17/10/24

"Il Mare dei Poeti" di Raoul Precht - Castelporziano 1979 un romanzo per chi c'era e per chi non c'era.

 



Il mare dei poeti non è solo quello delle Cinque Terre. In questo caso, è quello quasi giallognolo, nobilmente calmo del litorale laziale, a due passi dal luogo dove il Tevere, il fiume dove tutto ha avuto inizio, va a morire: Castelporziano 1979

Basta un nome e una data per evocare un mondo. Per chi c'era e per chi non c'era. Su quel pezzo di litorale, tra Fiumicino e Pomezia, dal 28 al 30 giugno del 1979, su un palco approntato per l'occasione, vennero chiamati a raccolta tra le dune di sabbia da Franco Cordelli, Simone Carella e Ulisse Benedetti, decine di poeti italiani e stranieri per il primo (e unico!) Festival Internazionale dei poeti

Simbolo di una stagione non facilmente dimenticabile nella storia recente della Capitale, per merito dell'assessorato alla cultura del Comune di Roma, guidato allora da Renato Nicolini. 

Vi parteciparono alcune tra le maggiori personalità poetiche del tempo, tra cui si ricordano in ordine sparso: Dario Bellezza, Milo De Angelis, Fernanda Pivano, Amelia Rosselli, Maria Luisa Spaziani, Valentino Zeichen, William Burroughs, Gregory Corso, Evgenij Evtušenko, Erich Fried, John Giorno, Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg e molti altri. 

Il Festival divenne un vero "evento" (quando questa parola aveva ancora un significato), grazie alla partecipazione popolare che andò oltre ogni previsione e che trasformò il Festival in un happening di sapore  "woodstockiano" (in Italia certamente il più vicino allo spirito di quello). 

In quel mese di giugno del 1979, su quella spiaggia sulla quale è stato allestito un gigantesco e spoglio palco, proprio sulla riva del mare, si ritrova catapultato il protagonista di questo romanzo, il diciannovenne brillante studioso di letteratura germanica, il quale è chiamato a  tradurre "in presa diretta" le poesie che in quella affollatissima tre-giorni di reading leggeranno quattro poeti tedeschi "laureati": Erich Fried, Gerald Bisinger, Volker von Törne e Johannes Schenk.

Il romanzo, scritto interamente in prima persona e in forma di memoriale "torrenziale", come un vero flusso di coscienza, ricostruisce la vita e la leggenda di quei tre giorni, mettendo in scena le aspettative, le ansie i dubbi e le scoperte del giovane se stesso osservate con "il senno di poi" alla luce di quello che Precht è diventato poi (scrittore e traduttore) e dei destini dei quattro poeti incontrati in quella piccola epopea (e tutti e quattro passati ormai a miglior vita), imbastendo un delicato e potente caleidoscopio che apre continue prospettive tra vissuto e presente, memoria personale, nostalgia, riflessioni di quell'ultima epoca - almeno finora - in cui la poesia è stata capace, in Italia, di muovere masse, coinvolgendole in un evento nuovo e singolare, espressione palpitante di una esperienza che già volgeva al termine: quella della parola condivisa, declamata - anche duramente contestata - comunque divenuta sostanza vitale. 

Una esperienza iniziatica per il giovane scrittore di belle speranze, esperienza formativa accelerata, incontro destinico che chiede di essere rielaborato in nuova forma, quarantacinque anni dopo. 

Un romanzo completamente atipico, sorprendente, che trasporta in un mondo di ieri che trasmette ancora lampi di energia, come una stella lontana, non ancora spenta. Perché la poesia ha vite insospettabili, anche quando la si crede e la si prega morta.

Fabrizio Falconi

16/10/24

La foto esoterica dei Beatles, dopo la morte di John

 


Guardate bene questa foto. 

Fu scattata nel 1996, quando i tre Beatles rimasti si riunirono per stare un po' insieme. 

Durante il servizio fotografico, si sentivano vuoti senza John Lennon. Poi, misteriosamente, un pavone bianco apparve dietro George per una delle foto. 

Quando lo videro, sentirono tutti la presenza di John e l'atmosfera si alleggerì.

Probabilmente erano al corrente di quanto aveva spesso riferito Julian Lennon, il figlio del leggendario membro dei Beatles, secondo cui suo padre, prima di morire, aveva promesso a lui e al resto della sua famiglia di ritornare proprio sotto forma di una piuma bianca. "Quando vedrete una piuma bianca, sappiate che sono io, vicino a voi", aveva detto John. 

Anche recentemente Julian ha raccontato di aver percepito la presenza dello spirito di suo padre, morto 25 anni fa. L’apparizione ha avuto luogo mentre Julian partecipava ad un’antica cerimonia di una tribù aborigena in Australia. Una fonte del Daily Express ha riferito che quando uno degli anziani gli ha dato una piuma bianca il figlio 44enne del cantante si è emozionato profondamente, ricordandosi di quello che gli aveva sempre detto il padre.  

Julian era in Australia per girare il documentario "Whaledreamers", vincitore di diversi premi nel 2006 e proiettato durante il Festival di Cannes quest’anno. 

Qui, nel 1995, è la prima volta in cui il compagno perduto si sarebbe manifestato, come rivelò Paul McCartney, anche ai suoi ex-compagni di band con le sembianze di un pavone bianco, perdipiù mentre erano in studio per completare le registrazioni del singolo "Free as a Bird", originariamente inciso dallo stesso Lennon nel 1977.



12/10/24

L'emozionante omaggio di Paul a John Lennon nel giorno del suo compleanno - Il Tributo



Mercoledì 9 ottobre John Lennon avrebbe compiuto 84 anni.
Due in più del suo amico Paul McCartney, che gli ha dedicato il toccante tributo sui social. 

Come ricorderanno bene i fan dei Beatles, i due non sono sempre stati amici. A un certo punto avevano proprio rotto. Ma Sir Paul ricorda che per fortuna, poi, come spesso capita a chi si vuole bene per davvero, hanno ricucito il loro rapporto. 

Per fortuna, ha sottolineato McCartney, perché altrimenti non se lo sarebbe mai perdonato dopo la prematura scomparsa di Lennon. 

La foto pubblicata su Instagram, ritrae Paul in un'esibizione del 2022 mentre canta con alle spalle filmati di John che suona la chitarra. Si tratta di un frame preso dal documentario Disney+ di Peter Jackson “The Beatles: Get Back”, andato in onda a novembre 2021. Lennon fu ucciso la sera dell'8 dicembre 1980, mentre si accingeva a rincasare con la moglie a New York. 

Di fronte all'ingresso di casa lo aspettava un folle, Mark Chapman, che gli scaricò alle spalle 5 colpi di pistola, dei quali solo uno non andò a segno.


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07/10/24

La Magia Beatles continua: Paul Mc Cartney la notte scorsa incanta 70.000 persone allo stadio Monumental di Buenos Aires !


Grande successo, la notte scorsa a Buenos Aires, per Paul McCartney: l'ex Beatle ha incantato il pubblico con quasi tre ore di concerto e 33 canzoni,
facendo tremare di emozione lo Stadio monumentale, nell'ultimo dei suoi due show nella capitale argentina. 

L'artista di 82 anni non ha smesso un secondo di cantare, muoversi, intrattenere gli spettatori, lasciando di stucco per la sua incontenibile energia. 

Grazie anche ai miracoli della tecnologia, McCartney ha potuto utilizzare nuovi strumenti per visitare il catalogo dei Beatles e giocare un po' con la propria storia. Il cantante britannico e i suoi musicisti sono saliti sul palco con una standing ovation. Senza troppi preamboli, hanno iniziato con 'Can't buy me love', per poi proseguire con i principali successi dei Beatles alternati ai brani dei Wings.


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04/10/24

Un nuovo bellissimo "Docu" dedicato a John Lennon con molte immagini mai viste.

 


da: Vogue Italia

John Lennon e Yoko Ono, la storia d'amore di una delle coppie più discusse del '900. Un documentario svela nuovi dettagli

John Lennon e Yoko Ono. Due persone, una cosa sola. Bastano i loro nomi per suscitare, anche nelle generazioni che non li hanno vissuti realmente, qualcosa di unico. Lui, uno dei grandi (ex), leggendari, membri dei Beatles, lei, proveniente da una ricca famiglia di banchieri giapponesi, artista e musicista. Formarono, fino alla morte di Lennon, nel 1980, ucciso da Mark David Chapman, una delle coppie a cui guardare, che più hanno ispirato una forma di ribellione e resilienza creativa, musicale, culturale, di protesta.

Si erano conosciuti il 9 novembre del 1966 all'anteprima di un'esposizione proprio della Ono, all'Indica Gallery di Londra, nella quale lo stesso Lennon fu attratto da diverse opere esposte, una in particolare chiamata, ‘Celing painting’, che prevedeva si dovesse salire con una scala, per vedere attraverso un vetro (e degli specchietti) la parola YES che si ingrandiva. Fu la scintilla, il mix tra immaginazione, ironia e provocazione, a legarli. Si sposarono il 20 marzo 1969.


John Lennon fotografato da May Pang durante il "Lost Weekend" con il figlio Julian nel 1970

Ora, a celebrarne alcune gesta e parole, arriva un documentario travolgente, One to One: John & Yoko, co-prodotto anche da Brad Pitt, visto fuori concorso al Festival di Venezia 2024, diretto da Kevin Macdonald e Sam Rice Edwards, che per qualità, contenuto, ricchezza di immagini, documenti inediti, filmati restaurati, telefonate personali, suggestioni, si proietta ad essere tra i candidati, ce lo auguriamo, ai prossimi Oscar. Un momento temporale e specifico fa da ambientazione alla loro storia, il trasferimento da Londra a New York nel 1972.

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03/10/24

Recuperare la 4a stagione di "The Crown" - un prodotto di classe per raccontare la storia recente.


In un periodo di penuria di serie tv nuove di qualità, mi sono voluto dedicare a "The Crown" che avevo sempre scansato, puntando sulla 4a stagione, che mi interessava particolarmente per vedere come è stato trattato il decennio Thatcheriano e il contemporaneo ingresso nella famiglia reale della principessa Diana Spencer, moglie di Carlo.

Che dire, ancora una volta si resta ammirati dalla qualità britannica, che non ha eguali nel mondo. Peter Morgan è del resto un colto e straordinario scrittore/sceneggiatore e nessuno meglio di lui poteva affrontare il compito di dire qualcosa di nuovo (e di definitivo) su un argomento così frusto come quello della Corona e della Corte inglese.
Morgan sceglie una strada coraggiosa, fuori dai cliché, concentrandosi, ad ogni puntata, su una delle grandi questioni politiche che il governo della Lady di Ferro affrontò con decisione molto vicina alla ferocia, dalla questione economica interna, con la disoccupazione galoppante, la sofferenza immane della classe operaia e la chiusura delle miniere; a quella irlandese (su cui fu altrettanto intransigente, causando l'inasprimento del conflitto); a quella dell'apartheid in SudAfrica (la Thatcher fu l'unica tra i capi di governo dei 48 paesi membri del Commonwealth a dichiararsi contraria alle misure economiche contro il regime razzista di Johannesburgh); alla assurda guerra delle Falkland (che causò la morte di 300 soldati inglesi e il ferimento di più di 1000); alle fratture dentro la compagine di governo che portarono, dopo 11 anni alle dimissioni forzate della Thatcher, fatta fuori dal suo stesso partito.
Il tono della serie è controllato, rigoroso, formalmente impeccabile, anche se possono piacere o meno alcune scelte, degli interpreti, delle singole circostanze raccontate, degli inevitabili tagli alla storia raccontata.
Gli attori sono straordinari: Olivia Colman è una perfetta regina. Ma su di lei e sulle sue qualità ormai, sappiamo tutto. Josh Connor (Carlo) e Emma Corrin (Diana) sono perfetti, bravissimi. Così come tutti gli altri comprimari. Una nota di merito a parte va a Gillian Anderson, straordinaria attrice, che inventa una Thatcher più vera del vero.
Qui si aprirebbe un discorso sulla grandezza degli attori che "interpretano", non "copiano" la realtà dei personaggi. Insomma, per essere verosimili e veri non servono i quintali di cerone sul viso, e l'effetto sosia non è mai indice di un vero grande attore. Gillian Anderson è se stessa, ma riesce con le sue sole doti interpretative a rendere tutto della Thatcher, inventandone perfino la voce, i movimenti, i tic, che probabilmente nemmeno aveva. Ma è glaciale, cupa, nevrotica, ossessiva, irragionevole, testarda, vendicativa e gelosa, come e più di quel che fu veramente. Applausi.
Anche la triste vicenda di Carlo e Diana e del loro matrimonio da operetta, fasullo come una moneta di latta, è rappresentata con sobria oggettività, senza calcare mai la mano, e semplicemente per quello che è stato: una cinica operazione di marketing e di sistema che ha lasciato per terra l'elemento più fragile, sacrificandolo senza scrupoli in nome della favola che deve continuare e infatti continua col re meno popolare di sempre e la sua famiglia a pezzi.

Fabrizio Falconi - 2024

02/10/24

Al via il più importante progetto mai tentato sui Beatles: un grande Bio-pic formato da quattro differenti film, uno per ogni membro del leggendario Quartetto di Liverpool


 Prende forma uno dei progetti cinematografici più ambiziosi e difficili di sempre: portare sul grande schermo la storia dei Beatles attraverso quattro differenti biopic, uno per ogni membro della leggendaria band di Liverpool.

Secondo quanto riportato da ScreenRantVogue sarebbe stato scelto il cast delle quattro pellicole e in questi giorni si sarebbe riunito per le prime fasi della preproduzione. 

Secondo il portale InSneider a interpretare Paul McCartney dovrebbe essere Paul Mescal (NapoleOn, Il Gladiatore 2, All Of Us Strangers, Normal People), John Lennon il giovane Harris Dickinson (A Murder at the End of the World), il talentuoso Barry Keoghan (The Batman, Saltburn, Dunkirk, Eternals, Gli Spiriti Dell'Isola) dovrebbe prendere il ruolo di Ringo Starr e Charlie Rowe (Rocketman, I Love Radio Rock, La Bussola D'Oro) in quello di George Harrison

Al momento le indiscrezioni pubblicate dai magazine sopra citati non sono state confermate né smentite dalla Sony Pictures, che distribuirà i quattro film di Sam Mendes.


Per la realizzazione del progetto e la scrittura della sceneggiatura la Apple Corps Ltd. e i Beatles (Paul McCartney, Ringo Starr e le famiglie di John Lennon e George Harrison) concederanno i diritti completi sulla storia della vita dei componenti della band e i diritti musicali.


Come concepito da Mendes che dirigerà i quattro lungometraggi cinematografici, uno dal punto di vista di ciascun membro della band, le quattro pellicole si intersecheranno per raccontare "la sorprendente storia della più grande band mai esistita".


Sempre dal sito ufficiale dei Beatles si apprende che la SPE finanzierà e distribuirà le pellicole in tutto il mondo nel 2027. La modalità del rilascio dei film, i cui dettagli saranno condivisi in prossimità dell'uscita, sarà innovativa e rivoluzionaria.


Mendes dirigerà tutti e quattro i film e li produrrà insieme alla sua partner della Neal Street Productions Pippa Harris e Julie Pastor. Jeff Jones sarà il produttore esecutivo per conto della Apple Corps Ltd.


Sono onorato di raccontare la storia della più grande rock band di tutti i tempi ed entusiasta di sfidare il concetto di ciò che costituisce un viaggio al cinema”, ha affermato Sam Mendes.


"Vogliamo che questa sia un'esperienza cinematografica unica, elettrizzante ed epica: quattro film, raccontati da quattro diverse prospettive che raccontano un'unica storia sulla band più celebre di tutti i tempi", ha affermato Pippa Harris. “Avere la benedizione dei Beatles e della Apple Corps per fare tutto questo è un immenso privilegio. Dal nostro primo incontro con Tom Rothman ed Elizabeth Gabler, è stato chiaro che condividevano sia la nostra passione che l’ambizione per questo progetto, e non possiamo pensare a una casa più perfetta di Sony Pictures”.

La Apple Corps è lieta di collaborare con Sam, Pippa e Julie per esplorare la storia unica di ogni Beatle e riunirli in un modo adeguatamente accattivante e innovativo”, ha affermato Jeff Jones, CEO di Apple Corps Ltd.. 


Fonte Virgin Radio

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01/10/24

Bowie, Lennon, McCartney: da dove veniva il loro genio? E perché oggi non ce ne sono più in giro?


La cosa su cui meriterebbe riflettere (in omaggio alle teorie hillmaniane sul talento individuale) è che tutta quella generazione di poeti/musicisti inglesi e americani (in primis i Beatles) che tra il 1965 e il 1975 cambiarono per sempre la musica contemporanea, Bowie compreso, era formata da nati a ridosso - o durante - la fine della 2a guerra mondiale e provenienti quasi tutti dalla classe operaia o dalla piccola (o piccolissima) borghesia, da famiglie non di casta e che non avevano mai prodotto intellettuali. Provenivano quasi tutti dalla periferia estrema di Londra o di New York, o da sobborghi ancora più lontani, da famiglie mediamente povere.

Di dove costoro abbiano appreso a frequentare le alte vette della forma espressiva (e sostanziale) dell'arte, oltre che dalla strada, non è affatto facile dire (se non si ricorre per l'appunto alla "ghianda" di Hillman). Erano "angeli venuti da un altro mondo", come si diceva dello stesso Bowie o di Jim Morrison? Forse no. Erano semplicemente "antenne" che percepivano prima degli altri lo spirito del tempo, anche se il loro punto di partenza e di osservazione, inziale, era assai laterale o parziale. Eppure, furono artefici della loro stupefacente emancipazione.

E questo dovrebbe far pensare soprattutto noi italiani, essendo questo un paese dove la cultura e gli intellettuali sono spesso provenuti da eredità paterne, famiglie benestanti, insomma dalla famosa (esaltata e vituperata) borghesia italiana.

E ancora oggi succede spesso così. In Italia, per il gioco dei poteri e delle cricche, che sono ovunque, è ancora più difficile per il figlio di un operaio (ammesso che esistano ancora) o di un tassista notturno squattrinato, poter sognare un giorno di diventare non una vacua meteora da reality, ma un artista vero (un grande musicista o un vero scrittore), capace di riempire la propria anima di vita e spargerla poeticamente donandola al mondo. Per lui, le porte non si aprono.



26/09/24

Quando il sogno si spezzò: 1970, la dichiarazione di guerra di Lennon ai Beatles. Nel libro "La fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", presentato domenica prossima alla Libreria Eli

 



Qui di seguito un estratto (p. 162 e ss), de "La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", libro che verrà presentato domenica prossima, 22 settembre alla Libreria Eli di Roma. E' uno dei momenti cruciali della storia, quando Lennon pubblica un album immediatamente dopo l'annuncio dello scioglimento della band che ha cambiato il mondo. E' un regolamento di conti durissimo, principalmente tra i due fautori - John e Paul - della grande rivoluzione musicale (e non solo) del Novecento, e la definitiva rottura del loro "patto di sangue" siglato quando avevano quindici anni e mai violato sino ad allora.



La prima bordata contro Paul, ma contro la storia stessa dei Beatles, è una iniziativa di John– che del resto non si è mai fatto problemi a “lavare i panni sporchi in pubblico” – ed è contenuta in John Lennon/Plastic Ono Band, uscito pochi mesi dopo lo scioglimento: God, penultima traccia del LP, ballata dai toni ultimativi (da resa dei conti appunto), rappresenta il più esplicito “manifesto programmatico” di Lennon, all’indomani del divorzio dei/dai Beatles.

                    John mette le cose in chiaro: vuole esprimere in modo essenziale e definitivo, quello in cui egli crede – quello cioè che lui sostanzialmente è ora – ora che l’incantamento dei dieci anni sull’Helter Skelter è finito. Quella giostra si è fermata. Lui è sceso. Cosa è rimasto? Cosa è adesso John, appena oltrepassata la linea d’ombra dei suoi primi trent’anni di vita?

                   God lo afferma esplicitamente, ma nel tipico stile di John, cominciando dall’enunciazione di ciò in cui lui non crede. Di ciò che lui non è o non è più.

                   Anche God, come Mother, viene scritta durante il periodo della Primal Therapy, nella casa di Nimes Road, a Bel-Air. John ne incide una prima versione acustica, suonata alla chitarra, oggi presente in diversi bootleg bramati dai collezionisti, nella quale fa ironicamente precedere al testo vero e proprio, un proclama nello stile dei predicatori americani: “Ho una missione dall'alto. E sono qui per dirvi che questo messaggio riguarda il nostro amore. Gli angeli devono avermi mandato per consegnarvi questo messaggio. Ora ascoltatemi, fratelli e sorelle.” L’iconoclasta Lennon usa questo espediente per lanciarsi così, di seguito, in un radicale peana contro-religioso, il manifesto di un ateismo che sembra radicale e che viene affermato con forza già a partire dai primi versi:

 

God is a concept
By which we measure our pain
I'll say it again
God is a concept
By which we measure our pain
Yeah
Pain
Yeah

                 Dio, dice Lennon, è semplicemente un concetto che gli uomini hanno inventato per dare un nome, o meglio, per misurare, il loro dolore. È una definizione filosofica lapidaria, che sembra provenire dal pensiero filosofico di Janov, dalle conversazioni fatte con il dottore, prima del rilascio delle urla del paziente, nella stanza insonorizzata.

                  A questo punto, sull’incalzare dello stesso tema, ribattuto in crescendo, ad ogni rima John elenca ciò in cui non crede, non ha mai creduto o non crede più. Anche questo è un elenco radicale, che non ammette discussioni, e che Lennon stila con tono perentorio, definitivo:


I don't believe in magic
I don't believe in I-Ching
I don't believe in Bible
I don't believe in Tarot
(cioè nei tarocchi)
I don't believe in Hitler
I don't believe in Jesus
I don't believe in Kennedy
I don't believe in Buddha
I don't believe in Mantra
I don't believe in Gita
I don't believe in Yoga
I don't believe in Kings
I don't believe in Elvis
I don't believe in Zimmerman
(cioè in Bob Dylan)

 

                  E qui, con un abile colpo di teatro, dopo una improvvisa pausa della sequenza, e un eloquente vuoto, arriva la voce dell’elenco più difficile da mandar giù, specie per le moltitudini di fans che avevano fatto del gruppo di Liverpool, i loro idoli:

 

I don't believe in Beatles

 

                  John, dunque, ha fatto finalmente a pezzi tutto: non solo non crede ad alcuna divinità – e Gesù e la Bibbia sono stati inseriti nell’elenco subito prima e dopo dei Tarocchi e di Hitler - ma non crede nemmeno in alcun idolo della musica, né Elvis (che pure fu un suo idolo giovanile), né in Dylan, né nei “suoi” Beatles, che sono, al pari delle altre voci in capitolo, puri idoli, simulacri, simboli rivestiti di un valore immaginario e inconsistente. Al dunque, inutili.

                  E dunque, cosa resta? In cosa crede l’uomo John, al termine di questa distruzione di miti, divinità e simboli? John crede alla realtà. E la realtà si restringe, con un cambio di passo drastico della melodia, all’improvviso fattasi dolce e malinconica, a “me” e a “Yoko e me”:

                   

I just believe in me
Yoko and me
And that's reality

 

                  Ogni sogno è dunque tramontato, continua John. Anche i Beatles erano fatti di quel sogno. Adesso che egli è rinato, tutto è più chiaro: il sogno era “Ieri”, con una velenosa allusione alla canzone di Paul, Yesterday (sempre considerata, da John, la sua migliore), e ai tempi dei Beatles. Che vengono ripudiati con i versi seguenti, di facile interpretazione per tutti i fans del gruppo: John non è più The Walrus (il “tricheco”), nel chiaro riferimento a una delle canzoni più celebri e autobiografiche di John (scritta sotto acido e ispirata a una poesia di Lewis Carroll, I’m the Walrus, contenuta nel Doppio Bianco). The Walrus, cioè il John-nei-Beatles, il dreamweaver (cioè il “tessitore di sogni”) è diventato ora, soltanto John, il ri-nato.

 

The dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday
I was the dreamweaver
But now I'm reborn
I was the walrus
But now I'm John
And so dear friends
You'll just have to carry on

The dream is over

 

                  Il sogno è finito: ed è piuttosto singolare che a decretarlo sia proprio John che - con le sue utopie pacifiste, i bed-in, le tirate contro i potenti e il loro cinismo - tutto il mondo identifica come il sognatore per eccellenza. E lui stesso, del resto, così si definisce nella sua più famosa canzone, Imagine: You may say, i’m a dreamer, but i’m not the only one. Tu puoi chiamarmi un sognatore. Lui non lo nega, risponde soltanto che di certo non è l’unico.

                 Questa canzone, God, è allora un proclama nel più caratteristico stile provocatorio di John. La sua identità – se ne esiste una – è ora ciò che risulta da una serie di negazioni: “non posso affermare ciò che sono, posso soltanto dire ciò che non sono.”

                 Di sicuro, la canzone è uno shock per molti fan dei Beatles, con effetti potenziali imprevedibili e violenti, come vedremo tra poco.

                 Ma ciò che sta a cuore a John, al di là dei toni, è smontare il mito dei Beatles e ridimensionarlo, nel momento in cui sta “imparando a nuotare”. I Beatles andavano bene, ma non il loro mito. E lo ribadisce con chiarezza nella famosa intervista del 1980: “Se i Beatles hanno un messaggio, era quello. Con i Beatles, il punto sono i dischi, non i Beatles come individui. Non hai bisogno del pacchetto, così come non hai bisogno del pacchetto cristiano o del pacchetto marxista per ricevere il messaggio… Se i Beatles o gli anni Sessanta hanno un messaggio, era imparare a nuotare. Punto. E una volta che impari a nuotare, nuoti. Le persone che sono attaccate al sogno dei Beatles e degli anni Sessanta hanno perso il punto, quando il sogno dei Beatles e degli anni Sessanta è diventato il punto. Portare in giro il sogno dei Beatles o degli anni Sessanta per tutta la vita è come portare in giro la Seconda Guerra Mondiale e Glenn Miller. Questo non vuol dire che non puoi goderti Glenn Miller o i Beatles, ma vivere in quel sogno è una zona crepuscolare. Non è vivere adesso. È un’illusione.” [1]

                   Sembra un discorso impeccabile, e in effetti lo è, ma c’è sicuramente di più, oltre a questo: la lunga intervista di Lennon – una sorta di bilancio, senza sapere che stava arrivando la sua morte – è in realtà una presa di distanza dalle biografie dei Beatles, non soltanto dal fenomeno musicale, culturale che essi hanno rappresentato. Perché ogni aspetto, in questa vicenda, parla prima di tutto di vite, traumi, mancanze, nevrosi, sogni, utopie, delusioni, malinconie, perdite, fallimenti. In primis, di John e Paul. Così, il mistero che resta – l’argomento che John scantona nell’intervista – è perché queste vicende personali, queste vite, si siano assemblate così stranamente e per quali cause – con potenza simbolica – esse abbiano collegato le anime di così tanta gente nel mondo, fino a oggi. Forse Lennon, morendo nel 1980, non ha fatto in tempo a constatare la durevolezza, la consistenza e l’autorevolezza nel tempo, del “mito” dei Beatles. E forse se fosse vivo ancora oggi, avrebbe una percezione parecchio diversa di quello che realizzò con i suoi compagni di allora.



[1] D. Sheff, Lennon Interview, op. cit.


Ogni diritto d'autore riservato. Testo tratto da: Fabrizio Falconi, La Fine del Sogno, Beatles, Manson, Polanski, Arcana Editore, Roma, 2024.

Presentazione del Libro: Domenica 29 settembre, con Noemi Serracini e l'autore, alla Libreria Eli di Roma, Viale Somalia 50/a (seguirà brindisi). 

Prenotazione qui





13/09/24

"La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski" presentazione a Roma, alla Libreria Eli, Domenica 29 Settembre

 


Un libro costato un lungo lavoro di documentazione e ricerca. Per raccontare la storia incredibile del Sogno degli anni '60 e della musica dei Beatles, che immaginava un nuovo mondo, una nuova Età dell'Acquario. 

Infrantosi sull'eco di uno dei più efferati crimini di sempre: la strage di Cielo Alto, a Los Angeles, la mattanza di vittime innocenti, tra cui Sharon Tate, moglie di Roman Polanski (al nono mese di gravidanza) e dei suoi amici, da parte di Charles Manson, transfigurazione del mito hippie di quegli anni nel suo esatto contrario (insieme ai suoi volenterosi carnefici adepti). 

La cronaca di due anni cruciali: dal ritiro spirituale dei quattro di Liverpool nell'ashram di Maharishi, ai piedi dell'Himalaya, allo scioglimento del gruppo che spezzò il sogno dei milioni di fans in tutto il mondo. I quattro che per un decennio erano stati una cosa sola e avevano cambiato (per sempre) la storia della musica e del costume, tornavano a essere quattro, uno contro l'altro. 

Una storia incredibile di intrecci, casualità, segni del destino, provocazioni, sogni e incubi, ricostruita minuziosamente e scritta come un romanzo. 

Si presenta alla Libreria Eli, con Noemi Sarracini e l'autore, e molte foto dell'epoca, rare o rarissime. 

Domenica 29 settembre ore 17,30
Libreria Eli
Viale Somalia 50/a Roma
ingresso libero 

05/09/24

Riprendono dal 15 settembre le "Passeggiate Letterarie" a Roma con Fabrizio Falconi alla Libreria Eli

 


Tornano, dopo la fortunata stagione scorsa, dal prossimo 15 settembre 2024 le "Passeggiate Letterarie" con Fabrizio Falconi, alla Libreria Eli di Roma, in viale Somalia 50/a.

Quest'anno gli incontri non seguiranno un percorso cronologico, ma tematico, affrontando le meraviglie di Roma, per argomenti e cominciando, domenica 15 settembre con Le vie consolari che hanno reso Roma famosa nel mondo, che esistono ancora oggi e che permisero lo sviluppo sconfinato dell'impero.

Qui trovi tutte le info con il programma dettagliato sul ciclo di incontri, e la possibilità di prenotare direttamente per ogni data. 

Qui invece trovi il libro con le 12 passeggiate della prima stagione, appena uscito da Palombi editore. 



02/09/24

Bowie, Kubrick, i Pink Floyd: come i viaggi spaziali nei '60 ispirarono i più grandi artisti

 

David Bowie nel videoclip di Life On Mars

Nel clima degli anni '60, le imprese spaziali influenzarono prepotentemente il costume, il cinema, la musica, la letteratura.  Il mondo sembrava sull’orlo di un cambiamento rapidissimo, che avrebbe portato chissà quali imprevedibili sviluppi, perfino una veloce colonizzazione del vicino spazio (poi dimostratasi ben più complessa di quanto si immaginava).

   Space Oddity fu pubblicato da David Bowie soltanto sette mesi dopo (luglio 1969); mentre appena otto mesi prima della missione dell’Apollo 8, il 6 aprile del 1968 Stanley Kubrick aveva presentato alla stampa 2001: A Space Odyssey.

   Quattro anni dopo l’impresa di Borman, Anders e Collins – nel maggio del 1972 -  a simbolico suggello di quella prima epopea culminata con l’allunaggio del 1969, un gruppo inglese, i Pink Floyd, si riuniva nelle sale di registrazione londinesi di Abbey Road per il concepimento di un nuovo album che sarebbe stato significativamente chiamato The Dark Side of the Moon, destinato a diventare una pietra miliare della musica contemporanea (28).

   Fu quello un album estremamente innovativo anche dal punto di vista dell’ingegneria del suono – come sanno bene i numerosi appassionati dell’opera in tutto il mondo: sulla base di un concept  che secondo le intenzioni del gruppo avrebbe evocato temi impegnativi come la condizione dell’esistenza, la morte, l’alienazione mentale, gli ingegneri del suono costruirono un suono compatto che prevedeva – oltre alle eclettiche invenzioni dei quattro musicisti – l’utilizzo dei materiali più disparati, come il rumore di una macchina calcolatrice, il battito cardiaco – che ricorre all’inizio e alla fine – passi di corsa in una stanza anecoica, orologi, macchine, frammenti di conversazione.

  

2001: A space odissey di Stanley Kubrick, 1969

L’idea di usare la voce umana di anonimi, registrati fu di Roger Waters, il quale preparò dei bigliettini con domande come «quale colore ti piace?»,  oppure «quando sei stato violento ?» e fece poi registrare le risposte che venivano date d’istinto dalle persone che si trovavano a frequentare gli studi di Abbey Road. 
   Le voci con le risposte vennero poi mixate e disseminate lungo i diversi pezzi musicali e tra le interiezioni di questi, componendo un ulteriore mosaico di sottotesto, di lettura alternativa.

   C’è una rara foto, delle molte che raccontano l’epopea musicale dei Pink Floyd a cavallo tra gli anni ’60 e gli ’80, che ritrae i componenti del gruppo in una sorta di foto di famiglia, ciascuno con la compagna e con i figli al seguito. È stata scattata sulla spiaggia di Saint-Tropez nell’estate del 1970. Poco prima dell’inizio della lavorazione di The Dark Side of The Moon.  Insieme ai quattro musicisti ci sono anche i più stretti roadies, collaboratori tecnici che seguivano il gruppo in sala d’incisione e nei lunghi tour.

   Sorridente e seminudo, insieme a Waters, Mason, Gilmour e Wright, compare qui anche Peter Watts, in piedi insieme alla compagna che tiene in braccio una bambina di due anni: la piccola è la futura attrice Naomi Watts, mentre il padre, Peter è l’autore di quella risata che ritorna più volte in The Dark Side of The Moon, e che ne rappresenta quasi il marchio di fabbrica.  Anche Peter fu infatti intervistato e registrato da Waters durante la lavorazione dell’album, con altri due roadies, Roger “The Hat” Manifolt e Chris Adamson, e addirittura l’usciere irlandese degli studi di Abbey Road, Gerry O’ Driscoll, il quale finì per essere coinvolto in quei giorni anche lui dal gioco creativo di Waters. Anche senza essere menzionato direttamente nei credits dell’album O’ Driscoll è riuscito a imprimere il suo nome definitivo sull’opera, visto che sua è la voce dell’ultimissima frase che si ascolta nel disco, al termine dell’ultimo brano, Eclipse, sullo sfondo del ritmo dello stesso battito cardiaco che apre l’album.   Quasi all’ultimo solco, si sente la voce dell’uomo sussurrare:

   «There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun».

   E cioè: «In realtà non c’è un lato oscuro della luna. Il fatto è che è tutta oscura. L’unica cosa che la fa sembrare luminosa è il sole».

    In realtà non sappiamo quale fosse la domanda esatta che gli fece a bruciapelo Waters con uno dei suoi bigliettini – la raccomandazione è che gli intervistati rispondessero senza pensarci – ma è sicuro che la risposta dell’anonimo usciere divenuto warholianamente famoso, è davvero interessante.

   La litania finale, nei due minuti e mezzo di Eclipse («Tutto ciò che tocchi/Tutto ciò che vedi/ Tutto ciò che assaggi/Tutto ciò che senti/Tutto ciò che ami… Tutto ciò che distruggi/Tutto ciò che mangi/Chiunque incontri/Tutto ciò che disprezzi/Tutto ciò che è adesso/Tutto ciò che è passato/Tutto ciò che arriverà…») esprime le infinite sfumature della vita, tutto quanto è sotto il sole sintonia, gli infiniti toni dei colori che si riuniscono nel bianco fascio della luce, come nel celebre prisma della copertina del disco.

  

La copertina di The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd, 1973

Tutto è (sarebbe) riunito nella luce, tutto è in sintonia con il sole.

   Se non ci fosse … la luna, appunto. Il sole eclissato dalla luna.

   La luna è l’ombra del sole.  Perché la Luna, come dice quell’ultimo sospiro – la voce di Gerry O’ Driscoll (29) – è tutta oscura. E l’unica cosa che la fa sembrare (o diventare) luminosa – a tal punto di rischiarare perfino la terra - è il sole.

   Luce e ombra, pertanto, hanno bisogno una dell’altra.

   La follia dell’ombra permea la vita, la vita – solo la vita – può dare un senso alla follia (cioè illuminarla).

   Durante la cerimonia di inaugurazione della XXXma edizione dei Giochi Olimpici, a Londra, organizzata e diretta da Danny Boyle – succeduta di otto anni a quella di Atene – il 27 luglio del 2012, proprio le note di Eclipse  nella edizione originale del disco dei Pink Floyd hanno accompagnato l’accensione dell’immenso braciere, in un grande gioco di luci spettacolari.

   Migliaia di fiammelle e di fuochi si sono innalzati sul tempo del rullante di Nick Mason, illuminando a giorno lo stadio olimpico di Stratford, immerso nella notte londinese, mentre sui mega schermi si alternavano le immagini di un gigantesco occhio umano e della luna che lentamente arrivava ad eclissare l’anello solare, rendendone i contorni ancora più brillanti.

   Subito dopo l’ultima esplosione, le parole dell’uscire Gerry Driscoll sono risuonate in tutto lo stadio.

   L’ombra non faceva paura.

   I nuovi Giochi erano aperti.

   Incuranti delle prossime, inevitabili rovine.


estratto da: Fabrizio Falconi - Le rovine e l'ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017