29/06/13

Il Dna di Arthur C. Clarke va nello spazio. Come in una avventura della sua Odissea.




2014, Odissea nello Spazio per il Dna di Arthur Clarke: prima di morire, il maestro della fantascienza ha donato alcune ciocche di capelli che voleranno a milioni di chilometri dalla Terra nella prima missione a vela solare della Nasa. 

Il Dna di Clarke viaggera' su una navicella battezzata Sunjammer, dal titolo di un suo racconto del 1963 su una regata di yacht a vela nello spazio.

Il volo, in previsione alla fine del prossimo anno, e' organizzato da Celestis, una societa' che offre "viaggi spaziali alla memoria" in cui resti cremati del 'caro estinto' vengono lanciati nello spazio.

Salire con l'autore di 2001 Odissea nello Spazio sul Sunjammer costera' oltre 10 mila dollari. 

La vela solare, progettata da scienziati inglesi e americani ispirandosi a un'idea che risale addirittura a Keplero in una lettera a Galileo Galilei, avra' una superficie di oltre 1000 metri quadrati e utilizzera' la pressione della luce e del vento solare per studiare il Sole da una distanza mai raggiunta prima. 

Attualmente le navicelle che osservano il Sole sono a circa un milione e mezzo di chilometri dalla Terra, mentre Sunjammer si muovera' a tre milioni di chilometri verso il centro del sistema solare. 

I sensibili strumenti di bordo forniranno agli scienziati un preavviso di quelle tempeste solari in grado di produrre flussi di particelle pericolosi per satelliti e le reti elettriche sulla Terra. 

"Clarke ha sicuramente immaginato che avrebbe volato nello spazio e quel giorno e' finalmente arrivato", ha detto Stephen Eisele, vice president of Space Services Inc., la holding da cui dipende Celestis. 

Charles Chafer, amministratore delegato della societa', ha detto di aver incontrato Clarke a una conferenza dell'Onu sullo spazio nel 1982: "Adoro la fantascienza da quando ho letto 2001. Nel 2000, quando abbiamo cominciato a lavorare al progetto della vela solare, l'ho contattato per chiedergli di donarci il suo Dna. Siamo andati a Sri Lanka apposta per questo". 

In un biglietto che accompagna la ciocca, Clarke scrisse: "Ecco i miei quattro peli, avrei voluto dare di piu' ma non me ne restano molti"

Lo scrittore e' morto nel 2008 a 90 anni lasciandosi dietro oltre cento romanzi: oltre al piu' famoso 2001 Odissea nello Spazio, i libri del Ciclo di Rama.

fonte Alessandra Baldini per ANSA

27/06/13

Le avventure della Verità - La grande esposizione curata da Bernard-Henri Levy alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence.




E' l'esposizione piu' attesa dell'estate in Francia e il suo ideatore e curatore e' il filosofo piu' mediatico di Francia, Bernard-Henri Levy: 'Le avventure della verita'. 

Pittura e filosofia: un racconto', un percorso inedito e ambizioso sul rapporto tra arte e filosofia, si apre sabato alla Fondation Marguerite et Aime' Maeght diSain-Paul de Vence, in Costa Azzurra, uno dei maggiori centri d'arte moderna e contemporanea, inaugurato nel 1964 dal grande ministro della Cultura, Andre' Malraux. 

 Partendo dalla celebre condanna che Platone fece dell'arte, imitazione della realta' sensibile e quindi del mondo delle idee, si apre un percorso in sette tappe scandito dalla filosofia di Hegel, Nietzsche, Kant, Heidegger, con opere - in tutto 126, provenienti dal mondo intero - di Anselm Kiefer, De Chirico, Jean-Michel Basquiat, Tintoretto, Jackson Pollock, Cranach il Vecchio, Rothko, Warhol, Bronzino, e tanti altri.

C'e' anche il contributo di venti artisti contemporanei, tra cui Jeff Koons, Anish Kapoor e Marina Abramovic, che hanno accettato di leggere, davanti alla telecamera di Levy, alcuni testi filosofici, oltre a un imponente catalogo-libro. 

"Il risultato e' conforme a quello che speravo - dice all'ANSA Bernard-Henri Levy, 64 anni, occupato a ultimare l'allestimento dell'esposizione -. Tre condizioni sono riunite: fare onore alle opere, rispettare il luogo della mostra (la Fondation Maeght e' un'opera d'arte in se' tra la corte Giacometti, il labirinto Miro', i mosaici murali di Marc Chagall e le vetrate di Braque, ndr.) e restare fedeli alla problematica dell'esposizione". 

Alla prima esperienza come curatore, Levy aggiunge: "Sono molto felice e molto commosso nel vedere apparire insieme queste opere che avevo visto solo separatamente ma anche molto ansioso perché anche se il piano di questa esposizione era nella mia testa da mesi, una cosa e' averlo in testa e un'altra averlo sulle pareti". 

La mostra e' una storia della verità, prosegue il filosofo n.1 di Francia, "ma la verità concepita non come sostanza ma come orizzonte e questo orizzonte presuppone un cammino che e' avventuroso, fatto di avanzate e ritirate, sorprese e momenti di stallo, insomma e' un'avventura". Il percorso espositivo e' "sincronico", nel senso che non ha un senso cronologico e si sviluppa secondo "momenti" che si integrano e si incrociano. 

Si apre con un'opera dell'artista genovese Giulio Paolini dal titolo 'Mimesi' che rappresenta due sculture di gesso, una di fronte all'altra, equivalenti, "come se l'una fosse il riflesso dell'altra" e si chiude con un dipinto di Basquiat, 'Il profeta'. 

Ansel Kiefer ha realizzato appositamente per l'occasione una reinterpretazione dell'Origine del mondo di Gustave Courbet. "Il messaggio della mostra - osserva il curatore - e' che la verita' dev'essere la nostra preoccupazione comune altrimenti non c'e' civilizzazione possibile". E conclude: "L'arte, insieme alla filosofia e alla storia, ha sempre avuto un posto centrale nella mia esistenza. Quello che mi colpisce dell'opera oltre alla bellezza e' la capacita' di rendere le persone piu' intelligenti".

25/06/13

Di cosa è fatta la nostra paura.




Di cosa è fatta la nostra paura ?

In cosa consiste esattamente ?  La nostra paura è un insieme di paure.  Alcune ci servono per vivere.  Se non provassimo alcune paure, saremmo destinati all'autodistruzione. 

Sono dunque, fisiologiche. 

Altre sono invece, le avvertiamo invece, come zavorre. 

Sentiamo che queste paure rappresentano il modo che il nostro io interiore ha per bloccare ogni cambiamento, ogni crescita ogni possibile evoluzione.  Il rischio del cambiamento è ciò che più ci atterrisce anche se siamo coscienti che - come ha scritto Krishnamurti - l'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento.

Proprio per questo, nel flusso permanente che ha ed è la vita - dove ogni cosa mai si riposa - noi sentiamo il bisogno di creare permanenza, di costruire qualcosa che ci illudiamo non cambi, qualcosa che resti sempre, che non sia mutevole e cedevole come ogni cosa della vita dei viventi. 

Per bloccare dunque il flusso che ci spaventa, le nostre paure ci impongono di aver paura e di fermarci in tempo.   Bloccati dalla paura e dalle paure, ci sentiamo in fondo più sicuri. 

Eppure, come insegnano le diverse psico-analisi - e come insegnano anche le religioni tradizionali - ogni cambiamento è possibile solo se e in quanto siamo disposti ad attraversare le nostre paure.  Le nostre zone d'ombra, come vengono chiamano nella terminologia junghiana. 

Per affrontare le nostre paure occorre il coraggio: la virtù umana che Michel Serres ha definito quella oggi più importante. 

Il coraggio non può essere dato.  

Il coraggio è una qualità umana che sperimentiamo soltanto nella concretezza della nostra vita.  Nessuno, in assoluto, può dirsi un vile o un coraggioso.  Il fatto di esserlo - e di esserlo con se stessi - deriva fondamentalmente da ciò che decidiamo di essere di momento in momento, nel flusso delle nostre vite.

Il giudizio - e l'autogiudizio - ci paralizzano. Soprattutto perché siamo abituati a non dare un volto alle nostre paure, a non parlarne, e a far finta che non esistano. 

Le paure, invece, se vogliamo affrontarle, debbono per prima cosa essere riconosciute.  Accettate.  Non negate, non rimosse. Siamo esseri animali dotati di istinto: la paura fa parte di noi.  Siamo esseri dotati di spirito - ciascuno ne è provvisto, ciascuno nasce diverso da un altro, la nostra individualità unica e irripetibile E' spirito - e di coscienza: la coscienza  e lo spirito ci aiutano a riconoscere e ad accettare le nostre paure. 

A tenerle vicino, a non averne paura.

Solo così, la coscienza e la paura, non negandosi a vicenda, realizzeranno insieme il fine della vita, che è il cambiamento consapevole. L'essere consapevoli del cambiamento.  L'essere capaci di cambiare restando sempre consapevoli di sé.

Fabrizio Falconi


22/06/13

"La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, un film deludente e mortifero.




Il talento espressivo indiscutibile di Paolo Sorrentino si è avvitato in un film dalle grandi ambizioni, inutile.

Cosa ha da dirci La grande bellezza ? Cosa ha da dirci che non possiamo già sapere accendendo la TV o cliccando su Dagospia e su Cafonal ? 

Cosa ha da raccontarci di Roma, che si supporrebbe essere la protagonista del film, e soprattutto di noi ?

Sorrentino mette in scena un disfacimento esteriore - quello di una città e più in generale di un paese - al quale corrisponde un disfacimento interiore, di Gep, del protagonista e di tutto il coro: una specie di entusiastica dissoluzione, di una compiaciuta perdizione. 

Nulla ha più senso ci dice Gep-Sorrentino e l'unica nostra possibilità è quella di organizzarci una serata. 

Possibilmente rimbambirci con qualche deterrente artificiale, con l'eros, con un drink, con una sniffata, con un discorso inconcludente, con una passeggiata all'alba mentre tutti dormono. 

I corpi sono deformi o in putrefazione. Come le coscienze. 

La tirata di Gep contro la moralista di sinistra e contro l'episcopo e la sua presunta fede, sono il manifesto di un nichilismo consapevole e compiaciuto che non vede altro orizzonte se non quello della propria di-sperazione e altro sogno se non quello della propria sparizione. 

Ma in tutto questo si intravvede qualcosa di nuovo ? Qualcosa che già non sappiamo ? Questo è il panorama  che tutti i giorni abbiamo di fronte, lo sappiamo tutti.  

Ma un artista, un autore, forse dovrebbe essere capace di andare oltre.

Oltre il proprio compiacimento. Ne La grande bellezza c'è un grande, barocco, eccessivo compiacimento: che bello (ma a che serve, a che fine artistico serve?) che il direttore di Gep sia una nana! Che bello che la vecchia santa sia un cadavere ambulante, una sorta di Tutankhamen che spaventa i bambini.  Che bello che le performances artistiche cui Gep assiste siano una tedesca che prende a capocciate a sangue i monumenti di Roma o una ragazzina che sembra uscita dall'Esorcista che schizza colori su una parete.

Che bello che le vecchie matrone abbiano il corpo sfatto e devastato di Serena Grandi...  Che le feste con i trenini ci portino tutti gli orrori della volgarità umana. 

Ma dopo ? Ma poi ?   

Sorrentino ha in mente Fellini, è fin troppo esplicito. 

Ma Fellini aveva già fatto TUTTO quanto ha fatto Sorrentino - la Saraghina ha 50 anni più di Serena Grandi, è venuta 50 anni prima - con la semplice differenza che il genio di Fellini era capace di trasformare anche l'orrore, la volgarità e la miseria umana in poesia. 

La poesia è anche e soprattutto vita. 

Negli anfratti de La Dolce Vita la gioia pullulava sotto la disperazione di Marcello. La vita premeva. 

La Grande Bellezza è invece solo un compiaciuto paradigma di morte.  

La poesia, che dovrebbe essere relegata alle scene sontuose di Roma, è avvilita e povera, non spicca mai il volo. Tra l'altro, Sorrentino ci ripropone anche un catalogo delle bellezze di Roma molto scontato,  molto visto (il Marforio, l'occhio dell'Aventino, la prospettiva di Palazzo Spada,  la Fornarina), sembra Roma vista dall'occhio di un provinciale: quale è in fondo Gep, un campano trapiantato a Roma come Sorrentino. 

Anche Fellini era un parvenu, un provinciale. Ma la differenza è proprio questa: Fellini aveva contribuito a creare con il suo genio, con la sua arte, la Roma di quegli anni che ha deciso di raccontare nei suoi film. Sorrentino invece non crea nulla. E' un visitatore di passaggio, come ne ha avuti Roma  a centinaia di migliaia nella sua lunga vita: un cronista, per lo più enormemente affascinato a raccontare soltanto il trivio e il mortifero, come piace fare del resto, ai cronisti. 

Fabrizio Falconi.

20/06/13

Simone Weil: "Accettare che l'avvenire si compia, non aggrapparsi al passato."




Simone Weil, A proposito del «Pater» (estratto).

E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori 

Al momento di proferire queste parole occorre che i nostri debiti siano stati tutti rimessi. Non si tratta soltanto della riparazione alle offese che pensiamo di aver subìto. 

Si tratta anche della riconoscenza per il bene che crediamo di aver compiuto, e in generale di tutto ciò che ci aspettiamo da parte degli esseri e delle cose, di tutto ciò che giudichiamo ci sia dovuto e la cui mancanza susciterebbe in noi il sentimento di essere stati frustrati. 

Sono tutti i diritti che a nostro avviso il passato ci dà sull'avvenire. In primo luogo, il diritto a una certa permanenza. 

Quando abbiamo goduto di qualcosa a lungo, crediamo che sia di nostra proprietà, e che la sorte sia tenuta a lasciarcene godere ancora. 

In secondo luogo, il diritto a una compensazione per ogni sforzo, quale che ne sia la natura – lavoro, sofferenza o desiderio

Ogni volta che esce da noi uno sforzo e non rientra in noi l’equivalente di questo sforzo sotto forma di un frutto visibile, avvertiamo un sentimento di squilibrio, di vuoto, al punto di sentirci come derubati.

Lo sforzo di subire un’offesa ci induce ad aspettarci il castigo o le scuse di colui che ci ha offesi; lo sforzo di compiere il bene ci induce ad aspettarci la riconoscenza di colui che è in obbligo.

Ma questi sono semplici casi particolari di una legge universale della nostra anima. Ogni volta che esce da noi qualcosa, abbiamo un bisogno assoluto che rientri in noi almeno l’equivalente, e siccome ne abbiamo bisogno, crediamo di averne il diritto.

Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose l’universo intero. Pensiamo di aver crediti su ogni cosa. 

Ma tutti i crediti che crediamo di avere sono riconducibili a un credito immaginario del passato verso l’avvenire. 

È a questo credito immaginario che bisogna rinunciare. 

Aver rimesso ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato. 

Significa accettare che l’avvenire sia ancora vergine e integro, rigorosamente congiunto al passato con legami a noi ignoti, ma del tutto libero da quei legami che la nostra immaginazione presume di imporgli. 

Significa accettare altresì la possibilità che l’avvenire si compia, e in particolare che ci accada qualsiasi cosa, e che il domani renda sterile e vana la nostra vita passata. 

Rinunciando d’un sol colpo a tutti i frutti del passato, nessuno escluso, possiamo chiedere a Dio che i peccati da noi commessi non portino nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errori. 

Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire che in noi avvenga questa orribile fruttificazione. 

E attaccandoci al passato, è inevitabile che ci attacchiamo ai nostri crimini, giacché quanto di più essenzialmente cattivo risiede in noi ci è sconosciuto. 

Il credito principale che pensiamo di possedere sull’universo è la permanenza della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri.

L’istinto di conservazione ci fa sentire questa permanenza come una necessità, e noi riteniamo che una necessità sia un diritto. 

Al pari di quel mendicante che disse a Talleyrand: «Signore, bisogna pure che io viva» e al quale Talleyrand rispose: «Non ne vedo la necessità». 

La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla. 

Ma preferiremmo morire piuttosto che riconoscerlo. Per noi l’equilibrio del mondo è un concorso di circostanze tali da lasciare intatta la nostra personalità, come se ci appartenesse

Tutte le circostanze che in passato l’hanno ferita ci sembrano rotture di equilibrio che un giorno o l’altro dovranno essere infallibilmente compensate da fenomeni di segno contrario. 

E viviamo nell’attesa di queste compensazioni.

L’imminenza della morte suscita in noi orrore soprattutto perché ci costringe a renderci conto che tali compensazioni non avranno mai luogo.

La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità

È rinunciare a tutto ciò che chiamiamo «io». Senza eccezioni. Sapere che nel cosiddetto «io» non c’è niente, nessun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far sparire. Accettare tutto ciò. Essere felici che così sia. 

Le parole «sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano già tale accettazione. Per questo subito dopo è possibile proferire: «noi abbiamo rimesso ai nostri debitori». 

La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. 

Se accettiamo pienamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi. 

Perché chiedergli di rimettere i nostri debiti equivale a chiedergli di cancellare il male che è in noi. 

Il perdono è la purificazione. Dio stesso non ha il potere di perdonare il male che è in noi e che in noi persiste. 

Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha posti nello stato di perfezione. Fino allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi rimettiamo ai nostri debitori.

18/06/13

La leggenda di Jung antisemita.



Siccome si torna a discutere ancora oggi di un presunto antisemitismo di Carl Gustav Jung (mi è capitato anche di recente di leggere nel libro di memorie Prima di andarsene Saul Bellow una definizione di Jung come "antisemita pazzo" ), pubblico questo articolo definitivo di Paolo Ferliga sul sito di Claudio Risé che ricostruisce punto per punto la vicenda e chiarisce una volta per tutte la questione.  

Capita ancora oggi di leggere che Carl Gustav Jung (psichiatra e psicologo svizzero vissuto tra il 1875 e il 1961, fondatore della Psicologia Analitica), sarebbe stato antisemita e nei primi anni Trenta avrebbe addirittura simpatizzato per il nazismo. 

 Queste accuse, particolarmente pesanti nei confronti di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla cura della psiche, sono del tutto infondate, smentite dagli scritti, dai comportamenti e dai numerosi pazienti e collaboratori ebrei di Jung. 

Per quanto riguarda gli scritti l’accusa si riferisce ad alcuni articoli degli anni 1933/34 in cui Jung parla di psicologia semitica o ebraica e di psicologia ariana o germanica. (1) L’uso di questa terminologia sarebbe una prova del razzismo intrinseco al pensiero di Jung. Per chi conosca il dibattito interno al movimento psicoanalitico l’uso di tali termini però non sorprende. Lo stesso Freud infatti riconosce più volte una differenza tra “anima ebraica” e “anima ariana”. Nel 1908, ad esempio, parla della sua “parentela razziale” con l’ebreo Abraham e di come “i nostri compagni ariani” siano indispensabili per sottrarre la psicoanalisi alla morsa dell’antisemitismo. (2) 

Nel ‘26 inoltre scrive che, pur non essendo credente, si sente attratto in modo irresistibile dall’ebraismo e dagli ebrei, mosso da “molte oscure potenze del sentimento” e dalla “familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica”. (3) Anche Freud riconosce quindi una specificità psichica connessa all’appartenenza “razziale”. Il termine razza, in quegli anni, non ha ancora assunto quell’alone semantico negativo e terribile che gli verrà conferito dal nazismo. Mentre Freud però non affronta questo problema a livello teorico, Jung si propone di indagare le “oscure potenze del sentimento” che spingono il singolo a sentirsi attratto dall’appartenenza al proprio popolo ed alla sua tradizione e di verificare se esista una “medesima costruzione psichica” correlata alle differenze etniche tra gli uomini.

In questa indagine Jung scopre che la psiche di una persona non è condizionata soltanto dalla sua storia individuale e familiare, ma anche dalla storia collettiva, dall’appartenenza ad una comunità e dalla relazione con la terra in cui la comunità vive.

Nell’inconscio collettivo infatti si depositano i miti, i simboli, le tradizioni di un popolo. Per questa ragione Jung parla anche di un carattere etnico della psiche e quindi di una differenza tra psiche ebraica e psiche germanica. Proprio la scoperta dell’inconscio collettivo e degli archetipi, che ne costituiscono la struttura, permette a Jung di intuire già nel 1918 il potenziale distruttivo dell’anima germanica. Nello scritto Sull’inconscio sostiene infatti che con il venir meno dell’autorità del cristianesimo “la bestia bionda …minaccerà di erompere con effetti devastanti”. (4)

Jung pensa però che l’inconscio dei tedeschi contenga non solo un elemento anticristiano e barbarico potenzialmente distruttivo, ma anche il suo opposto, un’energia in grado di promuovere un rinnovamento culturale e spirituale. Questa convinzione continuerà ad operare in Jung fino al 1933/34, quando ancora si illude che la terra di Goethe, di Beethoven e di Hegel, “uno dei paesi civilizzati più evoluti del mondo” (5), non si consegnerà mani e piedi alla barbarie nazista

I dubbi che Jung condivideva con molti intellettuali della sua epoca lo porteranno così a sottovalutare, in quegli anni, gli “effetti devastanti” del nazismo da lui stesso lucidamente previsti nel 1918. Forse per questa sottovalutazione Jung non si rende conto che i concetti di psicologia ebraica e germanica, negli anni in cui il nazismo utilizza il concetto di “razza ebraica” per giustificare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, si prestano a pesanti fraintendimenti e strumentalizzazioni. Di qui le accuse di antisemitismo e addirittura di simpatia per il nazismo di cui abbiamo parlato all’inizio. 

Jung risponderà a queste accuse in modo organico in tre scritti: Dopo la catastrofe, Commenti sulla storia contemporanea (1945) e Contributi ai “Saggi di storia contemporanea” (1946), (6) in cui presenta gli sviluppi del suo pensiero e un’analisi del nazismo come psicosi di massa. Ma già nel 1936 il saggio Wotan (7) suona come critica spietata del nazismo, analisi precisa e forse non ancora sufficientemente compresa delle sue cause profonde. 

Paolo Ferliga 
Docente di Filosofia Psicologo analista 

16/06/13

Cristo, il proto-femminista.






La lettura dei Vangeli di oggi, quello di Luca, è di modernità impressionante: emerge il Cristo proto-femminista che conosciamo e che forse abbiamo dimenticato. Nessuno, prima di lui ha usato queste parole per le donne, ha restituito dignità, considerazione, rispetto, amore per le donne. 
Non donne di potere, non imperatrici o regnanti, ma donne qualsiasi. Comprese le donne che nella accezione di ieri, e anche di oggi, sono assise sull'ultimo gradino della dignità umana.

Lc (7-36-8,3)

Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 

Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. 

Vedendo questo, il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». 

Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». 

«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 

E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». 

Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». 

Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». 

Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». 

In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni.




13/06/13

Cinismo e Poesia - Un intervento di Valerio Magrelli.





Nel disincanto generale un cadavere eccellente: la poesia della vita.


E' possibile che il cinismo della vita italiana abbia cancellato la presenza della poesia ?

Tutto sta ad intendersi sul senso delle parole. Iniziamo dalla prima, che anticamente riguardava una corrente del pensiero greco rivolta alla libertà interiore e all'austerità dei costumi, proprio in opposizione alla corruzione del potere politico.

Non per niente i suoi rappresentanti erano accusati di vivere come cani (da cui l'etimo), seguendo un'esistenza randagia, autonoma, sdegnosa dei bisogni materiali e fedele al rigore etico (basti pensare a Diogene).


Ebbene, per una beffa del destino, il nome di simili asceti (i predecessori dei nostri punkabbestia) ha finito per designare esattamente l'opposto: da equivalente di morale, il termine cinico è divenuto sinonimo di "indifferente al prossimo".


Ma ritornando all'accezione attuale, appare indubitabile chiamare la nostra una società cinica, ossia senza cura per gli altri (o meglio, per il loro dolore). D'altronde è il minimo che ci si possa attendere da popolazioni che subirono quattordici secoli di invasioni (476-1870). 

"Ahi serva Italia", scriveva Dante: ebbene, nessun aggettivo spiega meglio come un'esperienza di sottomissione più che millenaria, sia darwinianamente divenuta patrimonio genetico, amputazione di ogni senso della collettività, egoismo. Se ciò è vero, però, bisogna ammettere che negli ultimi anni tale cinismo atavico ha assunto una durezza inedita, dovuta a due atteggiamenti senza precedenti; da un lato la fiera rivendicazione del reato, dall'altra l'estinzione della vergogna come sentimento sociale.

L'emblema di queste disgustose novità per me risale a una barca battezzata Mascalzone Latino.

Ma sì, perché continuare a chiedere scusa per falso in bilancio, corruzione, esportazione di valuta ? Tanto vale vantarsi della nostra furbizia levantina. Sarà stato un caso, ma poco prima, alla Fiera del Libro di Francoforte, alcuni sciagurati scelsero come stemma nazionale Pulcinella...

In tutto ciò, che può fare la poesia ? 

Anche in questo caso si tratta di capirsi. La poesia come ricerca letteraria, arte del linguaggio e del pensiero, ha una sua vita catacombale, sotterranea, che non può in alcun modo modificare la società.

Ma a ben vedere, la parola poesia possiede anche un'altra sfumatura.  Il dizionario, infatti, parla di un carattere attribuibile a ogni atteggiamento in grado di elevarsi "al di sopra del quotidiano".  In tale prospettiva essa si lega allora a termini quali grazia, comprensione, compassione, umanità, empatia - esatto opposto del cinismo in quanto disinteresse verso il prossimo. 

Esiste insomma una poesia dell'agire umano, un tempo definita filantropia ("amore per l'uomo"), di segno etico, anzi, etologico, cioè connessa al comportamento che adottiamo verso i nostri simili. 

Forse potrebbe essere proprio questo, l'antidoto al cinismo del nostro tempo: ciò che il filosofo Michel Tereschenko ha chiamato "valori dell'aiuto" e che in definitiva potremmo tradurre come "poesia dell'altruismo". 

E' a questo sentimento che appartiene ogni forma di volontariato, di impegno e dedizione.

Ecco, se in qualche modo la poesia può aiutare a contenere il cinismo, è attraverso una particolare accezione del termine poien, dal greco  "fare": fare qualcosa che non sia solo per noi stessi. 

Rispetto al cinismo della carriera e dell'accumulo, dell'opportunismo e della competizione, questa poesia dovrebbe costituire un sovrappiù di solidarietà.

Valerio Magrelli - Il Venerdì di Repubblica, 7 giugno 2013.  


11/06/13

Adriano Olivetti, un visionario. "Il viaggiatore" Radiouno.



Adriano Olivetti è stato forse il più visionario dei nostri imprenditori del Novecento. Il sogno di unire solidarietà, bellezza, fantasia e profitto.

E tornare ad occuparsi di questa figura vuol dire tornare ad interrogarsi su alcune domande cruciali per i nostri giorni. È possibile, per esempio, concepire un’azienda capace di mettere insieme solidarietà e profitto, bellezza e produttività di serie, tutela dei lavoratori e apertura ai problemi sociali, creatività e rigore? Olivetti riuscì a conciliare valori che in apparenza sembrano incompatibili. Una visione che oggi può esserci di aiuto nella ricerca di una via per uscire dalla crisi.

Di questo si è occupato una bellissima puntata del Viaggiatore di RadioUno, condotta da Massimo Cerofolini e scaricabile in podcast qui:

Al centro della trasmissione il libro delle Edizioni di Comunità, che raccoglie dieci tra i più interessanti discorsi dell’imprenditore di Ivrea, morto nel 1960 durante un viaggio in treno. 

Alla trasmissione sono intervenuti: Beniamino De’ Liguori, della Fondazione Olivetti e responsabile delle Edizioni di Comunità; Riccardo Luna, organizzatore di Next, la maratona degli innovatori in corso a Firenze; Gioia Pistola, fondatrice di Atooma, una start up premiata nel mondo per le sue app innovative; Riccarda Zezza, ideatrice di Piano C, il coworking che assiste le lavoratrici con educatrici per i bambini e assistenti tuttofare; Davide Canavesio, imprenditore che paga i suoi dipendenti per fare volontariato; Luigino Bruni, economista, autore di L’economia con l’anima, e la scrittrice Cinzia Tani.

08/06/13

La Mole Antonelliana e la pazzia di Nietzsche.




Nell'ultimo libro che ho scritto, Monumenti Esoterici d'Italia, mi sono occupato, tra i 30 luoghi, anche della splendida Mole Antonelliana di Torino, monumento al quale sono attribuite misteriose proprietà. 

Ne era convinto lo stesso Friedrich Nietzsche che – come racconta il suo biografo Anacleto Verrocchia – negli anni della sua permanenza a Torino, dal 1888, amava pranzare nei dintorni della Mole, per goderne quelli che lui chiamava benefici influssi. 

Nella Mole, Nietzsche, a quanto pare, vedeva l’immagine stessa, simbolica, della personalità dello Zarathustra, scritto qualche anno prima. 

In una sua lettera, scritta da Torino, dice di averla ribattezzata Ecce Homo, come il libro che stava scrivendo in quel periodo, e di averla circondata nello spirito con un immenso spazio.  

E fa davvero impressione considerare che proprio a Torino, mentre si trovava a passeggiare a Piazza Carignano, distante appena un chilometro dalla Mole, il filosofo fu colto da quello spaventoso attacco inconsulto che lo portò rapidamente alla follia: nei pressi della sua casa torinese, scorgendo il cavallo di una carrozza che veniva fustigato a sangue dal cocchiere, abbracciò l'animale e pianse, baciandolo, stramazzando poi a terra urlando in preda a spasmi. 


Fu l’inizio di quella lunga malattia mentale – durata 12 anni – che colpì una delle menti più geniali e straordinarie del nostro tempo, e sulla cui autentica natura ancora oggi molto si discute. 

Nietzsche, che con i tratti di un vero profeta, nei suoi scritti vaticinava una forma di follia volontaria come anticamera verso una ascesi superiore, aveva dunque raggiunto alterati e più profondi e interiori stati di coscienza ? 

E nel raggiungimento di questa misteriosa diversa elevazione aveva avuto rilievo anche quella poderosa antenna sotto la quale amava passeggiare ? 

E’ una ipotesi che certamente, per molti cultori dell’esoterico, resta piuttosto affascinante.

Fabrizio Falconi   ©  tratto da Monumenti Esoterici d'Italia, Newton Compton editori, 2013. 

07/06/13

Arthur Rimbaud - Partenza.






Partenza


Visto abbastanza. La visione s'è
incontrata in tutti i climi.

Avuto abbastanza. Rumori di città,
la sera, e al sole, e sempre.

Conosciuto abbastanza. Le soste della vita.
O Rumori e Visioni!

Partenza nell'affetto e nel rumore nuovi.



Arthur Rimbaud - 1890

04/06/13

Canto alla durata - di Peter Handke.




quel senso di durata cos’era?
era un periodo di tempo?
qualcosa di misurabile?
una certezza?
No, la durata era una sensazione,
la più fugace di tutte le sensazioni,
spesso più veloce di un attimo,
non prevedibile non controllabile,
inafferrabile non misurabile.
Eppure con il suo aiuto
avrei potuto affrontare sorridendo ogni avversario
e disarmarlo
e se mi considerava un uomo malvagio
l’avrei convinto a pensare
“egli è buono!”
e se esistesse un dio,
sarei stato la sua creatura
finché provavo quella sensazione della durata.
….
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi
in cui ci si sente avvolgere
da cosa? da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono insieme.
“ci vogliono giorni, passano anni”
Goethe mio eroe
e maestro del dire essenziale,
anche questa volta hai colto nel segno:
la durata ha a che fare con gli anni
con i decenni, con il tempo della nostra vita.
ecco la durata è la sensazione di vivere.
….
Ancora una volta ho capito che l’estasi è sempre un che di troppo,
è la durata invece la cosa giusta.

Da Canto alla durata, Peter Handke, Einaudi, 1995, traduz. H. Kitzmuller. 

01/06/13

Soren Kierkegaard e l'amore.





Cos'è che rende un uomo grande, ammirato dal creato, gradevole agli occhi di Dio? Cos'è che rende un uomo forte, più forte del mondo intero; cos'è che lo rende debole, più debole di un bambino? Cos'è che rende un uomo saldo, più saldo della roccia; cos'è che lo rende molle, più molle della cera? È l'amore! 

Cos'è che è più vecchio di tutto? È l'amore. 

Cos'è che sopravvive a tutto? È l'amore. Cos'è che non può essere tolto, ma toglie lui stesso tutto? È l'amore. Cos'è che non può essere dato, ma dà lui stesso tutto? È l'amore. Cos'è che sussiste, quando tutto frana? È l'amore. Cos'è che consola, quando ogni consolazione viene meno? È l'amore. 

Cos'è che dura, quando tutto subisce una trasformazione? È l'amore. Cos'è che rimane, quando viene abolito l'imperfetto? È l'amore. Cos'è che testimonia, quando tace la profezia? È l'amore. Cos'è che non scompare, quando cessa la visione? È l'amore. Cos'è che chiarisce, quando ha fine il discorso oscuro? È l'amore. Cos'è che dà benedizione all'abbondanza del dono? È l'amore. 

Cos'è che dà energia al discorso degli angeli? È l'amore. Cos'è che fa abbondante l'offerta della vedova? È l'amore. Cos'è che rende saggio il discorso del semplice? È l'amore. Cos'è che non muta mai, anche se tutto muta? È l'amore, e amore è solo quello che mai si muta in qualcos'altro. 

Soren Kierkegaard - Da Discorsi edificanti (1843), traduzione e cura di Dario Borso, Edizioni Piemme, 1998, pp. 81-82