Nel 1846, Villa Borghese era ancora tutta di proprietà della nobile famiglia – di origini toscane – che a essa
aveva dato il nome, dai primi dei Seicento.
Con il tempo,
però, e soprattutto negli ultimi decenni, la villa aveva subito notevoli trasformazioni, a opera soprattutto del principe Marcantonio IV Borghese (1730-1809) che, tra le altre
cose, aveva ordinato ai suoi architetti la costruzione di un
anfiteatro destinato a ospitare corse di cavalli, esibizioni e
feste, e ispirato alla piazza del Campo di Siena, città da cui
la famiglia Borghese, originariamente, proveniva.
Nacque così piazza di Siena, subito divenuta il fulcro
della villa, che nel frattempo i Borghese avevano deciso di
aprire al pubblico, cioè al popolo di Roma, per il passeggio
durante i giorni festivi e dove, in quelle occasioni, erano
ospitati eventi e balli.
Uno dei fatti memorabili che ebbero luogo a Roma, nell’Ottocento, fu il primo volo in mongolfiera, che si levò
proprio da piazza di Siena.
Il protagonista fu il francese
François (o Francisque) Arban, nato a Lione nel 1815, pio
niere dell’aviazione che aveva iniziato a dedicarsi alla mon
golfiera nel 1832.
Qualche anno più tardi, Arban venne a Roma, invitato
dai Borghese. Ospite della villa, annunciò che avrebbe ten
tato un’esibizione sui cieli della capitale. Dopo due mesi di
permanenza romana e di preparazione, finalmente, alle tre
e mezzo del pomeriggio del 14 aprile del 1846 Arban salì
a bordo del suo pallone, davanti a una folla straboccante
assiepata sulle tribune di piazza di Siena, che cominciò ad
applaudirlo mentre compiva un primo giro a pochi metri
d’altezza, ancora trattenuto da una corda di ancoraggio.
Qualche minuto dopo, sciolto l’ormeggio, al suono della
banda militare e spinto dal vento di sud-est, Arban prese
quota con l’aerostato sorvolando l’intera Villa Borghese.
Seguendo la direzione del vento, come raccontano i cro
nachisti dell’epoca, l’aviatore «sorpassò più volte i giri del
Tevere, dirigendosi rapidamente verso i monti Sabini, po
tendo però sempre scorgere da quel punto, la Villa [Borghese], le fabbriche e la maestosa cupola della città da cui
pochi minuti prima si dipartiva».
Continuando l’avventura, Arban si trovò ben presto a
quote altissime, al punto tale che cominciò ad avere problemi di respirazione, con il termometro che segnava un
grado sopra lo zero. Rifocillatosi col vino che aveva a bordo e col cibo «di cui si era ugualmente munito», e verificata
l’altezza ormai troppo elevata, aprì la valvola abbassando
la mongolfiera di diverse centinaia di metri quando, dopo
un’ora di viaggio, gli si aprì sotto gli occhi lo scenario del
fiume Velino e poi della valle reatina, accorgendosi subito delle moltitudini di persone che lo indicavano e gli face
vano cenno di avvicinarsi, abbassandosi ancora.
La popolazione reatina era entusiasta, seguiva il percorso a piedi,
a cavallo o con vetture, e finalmente, nei pressi del lago
di Piediluco, convinse Arban ad atterrare, visto anche che
si profilavano, minacciose, le montagne degli Appennini.
Aveva viaggiato per cinquanta miglia (ottanta chilometri)
quando gettò via gli ultimi sacchi di zavorra, lanciando a
una trentina di persone che lo aspettavano le corde per
l’ancoraggio.
Particolare curioso, tra i primi che vennero ad aiutare
Arban a scendere dall’aerostato ci fu un tipo che, dopo
averlo abbracciato e baciato, chiese a bruciapelo al volatore, in italiano: «Mi dai tre numeri?». Ancora provato
dall’impresa e ostacolato dal non sapere la lingua, Arban capì soltanto in un secondo momento che quello gli
chiedeva con insistenza tre numeri per giocare al Lotto.
Arban, insomma, era visto come una specie di mago, al
quale non dovevano mancare nemmeno capacità divinatorie e – immaginiamo più che altro per togliersi il fastidio di torno – con il lapis scrisse alcuni numeri a casaccio
che furono ricevuti dal “villico reatino” come un prezioso tesoro.
Invitato a riposarsi dopo l’impresa nella casa di un notabile del luogo, alle tre del mattino seguente Arban prese
la diligenza che doveva riportarlo a Roma, dove giunse
alle tre del pomeriggio, subito accolto dal principe Borghese, grato per l’impresa che aveva appena compiuto.
La popolarità di Arban dopo quel primo viaggio aumentò a dismisura, al punto che in diverse altre città italiane furono organizzate sue esibizioni a bordo della mongolfiera.
La sua carriera di aviatore però si infranse presto in circostanze tragiche: tre anni dopo, preso il volo da Barcellona
per un’esibizione, con l’intenzione di superare i Pirenei e
arrivare fino a Lione, Arban non riuscì a portare a compimento l’impresa. La forza dei venti sospinse infatti l’aero
stato verso il largo del mar Mediterraneo, dove scomparve
nel nulla. I suoi resti e quelli del velivolo non furono mai
più ritrovati, dando adito alle più diverse leggende, tra cui
quella secondo cui la sua mongolfiera, arrivata addirittura
fino in Africa, aveva consegnato l’aviatore agli indigeni che
lo avevano fatto prigioniero e ucciso.
Estratto da: Fabrizio Falconi, Storie incredibili di Roma che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton Editore, 2024