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21/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (3./)




Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (3./) 


Lo stesso percorso di vita di Etty parla il linguaggio della coerenza e del coraggio. L’adesione incondizionata, a prezzo della sofferenza personale, all’ideale della giustizia e del bello.    Dai tempi del ginnasio, che frequentò a Deventer, dove cominciò a frequentare un gruppo di giovani sionisti, imparando anche l’ebraico.  E poi, da studentessa universitaria, quando pur non facendo parte di alcun gruppo politico, mise in campo la sua passione personale nei rapporti con un’infinità di conoscenti, amici e colleghi universitari, fino al conseguimento della laurea in legge, e al fatale incontro con Julius Spier, lo psicologo e psicoanalista ebreo tedesco, allievo di Jung, che Etty conobbe casualmente il 3 febbraio del 1941 durante un concerto in ambito domestico e che praticava la psicochirologia, basata sulla lettura della mano.

Spier fu l’incontro determinante per Etty: divenne la segretaria e anche l’amante di un uomo carismatico e molto ambito, che la prese in terapia, le insegnò a dominare i suoi stati depressivi e caotici, la spinse ad iniziare la stesura di quel Diario che diventerà un testo capitale della spiritualità moderna, la protesse dall’angoscia opprimente del cerchio che la persecuzione nazista andava stringendo giorno dopo giorno intorno a lei e a quelli come lei.

Come ha scritto F. MichaelDavide: “la duplice esperienza di umanità – la relazione con Spier – e di disumanità – lo sterminio nazista – sono state la trama sulla quale si tesse la tela di questa vita che seppe trovare consistenza nell’ordito della presenza intima e discretissima del Dio dei padri: così vicino e così lontano. Senza la relazione con Spier, fatta di delicatissima e ardita umanità, Etty sarebbe stata senza dubbio sopraffatta dall’orrore e dal logoramento della persecuzione.  Senza queste ultime, non sarebbe stata sollecitata con tanta forza ad andare avanti nel cammino di interiorità fino a scegliere di essere consapevolmente sterile per essere feconda nella trasmissione di un amore più grande sempre pronto alla morte, come paradigma di incompiuta prontezza al dono di sé in ogni momento. (8)”

Le pagine del Diario raccontano di una relazione – quella con Spier – che nella sua profonda umanità, e anche con il corollario di una passione erotica a tratti travolgente (sto proprio rischiando di rovinare questa amicizia con l’erotismo, scrive Etty)  diventa la chiave per maturare e per crescere, e “attraversare la vita senza finzione ma nel coraggio di una verità su se stessi talora assai dura”. (9)


Julius Spier


Questo stesso metodo    che non concede sconti a sé stessa, sul piano del cammino personale, Etty applica, con la pazienza di un entomologo al suo “Discorso con Dio”, che procede di pari passo lungo le pagine del Diario stilato in quei due anni terribili per la storia dell’Europa e del mondo.

E’ soltanto la fedeltà a questo metodo che permette a Etty di non perdere mai totalmente La fiducia in Dio, nonostante l’orrore che vede ogni giorno, nonostante la sensazione di una ingiustizia così conclamata che vede diffondersi nel mondo, nel suo mondo, tra i suoi amici, tra i suoi più stretti famigliari, perseguitati per essere semplicemente appartenenti ad una razza sbagliata.  Il dramma del silenzio di Dio, in questi anni così orribili, Etty lo risolve a suo modo, con una professione di fedeltà interiore commovente, che giunge a spalancare nuovi orizzonti di comprensione spirituale. E’ una consapevolezza nuova – quella di essere il cuore pensante della baracca, come lei stessa si definisce – a permettere ad Etty Hillesum di poter scrivere una pagina come questa:

       Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano… Ti prometto una cosa Dio, soltanto una piccola cosa… Cercherò di aiutarti  affinché tu non venga distrutto in me, ma a priori non posso promettere nulla.  Una cosa però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo noi aiutiamo noi stessi.    L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. … Dicono: me non mi prenderanno.  Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia.  (10)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.   


1.    Fr. MichaelDavide, Etty Hillesum: Dio Matura, edizioni La Meridiana (Pagine altre), Molfetta (BA) 2005, pag.16.
2.     F.MichaelDavide, Etty Hillesum… Op.cit, pag. 151
3.     E. Hillesum, Diario, Op.cit. pag. 169.

20/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine)




Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine) 

   Nell’ultimo film di quella che è stata chiamata la trilogia teologica, Il silenzio, uscito nel 1962, Bergman sembrò sfidare il pubblico e la critica in maniera ancora più estrema con una storia – quella del viaggio allucinato di due sorelle, Anna e Ester che attraversano un paese ostile, pieno di strane figure, in cui tutti parlano una lingua incomprensibile – che incappò anche nelle ire della censura, per scene di trasgressione molto esplicite, per l’epoca. L’intento del regista era, stavolta, quello di mostrare – si potrebbe dire nietzschianamente – gli effetti della espulsione di Dio dalle vite degli uomini.  Entrambe le sorelle – che rappresentano l’una l’aspetto materialistico/edonistico dell’esistenza e l’altra quello puramente intellettuale/razionale – non raggiungono nessun barlume di senso, nelle loro vite disperate.  E la morte di una delle due Ester, la coglie con l’ultima parola scritta su una lettera per il nipote adolescente: ‘anima’.   Lo spirituale – rappresentato anche dalla musica di Bach che compare in diversi punti del film -  è l’unica possibilità di uscire dalla prigione che rinchiude l’uomo nella sua gabbia di disperazione.

   “L’uomo  mutilato dei suoi valori spirituali” scrisse un critico italiano subito dopo l’uscita del film nel nostro paese, “si abbrutisce in una solitudine che è il suo inferno. Bergman è troppo intriso di cristianesimo per condividere la persuasione di un Camus che soltanto l’ateismo può generare una carità autentica… Il silenzio proclama la tesi opposta. L’assenza dei valori spirituali mura l’uomo nel suo egoismo.” (11)  Ovvero, “ quando Dio tace, il mondo diventa un inferno.” (12)
    
   E a Bach, alla impressione forte di quell’oltre rappresentato dal sublime della musica, che indica la possibilità di una via allo spirituale, Bergman torna più volte e nelle ultime pagine della sua autobiografia.  Lo fa, in questo caso, rievocando una scena della sua infanzia:  Una domenica di dicembre ascoltai l’Oratorio di Natale di Bach alla chiesa di Hedvig  Eleonora (dove il padre di Bergman teneva i suoi sermoni, NdA).  Era di pomeriggio, la neve era caduta per tutto il giorno, silenziosa e senza vento. Ora apparve il sole.  Ero seduto nella cantoria di sinistra, proprio sotto la volta.  La mobile luce del sole, scintillante come oro, si rifletteva sulle finestre della Canonica di fronte alla chiesa e formava figure all’interno della volta.  Il corale si diffuse pieno di speranza nella chiesa che s’immergeva nell’oscurità: la devozione di Bach allevia il tormento della nostra incredulità.. Le trombe levano al Redentore grida di giubilo in re maggiore. Una dolce penombra grigioazzurra riempie la chiesa d’una calma improvvisa, d’una calma fuori dal tempo…
   I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia. (13)
    
  La musica era per Bergman, come il cinema, una specie di occhio su un altro mondo.  Il cinema, in più permetteva l’approfondimento dell’analisi. Nessun’altra arte come il cinema, diceva il regista (14) arriva a cogliere lo spazio crepuscolare nascosto nel profondo della nostra anima.
   
   Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi monacale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
    “Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni (15) il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
    Nel 1995 era morta la sua ultima amatissima moglie, Ingrid Von Rosen, di dodici anni più giovane di lui.  Bergman ne fu sconvolto.  Tornarono i fantasmi della depressione, di cui non si era mai del tutto liberato, e che vent’anni prima, nel 1977 – all’indomani di uno scandalo fiscale nel quale era stato coinvolto – lo avevano portato al ricovero per tre mesi in un istituto psichiatrico di Stoccolma.  Del resto, come ha scritto Goffredo Fofi, Bergman, epigono del cinema ‘religioso’, preoccupato di interrogarsi sulle inquietudini esistenziali dell’uomo e sul suo bisogno di trascendenza, pagò lo scotto dell’assiduità con queste inquietudini a un caro prezzo personale.  (16)
    
     Ma ancora una volta, il cinema – la sua arte – gli venne in soccorso. Tornò ancora una volta dietro la macchina da presa, e in Verità e affanni  ambientò la sua ultima storia per il cinema, proprio in un ospedale psichiatrico.
   L’arte come sublimazione di inquietudini e aspirazioni spirituali trovò dunque probabilmente in Ingmar Bergman - il suo migliore interprete.  

     Ed è probabile, che alla fine della sua vita, una serenità consapevole lo abbia accolto. 
    
    "La morte lo ha raggiunto serenamente” ha detto la figlia Eva, annunciando al mondo la scomparsa del padre. Il marito di Eva, lo scrittore Henning Mankell ha riferito in quella occasione le parole di Bergman nel suo ultimo colloquio con il suocero: “Ho 89 anni, e vorrei tanto festeggiare i 90 con la famiglia. Ma tutti i miei amici se ne sono già andati, e così sono pronto…” 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

11.  Luigi Bini, Ingmar Bergman, Op. cit. p.41
12. Giacinto Ciaccio, Il silenzio, Rivista del Cinematografo, n.5 1964, pag. 219 e ss.
13.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. pag. 252.
14.  La citazione è riportata da Lietta Tornabuoni, in La cinepresa nell’anima, La Stampa, 31 luglio 2007.
15. Lietta Tornabuoni, art. cit.
16. Goffredo Fofi nell’articolo in questione – La crisi della modernità riletta attraverso le pagine di Kierkagaard, Avvenire, 21 luglio 2007 -  aggiunge: “Ma anche se molti suoi film possono sembrarci meno riusciti di altri, quale coerenza e quale così evidente e così commovente sincerità in questa ricerca !”

19/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./) 

   In questo senso la parabola di questo grande regista è forse raccontata in un modo che più esemplare non si potrebbe nella trilogia che Bergman dedicò espressamente al problema religioso, e che comprende tre capolavori, Come in uno specchio (1960), Luci d’Inverno (1961) e Il silenzio (1962).  
  Il regista, già famoso,  voleva realizzare con il primo un’opera “completamente nuova”, un’opera da camera per il cinema, e voleva ambientarlo su un’isola del mare del nord. Fu in quell’occasione che qualcuno gli suggerì la brulla isola di Faro,  nel mar Baltico, che con i suoi paesaggi estremi affascinò a tal punto Bergman da indurlo a stabilirvi la sua residenza, alla fine del film. Forse anche la suggestione di questo paesaggio spinse il regista a rendere il suo cinema ancora più essenziale rispetto ai film precedenti, ancora più nudo, radicale, in un crescente “ascetismo visivo”, come lo definì il padre gesuita Luigi Bini (7).  

  Già il titolo del film – Come in uno specchio – fu scelto da Bergman dal testo della Prima Lettera ai Corinzi, quando Paolo scrive: Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia (7).  Sull’isola il regista rappresenta le vicende dello scrittore David che  trascorre le vacanze estive in compagnia del figlio Minus, della figlia Kårin - recentemente dimessa da una clinica psichiatrica - e del marito di Kårin, Martin. Ognuno di loro costituisce per gli altri una sorta di specchio, nel quale si riflettono le angosce e la difficoltà di comunicare di ciascuno. Nel confronto tra Karin, che crede di vedere Dio nella sua follia – è celebre l’angoscioso sogno in cui Dio si manifesta sotto forma di ragno – e David, che è un peccatore che ha sbagliato tutto nella sua vita, ma è disposto a con-vertire la sua anima, si gioca la dicotomia nel quale ogni uomo si dibatte quando si pone alla ricerca di Dio.  Cercare Dio come fa Karin, e come fanno in molti, non serve a niente, se non a vedere – come in uno specchio – le proprie deformità e le proprie distorsioni, che nulla aggiungono alla propria solitudine come condizione esistenziale.
   
   La ricerca sensata è invece quella di David – che ha perso e sbagliato tutto, ma che è disposto a mettersi in gioco, fino in fondo. E quando il figlio  gli chiede, angosciato: “Dio? Dammi una prova di Dio. Non puoi,”  il padre, David, risponde: “ Sì che posso. Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore… Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio o se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza.  E’ come essere graziati in punto di morte.”
      
   Il figlio, Minus, dimostra di aver capito, e risponde pensando alla sorella pazza: “Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo davvero.”
   
   Il secondo film della trilogia, Luci d’inverno, nacque invece, l’anno seguente, dopo che Bergman era rimasto profondamente colpito dal Diario di un curato di campagna, che Robert Bresson aveva tratto da Bernanos, rielaborando una vecchia idea sulla quale il regista rimuginava da anni e che prendeva lo spunto dalla scena di un uomo che entrato d’inverno, in una piccola chiesa di campagna, chiude la porta si avvicina all’altare e dice al Cristo: “ Resterò qui fino a quando non mi parlerai.”  

    
    Quel che ne venne fuori fu il film forse più drammatico, riguardo ai temi esistenziali, di quelli diretti da Bergman, un film che inizia e finisce con una funzione religiosa, e che mostra il dibattersi del pastore protestante Tomas Ericsson, solo di fronte ai dilemmi della fede, incapace di convertirsi realmente e di trovare risposte in Dio.  Luci d’inverno, che termina in sostanza con un nulla di fatto, fu all’epoca usato, allo stesso modo da coloro che ci vedevano una proclamazione di ateismo e da altri che all’opposto, lo leggevano come una confessione di fede, seppure drammatica e dubitativa.   Lo stesso Bergman non aiutò a decifrare il significato del suo film in un modo o nell’altro: pare che alla fine del manoscritto con la sceneggiatura di Luci d’inverno egli avesse apposto, di suo pugno, le parole Soli Deo Gloria (9).  

    Ma se davvero questo stesse ad indicare la ritrovata fede del pastore Tomas, è tutto da dimostrare.    Quel che è certo è che anche in questo film, Bergman si dichiara convinto che la fede in Dio non la si trova comodamente arroccati nelle formule liturgiche e nei dogmi, ma semmai essa “fiorisce nelle anime che hanno ormai conosciuto la disperazione più nera.”   (10) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

7.  Luigi Bini, Ingmar Bergman da “Come in uno specchio” a “Sinfonia d’Autunno”, Milano, Edizioni Letture, 1980, pag.13.
8.  Lettera ai Corinzi, 13, 12.
9. Questo particolare fu rivelato da Jorn Donner ne Il volto del diavolo, articolo su Cineforum del 1966, e confermato da Vilgot Sjoman, amico e portavoce del regista, intervistato dai Cahiers du Cinema, nel numero 165, del 1965, pag. 54.
10.  Così Guglielmo Biraghi, Luci d’inverno, Il Messaggero, 18 aprile 1963.

18/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (2./) 


  Questo sogno abitato divenne ben presto per il piccolo Bergman quello della immaginazione e dell’immagine, quando, a dodici anni, gli fu regalato un piccolo e rudimentale proiettore: la scoperta di una potenzialità nuova che permetteva di rielaborare magicamente il vissuto, ordinarlo e provare a dargli un senso.
   
  Non appena Ingmar fu capace di usare la sua arte, dopo averne imparato i fondamenti nella leggendaria Svensk Filmindustri dove il ragazzo cominciò a lavorare quando aveva soltanto ventiquattro anni, fu questo l’imperativo: ritrovare  in una stagione perduta ma viva ancora nella memoria, le sue idiosincrasie ma anche le sue passioni, e con esse la rielaborazione di una interpretazione complessiva sul senso dell’esistenza.

  Una attività infaticabile: ben 44 film, che possono tranquillamente leggersi come i capitoli di una profonda e consapevole vicenda umana, innumerevoli allestimenti in teatro,  con i migliori attori disponibili per reinterpretare Shakespeare, cinque diversi mogli e compagni di vita e di lavoro, come Liv Ullmann, una moltitudine di discepoli presunti o reali, e nessun vero erede.
    
   Titoli indimenticabili che hanno segnato come pietre miliari la storia stessa del cinema, dal primo vero successo,  Sorrisi di una notte d’estate, girato nel 1955,  al Settimo Sigillo, dell’anno seguente,  al Posto delle Fragole,  a Persona, negli anni ’60, Sussurri e Grida, Scene da un Matrimonio,  Il  Flauto Magico, L’uovo del Serpente, Sinfonia d’Autunno e Fanny & Alexander, una collezione di capolavori con i quali Bergman ha scandagliato con la precisione e la pazienza di  un entomologo il cuore umano.
   
   A partire da quel senso religioso e da quel silenzio di Dio  che il regista aveva ereditato – come tematiche costanti – dalla figura paterna.  La sua era una teologia della domanda bruciante, ha scritto Gianfranco Ravasi (4) dopo la morte di Bergman, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste.  Egli forse non scopriva mai una risposta che fosse suggello alla sua interrogazione insonne; a noi invece  - e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che cercano il senso dell’esistenza con un cuore che batte – gli squarci di luce erano emozionanti come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. 
   
   E sostanzialmente, il suo cinema era fatto essenzialmente di questo: “dubbi esistenziali, anticlericalismo, disperata ricerca d’amore, di un Dio che non è burocrazia, ma appunto amore.” (5)

    L’imprinting di questa rivolta radicale nei confronti di una religione di facciata, che può diventare strumento di oppressione e di persecuzione, e della ricerca di un senso più autentico del segreto trascendente insito nell’animo umano, è per Bergman pienamente rappresentato nel dato biografico: i temi del suo cinema in qualche modo non fanno che ripercorrere lo strappo con quel forte modello famigliare, messo in discussione violentemente da giovane: già dopo la maturità, come abbiamo visto, e dopo il servizio militare, Ingmar si iscrisse all’Università cominciando a occuparsi sistematicamente di teatro.  Intanto, aveva cominciato a convivere con una giovane attrice a Stoccolma.  Quando i genitori si accorsero che il giovane non dormiva a casa la notte, scoppiò una crisi furibonda.  Il padre lo picchiò, il ragazzo reagì con violenza, abbandonò la canonica e ruppe completamente i ponti con la famiglia per quattro anni, spostandosi al seguito di diverse compagnie, che giravano in lungo e in largo la Svezia.

   
    Questa cesura radicale con la famiglia – una famiglia che vantava una lunghissima tradizione di contadini e preti – segnò anche la svolta personale di Bergman, verso la consapevolezza, alla ricerca di una strada personale al termine della quale qualcuno arrivò a definirlo un ‘ateo cristiano’. (6)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


4.   Gianfranco Ravasi,  Come un  Getsemani del ‘900: domande brucianti di film in film,  pubblicato su: Avvenire,  31 luglio 2007.
5.  Così Sergio Trasatti, Ingmar Bergman,  Editrice Il Castoro cinema, collana diretta da Fernaldo Di Giammatteo, Milano, 1976.  pag. 3.
6. La definizione è di S. Trasatti, I. Bergman, op. cit. pag.3

05/04/14

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (3./)




Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (3./)

Si potrà obiettare che anche con queste parole, una definizione chiara non è ancora arrivata.  Ma Panikkar ha preferito semplicemente rispondere a questa domanda - cosa sono io allora? che in definitiva corrisponde a: in cosa credo, quale è la mia percezione di Dio ?  -  con tutta la sua vita.  Una vita che, come si è visto finora, è stata vissuta in rivolta a quella ossessione moderna che è la certezza, la dichiarazione di appartenenza. Per Panikkar essere cristiani vuol dire senza mezzi equivoci scoprire in e attraverso Gesù, figlio di Maria, il mistero di Cristo,  ma al contempo la creazione si produce ogni giorno, ogni giorno è qualcosa di assolutamente nuovo e imprevedibile.  
      Per questo vale la pena vivere: per dare inizio a qualcosa di nuovo, scrive Panikkar, Non è questione di ripetere il passato né soltanto di criticarlo. La religione non è archeologia, non è come prima; è nuova ogni giorno: lo Spirito fa nuove tutte le cose, costantemente. La novità però,  se è il risultato di una creazione non ha modello, non ha paradigma: ci dà la libertà, e pertanto la responsabilità di partecipare attivamente nel dinamismo della storia e della realtà.  (6)
     
La testimonianza di un pensiero – e di uno spirito – libero, emana anche dalla stessa figura di Panikkar, che ogni qual volta viene avvicinato per una intervista colpisce l’interlocutore per la luce del suo sguardo, per la eleganza sobria del suo vestire, per il modo con cui riesce ad esprimere, anche di fronte a numerose ed eterogenee platee, il suo pensiero, in forma semplice e diretta.
     
Anche in questo,  il segreto è forse nel coniugare la pazienza, la calma e la meditazione nel parlare degli orientali, con la capacità analitica degli occidentali, anche se ormai queste categorie di distinzione cominciano davvero ad apparire superflue in un mondo sempre più ‘accorciato’.
     Ho avuto la fortuna di avere una madre spagnola e cattolica e un padre indiano e induista, ha detto in una intervista del 2004,  per me è stato un meraviglioso arricchimento. Mi ha insegnato a guardare ogni realtà con l'occhio dell'apertura e dell'amore. Io sono un sacerdote cattolico, ma che cosa sarebbe il mio sacerdozio, se pensassi di appartenere esclusivamente a una setta religiosa nata solo duemila anni fa? Ogni uomo è il punto in cui si incontrano il divino e il creato. Ma oggi molti giovani respingono o ignorano il messaggio cristiano perché in realtà non sanno che cos'è. "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra... Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio...": queste sono le parole dette da Gesù nel Sermone della montagna. Basta ripeterle ai giovani ed ecco che loro scoprono le radici e il significato eternamente valido del messaggio cristiano. (7)
      
Il completamento del ciclo vitale di Panikkar – e al contempo del suo lungo e proficuo cammino di ricerca spirituale – si è manifestato nel 1987 quando dopo più di venti anni trascorsi a cavallo tra due continenti e due realtà del mondo contrapposte,  il filosofo ha fatto ritorno a casa, nella sua catalogna.   Tracciando un bilancio di quel ventennio così movimentato, Panikkar così lo ha sintetizzato: Trascorsi un quarto di secolo tra una delle città più ricche, dello stato più ricco, della nazione più potente, e l’esatto contrario (a dodici ore di fuso orario): una delle città più caotiche, in uno degli stati più ‘sottosviluppati’, di uno dei paesi più poveri del mondo: tra Santa Barbara, in California, negli Stati Uniti, e Varanasi, nell’Uttar Pradesh, in India. La mia vita interiore era, letteralmente, l’unico punto di unione tra due sfere della mia vita.

      

Il ritorno a casa ha coinciso con l’elezione a luogo dell’anima, di Tavertet, un paesino dei pre-Pirenei catalani, dov’era già stato una prima volta qualche anno prima.   Qui, oggi Panikkar vive da monaco, dedicandosi completamente alla preghiera, allo studio, e alla cura del suo centro studi -  chiamato Vivarium - diventato con il tempo punto di incontro e scambi interculturali. 

 (3./segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

      
5.     Il testo al quale si fa riferimento è pubblicato ne La stella del Mattino –  Laboratorio per il dialogo religioso, nuova serie – trimestrale n. 3 - luglio/settembre  2002.
6.     Raimon Panikkar, Esame di Coscienza in tre punti, pubblicato in www.dimensionesperanza.it
7.      Un guru moderno: Raimon Panikkar, intervista di Elena Missori, PerMe, n. 6 Agosto 2004.

04/04/14

Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (2./)






Dieci grandi anime. 7. Raimon Panikkar. (2./)

Quello che sperimentò Panikkar durante i lunghi vent’anni seguenti a quella prima visita in India, che trascorse vivendo soprattutto nella città santa di Varanasi, in una piccola casa sul Gange all’interno di un vecchio tempio di Shiva,  dedicandosi alla meditazione, alla preghiera, a studi biblici e vedantici comparati  è proprio che il messaggio religioso di Cristo non appartiene ad alcun particolare gruppo umano. Quindi lo stesso significato del nostro essere cristiani è sempre aperto a nuovi raggi di luce. (3)

A Varanasi, fra l’altro, Panikkar fondò la Abhishiktananda Society, collaborando con i monaci Jules Mochanin, Henri Le Saux  e Bede Griffiths, che erano stati pionieri del dialogo interreligioso tra il mondo indiano e quello occidentale.

Dopo qualche tempo, l’indubitabile evidenza di essere uno dei maggiori conoscitori cattolici del mondo orientale, portarono Panikkar ad essere chiamato nel 1966 nell’Università di Harvard come Visiting Professor di religione comparata  e quattro anni più tardi, nel 1971 ad essere insignito della cattedra di Filosofia comparata delle religioni all’Università di California, a Santa Barbara, incarico che ha ricoperto fino al 1987.

Prima c’erano state le lauree  conseguite:  quella in Scienze all’Università di Barcellona, nel 1941,  quella in Lettere all’Università di Madrid nel 1942 – e il dottorato ottenuto nel 1946 con una tesi intitolata: El concepto de Naturaleza -   e quella in teologia all’Università Lateranense di Roma, nel 1961. 

E ancora, un incessante susseguirsi di conferenze in giro per il mondo – sempre intervallati da lunghi soggiorni in India – seminari, premi e riconoscimenti conferiti da istituti di cultura e università di ogni continente, nell’arco di tempo di quarant’anni, hanno fatto di Panikkar un simbolo riconosciuto di  quella ricerca che, in campo spirituale, non si ferma all’apparenza dei riti e dei dogmi, ma si sforza di ascoltare ovunque la voce di Dio.  La religione non è per Panikkar, una ideologia o un  fatto già assodato, ma un’esperienza, non una teoria ma un’esperienza di vita per mezzo della quale l’uomo – senza preoccupazione né ansia – partecipa all’avventura cosmica. (4)

Una esperienza nella quale, però, esiste il rischio concreto di perdere o di confondere la propria identità. Molte volte, infatti, in questo lungo cammino di conoscenza e di pellegrinaggio spirituale, a Panikkar è inevitabilmente capitato di dover rispondere a richieste precise riguardo al contenuto della propria fede o delle proprie convinzioni religiose. Molte volte - in nome dell’ortodossia - gli è stata più o meno velatamente  contestata una opportunistica ambiguità.

Panikkar, però, anche su questo terreno insidioso, non si è mai tirato indietro.
       Spesso mi hanno domandato di parlare senza ambiguità e dire con chiarezza se io sono un indù oppure no, ha scritto in un testo (5), Se la persona chi mi interroga è cristiana, so molto bene che se rispondo di sì, ne dedurrà che non sono cristiano – e se è al corrente che sono un prete cattolico, presumerà che sono un apostata, che non sono più cristiano. Se dico "no", non sarei sincero e questa non sarebbe più una vera risposta. Lo spirito occidentale, che ha impregnato la mentalità cristiana – aggiunge Panikkar - è generalmente dominato (non riesco a trovare un termine migliore) dal "sacrosanto" principio di non-contraddizione (è il caso di S. Tommaso d’Aquino), secondo cui, se confesso di essere indù non posso essere cristiano, presumendo che i due siano contraddittori.

       Se è un indù a porre la domanda, ciò non sarà più facile per me. So bene che se rispondo "Sì" e so che questa persona è al corrente della mia appartenenza cristiana, immaginerà che io creda che tutte le religioni siano simili e che finalmente, sia una o l’altra non è importante. Presumerà che abbassi tutte le religioni poiché mi pongo al di sotto di tutte. Se dico "No", nuovamente non sarei sincero.

(2./segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 


3.     Questa e la citazione precedente sono tratte da: Raimon Panikkar, Vangelo e Zen, prefazione a Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen, di p. Luciano Mazzocchi e Jiso Forzani, edizioni Dehoniane, Bologna, 2001.
4.     J.M.Terricabras, Laudatio in onore di R.Panikkar, op.cit.

18/02/14

Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (2./)




Dieci grandi anime. 6. Pavel Florenskij (2./)

Il pensiero è un dono di Dio: davvero l’intera vita di Florenskij sembra santificare questo assunto.  Le scelte degli  anni a partire dal 1910 non furono facili. Alla serenità della vita privata – il ventottenne Pavel sposò nel 1910 Anna Michaijlovna Giacintova, che gli diede cinque figli, Vasilij, Kirill, Olga, Mikail e Marija-Tinatin  – corrispose un crescendo di difficoltà, dovute appunto al suo impegnarsi sempre più concretamente nella vita religiosa.  

Dal 1912, dopo esser divenuto Magister  in Teologia,  cominciò a svolgere infatti attività pastorale presso la Chiesa di Maria Maddalena e quella di direttore della rivista Bogoslovskij Vestnik (Messaggero Teologico).   Di pari passo procedeva la sua carriera accademica, con la pubblicazione di saggi – il monumentale La colonna e il fondamento della Verità, nel quale riassunse il senso e il significato storico della spiritualità russa – e la successione di corsi e conferenze, fino alla nomina nel 1921 a professore all’Accademia libera di cultura spirituale fondata da Berdjaev, dove teneva corsi di Analisi della spazialità nell’opera d’arte.

Questo incredibile  eclettismo – dal 1921 lavorò anche nei laboratori di ricerca della più grande compagnia elettrica del paese, pubblicò studi, brevettò nuove invenzioni, fece ricerche botaniche e di mineralogia – gli fece meritare, già dai suoi contemporanei,  l’appellativo di Pascal russo oppure di Leonardo da Vinci della Russia (4).

Ma questi anni di febbrile attività per Florenskij, sono anche gli anni in cui la Russia si incendiò al fuoco della rivoluzione d’Ottobre. Alle dieci di sera del 7 novembre del 1917 i bolscevichi attaccarono il Palazzo d’Inverno di Pietrogrado. Nei giorni che seguono venne formato il Soviet dei commissari del popolo, il primo provvisorio governo. Dopo la caduta di Mosca, la rivoluzione  rapidamente si estese a tutta la Russia. Il cambiamento di clima, per Florenskij e per quelli come lui, fu immediato.

Due anni dopo, nel Testamento, il 26 giugno 1919, scrive: 
      Cari figli miei, questo periodo della rivoluzione è stato talmente difficile che non si può nemmeno immaginare; è stato difficile, e lo è, e Dio sa quanto ancora durerà. Le epidemie, la fame, il costo della vita incredibilmente elevato, la mancanza di diritti, la possibilità di ogni genere di violenza, insomma tutto quanto ci si può immaginare di difficile non è mai mancato attorno a noi. (5)

In realtà questo è soltanto l’inizio. L’inizio di un lungo calvario personale per il “mistico scienziato”.

Le sue colpe, agli occhi di un sistema che iniziò ben presto a farsi intollerante nei confronti di qualsiasi tipo di dissidenza, furono la pubblicazione di vibranti libelli contro la dissacrazione generalizzata e violenta dei luoghi e degli oggetti sacri, perfino contro il cambiamento dei nomi e delle città e delle strade, in omaggio alla rivoluzione, contro quella che appariva a Padre Pavel come una totale distruzione dell’intero patrimonio della cultura russa.  

Nonostante alcuni avvertimenti, Florenskij venne risparmiato dalle prime ondate di arresti di presunti o veri controrivoluzionari, solo per la sua attività e i ruoli ricoperti in campo scientifico (era redattore della Enciclopedia Tecnica e membro di Direzione della Compagnia Elettrica), ma la situazione, in breve, precipitò anche per lui.  Il continuare ad essere un sacerdote, infatti,  nonostante la responsabilità di incarichi scientifici di così alta portata stava diventando intollerabile.  

Arrestato  una prima volta nel 1928 – e liberato grazie all’interessamento della moglie di Maksim Gorkij, tornò ad esserlo nel 1933 con l’accusa falsa di essere membro di una organizzazione clandestina controrivoluzionaria.  Stavolta però la condanna è durissima: dieci anni di lavori forzati e l’imposizione di continuare comunque l’attività scientifica.  Il passaggio per la Lubjanka fu, per Florenskij come per gli altri dissidenti, devastante: torture fisiche e psicologiche, un processo farsa, l’induzione ad auto incolparsi di reati inesistenti per salvare almeno qualche compagno di prigionia.   Dalla Lubjanka ai Lager il passo è breve: per Florenskij si aprirono dapprima le porte di quello di Skovorodino, in Siberia, poi – dopo un viaggio allucinante, quelle delle isole Solovki, di cui abbiamo già parlato, da cui si muoverà soltanto per andare incontro alla fucilazione.

(2./segue) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

4.     Queste notizie sono tratte dal saggio  L’arte della gratuità, di Natalino Valentini, introduzione a Non dimenticatemi, op. cit. pag. 13
5.     Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi, op. cit. pag. 415.     

21/02/13

Hans Kung sulle Dimissioni del Papa.





La crisi della Chiesa secondo il professor Hans Küng.  

Professor Küng, per lei che ha sempre contestato l'infallibilità papale, che valore ha il ritiro del Papa? 

«È una smitizzazione solo per tutti coloro i quali vedono nel Papa un vice-Dio in Terra, e non prendono in considerazione il fatto che anche il Papa è solo un uomo, e quindi per forza di cose il suo magistero è limitato dal Tempo».

Il ritiro è stato l'atto più importante del suo pontificato? 
«Presumo che il pontificato di Joseph Ratzinger resterà nella Storia della Chiesa perché egli è stato il primo Papa del tempo moderno che ha deciso di ritirarsi. Per questo resterà negli Annali».

Il ritiro e le parole di oggi del Papa aprono nuove speranze? 

«Apre la speranza che finalmente ora la crisi della Chiesa cattolica e del ruolo del Pontefice siano riconosciute anche in Vaticano. Il pericolo è che Ratzinger, restando a Roma, assuma di fatto un ruolo di un papa-ombra. Avrei preferito una sua scelta di ritirarsi in meditazione e preghiera in Baviera. Se resta in Vaticano contatti, colloqui sono inevitabili. È già imbarazzante se in una parrocchia il vecchio parroco resta accanto al nuovo, figuriamoci un vecchio papa accanto al nuovo».

Cosa si aspetta dal prossimo Conclave? 

«Può dare un impulso solo se i cardinali accettano l'analisi, esposta nel mio libro "Salviamo la Chiesa", e prenderanno atto della profonda crisi della Chiesa, anziché rimuovere ancora una volta il tema centrale della vita del cattolicesimo».

Quale ruolo giocherà Benedetto XVI, dopo le sue dure parole di oggi? 

«Non parteciperà al Conclave, ma spero che egli non giochi alcun ruolo nel nuovo Pontificato. Altrimenti finirebbe per creare lui nuove pericolose polarizzazioni tra sostenitori del nuovo Papa e seguaci del vecchio Papa. Ciò renderebbe impossibile un governo unitario della Chiesa».

Un Papa più giovane sarebbe auspicabile?

«Il nuovo Papa non dovrebbe essere troppo anziano, ma al tempo stesso non ha bisogno di essere giovane per poi restare Papa 20 o 30 anni. Un pontificato lungo porterebbe a una pietrificazione della Chiesa».

E sarebbe meglio un papa non europeo? 
«Da dove verrà, non è importante. Conta che non finisca per essere "romanizzato" e curializzato. Ratzinger non veniva da Roma ma è stato alla fine più romano dei romani e della Curia. Se un Papa tedesco o di colore finisce integrato nel sistema della Curia, la sua origine non serve».

Auspica che i futuri Papi si preparino a non restare Papi fino alla morte? 

«La regola dell'anzianità dei vescovi dovrebbe valere anche per il vescovo di Roma. A partire dal 75mo anno i vescovi devono offrire il proprio ritiro. Fu introdotta dal Cardinale Suenens. Gli chiesi perché avesse escluso il Vescovo di Roma, il Pontefice. Mi rispose che altrimenti non avrebbe raccolto una maggioranza. Adesso constatiamo quanto sia negativo che un Papa resti in carica troppo a lungo, o fino a un'età troppo avanzata».

Il suo bilancio di questo pontificato è negativo? 

«Temo che resterà nella Storia piuttosto con un bilancio negativo, con deficienze e limiti, e occasioni perdute. Il caso del vescovo antisemita Williamson, o il mancato accordo su una maggiore comprensione con le chiese ortodosse e protestanti».

Crisi delle vocazioni, esodo dei fedeli: la crisi della Chiesa è drammatica. Il nuovo Papa come dovrebbe affrontarla? 

«Diciamo in latino Ceterum censeo romanam curiam esse reformandam. Dipende se la Corte medievale-barocca vaticana potrà essere trasformata in una moderna, efficiente amministrazione centrale della Chiesa. Bisogna cominciare dalla base, e vedere che cosa ne verrà fuori. È illusorio pensare di riportare i cristiani nel sistema ecclesiastico attuale. La Curia romana era contro il Concilio Vaticano II prima che si tenesse, durante il Concilio ha impedito ciò che voleva, e dopo ha guidato la restaurazione con i devastanti effetti di crisi. Se questa Curia non verrà riformata e trasformata in centro efficiente, ogni riforma sarà impossibile. La Curia è l'ostacolo principale al rinnovo della Chiesa, a un dialogo ecumenico e a un'apertura al mondo moderno».

La sua analisi ricorda l'Impero sovietico poi crollato, pensa a processi simili? 

«Il destino dell'Unione sovietica, l'implosione, dovrebbe essere un monito, anche per il Conclave. Sarebbe anche importante che i cardinali non discutano isolati dal mondo. Soprattutto prima del Conclave. All'ultimo Conclave Ratzinger disciplinò tutti. Non deve ripetersi, ci vuole un'atmosfera di libera discussione nel collegio dei cardinali».

Andrea Tarquini per Repubblica. 

17/12/12

Meister Eckhart - Un mistico nel silenzio di Dio - di Giorgio Montefoschi.




Eckhart, un mistico nel vuoto di Dio
Per il «Meister» della Turingia il silenzio conduce alla Verità

Meister Eckhart - scrive Marco Vannini, il suo massimo studioso, nell'introduzione al «Commento alla Sapienza» contenuto nel volume in cui sono raccolti i Commenti all'antico Testamento (Bompiani, pp. 1548, € 35) - non ha mai pensato alla mistica, né tanto meno di essere un mistico, laddove per misticismo si intende un'esperienza intuitiva, segreta, del divino. Il padre domenicano nato attorno al 1260 in Turingia, priore nel convento di Erfurt, professore di teologia a Parigi, processato per eresia nel 1326, morto presumibilmente nel 1328, pensava che l'unico cammino possibile dell'uomo verso la verità che è Dio fosse il cammino della ragione. La ragione: l'intelletto è l'universale che è nell'uomo; il Logos generato da Dio che è nel mondo e all'interno di ogni uomo: di un pagano come di un cristiano, di un musulmano come di un ebreo.

Per poterlo conoscere, l'uomo giusto deve distaccarsi dal determinato, da quello che vede con i suoi occhi, pensa con il suo pensiero, ama con la sua volontà e insegue con il suo desiderio. Deve distaccarsi dal tempo e dal proprio io e pervenire a quel «fondo dell'anima» dove è assoluto silenzio e nulla, ma dove finalmente zampilla ciò che abbiamo di più profondo. «A stento valutiamo le cose terrestri, a fatica scopriamo quelle davanti agli occhi? Ma chi può rintracciare le cose del cielo?», recita la Sapienza in uno dei suoi versetti più sublimi. Le «cose del cielo», risponde Eckhart, ci appaiono quando un silenzio le avvolge; quando l'anima riposa dal tumulto delle passioni e dalle occupazioni mondane, tutte le cose per essa tacciono ed essa tace per tutte. «Lì», dice Agostino, il più citato da Eckhart, «è il luogo della quiete che non conosce turbamento», ed è lì che l'uomo deve porre la sua dimora. Dice Giobbe: «In visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul giaciglio, allora apre i loro occhi e li ammaestra». Se vuole le «cose del cielo», e sentire la piena unione con Dio che vive nel nostro cuore, l'uomo deve annullarsi al di là di ogni possibile concezione umana dell'annullamento. Non si tratta soltanto di non invocare Dio con immagini terrene e del tempo; anche la sola invocazione muta, il solo desiderio di essere in comunione con Dio ci fa piombare nella determinazione e nelle cose finite. Dio, invece, è indeterminabile, non numerabile, Uno. Epperò è nel nostro cuore: è in noi. Quindi, come Lui genera e crea la Parola che prende forma nel mondo, anche noi generiamo e creiamo, continuamente - una idea immensa - purché ogni sapere umano sia rimosso. È un punto fondamentale. 

Se si domanda perché Dio abbia creato tutto, cioè l'universo - dice Eckhart - bisogna rispondere: «Perché fosse». Dio fece tutte le cose perché fossero, cioè perché avessero l'essere all'esterno, nella realtà naturale, sebbene fossero in lui (come le idee di Platone) dall'eternità. Dunque, il fine è l'essere. E la generazione - ne consegue - è amore. Quindi noi proseguiamo l'amore.

06/11/12

Che fine hanno fatto i "grandi atei" ?






Sono convinto che la progressiva scomparsa della grande fede individuale (cioè degli uomini con grande fede individuale, interiore e pubblica) sta portando nella nostra porzione di mondo, come contraltare alla progressiva scomparsa dei grandi atei. 

La corrente dei grandi atei ha prodotto nella storia delle idee, della letteratura, della filosofia, della teologia,  grandi intelligenze, capaci di analizzare con lucidità ed erudizione, con un pensiero realmente profondo, le buone ragioni della confutazione della credenza religiosa e dell'ateismo.

E il confronto con i grandi spiriti credenti ha prodotto il crogiolo delle idee che hanno alimentato per duemila anni  il pensiero Occidentale.

Anche oggi esistono grandi atei, capaci cioè di dimostrare di sapere ciò che si dice, che sanno argomentare, e che hanno fatto buone letture. Ma sono sempre di meno.

Un sintomo della scomparsa delle ragioni dell'ateismo - riguardo alla fede, e alla questione della/sulla esistenza di Dio/ di un Dio è ad esempio la pubblicazione di un grande gruppo editoriale, pubblicizzata in questi giorni, denominata: Le grandi domande della filosofia e curata da Maurizio Ferraris.

Le domande ci sono tutte - felicità, arte, uguaglianza, bellezza, senso, scienza, pensiero, potere, violenza - meno una: Dio. Esiste Dio o no ? Questo, a quanto a pare, secondo Ferraris non è un tema molto interessante, nonostante la Filosofia se ne occupi da circa 3.000 anni. Eppure sembrerebbe proprio che la quasi totalità della risposta a queste domande dipenda dalla risposta che diamo - o non diamo - a quella.

Scomparsi dunque i temi - e a quanto pare la stessa questione -  di/su fede/ateismo, si assiste invece alla proliferazione di uno pseudo-ateismo piccolo e posticcio, incolto e indistinto, fatto di convinzioni e convenzioni banali, senza nessuno spessore.

La maggior parte degli uomini di oggi non sono tanto atei o non credenti, quanto increduli, scriveva Norberto Bobbio,  ma colui che è incredulo non è fuori dalla sfera della religione. [...] Lo stato d'animo di chi non appartiene più alla sfera del religioso non è l'incredulità, ma l'indifferenza, il non saper che farsene di queste domande. Ma l'indifferenza è veramente la morte dell'uomo

Fabrizio Falconi