margherita e a febbraio via all'esecuzione con 12 tecnici e lo stesso Kentridge all'opera sulla banchina ad aprile. 

Un progetto dunque temporaneo e per sua natura reversibile, che scomparira' in 3-4 anni con il "ricrescere" della patina. Ma che regala alla citta' anche la ribattezzata Piazza Tevere. Uno spazio, dice il direttore artistico Kristin Jones, che "ha le stesse dimensioni del Circo Massimo e che potrebbe diventare uno dei maggiori luoghi per l'arte contemporanea in città'.