25/12/25

CERCARE IL BIANCO NELLE COSE SCURE - Un nuovo scopo


In una recente intervista, il premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang, dice qualcosa di notevole: “in questi giorni quando osservo delle ombre sul muro o il sole che batte vicino alle ombre penso che anche quello è bianco. Cerco il bianco nelle cose scure.”

E al bianco, o meglio, alla ricerca del bianco infatti, la scrittrice coreana ha dedicato il suo ultimo libro: Il libro bianco (Adelphi, 2025).

Nel suo romanzo c’è Varsavia distrutta da Hitler, c’è il dolore, ci sono le cicatrici personali. Ma c’è anche una candela accesa in una stanza gelata, per far danzare le ombre.

Ho avvertito quanto ci sia di propizio in questo. Cos’è del resto che facciamo tutti noi? Cos’è il racconto dell’umilissima natività occidentale - innestatosi sui miti arcaici del solstizio invernale - se non la speranza da sempre alimentata di qualcosa di chiaro che rinasce dal cuore più cupo dell’oscuro, quando - come in ogni ciclo annuale - la luce sembra destinata a estinguersi del tutto?

Tutti noi celebriamo il nostro sol invictus e non lo facciamo soltanto in questi giorni inutilmente chiassosi.

Lo facciamo perché è il nostro modo di stare al mondo.

Se fossimo solamente sopraffatti dall’oscurità, se - oltrepassata la linea d’Ombra - non vi fosse altro che l’orrore del comandante Kurtz; se Rust - dopo aver ucciso il mostro a prezzo quasi della propria vita - (True Detective stagione 1) non fosse convinto che “la luce stia vincendo”, nonostante tutta quella oscurità feroce là fuori; se Isaac Newton non avesse dimostrato che il bianco è dato dalla “combinazione di tutti i colori”, mentre il nero, anch’esso senza tinta, è dato dalla sintesi sottrattiva di tutti i colori dello spettro visibile (cioè “assenza di colore”); se le moderne teorie cosmologiche non avessero ipotizzato un destino impensabile (i cosidetti wormholes) anche per i buchi neri dell’Universo, gli oggetti più oscuri esistenti e concepibili, allora, se tutto questo non fosse vero, non resterebbe altro da dire a riguardo dell’impero dell’oscurità, dominante su ogni cosa visibile e invisibile (e quindi anche sul nostro fato mortale).

Invece gli umani a quanto pare non rinunciano mai a “cercare il bianco nelle cose scure” (è forse un vizio o un archetipo che viaggia con noi dalla notte dei tempi?).

Mi vengono in mente quelle foto scattate nel ranch di Roxbury, nel Connecticut, due ore da New York, che ritraggono Arthur Miller e Marilyn Monroe, dopo il loro matrimonio del 1956. Il ranch che Miller aveva comperato per lei e dove sperava riuscissero entrambi ad allontanarsi dalle proprie cruciali ombre.

Miller si dice fosse ossessionato dal bianco e queste famose foto sembrano dimostrarlo. Marilyn è vestita tutta di bianco, come una sposa o una vestale. Suo marito la osserva, tocca la sua pelle bianchissima con prudenza, come fosse un sogno materializzatosi, una visione di luce incarnata, fragile ed eterea, non di questo mondo.

Invece anche questo sarà un matrimonio molto reale, molto concreto, pieno di oscurità. Marilyn voleva un figlio da Miller, ma lei non riusciva a portare avanti le gravidanze. Dodici o quattordici aborti, nella sua intera vita, sembra. In parte dovuti all’endometriosi della quale soffriva.

Appena cinque anni dura il matrimonio: il divorzio arriva appena 19 mesi prima della morte di Marilyn, sopraffatta dalla depressione, dalle delusioni, dall’alcool e dagli psicofarmaci.

Miller, com’è noto, non andò al funerale. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, un indice di quanto gli costasse separarsi definitivamente da tutto quel bianco.

Ma quella “creatura fuori dell’ordinario” (come la definì Miller) continuò a produrre luce anche dopo la sua sfioritura terrestre.

Perché solo la vera poesia, a quanto pare, sa scovare il bianco anche nell’oscurità più disarmante. L’amore ne è un corredo, anche quando non ha speranze.

Perché il bianco può essere scorto soltanto con l’attenzione. E l’attenzione - o la cura - sono soltanto di chi ama.

Quando il poeta-contadino Sergej Esenin ritorna al suo villaggio, nel 1921, tre anni dopo la rivoluzione d’Ottobre, da disertore è già un noto poeta, anche se a Pietrogrado lo hanno snobbato quando lo hanno visto arrivare. Nei circoli intellettuali, lui era una sorta di bifolco. Seppure di bellezza stupefacente.

Al ritorno a casa si incontra con Anna Snègina, una giovane intellettuale, figlia del feudatario del luogo, sposata con un ufficiale. Sergej e Anna, coetanei, si sono amati da adolescenti. Ora Borja, il marito di Anna, è morto, ucciso dai contadini per l’esproprio delle terre. I due, Sergej e Anna, potrebbero ritrovarsi. E così è: si ritrovano e si riamano, ma non possono restare insieme, perché c’è stato troppo dolore.

Esenin che sta raccontando la sua vera storia, ha dato alla donna un nome inventato, che parla di bianco. Snégina viene da sneg, cioè neve: in esso è quasi l’immagine della fanciulla - ciliegio selvatico, quella che è “come la neve chiara e lucente.”

Anna, una donna accorta e sensuale, il cui nome delicato e niveo non è semplicemente un nome: in esso è celata l’immagine della fanciulla in bianca mantellina che diventa simbolo non solo della giovinezza perenne, ma anche di quella Russia celeste di un tempo, che se ne va per sempre. (1).

Immagine destinata a permanere e sopravvivere come fa il bianco, quando viene riconosciuto nell’oscurità:

Lontani, cari anni!… / Quell’immagine in me non s’è spenta.

Tutti noi, in quegli anni abbiamo amato,/ ma certo,/ hanno amato anche noi.

  1. I.De Luca, Anna Snegina, Einaudi, 1976, p.57  




22/12/25

"Mostri e animali fantastici di Roma", il nuovo libro-strenna su Roma, di Fabrizio Falconi

 



E' ora in libreria il nuovo libro di Fabrizio Falconi, Mostri e animali fantastici di Roma, strenna 2025

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Tra leggende e realtà,
gli animali di Roma raccontano la storia segreta di una città senza tempo.


Simboli e creature mitologiche della Città Eterna


Le strade di Roma parlano anche con le voci degli animali. Fabrizio Falconi racconta la Città Eterna attraverso le creature animali che l’hanno abitata, affascinata e segnata, potenti espressioni e simboli della sua storia e del carattere dei suoi abitanti. Un viaggio tra richiami allegorici, cronache e miti che, dall’antichità al Novecento, unisce storia, arte e natura. Dalla lupa che nutrì Romolo e Remo alle spettacolari belve delle arene imperiali, dalle superstizioni del Medioevo alle creature che hanno ispirato i grandi artisti del Rinascimento, dai gatti dei vicoli del centro alla nascita del Giardino Zoologico, Roma si rivela non solo città di uomini e dèi, ma anche di creature che hanno lasciato un’impronta indelebile nel suo cuore millenario. Un bestiario e insieme un affresco di storie degli animali, reali, domestici o mitologici, che hanno contribuito a scrivere pagine immortali dell’Urbe.

Tra gli argomenti trattati:

La lupa e gli animali fondatori: creature mitiche all’origine della Città Eterna.
Le belve dell’impero:
cavalli venerati, fiere da combattimento, animali in guerra.
Il Medioevo oscuro: superstizioni, sabba infernali
e creature misteriose tra le rovine.
Il Rinascimento zoologico: l’arte celebra l’animale, da Bernini a Kircher.
L’età moderna:
il Giardino Zoologico, i gatti dei vicoli e gli animali delle cronache romane.

ISBN: 9788822797803 - Pagine: 256 - Quest'Italia n. 598 - Argomenti: Storia - Saggistica - Storia

15/12/25

Quando Lennon urlò il suo dolore al mondo - Curare le ferite interiori

 


All'inizio dell'anno di grazia 1970, John Lennon è all'apice della sua crisi interiore.

Paul McCartney ha appena indetto una conferenza stampa, annunciando la fine dei Beatles e spiazzando così i compagni di avventura che avrebbero voluto una fine più soft .

Volano gli stracci trattenuti a lungo - per anni. I fan di tutto il mondo sono sconvolti. Lennon è trasvolato molto, molto lontano, in California. Lui e Yoko si sono fatti recuperare in clinica per disintossicarsi dall'eroina.

E John è alla ricerca dell'ennesimo guru che possa indicargli un percorso di salvezza, per far pace con i suoi demoni, il padre che lo abbandonato da piccolissimo, la madre perduta in un assurdo incidente stradale, la zia severa che lo ha cresciuto, tutto quello che l'infanzia e l'adolescenza gli hanno irrimediabilmente portato via e che ora, dopo l'ubriacatura degli anni Beatles, riaffiora ancora più ferocemente di prima.

Il nuovo guru di John Lennon è Arthur Janov. Nato a Los Angeles da due immigrati ebrei russi, ha quarantacinque anni quando John e Yoko lo incontrano: ha studiato psichiatria ed è diventato psicoterapeuta in California, cominciando a lavorare soprattutto con ridotti e veterani di guerra.

Nel 1967 ha avuto l'intuizione che gli ha cambiato vita e carriera: durante la seduta con un paziente, percepisce chiaramente “l'urlo inquietante che sgorga dalla profondità interiore” di quel giovane sdraiato sul pavimento. Gli dà un nome: Primal dolore , ovvero dolore primario .

Si tratta di un blocco di dolore represso che si è fossilizzato nel mondo emotivo del paziente, durante esperienze infantili traumatiche, producendo quello che Janov chiama un “adulto emotivamente danneggiato”.

Per questo dolore “primario”, serve una “terapia primaria”. Una terapia d'urto in grado di far rivivere e liberare questi ricordi e sentimenti così a lungo repressi. Quell'urlo dal profondo, ascoltato durante la seduta col suo giovane paziente, lo porta a elaborare una terapia fondata sul grido, sul gettare fuori, mediante un linguaggio totalmente radicale e primitivo, il dolore sedimentato nel blocco emotivo. La teoria primaria di Janov è diventata di moda proprio durante i mesi del turbolento scioglimento dei Beatles, prima come terapia, in seguito come fenomeno culturale.

Nello studio di Janov, a West Hollywood, opportunamente insonorizzato, cominciano a sfilare quelli della California che conta, compresi diversi esponenti del mondo dello spettacolo.

La sua popolarità si sposta anche sulla East Coast, a New York, poi a Londra. Yoko e John, in clinica, hanno appena letto il libro di Janov, The Primal Scream (sottotitolo: Primal Therapy: The Cure for Neurosis ) e Yoko fissa subito un appuntamento con lo psichiatra: Lennon ha quantomai bisogno di aiuto. Janov racconterà più tardi di averlo trovato in condizioni pessime: “non riuscivano nemmeno a uscire dalla stanza”.

Il secondo aborto di Yoko, lo scioglimento del gruppo, i guai finanziari, la stampa appostata fuori casa a caccia di ogni dettaglio della storia con Yoko, una cupa depressione. Janov sembra la persona giusta. Quando John sente dalla sua bocca che la terapia primaria ha a che fare “con i traumi che hai subito nel grembo materno, alla nascita e durante l'infanzia”, pensa che sta parlando proprio di quello che è successo a lui.

“Quando quel dolore è abbastanza grande, è impresso nel sistema”, spiega Janov, “cambia il nostro intero sistema fisiologico e tutti quei dolori trattenuti nel magazzino interno, causano tensione, ansia e depressione”. John intravede una luce in fondo al tunnel e vorrebbe cominciare subito. Il fatto è che Janov riceve a Los Angeles, ma non è un problema, perché John e Yoko hanno messo già i piedi in America. Così la coppia affitta una casa in California, a Nimes Road, proprio a Bel-Air, a seicento metri in linea d'aria da Cielo Drive 10050, la casa dove Manson ha sterminato Sharon Tate ei suoi amici.

Quando si trovano lì, e sarà sempre più a lungo, dopo lo scioglimento dei Beatles, John guida la sua auto lungo Beverly Glen fino allo studio di Janov. Entra in una stanza buia e totalmente insonorizzata e comincia a urlare più forte e più violentemente che può.

Anche Yoko si sottopone al trattamento. Nel libretto di accompagnamento alla ristampa dell'album John Lennon/Plastic Ono Band, pubblicato alla fine di quell'anno, Yoko scrive: “Durante il 1970 abbiamo fatto un'ampia terapia Primal Scream per sei mesi, il che è stato molto importante per noi e molte delle canzoni sono state ispirate da quelle sessioni.”

Anche se Janov racconta che John esce alla fine di ogni seduta, “sentendosi incredibilmente bene”, le ricadute della terapia dell'urlo primario non sono soltanto rose e fiori, come testimonial Klaus Voormann, il vecchio amico di John dai tempi di Amburgo, che nella fase solista di Lennon diventerà il suo più stretto collaboratore: “Era cambiato moltissimo a causa di questa cosa dell'urlo primordiale, ed era davvero pesante. no." [1]

Cambiato moltissimo, dice Voormann: lo si vede anche nelle foto del periodo. John, nei primi mesi del 1970 appare smagrito, quasi scheletrico, i lunghi capelli e il barbone di pochi mesi prima (quelli della foto di Abbey Road) tagliati radicalmente, corti, come quelli di Yoko. Le occhiaie che spuntano dietro le lenti colorate di giallo. La terapia dei Primal Scream è per John una sorta di katábasis, di discesa agli inferi, i suoi personali. Regredire al blocco del dolore primordiale vuol dire per lui rivivere – non semplicemente “ripensare” – la causa dei suoi tormenti.

Tutto questo è terribile da rivivere, ma è certamente catartico. E per un genio musicale come Lennon, perfino propizio, nel momento in cui la sua carriera solista sta per decollare, e dovrà navigare in mare aperto senza i Beatles.

Poco importa che le teorie di Janov siano malviste nell'ambiente della psicoterapia “importante”, specialmente europea. John sa che anche quello può servire, per la sua vita e per la sua musica. E finché funzionerà, finché non subentrerà qualcosa di nuovo, ci starà dentro con tutto sé stesso.

La sorellastra di John, Julia Baird, nata dall'unione della madre di John con il secondo marito, John Dykins, nel suo libro, pubblicato nel 2010, ricorda Lennon bambino, “praticamente recluso da zia Mimi.” Un bambino che con il passare degli anni cominciò a far visita sempre più spesso a casa Dykins: lì c'era sua madre. “Non era facile per John”, dice Julia oggi, “senza un padre e con una madre che non poteva vedere”. Un problema che ebbe, secondo Julia, un ruolo decisivo sulla psicologia di John. "Ha sempre avuto bisogno di una figura più matura, che si prendesse cura di lui. Alla fine, l'ha trovata. So che chiamava Yoko "mamma" negli anni prima di morire... non è normale. Noi, comunque, finché lui rimase con Cynthia avevamo un rapporto ancora molto stretto. Poi con l'arrivo di Yoko e il trasferimento in America, i rapporti di John con me e la famiglia si sono rarifatti." [2]

“Il bisogno di una persona più matura”. Julia centra con semplicità il problema evidente della personalità di Lennon, la sua necessità di ancorarsi a qualcuno “che ne sappia più di lui”, che sia in grado di fare chiarezza nel torbido delle sue emozioni e stati d'animo, di cui spesso è preda. Un “problema” che, anche se John è un grande artista, riguarda molte persone comuni. Un “problema” di cui lo stesso Lennon, nell'ultima fase della sua vita è completamente consapevole. E che in qualche modo, come dice Julia, pensa di aver “risolto” con l'aver trovato Yoko.

Sorprendentemente, anche in questo caso, la vita e l'opera di Paul e John si intrecceranno in modo sincronico: se infatti Paul lascia i Beatles con la commovente ballata – Let it Be – dedicata alla madre, altrettanto fa, a suo modo, a distanza di pochi mesi, John, nel suo primo vero album solista – John Lennon & Plastic Ono Band – ricominciando da Mother, struggente canzone dedicata alla madre, Julia, nella quale l'urlo di John diventa – come gli aveva insegnato Janov – potente protesta, ribellione e liberazione: atto d'amore. La sincronicità, tra Paul e John, ritorna in modo impressionante nella tempistica della composizione definitiva sul loro reciproco lutto materno: Mother – quella di Lennon – sembra anzi quasi essere una risposta, nel tipico stile di John, all'inno malinconico di Let it Be. Se quest'ultima rappresenta infatti la sintesi del più puro estro mccartiano , cioè la classica ballata melodica, John risponde con la sua versione nel più tipico stile lennoniano : ruvido, radicale, viscerale.

Ma non è l'unica differenza: se infatti il ​​titolo si riferisce solo alla madre, la canzone chiama direttamente in causa anche il padre di John ed esprime un duro j'accuse nei confronti di entrambi i genitori, incapaci di evitare al figlio le sofferenze psichiche che si è portato dietro tutta la vita.

Lennon la compone nei primi mesi del 1970, proprio mentre sta affrontando le dolorose sedute della Primal Therapy del dottor Janov, nel suo Istituto di Los Angeles. Il brano, registrato con Ringo alla batteria e Voormann alla batteria, viene introdotto eloquentemente da quattro lugubri rintocchi lugubri di campana a morto. Ad esso fanno seguito i semplici accordi della ballata, con il testo:

Mamma, tu mi hai avuto [ma] io non ho mai avuto te

Ti volevo [ma] tu non mi volevi

Quindi devo solo dirti

Addio, addio.

Padre, tu mi hai lasciato [ma] io non ti ho mai lasciato

Avevo bisogno di te [ma] tu non avevi bisogno di me

Quindi devo solo dirti

Addio, addio

Bambini, non fate quello che ho fatto io

Non potevo camminare e ho provato a correre

Quindi devo solo dirti

Addio, addio

Mamma non andare

Papà torna a casa

Madre, mi avevi [ma] io non avevo mai te

Ti volevo [ma] tu non volevi me,

Quindi devo dirti

Addio, addio.

Padre, mi hai lasciato [ma] non ho mai lasciato te

Avevo bisogno di te [ma] tu non avevi bisogno di me

Quindi devo dirti

Addio, addio

Bambini, non destino quello che ho fatto

Non riesco a camminare e ho provato a correre

Quindi devo dirvi

Addio, addio

Mamma non andare,

Papà torna a casa.

Un testo fin troppo eloquente, che riassume il trauma infantile di John, visto dalla sua prospettiva di bambino, rievocata vividamente durante la terapia del dottor Janov, con i sentimenti di rabbia, impotenza, dolore, vissuti allora.

L'apice drammatico della canzone è raggiunto nella doppia invocazione contenuta nei due versi finali, “mamma non andare, papà torna a casa”, ripetuti parecchie volte attraverso un urlo sempre più disperato, lancinante.

La testimonianza dell'amico Voormann,racconta che la registrazione di quella canzone lasciò ammutoliti tutti i presenti, preoccupati del fatto che Lennon potesse compromettere definitivamente le corde vocali, a furia di ripetere quelle urla dilanianti.

Alla fine, John è stato entusiasta del risultato, che in un certo rappresentava il corollario e la summa dei mesi di terapia con Janov. I dubbi di Spector sulla eccessiva cupezza della canzone, dissuasero John dall'idea di pubblicare Mother come singolo del LP John Lennon/Plastic Ono Band, cosa che avvenne invece, per il solo mercato americano in una versione “edulcorata”, dalla quale furono eliminati i rintocchi di campana a morto e una parte delle grida disperate della fine.

Oggi le due canzoni, pietre miliari della musica rock e pop, raccontano come meglio non si potrebbe, il genio dei due dioscuri beatlesiani, Lennon e McCartney: le loro ombre, la loro grande luce, il modo personalissimo di entrambi di elaborare l'ineluttabile mancanza primaria: quella della propria madre.

Qui per riascoltare la canzone di Paul

Qui per riascoltare la canzone di John

Fabrizio Falconi

(con estratti dal libro: La fine del sogno, I Beatles, Manson, Polanski, Arcana Editore, 2024 )