16/06/15

Immigrati, un esodo biblico. La nostra Nemesi.



La tragedia che si svolge sotto i nostri occhi ogni giorno ora, ha un nome preciso: Nέμεσις, Nèmesis. 

Queste migliaia che vengono da noi ora con i loro stracci, reietti, additati come portatori di scabbia e altri castighi biblici, sono i figli dei figli di coloro che l'uomo bianco ha affamato e reso schiavi per secoli, da quando i galeoni della Nuova America portarono in catene quei figli d'Africa, a milioni, da quando le grandi potenze europee si spartirono un bottino che sembrava infinito, senza alcuna pietà, riducendo un meraviglioso continente ad una tabula rasa, spargendo guerre e inimicizie, affondando le avide mani, sradicando popoli interi dai loro riti e dalle loro culture millenarie. 

Per Nemesi, ora, queste masse di diseredati che non hanno più nulla alle loro spalle vengono e verranno ad esigere il nostro domani. 

Ciò non è detto per pacificare coscienze. Tutt'altro. Il fatto che noi non si sia direttamente responsabili di ciò che succede dall'altra parte del Mediterraneo (ma è poi vero ?) non assolve e non concede alibi. 

Getta semmai, valutando le desolate immagini di questo esodo oramai biblico, qualche ombra lunga sulla smisurata presunzione di una Civiltà progressista, in progresso, quasi come se la Storia non avesse insegnato nulla.

E' forse bene allora rileggere queste considerazioni di C.G. Jung in Tipi psicologici, p.152.

Proviamo a dar via libera agli istinti dell'uomo civilizzato ! Per gli esaltatori entusiasti della civiltà, non ne sgorgherà altro che bellezza. Questo errore non è che il frutto di una profonda ignoranza psicologica. Le forze istintuali compresse nell'uomo civilizzato hanno un'enorme potenza distruttrice e sono assai più pericolose degli istinti dell'uomo primitivo, il quale vive costantemente in misura modesta i propri istinti negativi. Per questo motivo nessuna guerra del passato supera in orrore le guerre tra nazioni civili. 

Fabrizio Falconi

in testa: La Nemesi alata, armata di spada e clessidra, in un quadro di Alfred Rethel del 1834

15/06/15

Un meraviglioso libro di foto su Pompei - da Electaphoto.


La collana Electaphoto dedica il quarto volume all’indagine del profondo legame fra Pompei, la sua immagine ben presto divenuta icona dell’Antico, la sua fortuna culturale e le numerose valenze emotive ed estetiche che l’arte, tesa nello sforzo di far vivere la storia spezzata della città romana, ha, nel tempo, messo in scena.

Il volume comprende: le precoci dagherrotipie degli scavi pompeiani, quasi una trascrizione figurativa delle stampe degli incisori; le prime vedute calotipiche legate alla pressoché immediata necessità editoriale di diffondere la conoscenza del sito e dei "tesori" che venivano dissepolti; le immagini fotografiche ritoccate ad acquarello ancora debitrici del gusto pittoresco del Grand Tour; la funzione ancillare della fotografia ottocentesca di edifici, decorazioni, sculture e suppellettili rispetto alla ricostruzione del mondo antico nella pittura accademica e pompier europea, come nell'architettura in stile fino alle soglie del Fascismo; le foto-cartoline sciolte vendute presso gli Scavi e al contempo le campagne di ripresa istituzionali come quella affidata, ancora in periodo borbonico, a Giorgio Sommer; la presenza a Pompei di tutte le principali ditte italiane (Alinari, Brogi, Vasari, Chauffourier) dotate delle più moderne strumentazioni e con peculiarità diverse nell'allestimento dei set; le rovine pompeiane come scenario creativo per autori come Plüschow che hanno inteso popolarle e farle rivivere nella suggestione di immagini mentali cariche di significati; la rivalutazione critica della loro opera a partire dagli anni sessanta del XX secolo quando la citazione, il rendering, la copia e la contaminazione di stili e generi sono divenuti al centro delle poetiche postmoderne e dell'arte cosiddetta neopompeiana; la più recente dicotomia fra una fotografia documentaria che muove da criteri scientifici di ripresa, una crescente fotografia "turistica", e gli sguardi decisamente autoriali dei più grandi maestri della fotografia contemporanea.


La rassegna, visitabile fino al prossimo 2 novembre, è organizzata da Electa e promossa dalla Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia e dalla Direzione Generale del Grande Progetto Pompei, con il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

L’esposizione nel Salone della Meridiana del museo di Napoli è curata da Massimo Osanna, Maria Teresa Caracciolo e Luigi Gallo. 

A Pompei la sezione “Rapiti alla morte”. I calchi è a cura di Massimo Osanna e Adele Lagi, mentre “La fotografia” è curata da Massimo Osanna, Ernesto De Carolis e Grete Stefani. La mostra ha ottenuto il patrocinio Expo Milano 2015.

13/06/15

'Se io, se tu' di Fabrizio Falconi




Se io, se tu
all'albero del pane
e della conoscenza riuscissimo
qualche perlaceo frutto
a sottrarre
elevandoci per intricati rami
e scivolando, senza rischiare
per questo, qualche dito
infilzato incautamente
alla corteccia,
non in corsa, che corsa,
che sogno, che ascese
a perdifiato
a mezzogiorno.




foto in testa dell'autore. 

12/06/15

Alberto Burri sbarca al Guggenheim di New York.



Dal 9 ottobre al 6 gennaio 2016 il Guggenheim Museum di New York ospitera' una grande retrospettiva di Alberto Burri, la prima in oltre trentacinque anni e la piu' completa mai allestita negli Stati Uniti. 

La mostra newyorkese e' una delle piu' importanti iniziative del centenario della nascita dell'artista tifernate. 

Esplorando il processo creativo alla base delle sue opere, l'esposizione pone Burri come protagonista della scena artistica del secondo dopoguerra, rivedendo la tradizionale letteratura sugli scambi culturali tra Stati Uniti e Europa negli anni '50 e '60. 

Burri prese infatti le distanze dalle superfici pittoriche e dallo stile gestuale propri sia dell'Espressionismo astratto americano sia dell'Arte informale europea, rimaneggiando pigmenti singolari, materiali umili ed elementi prefabbricati. 

Raggruppando oltre 100 opere, molte delle quali mai esposte al di fuori dei confini italiani, la mostra sottolinea come Burri abbia attenuato la linea di demarcazione tra dipinto e rilievo plastico, creando una nuova poetica di dipinto-oggetto che influenzo' direttamente il Neodadaismo, l'Arte Processuale e l'Arte Povera. 

La mostra si intitola: Alberto Burri - the trauma of painting. Richard Armstrong, direttore del Guggenheim, l'ha cosi' commentata: "Attraverso il sapiente lavoro del nostro team, guidato da Emily Braun, stiamo ponendo l'accento su aspetti inediti relativi agli innovativi e sperimentali processi creativi di Alberto Burri. Rianalizzare le mostre e le pubblicazioni del Guggenheim dedicate a Burri nel secondo dopoguerra ci permette di approfondire la nostra storia con questo importante artista. Siamo lieti di poter celebrare il centenario della nascita di Burri attraverso questa importante retrospettiva". 

10/06/15

La Domus Romana sotto la Basilica di Santa Maria Maggiore (e il Quadrato Magico) - una visita particolare.



E' ancora poco nota la presenza di una assai interessante zona archeologica sottostante la Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, con resti di una domus romana, databile tra il I ed il V secolo d.C. 

Nell'ambito della zona archeologica, è possibile ammirare meravigliosi mosaici, bellissimi affreschi con un calendario menologico, un lararium, nonchè un esemplare del c.d. "Quadrato magico del Sator", un gioco enigmistico ante litteram dal significato ed interpretazione particolarissimi. 

Oltre a tale zona, è possibile in Basilica - nella zona normalmente chiusa al pubblico - visitare la meravigliosa Loggia delle Benedizioni, con mosaici del XIII secolo d.C. nonchè la Scala di Gian Lorenzo Bernini (sepolto in Basilica). 

Il sito sotterraneo è stato inaugurato negli anni '70, ma visitabile solo da poco più di due anni attraverso un servizio di guide interne, autorizzate dal Cardinale Santos Abril, Arciprete della Basilica.




Gli stessi romani ignorano l'esistenza di questo sito archeologico ed è un peccato in considerazione della peculiarità degli ambienti sottostanti (calcolate che si tratta della zona sotterranea sottostante una delle quattro Basiliche Papali), quanto per la sua bellezza e particolarità.

Info e prenotazioni a 

08/06/15

Ulisse e la Madre. (Odissea XI - 186)






“Ma tuo padre
resta nei campi, alla città non scende;
e non ha per giacere, letti o splendidi
tappeti o coltri, ma in inverno dorme
dove gli schiavi in casa presso il fuoco,
nella cenere, e vesti umili ha indosso.
Quando viene l’estate o il ricco autunno,
per lui bassi giacigli di ammucchiate
foglie si fanno ovunque, sul declivio
del fertile vigneto: e qui egli giace
dolente e accresce in cuore la sua pena
sognando il tuo ritorno, e una vecchiezza
dura lo investe. Anch’io così mi spensi,
compiendo il fato, e non la saettante
che dritta mira, coi suoi miti dardi
mi colse e uccise nelle stanze, e morbo
non mi assalì che per lo più la vita
con tabe odiosa scioglie dalle membra;
ma il rimpianto di te, nobile Ulisse,
del tuo senno e del tuo tenero affetto,
mi ha tolto il bene della dolce vita”.

Disse; io tentai, con l’animo in tumulto,
l’ombra abbracciare della madre morta.
Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia
di abbracciarla, e tre volte dalle braccia
mi volò via, simile ad ombra o sogno;
sempre più mi cresceva in cuore acuto
strazio, e rivolsi a lei parole alate:

“Madre, perché non resti, se io mi struggo
di abbracciarti, così che entrambi al collo
gettandoci le braccia, anche nell’Ade,
gustiamo l’acre voluttà del pianto ?
O forse a me questo fantasma l’alta
Persefone ha mandato, perché io debba
piangere e lamentarmi anche più forte ?”

Dissi; e subito in cambio, mi rispose
l’augusta madre:

“Ahi, figlio mio, su tutti
gli uomini sventurato, non la figlia
di Giove, non Persefone ti inganna:
questa è la legge dei mortali, quando
qualcuno muore; ché le carni e le ossa
più non reggono i tendini congiunte,
ma tutto sfugge l’impetuosa furia
del fuoco ardente, appena esce la vita
dalle ossa bianche; e vagola per l’aria
l’anima, e fugge a volo come un sogno.
Ma tu tendi al più presto a ritornare
verso la luce, e tutto serba in mente
per ridirlo, più tardi, alla tua sposa."


Omero, Odissea, Libro XI – 186-223
Traduzione di Giovanna Bemporad da ‘Esercizi’, Garzanti,1980.

05/06/15

"Vivo nel bosco: ascolto gli alberi che sussurrano " - Intervista a Peter Handke di Alessandra Iadicicco.




Questa è la bellissima intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 

«Ma sì, venga da queste parti a maggio, quando al margine del bosco, tra l’erba o sotto l’edera, vale la pena di scoprire i prugnoli di San Giorgio». L’invito di Peter Handke era arrivato per posta, dopo uno scambio di lettere e di osservazioni sul tradurre, dopo la richiesta di un incontro e l’invio di qualche immagine di certi trofei. Gli avevo spedito le foto dei porcini raccolti l’estate scorsa in Alto Adige, nei giorni in cui lavoravo alla traduzione del suo Saggio sul cercatore di funghi: un racconto fiabesco, la storia di un’incredibile avventura uscita in questi giorni da Guanda. Lui aveva risposto con la foto di un gigantesco piatto di funghi da lui stesso cucinati per Capodanno.

Handke ha un sense of humour che contraddice l’immagine, che in genere gli si attribuisce, di quell’orso eremita, schivo, furente, allergico ai giornalisti… Come dargli torto? Certe sue posizioni sono state travisate. Come nel caso della ex Jugoslavia ai tempi della guerra nei Balcani. Sostenne la popolazione jugoslava, sensibile «alla loro tragedia — disse —, alla loro situazione senza speranza». Si schierò per la Serbia, si scagliò contro i bombardamenti della Nato lanciati su migliaia di civili. Pianse la sorte dei bambini vittime innocenti del conflitto, per i quali l’anno scorso ha devoluto gli oltre 300 mila euro del Premio Ibsen. E, da certa stampa, fu etichettato come fascista, un sostenitore del boia Miloševic o addirittura del sanguinario generale Mladic. Ora, proprio in nome «della grande amicizia e della simpatia dimostrata da Handke verso la popolazione serba», Belgrado gli ha conferito pochi giorni fa la cittadinanza onoraria.

Dopo una vita avventurosa, abita da anni in solitudine nel sobborgo parigino di Chaville, in una casa che, cinta da un muro e dal verde, dalla strada non si scorge nemmeno. Ma il gesto con cui apre il cancello del giardino — per mostrare orgoglioso i due meli, il cotogno non ancora del tutto sfiorito, il giovane pero, il grande cedro, il noce, il castagno… è lui in persona a coltivare le piante — non potrebbe essere più ospitale.

Lei stesso ha tradotto molti libri, di autori antichi e moderni. Tradurre le procura gioia?
«Ho paura quando scrivo, sempre, ancora adesso. La scrittura propria è sempre pericolosa. Ma quando traduco non ho paura. Semmai ho problemi, ma i problemi si possono risolvere. Scrivendo invece… Scrivere non è normale come sembra per la maggior parte degli scrittori oggi. Così la letteratura non è più la grande spedizione che potrebbe essere. Tanti oggi trovano normale scrivere. Forse è naturale, ma non è normale. Può diventare naturale man mano che si scrive, ma l’inizio non è naturale: l’inizio è un sacrilegio».

Perché?

«Non lo so. Non posso sempre dire perché… Però è una necessità vitale. Senza scrivere non potrei esistere. Scrivere è sano, indica la via verso la salute. Tradurre invece è vampiresco. Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza. Anche quando si ama molto un libro, o si traduce un autore che si sente affine. Tradurre non basta. Però una volta tradurre fu per me una salvezza».

Quando? E la salvò da che cosa?

«Fu la prima traduzione, dall’inglese, una lingua che non amo parlare. Di un autore americano, Walker Percy, tradussi The Moviegoer, Der Kinogeher, un personaggio che mi somiglia. Era il 1979, ero appena tornato in Austria, ma non volevo tornare in patria. Per anni avevo vissuto all’estero, prima in Germania, poi a Parigi. Mi trasferii nel ’79 a Salisburgo: volevo che mia figlia Amina frequentasse il ginnasio in tedesco. Ma allora la patria per me era terra straniera. Fu la traduzione a riportarmi a casa, a rendermi di nuovo familiare il mio Paese. La lingua e, parallelamente, il paesaggio attorno a Salisburgo mi indicarono la strada. Lingua e paesaggio: una fragile patria… La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto. Non la scrittura. Perché la scrittura, lo ripeto, è una patria pericolosa…».

Tradurre permette di stringere legami attraverso confini che oggi, ancorché invisibili, sono più che mai soffocanti…

«Già… Nel frattempo gli antichi confini — politici, economici — sono scomparsi. Eppure i confini culturali sono molto più forti. I libri — non parlo di libri veri — sono scritti dappertutto allo stesso modo: in America, Russia, Cina… Questa indifferenza è peggiore di qualsiasi confine, dei confini che un tempo mi erano cari. Le traduzioni, poi, sono sempre sostenute dai ministeri, finanziate dagli istituti di cultura. Si vuole promuovere la letteratura internazionale. Ma io sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiamava la Weltliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi. Non potrà mai scomparire, ma non sai dove scorre. È come un fiume carsico che fluisce al di sotto del terreno e devi accostare l’orecchio alle rocce calcaree per capire dove passa e dove verrà alla luce».

Confini lei ne ha attraversati tanti, non solo traducendo. Ha fatto il giro del mondo, ha cambiato vari i luoghi di residenza.

«Ma ora di qui non mi muovo più. Vivo a Chaville da 25 anni. E difendo il mio posto, difendo il luogo: la mia casa, il giardino…».


Sarà perché lei è uno scrittore di luoghi...

«Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento. Così anche un luogo episodico è sempre stato come una grazia per me. Un posto però deve diventare epico: si deve raccontarlo, trasformarlo nel personaggio di una storia, far sì che possa apparire per tutti».

E come vive il trascorrere del tempo? Ha l’aria di un uomo che non invecchia. Come «il cercatore di funghi»: da bambino non voleva sapere nulla del suo futuro. Da adulto, avvocato di fama internazionale, nell’intimo non si è mai spinto oltre i margini del bosco.

«È così: decisivo per me è rimasto il mormorare degli alberi sul margine del bosco. Se mi sfuggisse quel sussurro, se non riuscissi più a coglierlo, mi direi: hai perso tempo, hai mancato il momento. Questo è il tempo per me. Non il tempo politico. Rifiuto di credere che il tempo politico sia il mio tempo, il mio destino. Gli sono sfuggito. Sono un profugo del mio tempo. E non mi volto indietro, come la moglie di Lot, a guardare verso la politica. Mi trasformerei in una colonna di pietra, con la quale non si può fare nulla. No, il tempo per me è un altro. Anche tutte le mie spedizioni libresche mi portano in un altro tempo. L’altro tempo è, credo, un Dio buono, l’unico Dio che io abbia mai visto. E anzi l’ho sempre visto come una donna una dea: die Göttin Zeit… La Dea Tempo mi ha sempre mostrato un volto femminile».

E la sua scrittura è senza tempo, fuori dal tempo, inattuale? Nel «Saggio sul cercatore di funghi» scrive: «Finché questa flora selvatica resisterà all’allevamento, alla coltura, fino ad allora l’andar per funghi resterà l’avventura della resistenza! Una forma di eternità». 

«Però non sono solo i funghi… Voglio dire. Quando si dice di un libro che è attuale io rispondo: allora non mi interessa. I libri non hanno niente a che fare con l’attualità. Attualità però è una bellissima parola. Allude all’azione, alla vita. Però a me piace riferirmi a un’altra attualità. Voglio dire, non esisterei senza “il mondo delle notizie”. Quel mondo però contribuisce a darmi l’impulso e l’energia a pensare ex negativo qualcos’altro. In questo senso ha ragione chi dice di me che sono uno scrittore utopico. Perfino nei miei diari entra il cosiddetto mondo dell’attualità e quel che mi accade attorno. L’altro giorno, ad esempio, c’era sul treno una coppia di anziani accompagnati da due giovani badanti romeni. La scena si svolgeva in silenzio, gli anziani erano muti, come i loro accompagnatori. Io però ho immaginato che i quattro intavolassero una singolare conversazione. È invenzione, il che non significa fantasia arbitraria, vuol dire da quella che è l’“attualità attuale”, fantasticare su una attualità eterna».

I suoi libri, le traduzioni, i saggi, i diari, sono tutti manoscritti. La sua scrittura è riprodotta sulla copertina delle edizioni originali… 

«Anche questo segna un tempo diverso. Da oltre trent’anni scrivo con la matita. Ho cominciato a farlo per via dei viaggi. Spostandomi da un Paese all’altro, le lettere sulla tastiera della macchina per scrivere erano in un ordine diverso. Questo mi distraeva. Mi irritavo, mi arrabbiavo: non sono tanto saldo di nervi… Dovevo cercare il tasto giusto e la fantasia, la visione interiore era minacciata — no, esagero — era disturbata. Così ho provato a scrivere a mano. Funzionava! Fu una sorpresa. Ne è sorto un nuovo ritmo, anzi, un’altra Folge la chiama Goethe, un’altra sequenza: in questo senso sì, la mia è una scrittura inattuale. Eppure ci sono un paio di persone che mi leggono. Però mi manca la scrittura epica. L’avventura del cercatore di funghi è stata l’ultima».

Come trascorre le sue giornate da solo qui

«La mattina leggo, annoto quel che è accaduto il giorno prima, vado nel bosco, di solito verso mezzogiorno, quando tutti sono a tavola. D’inverno nel pomeriggio vado al cinema, a Parigi o a Versailles. Film ne vedo tantissimi, anche quelli brutti. Comunque il cinema è stimolante. Lo stesso non vale per i libri. Un brutto libro provoca un’irritazione sterile e cattiva. Il cinema, però, con tutte le sue potenzialità, non potrà mai colmare il posto della letteratura, che al momento è vuoto. Peccato».

intervista realizzata da Alessandra Iadicicco (sua traduttrice per l'italiano) a Peter Handke, nella casa dello scrittore a Chaville, nei sobborghi di Parigi, pubblicata sull'ultimo numero de La Lettura del Corriere della Sera. 


La casa di Peter Handke a Chaville

04/06/15

"Non capisco come una mano pura possa toccare un giornale." - Charles Baudelaire (Il mio cuore messo a nudo).



Il mio cuore messo a nudo di Charles Baudelaire è un livre de chevet al quale torno spesso, nelle ore più assetate.  Vi si trovano perle come queste:

Ogni giornale, dalla prima all'ultima riga, non è altro che un tessuto di orrori. Guerre, delitti, furti, impudicizie, torture, delitti dei principi, delitti delle nazioni, delitti dell'individuo, un'ebbrezza d'universale atrocità. 
E con questo disgustoso aperitivo l'umo civile accompagna il pasto di ogni mattino. Tutto, in questo mondo, trasuda delitto: il giornale, i muri, e il volto dell'uomo.
Non capisco come una mano pura possa toccare un giornale senza uno spasimo di disgusto.

(XLI,74). 

Non potendo sopprimere l'amore, la Chiesa ha voluto almeno disinfettarlo, e ha decretato il matrimonio. 

(XVIII)

Non può esservi progresso (vero, cioè morale) se non nell'individuo e mediante l'individuo.

(IX)

Sentimento di solitudine, fin dall'infanzia. Nonostante la famiglia - e fra i compagni di scuola, soprattutto, - sentimento di eternamente solitario. Eppure, gusto molto vivo della vita e del piacere. 

(VII)

Non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità di ognuno è il suo genio.

(Razzi, XII)

In certi stati quasi soprannaturali dell'anima, la profondità della vita si rivela tutta intera nello spettacolo, per quanto comune sia, che si ha sotto gli occhi. Esso ne diventa il simbolo.

(Razzi, XI,17)

Le arie che incantano e che fanno la bellezza sono:
L'aria smaliziata,                                   L'aria di dominio,
L'aria annoiata,                                      L'aria di volontà
L'aria svaporata,                                    L'aria cattiva
L'aria impudente                                   L'aria malata
L'aria fredda                                          L'aria da gatta, infantilismo, noncuranza e malizia mescolati     L'aria di guardare di dentro                   insieme

(Razzi, XI)

Che cos'è l'amore? 
Il bisogno di uscire da se stessi.

(XXV)




03/06/15

"Il nostro ambiente cosmico" di Martin Rees, un libro per conoscere il mistero dell'Universo.




Mi sento chiedere spesso l'indicazione per un libro che approfondisca i grandi temi, i grandi enigmi del cosmo - della nostra condizione umana dell'essere gettati in questo spaventoso mistero - in modo divulgativo, comprensibile e serio, sulla scia del grande successo ottenuto in Italia delle Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli, di cui abbiamo parlato anche qui. 

Credo che per chi ha interesse, non potrebbe prescindere da un grande libro scritto da uno dei maggiori cosmologi, nato nel 1942, e direttore della Royal Society, astronomo reale d'Inghilterra, Martin Rees.

E' Il nostro ambiente cosmico, edito da Adelphi già da qualche anno e più volte ristampato. 

In questo volume Rees espone in forma comprensibile tutte le vertiginose teorie sulla nascita e sul futuro del cosmo.  

Martin Rees


Emergono dalle ultime e più sofisticate ricerche mondiali novità clamorose e per molti versi sconvolgenti.  

Il Big Bang non è - come si credeva fino a qualche tempo fa - un evento unico, originario, ma un evento locale in un MULTIVERSO, di cui ci sfugge la configurazione globale.  

L'espansione dell'universo non sta affatto rallentando, come si credeva, ma accelerando, e forse è infinita. 

La materia oscura, l'antigravità, la forza repulsiva, l'energia del vuoto o quintessenza: altri misteri incredibili e affascinanti che evidenziano il nostro stare perennemente in bilico  di un grande mistero sospeso tra due infiniti: grande e piccolo.


Fabrizio Falconi

02/06/15

Elogio dell'Ombra - di Jorge Luis Borges.






Elogio dell’ombra

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri le danno)
può essere il tempo della nostra felicità.
l’animale è morto o è quasi morto.
nimangono l’uomo e la sua anima.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che non sono ancora le tenebre.
Buenos Aires,
che prima si lacerava in suburbi
verso la pianura incessante,
è diventata di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le sfocate case dell’Once
e le precarie e vecchie case
che chiamiamo ancora il Sur.
Nella mia vita sono sempre state troppe le cose;
Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all’eternità.
I miei amici non hanno volto,
le donne sono quel che erano molti anni fa,
gli incroci delle strade potrebbero essere altri,
non ci sono lettere sulle pagine dei libri.
Tutto questo dovrebbe intimorirmi,
ma è una dolcezza, un ritomo.
Delle generazioni di testi che ci sono sulla terra
ne avrò letti solo alcuni,
quelli che continuo a leggere nella memoria,
a leggere e a trasformare.
Dal Sud, dall’Est, dall’Ovest, dal Nord,
convergono i cammini che mi hanno portato
nel mio segreto centro.
Quei cammini furono echi e passi,
donne, uomini, agonie, resurrezioni,
giorni e notti,
dormiveglia e sogni,
ogni infimo istante dello ieri
e di tutti gli ieri del mondo,
la ferma spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti, il condiviso amore, le parole,
Emerson e la neve e tante cose.
Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra, alla mia chiave,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

Tratto da: Jorge Luis Borges, Poesie (1923-1976), traduzione di Livio Bacchi Wilcock, Bur.

01/06/15

"Palma il Vecchio, lo sguardo della bellezza" Una grande mostra prorogata al 12 luglio.


La mostra alla GAmeC di Bergamo rimane aperta un altro mese.  Ha conquistato il plauso dei media (nazionali ed internazionali) e il favore del pubblico.

Numerose anche le richieste di prenotazione che hanno indotto il produttore della mostra ComunicaMente, in accordo con la Fondazione del Credito Bergamasco, a prorogare di circa un mese (sino al 12 luglio) l’apertura della mostra “Palma il Vecchio. Lo sguardo della Bellezza” , curata da Giovanni C.F. Villa e dedicata a Jacopo Negretti, detto Palma il Vecchio (Serina 1480 circa- Venezia 1528), artista che mai prima al mondo è stato celebrato con una mostra antologica, poiché impossibile si è sempre rivelato il tentativo di raccogliere, anche solo per cento giorni – quelli canonici per la movimentazione di delicatissime opere su tavola – i suoi dipinti, oggi conservati nei più grandi musei del mondo. 

E tutti i musei ed enti prestatori hanno aderito alla richiesta di proroga, eccezion fatta per la National Gallery di Londra, impossibilita per questione tecniche a lasciare il suo “Ritratto di poeta, cosiddetto Ariosto” a Bergamo.

Rimangono quindi tutti gli altri capolavori provenienti dalle maggiori collezioni pubbliche e private italiane ed internazionali: dalla Gemäldegalerie di Berlino e Dresda dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, all’Ermitage di San Pietroburgo, al Museo del Louvre di Parigi. E ancora, dalla collezione del duca di Northumberland, dagli Uffizi di Firenze alle Gallerie dell’Accademia di Venezia al Szépművészeti Múzeum di Budapest.

Un insieme di opere che ha consentito di narrare compiutamente – grazie anche a un allestimento dello spazio espositivo in un percorso visivo di grande suggestione – ogni momento della carriera di Palma, per un quarto di secolo raffinato interprete tanto del gusto dell’alta committenza veneziana, quanto prodigo d’opere per l’amatissima terra natia.

Un’esposizione in cui si potranno ammirare per un altro mese, i vertici esecutivi nell’arte della pala d’altare - tra cui in mostra il Polittico di Santa Barbara che per la prima volta ha lasciato la sua sede naturale di Santa Maria in Formosa a Venezia ma anche il Polittico di Serina, restaurato dalla Fondazione Creberg - e di quei temi che hanno sancito il secolare successo di Palma: i ritratti femminili (tra cui la Dama in blu di Vienna e la Bella del Thyssen-Bornemisza di Madrid) e le sacre conversazioni nel paesaggio come L’Incontro di Giacobbe e Rachele di Dresda.

Palma è l’artista scelto dalla Fondazione del Credito Bergamasco e dal Comune di Bergamo per celebrare EXPO2015 tramite un’operazione culturale ed economica significativamente orientata a narrare in modo nuovo una tra le più affascinanti, e per certi aspetti sconosciute, città d’Italia: Bergamo.

La mostra gode del patrocinio del Mibact e del Ministero delle Politiche Agricole, nonché, tra gli altri, della Regione Lombardia della Diocesi di Bergamo e della Provincia di Bergamo; ha come partner istituzionale la Fondazione Comunità Bergamasca e Sacbo spa – Aeroporto Orio al Serio come main sponsor.



31/05/15

250.000 visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi .







Si cresce, si diventa: diceva un saggio. 

Vorrei ringraziarvi per aver tagliato, dopo così poco tempo, e proprio alla fine dell'estate 2014, il traguardo dei 250.000 visitatori per il nostro Blog. 

Questo spazio è diventato, oltre a una vetrina di aggiornamento di attività, anche collettore di quello che voi mi segnalate e che ritenete importante da dire, da leggere, da osservare. 

Continueremo a farlo insieme, se vorrete, giorno per giorno. 
Grazie.

Fabrizio

29/05/15

Ritrovato l'Arco di Tito al Circo Massimo !



Se fosse possibile intraprendere una imponente campagna di scavi nel Circo Massimo, la più grande arena dell’antichità, chissà cosa sarebbe possibile ritrovare.

L’impresa non è facile per molti motivi, primo fra tutti l’utilizzo che ancora oggi il sito ha per i grandi eventi che si svolgono in città, e in più a causa di una falda acquifera sotterranea che ricopre tutta la zona. 

Il Circo Massimo infatti, dopo i fasti dell’Impero, cadde come molti monumenti della Roma antica nell’oblio e nel degrado. 

La zona fu quasi interamente occupata da una palude che ricoprì ogni struttura, sotto diversi strati di terra e acqua. Basti pensare che alla fine del Cinquecento, a quattro metri e mezzo di profondità, gli ingegneri papali recuperarono nientemeno che l’Obelisco Lateranense, uno dei due che ornava la spina centrale del Circo, il più grande in assoluto di quelli di Roma, alto ben trentadue metri e ricoperto di splendidi geroglifici. 

L’obelisco era stato cavato dalle montagne di Assuan dal faraone Tutmosis III (1479 – 1426 a.C.) e rimase in piedi nella città di Tebe, finché Augusto prima e Costantino dopo, a seguito della conquista romana dell’Egitto, pensarono di trasportarlo a Roma, dovendo rinunciare alla impresa che fu compiuta soltanto dal figlio di Costantino, Costanzo II (317-361) con l’erezione al centro dell’arena, nel 360 d.C. Rimasto in piedi soltanto per meno di due secoli fu probabilmente abbattuto dai Goti nel 547, insieme agli altri obelischi della città. 

Ciò nonostante, anche se scomparve dalla vista progressivamente, rimanendo sepolto sotto l’acqua della palude, la sua memoria rimase intatta nei secoli. E quando Matteo Bortolani di Città di Castello, per conto del Papa, ordinò di muovere i picconi nel centro dell’Arena, fu trovato l’Obelisco a quasi cinque metri di profondità, nello stesso punto dove era stato abbattuto, purtroppo rotto in tre pezzi. 

Trascinato fino al Colle Lateranense con immani lavori di trasporto, fu infine collocato in quella posizione per essere a vista con la Basilica di Santa Maria Maggiore, in linea con il suo gemello Esquilino. 

E qui venne eretto da Domenico Fontana il 10 agosto del 1588. Se un tale tesoro fu trovato, praticamente intatto (a parte la frattura), si può immaginare quali altri reperti sarebbe possibile trovare al di sotto dell’arena. 

Ne è una riprova la recente scoperta del ritrovamento dei resti del grande arco realizzato in onore dell'Imperatore Tito ritrovati al Circo Massimo dagli archeologi della Sovrintendenza capitolina durante i lavori di scavo e restauro dell'emiciclo sud del Circo. 

Questa parte dell’arena è infatti l’unica che è da diversi anni oggetto di scavi metodici. E’ un punto cruciale, perché l’emiciclo sud, rivolto verso l’attuale Porta Capena e l’Appia – rinominato popolarmente la curva sud del Circo Massimo - era quella più spettacolare, dove le bighe in corsa dovevano compiere una repentina curva di 180 gradi, sotto lo sguardo dei centocinquantamila spettatori, con cadute, contatti e scontri, come è stato mostrato molte volte nei film di Hollywood. 

Quando gli archeologi si sono imbattuti, diversi metri sotto il livello attuale e al di sotto della falda acquifera, in alcuni grandi frammenti architettonici in marmo lunense, hanno capito di trovarsi di fronte a reperti dell'attico e alla trabeazione dell'Arco. 

Le cronache dell’epoca descrivono molto bene questo imponente monumento: l’ampiezza dell'arco era di circa 17 metri, per una profondita' di circa 15, mentre le colonne sviluppavano un'altezza di oltre 10 metri. 


Un monumento che, nel complesso più piccolo di quello di Settimio Severo (sulla Via Sacra), doveva impressionare non poco, per magnificenza e ricchezza di decorazioni, i visitatori che entravano in Roma dalla Via Appia attraverso la vicina Porta Capena. Dedicato a Tito nell'anno della sua morte, nell'81 d.C., per celebrare la sua vittoria sui Giudei e la distruzione di Gerusalemme, l'Arco era posto al centro dell'emiciclo sud del Circo Massimo. 

Era a tre fornici intercomunicanti, con platea ed una scalinata sulla fronte verso il circo, mentre si collegava con due gradini con il piano di calpestio esterno all'edificio. La fronte era caratterizzata da 4 colonne libere e 4 lesene retrostanti aderenti ai piloni. 

Era sormontato, sull'attico, da una grandiosa quadriga bronzea. L'arco assumeva un ruolo particolarmente importante nel corso delle processioni trionfali che celebravano le vittorie dei generali o degli imperatori. 

Il lungo corteo trionfale, dopo aver sfilato lungo il Circo Massimo e avere raccolto l'ovazione della folla, passava al di sotto dell'arco e proseguiva il suo cammino diretto al tempio di Giove Capitolino, sul Campidoglio. 

Il recupero della magnifica struttura è ancora arduo: ritrovato il pavimento antico, le lastre di travertino e messi in luce tre plinti frontali e parte del plinto della quarta colonna, la zona è stata nuovamente interrata per evitare danneggiamenti, in attesa di nuove risorse che permettano di riportare al suo splendore uno dei monumenti antichi più belli di Roma.

Fabrizio Falconi 

28/05/15

In albis (In albis) - di Fabrizio Falconi.





In albis


Sicut carmen
diuturni dies Novembres
pervenerunt.
Ars saltandi quieta
consiliorum est,
miraque
absentium ratio.
Nubes alba
e montibus effundit
prima lux omnis
adornat motum sanctuum suum.

dall'originale, in Fabrizio Falconi Sub specie aeternitatis (poesie 1997-2001), Giuseppe Aletti Editore, 1a edizione luglio 2003.
Traduzione dall'italiano in latino: Filomena Bernocco


In albis


Come profezia
i giorni lunghi di novembre
sono arrivati. E’ quieta
la danza dei propositi,
e stupefacente
la conta degli assenti.
Nube bianca si srotola dai monti
ogni alba prepara
la sua santa ribellione.

27/05/15

La Vita è un’Opera d’Arte - Decalogo per vivere.


Se non si vuole sprecare la propria vita terrestre – dal momento che per quel che ne sappiamo, è solo una, ed è anche breve – bisogna essere consapevoli del fatto che Vivere è un’opera d’arte.

E per vivere bene, per vivere una vita degna di essere vissuta – una vita umana – bisogna trattare la propria vita come il compimento di un’opera d’arte. ‘Opera d’arte’ non vuol dire necessariamente la Gioconda, o i fiori di ciliegio di Van Gogh.

L’opera d’arte non dipende dalle dimensioni: è un’opera d’arte il Giudizio Universale, ma lo è anche il centrino fatto ad uncinetto dalla vecchia.

E’ opera d’arte anche il buon vino del vignaio ed è opera d’arte anche la poesia notturna, nascosta in un cassetto.

Ciascuno è chiamato – con la sua vita – a offrire l’opera che può, a seconda del talento che gli è stato dispensato per mistero a noi in-conoscibile, come viene eloquentemente descritto nella celebre parabola evangelica. 

Il valore non è nel talento, ma nell’uso che se ne fa. La vita è dunque secondo me un talento dato a tutti. E a tutti sta trasformare questo talento in un’opera d’arte. 

Le dieci regole d’oro per trasformare una vita in Opera d’Arte e far sì che essa sia degna di essere vissuta, e sia perciò umana, sono quelle che regolano la creazione di ogni Opera d’Arte

1. Ogni Opera d’Arte deve avere un Senso. Un’opera in-sensata – come una vita in-sensata – non serve a niente e a nessuno. 

2.Ogni Opera d’Arte deve avere un Doppio Senso: un senso per chi la realizza (la vita) e un senso per gli altri (che vedono la tua vita, perché tu vivi in una comunità di umani). 

3. Ogni Opera d’Arte necessita di una Cura . Nessuna opera d’arte – e quindi neanche nessuna vita – si realizza con la trasandatezza, con la disattenzione, con il laissez-faire. 

4. Ogni Opera d’Arte ha bisogno, per nascere, di una ispirazione. L’ispirazione – come la vita – è dentro di te, ma è necessario che tu ti identifichi in lei, la ascolti, e la lasci parlare. 

5. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di metodo. Non basta da sola l’ispirazione. La vita – come l’opera d’arte – ha bisogno che tu organizzi le cose, che tu persegui il tuo progetto. 

6. Ogni Opera d’Arte ha bisogno di Tempo. Senza tempo, che vuol dire pazienza – nessuna opera d’Arte e nessuna Vita sarà mai completata. 

7. Ogni Opera d’Arte deve essere nuova. L’originalità della tua vita è la stessa di una qualsiasi opera d’arte umana, che prima di essere creata, non esisteva. 

8.Ogni Opera d’Arte deve avere un valore. Un valore per chi l’ha creata, e uno per chi l’apprezza. Una vita senza valore, come un’Opera senza valore, non interessa nessuno. 

9. Ogni Opera d’Arte deve possedere fiducia. Fiducia che qualcuno saprà apprezzare, valutare, rendere, testimoniare, la nostra vita, come la nostra Opera. 

10. Ogni Opera d’Arte, una volta creata, è eterna. Perché, anche se sarà distrutta, continuerà a vivere nella memoria e nelle opere che essa ha – a sua volta – generato. 

Fabrizio Falconi – 22 maggio 2009 (C) riproduzione riservata 2015

26/05/15

L'epistolario tra Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé - Il tormento e l'estasi.



Nel 1984 e successivamente ristampato nel 1992, La Tartaruga ha meritoriamente pubblicato il meraviglioso epistolario tra Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé nel corso di quasi trent'anni, dal 1897 al 1926. 

Si tratta della traduzione del volume curato da Ernst Pfeiffer il quale, riuscito ad ottenere i diritti dagli eredi, mise insieme tutto ciò che restava delle lettere scambiate da Rilke e Salomé in tre decenni cruciali, per la loro storia e per la storia dell'Europa e dell'Occidente. 

L'epistolario in questione è formato da 134 comunicazioni scritte di Rilke (escludendo poesie e dediche) e di 65 di Lou A. S. 

La disuguaglianza numerica degli scritti dipende in parte dall'indole di Rilke - dopo ogni intervallo è quasi sempre lui che riprende a scrivere per primo, perché aveva in continuazione il bisogno di raccontarsi - e in parte dal fatto che sono andate perdute diverse lettere di Lou.

Mancano in particolare quelle della prima, appassionata, fase del loro rapporto di cui si sono conservate soltanto le lettere di Rilke e solo quelle relative ai primi giorni del loro incontro. 

L'ultimo appello di Lou, del febbraio 1901, conclude i quasi quattro anni di vita in comune e si pone già fuori del legame che li aveva uniti fino a quel momento.

Nel maggio del 1897 a Monaco Lou aveva incontrato il giovane Rilke (lei 36 anni, lui 22), che sollecitato da lei cambierà ben presto il proprio nome René in Rainer, con il quale diverrà presto famoso in gran parte d'Europa.

Lou, nata il 12 febbraio del 1861 a Pietroburgo, era sposata, dal 1887 a Friedrich Carl Andreas, studioso di storia delle lingue, di quindici anni più vecchio di lei,che dopo momenti molto burrascosi e un tentativo di suicidio, la convince a sposarlo.  Ma Lou gli impone un "matrimonio in bianco" ed esige per sé la più ampia libertà di movimento, nonché l'impegno che lui non interferisca nella sua vita sentimentale. 

Quando conosce Rilke, Lou - nonostante la fama che si porta dietro dai tempi del triangolo scandaloso con Nietzsche e il filosofo Paul Réem (in realtà del tutto casto) - è ancora vergine.  Tra i due ha inizio un rapporto intensissimo, che coinvolge corpo ed anime. 

Dopo quattro anni, Lou decide di interromperlo. E del periodo della vera e propria amicizia - dal 1903 e fino alla morte di Rilke (1926) è la seconda parte molto più cospicua dell'epistolario. 

Distrutto dalla separazione, Rilke trova il modo di sopravvivere. Sposa la scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin, ha con lei una figlia, ma non smette di girovagare per l'intera Europa - in fiamme - di quegli anni, in un incredibile tourbillon di incontri (con tutte le più grandi personalità dell'epoca) e di luoghi, che si può leggere qui. 

Lou resta per Rilke il riferimento di una vita intera.  Il soggetto amoroso si trasforma in presenza/assenza, vicinissima distanza, comunione totale di spirito. Le lettere sono struggenti:  Sai, se non si morisse di vecchiaia, si morirebbe di nostalgia, scrive Lou.  (lettera del 22 settembre 1921)

Tutto ciò che vive, risponde Rilke, che pretende la nostra attenzione, incontra in me una infinita partecipazione, dalle cui conseguenze devo poi ritrarmi con dolore quando mi accorgo che mi consumano totalmente. (lettera del 29 dicembre 1921). 

Tu sei l'uomo più simbolico che io conosca, scrive ancora Lou, e tu vivi le cose ultime, le conferme, per le quali la materia esistenziale si concentra solo di quando in quando per poterle rivelare; per questo tanto spesso tu non puoi vivere. (lettera del 5 gennaio 1921). 

Rilke continua a spostarsi, di ritiro in ritiro, di esilio in esilio, a Duino, dove compone gran parte delle Elegie, e infine a Muzot, dove la sua malattia si aggrava fino alla morte. 

Lo spirito inquieto, errante di Rilke, la saggezza altrettanto inquieta di Lou: una stessa devastante sensibilità, un attraversamento della vita come esperienza iniziatica, fino alla morte.  Queste lettere esprimono cose che non si possono esprimere che vivendo, o nella rarefazione artistica di un genio puro come Rilke: il tormento delle costrizioni terrene, la mancanza o la nostalgia di quel che non può essere afferrato mai definitivamente; l'estasi della creazione artistica, delle anime che non si incontrano e non si sciolgono più, mai più, nonostante e oltre le incombenze del vivere. 


Fabrizio Falconi (C)(riproduzione riservata) 

Rilke e Lou Andreas Salomé

25/05/15

Francesi, inglesi, italiani, russi, tedeschi - secondo Tolstoj.





nelle pagine di Guerra e Pace, Tolstoj descrive in una sola riga ciascuno, il carattere nazionale di francesi, inglese, italiani, russi, tedeschi. Credo che ancora oggi sia molto interessante leggere questa pagina.

Pfull era uno di quegli uomini inguaribilmente, immutabilmente sicuri di sé fino al martirio, come possono esserlo soltanto i tedeschi, precisamente perché nei tedeschi la sicurezza di sé è basata su un'idea astratta: la scienza, cioè la presunta conoscenza di una verità assoluta. 

Il francese è sicuro di sé perché si crede irresistibile e affascinante in tutta la sua persona, intellettualmente come fisicamente, per gli uomini come per le donne. 

L'inglese è sicuro di sé perché è cittadino dello Stato del mondo meglio ordinato, e perciò, come inglese, sa sempre quel che deve fare e sa che quanto fa, nella sua qualità d'inglese, è sicuramente ben fatto. 

L'italiano è sicuro di sé perché si agita e dimentica facilmente sé e gli altri. 

Il russo è sicuro di sé proprio perché non sa e non vuol sapere nulla, perché non crede che si possa sapere qualcosa.

Il tedesco è sicuro di sé peggio di tutti, più fermamente di tutti, perché si immagina di conoscere la verità: la scienza che egli stesso ha inventata, ma che per lui è la verità assoluta. 


Lev Tolstoj - Guerra e Pace, Einaudi, Torino, pag. 749.

23/05/15

Vienna 1983 - Una esperienza iniziatica (Gregor Passecker)




Nel novembre del 1983 visitai per la prima volta Vienna

Fresco di laurea, risposi a mia madre rimasta da poco vedova, che voleva accontentarmi con un regalo - soldi non ce n'erano: "vorrei fare un viaggio a Vienna."

Qualcosa di ancestrale sembrava attirarmi verso quella città. Qualcosa forse di genetico, visto che mia madre che non aveva mai superato i confini di Roma (a parte Firenze e Venezia, tappe del viaggio di nozze), piangeva regolarmente a dirotto quando in casa si metteva sul piatto del giradischi il Blue Danube di Richard Strauss.

Non rimasi deluso, tutt'altro. Visitai la città in perfetta solitudine in un mese invernale e freddo. 

Il silenzio di Vienna di quegli anni, il silenzio del Ring, il silenzio del Graben, della casa di Mozart, del Liechtstein con le cacche d'autore di Kolik, il silenzio della torre di Santo Stefano, dei giardini del Belvedere, del Prater, dello SchonBrunn sotto la neve, il silenzio delle acque del Danubio, il silenzio del fumo nei giardini e dai tetti, il silenzio dell'Opera deserta, dei vecchi caffè, perfino dei vagoni della metro dove non volava mosca, e tutti sembravano intenti a fare qualcosa di importante, o di solitario. 

Ai giardini del Prater, in un minuscolo chiosco ambulante, conobbi un ragazzo viennese Gregor Passecker.  La sua famiglia gestiva un antico caffè del centro, lui si dava da fare con gli Hot-dog. La sua compagna era bellissima. La sera lui si trasformava, indossando un lungo mantello scuro sulla figura allampanata tramutandosi in un eccentrico dai gusti raffinati, in grado di apprezzare e farmi apprezzare una grafica di Kubin in una sperduta galleria metropolitana, o di parlarmi per due ore - nel suo inglese elegante - di Hundertwasser e delle sue architetture. 

Fino a tardi camminammo quelle sere, costeggiando il Ring, insieme ad un altro amico italiano, uno strano affiatato quartetto che s'era trovato per le strane circostanze del caso, in quel frammento spazio-temporale del mondo. 
Gregor Passecker

Gregor rimase a lungo in contatto con me, ma non lo rividi mai più. Mi scriveva lettere stupende, completamente bislacche piene di parole italiane (amava la nostra lingua e voleva impararla ad ogni costo), strane sue composizioni poetiche e collages surreali e io lo reputavo una grande anima. 

Come spesso accade, morì prima del tempo. 

Ma da qualche parte, sento sempre la sua presenza. Insieme a quella Vienna di allora, che popola sogni e popola pensieri. 


Fabrizio Falconi.