13/03/19

La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Silvestro a Roma.


La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Silvestro a Roma

Destò interesse qualche tempo fa la notizia che la chiesa di San Giovanni Battista, una delle chiese cattoliche costruite all’inizio del XIX secolo in uno dei luoghi di maggiore tradizione storica in Russia era stata restituita ai cattolici a più di 50 anni di distanza dalla sua confisca ad opera del potere sovietico.

Il tempio è situato nel paese del poeta Alexander Pushkin – Tsarskoe Selo, com’era chiamato in passato – nel nord-est della Russia, a pochi chilometri da San Pietroburgo.

L’inizio della costruzione della chiesa di San Giovanni Battista risaliva al 1823 per ordine dello zar Alessandro I, poiché la chiesa di legno che esisteva a Tsarskoe Selo era diventata troppo piccola per accogliere i fedeli. Dopo l’arresto del parroco ai tempi dell’Unione Sovietica, con pressioni politiche coloro che si trovavano sotto la sua responsabilità, come in molti altri casi, vennero obbligati a firmare un documento in cui si dichiaravano impossibilitati a riparare la chiesa e a pagare allo Stato le imposte corrispondenti all’immobile.

Curiosamente, la restituzione della chiesa di San Giovanni Battista alla comunità cattolica coincideva con la visita in Russia, nel luglio del 2006, di alcune reliquie considerate, secondo la tradizione, i resti della mano destra di colui che battezzò Gesù nel Giordano.

In quella occasione, i giornali russi riferirono delle incredibili file di fedeli che si erano ammassate, per vedere le famose reliquie del Battista, che mancavano in Russia da tanto tempo.

Alla luce di queste notizie provenienti dall’Oriente Europeo, faceva ancora più impressione considerare il fatto che a Roma si veneri da tempo immemorabile – certamente non con lo stesso seguito di fedeli registrato in Russia - quella che è considerata la testa del Battista, esposta in bella mostra in una piccola chiesa centralissima: San Silvestro in Capite, in Piazza San Silvestro.

La reliquia si riferisce ovviamente ad uno degli episodi evangelici più famosi, il martirio di San Giovanni Battista, cioè del Precursore di Gesù Cristo, episodio reso immortale dalle numerose riproduzioni nella storia dell'Arte, tra i quali spicca la tela di Caravaggio conservata al Palazzo Reale di Madrid che ritrae con particolari del tutto verosimili la decapitazione voluta dalla perfida Salomè, figlia di Erode.


La tradizione dunque vuole che proprio questa stessa testa del Battista sia conservata a Roma, in una delle sue chiese più centrali.

La preziosa reliquia, la testa mummificata è custodita in un piccolo e prezioso altare nella Chiesa di S. Silvestro in capite  (il nome deriva da questo), nella cappella dell’Addoloratain un reliquiario del 1391, contenuto a sua volta in un altro, cuspidato, del 1881.

La Chiesa sorge - come altre del Rione - su un tempio più antico pagano, in questo caso il Tempio del Sole, sopra il quale fu edificata una prima chiesa paleocristiana dal papa Stefano II, chiamata inter duos hortos, perché era circondata da orti.

La reliquia, pervenuta a Roma durante il pontificato di Innocenzo II (1130-1143) era tra le più venerate in città e veniva portata ogni anno in processione da quattro arcivescovi (la tradizione durò fino al 1411), sorvegliata costantemente nella chiesa da soldati armati.

Nel 1238 papa Martino IV la ripose in un reliquiario d’argento che Bonifacio VIII decorò con una tiara preziosa andata perduta, rubata purtroppo nel corso del Sacco di Roma del 1527.

La testa del Battista si salvò e continuò a restare al suo posto, fino al 1870 quando fu temporaneamente custodita in Vaticano, per poi essere restituita alla chiesa nel 1904.

La disputa sulla veridicità della preziosa reliquia ha impegnato a lungo gli studiosi.  Ma a dimostrazione del fatto che non si tratta di pura leggenda, sono di estrema rilevanza i monumentali studi compiuti dallo Iozzi  che in una sua pubblicazione confutò una reliquia simile posseduta dalla cattedrale d'Amiens, in Francia e stabilì la veridicità di quella romana.

Nel corso poi di un’altra ricognizione  della reliquia effettuata nel 1962 si riscontrò  la presenza di stoffa risalente con ogni probabilità all'ottavo secolo e si trovarono due monete del XII secolo.


Fabrizio Falconi
tratto da:
MISTERI E SEGRETI DEI RIONI E DEI QUARTIERI DI ROMA 
Newton Compton Editore
Roma, 2014-2017

12/03/19

Non mi interessa cosa fai per vivere. Una intensa poesia di Oriah Mountain Dreamer.



Non mi interessa che cosa fai per vivere; voglio 
sapere che cosa ti fa spasimare e se osi sognare 
di andare incontro all'anelito del tuo cuore.

Non mi interessa quanti anni hai; voglio sapere 
se rischieresti di passare per stupida per amore, 
per un sogno, per l'avventura di essere viva.

Non mi interessa quali pianeti siano in 
quadratura con la tua luna.  Voglio sapere se hai 
toccato il centro del tuo dispiacere, se i 
tradimenti di una vita ti hanno aperta oppure ti 
hanno raggrinzita e chiusa per paura di altro 
dolore.

Voglio sapere se riesci a sederti con la 
sofferenza, la mia o la tua, senza muoverti per 
nasconderla, né per sedarla, né per mandarla via.

Voglio sapere se riesci a stare con la gioia, la 
mia o la tua, se riesci a ballare selvaggiamente 
lasciando che l'estasi ti riempia fino alle 
estremità delle dita delle mani e dei piedi senza 
ricordarci di stare attenti, o di essere 
realistici, né per rammentarci i limiti 
dell'essere umano.

Non mi interessa se la storia che mi stai 
raccontando è vera. Voglio sapere se riesci a 
deludere un altro pur di essere sincera con te 
stessa. Se riesci a sopportare l'accusa di 
tradimento senza tradire la tua anima. Se riesci 
a essere senza fede e perciò degna di fede.

Voglio sapere se riesci a vedere ogni giorno la 
bellezza anche quando non è pittorica; e se 
riesci a far scaturire la tua vita dalla sua 
presenza.

Voglio sapere se riesci a vivere col fallimento, 
il tuo e e il mio, e tuttavia, sul bordo del 
lago, a gridare al plenilunio d'argento il tuo 
«Sì!».

Non mi interessa sapere dove vivi o quanti soldi 
hai. Voglio sapere se riesci ad alzarti dopo una 
notte di dolore e di disperazione stanca e con le 
ossa a pezzi e a fare ciò che va fatto per dar da 
mangiare ai bambini.

Non mi interessa ciò che sai né come sei giunta 
qui. Voglio sapere se starai nel centro del fuoco 
con me senza tirarti indietro.

Non mi interessa dove o che cosa o con chi hai 
studiato. Voglio sapere che cosa ti sostiene da 
dentro quando tutto il resto crolla.

Voglio sapere se riesci a stare sola con te 
stessa e se ti piace davvero la compagnia che ti 
fai nei momenti vuoti.

Oriah Mountain Dreamer
http://www.oriahmountaindreamer.com/

illustrazione in testa: 
Artwork by Denis Sarazhin - Soundlessly, 2015, | Painting | Artstack - art online

11/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 2. "Le onde del destino" di Lars Von Trier (1996)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

2. Le Onde Del Destino di Lars Von Trier (1996). 

Prima che la sua carriera di autore fosse funestata dall'abuso di droghe e alcool - come egli stesso ha più volte raccontato -  e dure terapie di disintossicazione, oltre che dalla depressione cronica e dalle sue eccentricità a volte insopportabili, Lars Von Trier, soprattutto all'inizio della sua produzione ha regalato veri capolavori. 

Dopo il magnifico Europa, uscito nel 1991, che concludeva la cosiddetta Trilogia Europea, con il quale vinse il Gran Premio della Giuria al 44mo Festival di Cannes, Von Trier si mise al lavoro per quello che resta il suo capolavoro, le cui riprese durarono quasi 3 anni: Le onde del destino (titolo originale Breaking the Waves, uscito nel 1996 e che ha collezionato un numero infinito di premi in tutto il mondo (tra i quali il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e la nomination agli Oscar come migliore attrice della protagonista Emily Watson (che ottenne ). 

Chi ha visto questo film una volta, difficilmente lo ha dimenticato. 

Nei quattordici capitoli che segnano la storia - accompagnati ogni volta da una canzone (la colonna sonora è fantastica)  - seguiamo le vicende di Bess McNeill, una ragazza scozzese con problemi psicologici, religiosa e pura di cuore, immerse nell'estremo paesaggio nordico. 

Il destino di Bess è segnato: quando si innamora e decide di sposare Jan, un operaio della piattaforma petrolifera, ateo, va incontro alla disapprovazione della comunità a cui appartiene, intrisa di cultura e fede calvinista.


La felicità dura poco. Bess deve fare i conti con l'assenza di Jan, richiamato sulla piattaforma petrolifera: non le restano che le preghiere sommesse che recita a Dio (e del quale recita le immaginarie risposte) e le rare telefonate che riesce a fare al suo uomo. Fino alla tragica notizia  del grave incidente che Jan subisce e che lo rende paralizzato. 

Inizia così il tormento di Bess  che si ritiene responsabile dell'accaduto, perché il giorno prima dell'incidente ha pregato incessantemente per il ritorno immediato di Jan. 

Non più in grado di soddisfarla sessualmente e mentalmente provato dalla paralisi, Jan impone a Bess di trovare un amante. Inizialmente Bess è inorridita dalla richiesta, ma diventa sempre più propensa ad assecondare Jan, quando questi tenta il suicidio.

Il cammino di degradazione di Bess diventa quindi lentamente un nobile e terribile sacrificio, nel tentativo di espiare il destino avverso. 

Von Trier chiamò questa sua seconda trilogia (iniziata con Le Onde Del Destino e proseguita con Idioti e Dancer in the Dark, la Trilogia del cuore d'oro, costituita da film i cui protagonisti vanno incontro a un doloroso destino a causa della loro bontà e del loro altruismo.

Le Onde del Destino è un film di pura poesia, estremo e lucido, insiste sulle corde più intime del cuore umano, sul dramma della separazione, sulle aspettative e le generosità dell'amore, sulla sofferenza e sulla crudeltà dei fini e dei giudizi esteriori in confronto alla nuda esposizione dell'anima e dei suoi bisogni. 

Il tutto in una veste formale ineccepibile in cui si mescolano i precetti della scuola Dogma, la grandiosa fotografia di Robby Muller e la meraviglia di attori in stato di grazia. 

Fabrizio Falconi

08/03/19

Libro del Giorno: "Lamento di Portnoy" di Philip Roth.



Con questo romanzo, scritto nel lontano 1969, Philip Roth, che all'epoca aveva 36 anni, trovò la sua definitiva consacrazione, dopo due romanzi (Lasciar andare, 1962 e Quando lei era buona, 1967 -unico romanzo dell'intera bibliografia di Roth con una protagonista femminile) che avevano ricevuto l'attenzione della critica, ma non del grande pubblico.

Anno cruciale, il 1969.  E forse Lamento di Portnoy, proprio per questo oggi si rilegge con una certa dose di tenerezza.

Anche se, come è ovvio, quando uscì, nell'America perbenista di quegli anni, appena contaminata dalla contestazione giovanile, dal femminismo, dai grandi raduni rock, dalla protesta contro la guerra nel Vietnam, dalle rivolte nei ghetti dei neri, il romanzo incendiò le polemiche per i suoi contenuti trasgressivi e soprattutto per la spietata messa alla berlina della tradizione ebraica, con tutte le sue componenti più ossessive e conservatrici. 

Per Roth era il modo per venire allo scoperto, per demolire la costruzione socio-teologica nella quale anche lui e la sua famiglia erano cresciuti, seppure trapiantati come molti altri, nella cultura americana.

Il romanzo, costruito come un unico flusso di coscienza una cascata ininterrotta di confessioni e invettive riferita sul lettino di uno psicanalista, chiamato Spielvogel (che si può tradurre dal tedesco come: uccello del gioco), che non parla mai e non entra mai sulla scena del racconto. 

Passano così davanti agli occhi del lettore l'infanzia e l'adolescenza di Alexander Portnoy, la sua famiglia ebraica (dominata dalla figura della madre Sophia, il padre e la sorella Hannah), i primi lavori, ma soprattutto tutto il catalogo delle esperienze erotiche, dai solipsismi masturbatori, fino alle acrobazie a tre, con la fidanzata - chiamata Scimmia - e una puttana rimorchiata per le strade di Roma, fino all'ultimo capitolo - Esilio, il più bello del romanzo - in cui Alexander descrive, il suo viaggio-ritorno in Israele. 

Una scrittura meravigliosamente pirotecnica, in un romanzo che fa ridere - fino alle lacrime - e pensare, sempre.  Alexander - primo alter ego di Roth, molto prima di Nathan Zuckerman - racconta con un diluvio di trovate e di paradossi (si scoprono anche battute alle quali ha attinto anche il primo Woody Allen), il dilemma in cui si dibatte, quello di liberarsi della sua oppressiva tradizione sostanzialmente attraverso la sessualità e la pornografia; ricadendo però ad ogni passo verso l'apparente e agognata liberazione, nei divoranti sensi di colpa/lamentazioni/empasses, come dentro una ragnatela inestricabile. 

Politicamente scorretto, sgradevolmente esibizionista, misogino, "razzista" (soprattutto verso la sua stessa "razza"),  anticlericale, furiosamente anticattolico, ateo e comunista: questo Roth (al contrario di Bellow) mette in piazza tutto, e dopo tanti anni, suscita perfino nostalgia - per quell'esubero di passioni sbagliate - in una epoca, la nostra, di passioni fredde, glaciali, anestetizzate. 

Un grande romanzo.

Fabrizio Falconi






07/03/19

L'incredibile bambola snodabile trovata vicino alla Mummia di Grottarossa, sulla Via Cassia.



Il 6 febbraio 1964, durante i lavori di un cantiere edile in via Abbadia San Salvatore (attuale via Cassia 952), fu scoperta una sepoltura del II secolo con il corpo mummificato di una bambina di 8-10 anni circa.


Normalmente nella Roma antica non si utilizzava questa tecnica per la conservazione delle salme, per questo, la cosiddetta mummia di Grottarossa, è forse un caso unico. La mummia è attualmente conservata, all'interno di un'urna, in una sala del Museo nazionale romano di palazzo Massimo insieme al suo corredo funerario, costituito da numerosi oggetti interessanti e curiosi, come ad esempio una bambola snodabile, tutti ritrovati nella tomba accanto al corpo della fanciulla.

Data la singolarità della conservazione del corpo,
t

100 film da salvare alla fine del mondo - 1. "Cabaret" di Bob Fosse (1972)



Questo blog dedicherà da oggi, ad appuntamenti non fissi, un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di tutti. 

1. Cabaret di Bob Fosse (1972)

Tutto è speciale in questo film, tutto è pura poesia. Cioè: essenzialità e verità. 

Ispirato dai  racconti berlinesi di Christopher Isherwood, Cabaret racconta la vita ai tempi della Repubblica di Weimar nel 1931, con l'ascesa al potere del Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler. Su questo sfondo si muovono le vicende di uno studente inglese di lingue moderne, Brian Roberts (Michael York), timido e inibito e della sua vicina di stanza nella pensione in cui alloggia, la soubrette Sally Bowles, un mix irresistibile di tenerezza e determinazione, che lavora al Kit-Kat, cabaret frequentato da omosessuali, intellettuali, artisti e da borghesi alla ricerca di fremiti trasgressivi. 

Ben presto, l'amicizia tra i due si trasforma in un triangolo amoroso quando Sally conosce Maximilian von Heune, ricco aristocratico tedesco: bello ed affascinante.

Musiche e canzoni meravigliose, balletti straordinari, sceneggiatura sempre in bilico tra sublime e dramma. Cabaret avvolge e travolge il cuore. Portandolo oltre le potenzialità delle vite prosaiche, conducendolo alla formulazione delle domande vere che abitano le esistenze.  L'amore, il destino, il darsi, il male, la violenza, la potenza della Storia, la fine, la malinconia, la dispersione, il ricordo. 

Cabaret, un'opera irripetibile, che soltanto il genio di Bob Fosse poteva concepire e consegnare alla immortalità. 


Cabaret 
USA 1972 
Durata 124 min 
Regia Bob Fosse 
Musiche John Kander 
Liza Minnelli: Sally Bowles 
Michael York: Brian Roberts 
Helmut Griem: Maximilian "Max" von Heune 
Joel Grey: maestro di cerimonie

05/03/19

Trovata la Faglia del Terremoto che "spezzò" il Colosseo .


Il sistema di faglie del Monte Vettore che si e' attivato nel 2016 e' stato anche responsabile del terremoto che nel V secolo danneggio' molti monumenti di epoca romana, compreso il Colosseo. 

Lo indica lo studio italianopubblicato sulla rivista Tectonics e secondo il quale questa faglia genera terremoti distruttivi a intervalli compresi fra 1.500 e 2.100 anni circa. 

 La ricerca e' guidata da Paolo Galli, sismologo del Dipartimento nazionale della Protezione civile e dell'Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Igag-Cnr) ed e' stata condotta con le universita' Sapienza di Roma e 'G.d'Annunzio' di Chieti-Pescara. 

Nell'area dell'Italia centrale colpita dai terremoti dell'agosto e dell'ottobre 2016 i ricercatori hanno scavato trincee a cavallo delle rotture superficiali e delle deformazioni generate dai sismi e, studiando le caratteristiche geologiche della roccia, hanno ricostruito i terremoti generati in passato dalla faglia del Monte Vettore. 

"Sapevamo in passato quella faglia aveva rilasciato forti terremoti, ma non era associata a terremoti avvenuti in tempi storici, cioe' annotati nei registri o nelle fonti storiche", ha detto all'ANSA Edoardo Peronace dell'Igag-Cnr. I ricercatori hanno cosi' individuato le 'cicatrici' lasciate da deformazioni precedenti del suolo e hanno dimostrato che lo stesso sistema di faglie ha generato in passato almeno sei terremoti distruttivi. 

Il penultimo e' stato quello avvenuto nel 443 d.C., che ha lasciato il segno nei danni prodotti a chiese paleocristiane e a monumenti noti, primo fra tutti il Colosseo. 

E' un risultato che, secondo i ricercatori, indica che anche altre faglie silenti potrebbero essere una minaccia: per questo vanno studiate e considerate al fine della mitigazione del rischio sismico. 

04/03/19

Il celebre monologo di Tiziano Terzani sulla felicità, che fa bene riascoltare.




In tempi così in-sensati come quelli che stiamo vivendo, nei quali tutti inseguono desideri e bisogni egoistici, a scapito della infelicità di altri, o - spesso - proprio basati sulla infelicità altrui, fa bene riascoltare queste parole del grande Tiziano Terzani, una grande anima che oggi (ci) manca molto.

03/03/19

Poesia della Domenica: "Addio a una vista" di Wislawa Szymborska.


Addio a una vista

Non ce l'ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.

Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d'erba, se oscilla,
è solo al vento.

Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sull'acqua
abbiano di nuovo con che stormire.

Prendo atto
che la riva d'un certo lago
è rimasta - come se tu vivessi ancora -
bella com'era.

Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.

Riesco perfino a immaginare
che degli altri, non noi,
siedano in questo momento
su un tronco rovesciato di betulla.

Rispetto il loro diritto
a sussurrare, a ridere
e a tacere felici.

Suppongo perfino
che li unisca l'amore
e che lui la stringa
con il suo braccio vivo.

Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.

Non pretendo alcun cambiamento
delle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.

Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro,
ora nere.

Una cosa soltanto non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza -
ci rinuncio.

Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.

02/03/19

L'Università La Sapienza di Roma leader mondiale degli Studi Classici nell'ultimo ranking internazionale.



Finalmente una buona notizia di cui andare fieri, per il nostro paese.

L'Universita' di Roma La Sapienza si conferma leader mondiale degli studi classici nella classifica internazionale elaborata da QS, con il 1° posto negli studi classici e la storia antica: anche quest'anno infatti e' l'unica universita' italiana ad avere un primato assoluto nel Ranking by Subjects 2019. 

I dati del QS World University Rankings bySubject 2019 collocano inoltre l'ateneo all'11° posto in Archeologia, al 34° in Fisica e al 43° in Biblioteconomia. 

Le discipline comprese nella top 100 internazionale sono complessivamente 21, un dato in crescita rispetto alle 16 dello scorso anno. 

Alle quattro discipline top 50 mondiale, si aggiungono infatti altre 17 materie posizionate nella top 100 del ranking, tra cui per la prima volta Engineering - chemical, Geography, Medicine e Statistics & operational research. 

In posizione di eccellenza anche Anatomy & physiology, Anthropology, Computer science & information system, Development studies, Engineering - civil & structural, Engineering - mechanical & aeronautical & manufacturing, Engineering electrical & electronic, History, Law, Mathematics, Modern languages, Pharmacy & pharmacology, Theology divinity & religious studies

Sempre in prospettiva internazionale, la Sapienza avanza in 4 delle 5 macroaree in cui sono suddivise le materie (Arts & Humanities; Engineering & Technology; Life Sciences and medicine; Social Science & Management), collocandosi tra le prime 100 al mondo in 3 di queste, compresa la macroarea Natural Sciences che con il 57° posto e il punteggio di 81,7 rappresenta un settore di eccellenza dell'Ateneo. 

"Ci troviamo a competere con universita' straniere che godono di risorse nettamente maggiori, dalla statunitense Harvard alle britanniche Oxford e Cambridge, e facciamo del nostro meglio per tenere alta la tradizione di eccellenza nel campo della ricerca e della didattica - ha commentato il rettore Eugenio Gaudio - la crescita della Sapienza e' la risultante di sforzi comuni e condivisi all'interno dell'ateneo, che portano lustro al sistema universitario italiano nel panorama internazionale. Un risultato importante che registra un miglioramento complessivo, confermato dal numero crescente di iscritti in corso e dalla capacita' di attrarre finanziamenti". 

I dati del ranking evidenziano anche l'ottimo posizionamento dell'ateneo a livello nazionale: La Sapienza registra primati in 12 discipline e 1 macroarea e si colloca in seconda e terza posizione in altre 16 materie. 

01/03/19

"Ends of poetry" - 40 poeti italiani si interrogano sul senso della Fine e del Fine in Poesia.


E' appena uscito l'8o volume della rivista Californian Italian Studies  numero monografico dedicato alla poesia italiana.  40 poeti italiani si interrogano sul tema della Fine e del Fine della Poesia. 

Sono felicissimo di far parte di questo progetto e di aver contribuito. 


ENDS OF POETRY California Italian Studies Volume 8, Issue 1, 2018 Gian Maria Annovi and Thomas Harrison, Editors, Leslie Elwell, Managing Editor

https://escholarship.org/uc/ismrg_cisj/8/1

Questo il mio testo, all'interno, che accompagna i quattro testi poetici. 


Limite, separazione, con-fine. Tutto quello che oggi (si) vive, sembra portare all’estremo; ad un punto di non-ritorno. Anche la poesia, il suo significato, la sua profonda essenza, sembrano ormai senza-parole di fronte all’arrembare di un ambiente-mondo sempre più vociante, sempre più confuso, popolato babelicamente da milioni di voci che si inseguono senza ascoltarsi.  Una sensazione di fine apocalittica percorre la poesia, chiedendole forse di farsi profezia, di illuminare di senso – con una luce seppure mormorante appena, di passaggio – quest’epoca che sembra per molti versi profilarsi come finale. Come nei giorni della fine dell’impero romano, l’ignoto si profila all’orizzonte, e l’unico fine stesso della poesia sembra essere diventato quello di raccontare questa fine. Tutto chiede di essere ri-pensato, ri-pronunciato, ri-fondato a partire dalla parola stessa.  L’alone di morte che spazza via i resti di vecchie civiltà e di un nuovo ordine forse mai nato, chiede di essere vissuto e attraversato, come la forte morte di Paula Modersohn-Becker, la giovane e tenera amica che Rilke non riesce a lasciar andare, pur avendo professato incessantemente nella sua vita e nella sua poesia la necessità del distacco nella prova più difficile ed evidente dell’amore.
Questo lutto, questa morte, questo confine, questo limite, questo distacco va pienamente attraversato, con tutto il dolore e la sofferenza che comporta: e soltanto la poesia, proprio perché la poesia non si vanta e non si presume, può piegarsi, può farsi materia malleabile, rinunciando alla durezza, alla ostinazione, all’opposizione. Può farsi capace, essendo il fine della poesia quello di tramutarsi nell’ interno di uno sguardo, di diventare essa stessa la fine.
I poeti, come i pazzi nelle catacombe, porteranno in mano la fiaccola in questi tempi oscuri e definitivi.
Per amore della vita la forza deve cedere - scrive Carl Gustav Jung nel Liber Novus - dovrà essere ridotto il raggio della vita esteriore. Molta più intimità, fuochi solitari, caverne, grandi foreste oscure, piccoli insediamenti di pochi individui, fiumi dal pigro corso, silenti notti invernali ed estive, poche navi e pochi carri, e tener nascosto in casa ciò che è raro e prezioso.
Da lontano i viandanti si mettono in cammino su strade solitarie e vedono le cose più varie.
La fretta diventa impossibile, cresce la pazienza
.
Con pazienza, dunque, e con la fede dei folli – si potrebbe aggiungere – i poeti cercheranno la via, cercheranno quel meraviglioso e leggendario serpente, l’Uroboro, la bestia che si mangia la coda, che forma un circolo perfetto, e che dalla sua coda, dalla sua fine e dal suo limite, rinasce sempre e sempre, splendente ogni volta.


Fabrizio Falconi -2019.



27/02/19

Mia Martini - Un ricordo personale.


Mia Martini


In questi giorni di giuste rievocazioni del talento e della umanità di una bravissima cantante italiana, Mia Martini, morta il 12 maggio del 1995, vorrei proporre un piccolo ricordo personale, indelebile, che risale agli anni '70, che forse, alla luce di quel che è successo, spiega qualcosa dello strano e terribile destino al quale Mia è andata incontro. 

Credo con buona certezza che fosse il 1976. 

Al Teatro Olimpico di Roma, andava in scena ogni domenica una rassegna che avevano intitolato, non troppo originalmente "Domenica Musica"

Ci passava però il fior fiore della musica italiana emergente di quegli anni. 

Doveva essere il 1976 perché Renato Zero - uno dei cantanti in cartellone - assolutamente sconosciuto all'epoca, cantava Madame (bellissima per altro) e una protoversione di Mi vendo, esibendosi con indosso una calzamaglia nera attillatissima e tacchi alti,  apostrofato in ogni modo dal pubblico di allora, manco fosse la scena di avanspettacolo felliniano. 

Mia Martini, Renato Zero e Loredana Berté negli anni '70

Lui però era coraggiosissimo (oltre che bravissimo) e andava avanti imperterrito

Quando toccò a Mia Martini - lo giuro, non invento niente - accadde - e fu l'unica volta  di un incidente simile in tutte quelle domeniche alle quali ho assistito - che la "base" musicale misteriosamente si arrestò mentre Mimì cantava

Fra l'altro accadde in un modo veramente orrendo: la musica si fermò rallentando come quando un giradischi viene spento. 

Il pubblico rimase attonito, molti cominciarono a fischiare, la povera Mia sul palco, imbarazzata, continuò a cantare (benissimo) a voce nuda, senza base. Ma non bastò ad evitare i fischi finali.

Questo ricordo mi convinse, anni più tardi, che già da allora, qualcuno che era vicino a lei fomentasse le voci terribili che l'hanno uccisa, provocando questi piccoli incidenti. 

Magari per puro divertimento sadico, per cattiveria gratuita. La cosa peggiore che si possa fare ad una persona.

Ciò che è certo è che Mia Martini era uno spirito troppo sensibile, evidentemente, per assegnare a questa crudeltà il posto che aveva nella scala più bassa delle attitudini umane, e oltrepassarla fieramente.

Cosa che non riuscì a fare e che la portò ad una sofferenza evidentemente troppo ingombrante, il che ne fa una vera vittima della stupidità e della cattiveria (dis)umane. 

Fabrizio Falconi



26/02/19

Trovo estasi nell'atto di vivere. Tra Emily Dickinson e Wim Wenders.



L’anima è un luogo così nuovo che la notte di ieri sembra già antiquata.
Così scriveva Emily Dickinson.  Il passare del tempo è qualcosa di incomprensibile per noi umani, nonostante Κρόνος scandisca e sia teatro di tutta la nostra esistenza su questa terra al punto tale che la nostra apprensione di misurare il tempo è divenuta panacea o illusione di poterne controllare il decorso.
Ma se il passare del tempo è inestricabilmente legato alla nostra carne, il tempo dell’anima, quello che percepiamo come tempo dell’anima, segue coordinate del tutto diverse.
Trovo estasi nell’atto di vivere, scrive ancora la Dickinson, il semplice senso di vivere è gioia sufficiente.
Se percepiamo questo, siamo sicuri di possedere una natura non solo corporea, la quale si muove secondo altri ordini che non sono quelli semplicemente spazio-temporali.
Il povero Travis – nella storia immaginata da Sam Shepard e realizzata in film da Wim Wenders in Paris,Texas – ha perso tutto e ha perso il tempo.
Lo vediamo vagare nel deserto all’inizio del film. E’ un navigatore solitario, sperso: il tempo e il luogo non esistono. E’ come una navicella alla deriva nello spazio. Un trauma, quello della perdita della persona amata, l’ha messo in orbita, l’ha sospinto lontano.

Quando gli amici Walt e Anne gli mostrano il vecchio super8 – di quella giornata apparentemente banale, al mare d’inverno, trascorsa insieme – Travis è come se tornasse a casa.
Trova il proprio centro, ri-scopre se stesso attraverso la consapevolezza definitiva della perdita subita.
La disperazione è totale, ma il lutto è finalmente elaborato.  E’ da qui che si riparte.
In fondo è come quel che accade a noi, alla fine e all’inizio di ogni ciclo di vita.
Abbiamo perso il tempo. Ricordando lo ri-troviamo. Lo ri-viviamo. Ed è attraverso questa dolorosa consapevolezza –  “la notte di ieri sembra già antiquata” – che la nostra anima, luogo sempre nuovo, disincarnandosi dal passato che vuole costringere a radicarsi, a mettere radici, torna eterna in ogni “atto di vivere”.

25/02/19

Libro del Giorno: "L'occhio del monaco" di Cees Nooteboom.




Una delle ultime uscite della bianca di Einaudi è la più recente raccolta del grande scrittore olandese, Cees Nooteboomnato a L'Aja nel 1933, pubblicata in nederlandese nel 2017. 

Si tratta di 33 componimenti senza titolo di eguale forma e struttura (tre strofe di quattro versi ciascuna e un verso di epilogo/chiusura), magistralmente tradotti da Fulvio Ferrari.

Come spiega in una breve nota a fine testo lo stesso Nooteboom, questi componimenti hanno tratto ispirazione da un luogo: l'isola di Schiermonnikoog, che in nederlandese significa "isola dei monaci grigi" e che fa parte del gruppo delle isole Frisone Occidentali, di fronte alle coste olandesi. 

E di sabbia, mare, onde, conchiglie, fari, e soprattutto dei relitti e dei resti portati dalle mareggiate parlano queste poesie, formalmente impeccabili, oltre che dei temi che più stanno a cuore a Nooteboom: la presenza dei morti, la loro presenza e voce ingombrante; della memoria e dell'oblio; delle donne che hanno attraversato la vita del poeta; infine della domanda trascendente che sempre ritorna come il mormorio del mare sul quale si chiude la raccolta. 

Poesia tersa e magnifica, dove l'estrema figura della natura - il mare con il suo orizzonte - dialoga incessantemente con le cose degli uomini e con le loro infinite domande senza risposta.

Fabrizio Falconi





22/02/19

Spunta una crudissima lettera inedita di Primo Levi, scritta nel 1945, tornato da Auschwitz.

Primo Levi fotografato a Torino poco tempo prima di essere arrestato

"Ci radono i capelli, ci tatuano sul braccio un numero progressivo, ci denudano, ci rivestono di stracci immondi a rigoni: non siamo piu' uomini. Nessuno spera piu' di uscire". 

C'e' tutta la prosa di Primo Levi, la grandezza del narratore, l'asciuttezza che ne sara' lo stile e nello stesso tempo la capacita' di accendere lo sdegno con la forza di un resoconto scientifico reso drammaticamente eloquente dai numeri ("Il 22 febbraio '44 siamo partiti tutti, 650 disperati con bambini, donne, vecchi, 50 rinchiusi in ogni vagone merci, 4 giorni, 4 notti di viaggio senza dormire e senza bere.. siamo tornati in 15") nella lettera inedita che pubblica il quotidiano La Stampa in occasione dei 100 anni dalla nascita del grande scrittore torinese. 

Resa pubblica per concessione dei figli Lisa e Renzo, la lettera, due fogli battuti fitti fitti a macchina con inchiostro rosso, riporta la data del 26 novembre 1945. 

Levi aveva solo 26 anni, era rientrato a Torino da meno di un mese ed era gia' in cerca di un lavoro ("Sono ancora disoccupato, pero' ho imparato il tedesco e un po' di russo e di polacco, ed ho visto un bel pezzo di Europa che pochi stranieri hanno visto"). 

Ai parenti lontani non nasconde niente, racconta della decisione di salire in montagna con i partigiani per sfuggire alle leggi razziali, l'arresto con le amiche Vanda e Luciana, il campo di Fossoli, la deportazione, i suoi 11 mesi nel campo di Monowitz, satellite di Auschwitz, la fame disperata, le condizioni impossibili, le selezioni, la morte. 

Un reportage dall'inferno, lucidissimo e terribile, dove i sentimenti sembrano anestesizzati. 

C'e' il dramma incommensurabile e insieme un incredibile pudore, la totale assenza di vittimismo, forse chissà già il tarlo dello sgomento per essere lui tra i pochi che si sono salvati. 

"Quattro milioni di ebrei hanno varcato la soglia della camera a gas. Per tre anni il camino ha oscurato il cielo", scrive ai parenti. 

Prima di lanciarsi in un'altrettanto lucida e spietata analisi dell'Italia che ha ritrovato e anche dell'Europa ("Vecchia, maledetta e pazza") con parole che sembrano premonitrici e oggi più che mai attuali: "il fascismo ha dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi, ma non e' morto, e soprattutto sussiste acuta la rovina materiale e morale in cui esso ha indotto il popolo"

21/02/19

Massimo Gramellini: "Eros visita l'amante, non l'amato."




Vorrei farmi largo fra la rabbia e lo sgomento dei nostri giorni per concentrarmi su qualcosa di serio e di bello, ma anche di terribile e impronunciabile, tale è la sua forza misteriosa. Per alcuni studiosi l’amore deriverebbe dal sanscrito mar, morte, di cui rappresenta l’esatto contrario: Amar, non-morte, ovvero immortale.
Come chiunque abbia subito un torto precoce, sono cresciuto con la pretesa di essere in credito con Amar. 

Una sensazione che ho ritrovato nel corso della vita in tutte le persone che avevano perduto ingiustamente un affetto, un sogno, un lavoro. 

Nella loro sofferenza, o insofferenza, ho visto rispecchiarsi la mia.
Quel desiderio inestinguibile di essere risarciti, ricompensati. 

Una molla forsennata, ma alla lunga frustrante: chi pensa che la felicità consista nell’essere amati cerca negli altri qualcosa che, una volta trovato, lo rende stranamente infelice

Finché l’altalena della vita gli dischiuderà le porte di una scoperta, che come tante altre stava già scritta in un libro. Il «Simposio» di Platone. Tutti i personaggi concordano su un punto: Eros, il demone dell’amore, coincide con la persona amata. 

Tutti tranne Socrate, che nelle ultime pagine ribalta la prospettiva: Eros non visita l’amato, ma l’amante. 

E’ l’amante a essere posseduto dall’energia che trasforma le larve in uomini e gli uomini in dei. 

E’ l’amante che desidera, soffre, sublima. In una parola: ama. 

Ah, se avessi letto il Simposio con più attenzione al ginnasio. Ma forse non lo avrei capito. Ora invece so. So che la felicità non consiste nell’essere amati. Consiste nell’amare. Senza condizioni, nemmeno quella di essere ricambiati. 


Massimo Gramellini
L’amante immortale
BUONGIORNO
14/02/2013

20/02/19

Il Discorso agli Ateniesi di Pericle. Una pagina che bisogna rileggere oggi.






Pericle - Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.


Qui ad Atene noi facciamo così.

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così.