Primo incontro gratuito, aperto a tutti, sul tema della poesia nel confronto tra generazioni.
Moderano e conducono l’incontro con letture di testi propri e di grandi poeti:
Matteo Falconi
Fabrizio Falconi
Primo incontro gratuito, aperto a tutti, sul tema della poesia nel confronto tra generazioni.
Moderano e conducono l’incontro con letture di testi propri e di grandi poeti:
Matteo Falconi
Fabrizio Falconi
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Nel sogno sto sempre a preparare la roba
e ogni cosa mi scappa e mi fa piangere:
è come se si nascondesse. Ma ce n’è così tanta!E a me non andrebbe di partire, di perdere
la tenerezza, il gioco della pelle e della bocca
della bella schiena e delle pieghe, mi volto
e mi ripiego in cerca di una spilla, di un guscio
o una moneta.
Ma che t’importa di uno spillo?
E cosa ti mette angoscia, cosa malinconia?
Il desiderio terrestre non dovrebbe appartenere
al sogno; nemmeno lì puoi volare a distesa,
sempre qualcosa ti trattiene,
la tua roba che non è mai stata tua
la bocca che non è mai stata tua
lo spillo, il passaporto
la vecchiaia, la giovinezza
la rovina di un passaggio che non puoi
tramutare
in fretta d’andare.
Fabrizio Falconi - 2025 (inedito ©)
Ci chiediamo spesso, durante la nostra vita, se è possibile cambiare (i difetti della) nostra personalità, del nostro carattere. Se possiamo migliorarci insomma, o comunque cambiare, nella direzione che intravediamo come soluzione per noi, ma che ci è difficile raggiungere. E la stessa cosa ci chiediamo a proposito di qualcun altro, che magari ci è a cuore, che è vicino a noi, ma che non riesce a compiere un cammino evolutivo come noi vorremmo, e come crediamo sia meglio anche per lui. La risposta che dà a questo quesito Carl Gustav Jung è piuttosto radicale e illuminante.
Nessuno sviluppa la propria personalità perché qualcuno gli ha detto che sarebbe utile farlo.
IL LIBRO
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Dal canto suo, John, a posteriori, riconosce
che l’arrivo di Yoko nella sua vita ha dato l’impulso determinante per la
decisione che venne comunicata quel giorno: “Ero un Beatle,” racconta nel 1980,
“ma le cose avevano cominciato a cambiare. Nel 1966, poco prima che incontrassi
Yoko, ero andato in Almeria, in Spagna per girare un film. Mi ha fatto molto
bene. Sono stato lì per sei settimane. Ho scritto Strawberry
Fields Forever, fra l’altro. Mi ha dato il tempo di pensare,
lontano dagli altri. Da quel momento in poi stavo cercando un posto dove
andare, ma non ho avuto il coraggio di scendere da solo dalla barca e spingerla
via. Quando però mi sono innamorato di Yoko, ho capito tutto: “mio Dio, questo
è diverso da qualsiasi altra cosa. Questo è qualcos’altro. Questo è più di un
disco, di un successo, più dell’oro, più di tutto. È indescrivibile”.”[2]
Il drammatico (per le sorti del
gruppo) incontro alla Apple, termina con un compromesso: la decisione presa da
John, e il conseguente scioglimento dei Beatles, non verrà per ora annunciato. Ci
sono importanti faccende economiche in ballo – rinegoziare il contratto
discografico – e c’è da decidere cosa fare del progetto lasciato in sospeso - Get
Back - dove ci sono canzoni straordinarie, tra le più importanti in
assoluto scritte dai Beatles.
Quel giorno segna comunque la
fine (ufficiosa) della loro avventura insieme. Il bilancio definitivo dice che
dal 1963 al 1969, cioè in soli sei anni, i Beatles hanno scritto centottantatré
canzoni. Lennon ne ha scritte in tutto settantatré e Paul quattro in meno, sessantanove.
I due, insieme, ne hanno composte “soltanto” diciassette, anche se – in base
all’accordo di ferro stipulato in gioventù, di cui ho già detto – tutti i loro
brani sono firmati insieme con il marchio: Lennon & McCartney. Harrison ha scritto ventidue canzoni, Ringo
soltanto due. Un’analisi approfondita, che i musicologi e i fan del gruppo
hanno fatto, mostra la diversa preponderanza di uno o dell’altro, nel corso
degli anni: all’inizio si devono alla penna di Paul i successi più importanti
del gruppo, mentre nella fase centrale il peso creativo di John diventa
prevalente; nella fase finale, infine, è di nuovo Paul a firmare come autore
praticamente tutti i maggiori successi del gruppo, complice, sicuramente, il
progressivo distacco di John.
Con il tempo, però, e soprattutto negli ultimi decenni, la villa aveva subito notevoli trasformazioni, a opera soprattutto del principe Marcantonio IV Borghese (1730-1809) che, tra le altre cose, aveva ordinato ai suoi architetti la costruzione di un anfiteatro destinato a ospitare corse di cavalli, esibizioni e feste, e ispirato alla piazza del Campo di Siena, città da cui la famiglia Borghese, originariamente, proveniva.
Nacque così piazza di Siena, subito divenuta il fulcro della villa, che nel frattempo i Borghese avevano deciso di aprire al pubblico, cioè al popolo di Roma, per il passeggio durante i giorni festivi e dove, in quelle occasioni, erano ospitati eventi e balli. Uno dei fatti memorabili che ebbero luogo a Roma, nell’Ottocento, fu il primo volo in mongolfiera, che si levò proprio da piazza di Siena.
Il protagonista fu il francese François (o Francisque) Arban, nato a Lione nel 1815, pio niere dell’aviazione che aveva iniziato a dedicarsi alla mon golfiera nel 1832. Qualche anno più tardi, Arban venne a Roma, invitato dai Borghese. Ospite della villa, annunciò che avrebbe ten tato un’esibizione sui cieli della capitale. Dopo due mesi di permanenza romana e di preparazione, finalmente, alle tre e mezzo del pomeriggio del 14 aprile del 1846 Arban salì a bordo del suo pallone, davanti a una folla straboccante assiepata sulle tribune di piazza di Siena, che cominciò ad applaudirlo mentre compiva un primo giro a pochi metri d’altezza, ancora trattenuto da una corda di ancoraggio.
Qualche minuto dopo, sciolto l’ormeggio, al suono della banda militare e spinto dal vento di sud-est, Arban prese quota con l’aerostato sorvolando l’intera Villa Borghese. Seguendo la direzione del vento, come raccontano i cro nachisti dell’epoca, l’aviatore «sorpassò più volte i giri del Tevere, dirigendosi rapidamente verso i monti Sabini, po tendo però sempre scorgere da quel punto, la Villa [Borghese], le fabbriche e la maestosa cupola della città da cui pochi minuti prima si dipartiva».
Continuando l’avventura, Arban si trovò ben presto a quote altissime, al punto tale che cominciò ad avere problemi di respirazione, con il termometro che segnava un grado sopra lo zero. Rifocillatosi col vino che aveva a bordo e col cibo «di cui si era ugualmente munito», e verificata l’altezza ormai troppo elevata, aprì la valvola abbassando la mongolfiera di diverse centinaia di metri quando, dopo un’ora di viaggio, gli si aprì sotto gli occhi lo scenario del fiume Velino e poi della valle reatina, accorgendosi subito delle moltitudini di persone che lo indicavano e gli face vano cenno di avvicinarsi, abbassandosi ancora.
La popolazione reatina era entusiasta, seguiva il percorso a piedi, a cavallo o con vetture, e finalmente, nei pressi del lago di Piediluco, convinse Arban ad atterrare, visto anche che si profilavano, minacciose, le montagne degli Appennini.
Aveva viaggiato per cinquanta miglia (ottanta chilometri) quando gettò via gli ultimi sacchi di zavorra, lanciando a una trentina di persone che lo aspettavano le corde per l’ancoraggio. Particolare curioso, tra i primi che vennero ad aiutare Arban a scendere dall’aerostato ci fu un tipo che, dopo averlo abbracciato e baciato, chiese a bruciapelo al volatore, in italiano: «Mi dai tre numeri?». Ancora provato dall’impresa e ostacolato dal non sapere la lingua, Arban capì soltanto in un secondo momento che quello gli chiedeva con insistenza tre numeri per giocare al Lotto.
Arban, insomma, era visto come una specie di mago, al quale non dovevano mancare nemmeno capacità divinatorie e – immaginiamo più che altro per togliersi il fastidio di torno – con il lapis scrisse alcuni numeri a casaccio che furono ricevuti dal “villico reatino” come un prezioso tesoro. Invitato a riposarsi dopo l’impresa nella casa di un notabile del luogo, alle tre del mattino seguente Arban prese la diligenza che doveva riportarlo a Roma, dove giunse alle tre del pomeriggio, subito accolto dal principe Borghese, grato per l’impresa che aveva appena compiuto.
La popolarità di Arban dopo quel primo viaggio aumentò a dismisura, al punto che in diverse altre città italiane furono organizzate sue esibizioni a bordo della mongolfiera. La sua carriera di aviatore però si infranse presto in circostanze tragiche: tre anni dopo, preso il volo da Barcellona per un’esibizione, con l’intenzione di superare i Pirenei e arrivare fino a Lione, Arban non riuscì a portare a compimento l’impresa. La forza dei venti sospinse infatti l’aero stato verso il largo del mar Mediterraneo, dove scomparve nel nulla. I suoi resti e quelli del velivolo non furono mai più ritrovati, dando adito alle più diverse leggende, tra cui quella secondo cui la sua mongolfiera, arrivata addirittura fino in Africa, aveva consegnato l’aviatore agli indigeni che lo avevano fatto prigioniero e ucciso.
Estratto da: Fabrizio Falconi, Storie incredibili di Roma che non ti hanno mai raccontato, Newton Compton Editore, 2024