27/02/15

A Marzo una grande Mostra a Milano del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci.



Dal 10 marzo al 31 ottobre 2015, la mostra ‘La mente di Leonardo. Disegni di Leonardo dal Codice Atlantico’ presenta alla Pinacoteca Ambrosiana e alla Sagrestia del Bramante, 88 fogli che coprono gli interessi artistici, tecnologici e scientifici del Genio del Rinascimento, lungo tutta la sua carriera.

Saranno Leonardo da Vinci e il suo Codice Atlantico gli ambasciatori della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano ad EXPO 2015. Per tutto il periodo dell’Esposizione Universale, dal 10 marzo al 31 ottobre 2015, la mostra La mente di Leonardo. Disegni di Leonardo dal Codice Atlantico, allestita nei due spazi della Pinacoteca Ambrosiana e della Sagrestia del Bramante nel convento di Santa Maria delle Grazie, consentirà di far conoscere la personalità di Leonardo e la ricchezza delle tematiche da lui toccate, la varietà dei suoi campi di interesse e di studio, la particolarità della sua opera e del suo genio nel contesto del Rinascimento italiano. 

Attraverso gli studi presenti nello stesso Codice Atlantico o, per alcuni fogli sciolti, come quelli artistici, conservati in Ambrosiana. 

L’iniziativa chiude il ciclo di esposizioni iniziate nel 2009, in occasione del IV centenario dell’apertura al pubblico dell’Ambrosiana, col fine di offrire ai visitatori l’opportunità di potere ammirare nella quasi sua interezza il Codice Atlantico. 

La mente di Leonardo, curata da Pietro C. Marani, propone un nucleo di 88 fogli – esposti in due tempi, di tre mesi ciascuno – che illustrano alcune delle principali tematiche artistiche, tecnologiche e scientifiche, cui Leonardo si è interessato lungo tutta la sua carriera, e che si articolano in sezioni che danno conto di Studi di idraulica, Esercitazioni letterarie, Architettura e scenografia, Meccanica e macchine, Ottica e prospettiva, Volo meccanico, Geometria e matematica, Studi sulla Terra e il Cosmo e Pittura e Scultura. 


Quasi seguendo l’ordine delle proprie competenze elencato dallo stesso Leonardo nella celebre missiva con cui offre il suo lavoro a Ludovico il Moro.

“Sfogliando le pagine del Codice Atlantico - afferma Pietro C. Marani - in questo cuore segreto di Milano, ed esaminando i disegni e le carte in esso contenute, si rivive l’emozione di un contatto diretto con la mente di Leonardo, mentre si è catapultati nell’atmosfera e nel clima degli anni gloriosi del collezionismo milanese. Quando Galeazzo Arconati, nel 1637, poteva donare i preziosi manoscritti di Leonardo da lui fino ad allora posseduti, e custoditi nel Castellazzo di Bollate, alla Biblioteca Ambrosiana appunto”. 

Particolarmente interessante sarà l’analisi della tematica architettonica; in mostra si può ammirare una veduta di chiesa a pianta cruciforme che ricorda l’abside di Santa Maria delle Grazie a Milano, disegni per edifici ottagonali, lo studio per il Tiburio del Duomo di Milano che testimonia la presenza effettiva di Leonardo in quel cantiere o ancora i disegni per una galleria sotterranea, per una fortezza a pianta semi-stellare, per un ponte mobile. 

Questi ultimi tre studi d’arte militare danno l’idea delle applicazioni pratiche con cui Leonardo dovette cimentarsi al servizio dei potenti del suo tempo, come Ludovico il Moro, preoccupati per la loro sicurezza. 

La sezione ‘Congegni e invenzioni’ analizza uno dei campi di indagine più spettacolare esplorato da Leonardo: quello sul volo umano, qui rappresentato da quattro studi in cui la macchina volante è associata allo studio delle ali battenti.

Il Codice Atlantico (il nome deriva dal suo grande formato, tipo atlante) è la più ampia e stupefacente collezione di fogli leonardeschi che si conosca

Questo enorme volume (401 carte di mm 650x440) fu allestito nel tardo Cinquecento dallo scultore Pompeo Leoni (1533 ca.-1608) che raccolse, quasi alla maniera di zibaldone, una raccolta miscellanea di scritti e disegni vinciani costituita di circa 1750 unità.

Il materiale raccolto nel Codice Atlantico abbraccia l'intera vita intellettuale di Leonardo per un periodo di oltre quarant'anni, cioè dal 1478 al 1519. 

In esso si trova la più ricca documentazione dei suoi contributi alla scienza meccanica e matematica, all'astronomia, alla botanica, alla geografia fisica, alla chimica e all'architettura. Disegni di ordigni da guerra, macchine per scendere nel fondo del mare o per volare, dispositivi meccanici, utensili specifici di vario genere frammisti a progetti architettonici e urbanistici.

Ma c'è pure la registrazione dei suoi pensieri attraverso apologhi, favole e meditazioni filosofiche. I singoli fogli sono gremiti di annotazioni sugli aspetti teorici e pratici della pittura e della scultura, dell'ottica, della teoria della luce e dell'ombra, la prospettiva sino alla descrizione della composizione dei materiali usati dall'artista. 

Cinque anni dopo la morte di Pompeo Leoni, il figlio Giovan Battista offrì a Cosimo II de' Medici, Granduca di Toscana, l’acquisto del Codice Atlantico.

 Al suo rifiuto, nel 1622 Galeazzo Arconati, di nobile casata milanese, ottenne per 300 scudi una parte del tesoro vinciano dal genero di Pompeo Leoni Polidoro Calchi, marito della figlia Vittoria. 

Nel 1637, l'Arconati faceva munifico dono alla Biblioteca Ambrosiana del Codice Atlantico assieme ad altri 11 manoscritti leonardeschi e al De divina proportione di Luca Pacioli.

I codici vinciani rimasero custoditi con ogni cura nella Biblioteca Ambrosiana sino all'ultimo decennio del sec. XVIII. 

Il 15 maggio 1796 (26 fiorile Anno VI) l'esercito francese guidato da Napoleone entrava in Milano e quattro giorni dopo, veniva pubblicata un'ordinanza che, con il pretesto di conservare i patrimoni dell'arte, determinava i procedimenti da tenere nello spogliare le città di quegli oggetti artistici o scientifici che potevano arricchire i musei o le biblioteche di Parigi. 

Nella capitale francese il Codice Atlantico rimase sino al 1815 quando, in seguito alla capitolazione francese, fece ritorno alla originaria sede milanese per non muoversi più.

 È del 2008 la decisione di sfascicolare i 1118 fogli che, legati insieme e montati su grandi fogli di carta, costituivano i dodici volumi che formavano il Codice Atlantico. 

Dopo una serie di analisi sullo stato di conservazione dei fogli, e di incontri e discussioni scientifiche, mantenendo i passe-partout moderni sui quali erano fissati i fogli originali di Leonardo, si è resa possibile la visione, a rotazione, grazie al montaggio di ogni singolo foglio in un nuovo passe-partout rigido, di gran parte del Codice Atlantico


Milano, febbraio 2015 LA MENTE DI LEONARDO. Disegni di Leonardo dal Codice Atlantico Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana – Sala Federiciana (piazza Pio XI, Sagrestia Monumentale del Bramante (ingresso da Via Caradosso, 1) 10 marzo – 31 ottobre 2015 Orari: Pinacoteca Ambrosiana: da martedì a domenica (chiuso lunedì) dalle 10,00 alle 18,00, ultimo ingresso ore 17,30. Sagrestia del Bramante: lunedì 09,30 – 13,00 e 14,00 – 18,00; da martedì a domenica: 8.30 - 19.00, ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura Ingresso: Pinacoteca Ambrosiana: Intero: 15 €; Ridotto: 10 €; Scuole: 5 €; Universitari: 10 € (Pinacoteca e Sacrestia) Sagrestia del Bramante: Intero: 10 €; Scuole: 5 €; Universitari: 10 € (Pinacoteca e Sacrestia) Cumulativo (Pinacoteca + Sacrestia): Intero: 20 €; Ridotto: 15 €; Scuole: 8 € 

Ufficio prenotazioni: 02-80692248 

 prenotazione.visite@ambrosiana.it 

www.clponline.it Comunicato stampa e immagini su www.clponline.it

26/02/15

Il Buco Nero dei misteri che può riscrivere la storia dell'Universo - Una scoperta fantastica.



Pubblico a beneficio dei lettori questo meraviglioso articolo scritto da Emanuele Perugini per Il Messaggero, 26 febbraio 2015.


La storia dell’Universo, almeno così come la conosciamo, deve essere riscritta.

Se non del tutto, almeno per la parte che riguarda la formazione e il funzionamento dei buchi neri.

Un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizona ha infatti scoperto un buco nero così grande e luminoso da scombinare tutti i calcoli finora effettuati e le teorie che su quei numeri trovano solide conferme.

Del resto, da un buco nero, dall’oggetto cioè più misterioso e affascinante dell’Universo non potevamo aspettarci altro. Mentre però di solito sono i fisici e gli astronomi a fare le pulci quando capita che un film o un libro prendano in considerazione questi corpi celesti, come di recente il film Interstellar di Christopher Nolan, stavolta è stato un buco nero a fare le pulci agli scienziati, costringendoli a mettere in dubbio le loro solide certezze. I numeri, come si dice in questi casi, proprio non tornano.

I dati rilevati dagli astrofisici dell’Università dell’Arizona guidati da Xue-Bing Wu e pubblicati su Nature, sono impressionanti.

Il buco nero SDSS J0100+2802 (questa la sua sigla) o meglio il quasar che lo circonda ha una massa pari a 12 miliardi di stelle come il nostro Sole. Un decimo di tutta la Via Lattea. La sua luminosità, è un altro record assoluto perché è pari a 420 trilioni di volte di quella del nostro Sole.

Si tratta di numeri impressionanti e mai rilevati fino ad oggi, ma non sono questi i dati che hanno fatto saltare sulla sedia gli astrofisici di tutto il mondo.

Quello che più colpisce ed è veramente fuori da ogni teoria fin qui messa in tavola è la sua lontananza. Questo buco nero si trova infatti a una distanza di circa 12,8 miliardi di anni luce dalla Terra. E siccome la distanza, nello spazio, equivale al tempo, significa che la luce emessa da questo enorme corpo celeste è stata generata quando l’Universo aveva appena 900 milioni di anni.

Troppo poco tempo per arrivare a generare un buco nero di tali proporzioni. «Questo quasar è davvero unico» dice Xue-Bing Wu. «Scoprire che questo Quasar ha emesso la radiazione che abbiamo studiato appena 900 milioni di anni dopo il Big Bang ci ha letteralmente galvanizzato. Proprio come un faro, il più brillante tra quelli ai confini del cosmo, la sua intensa luce ci aiuterà a sondare meglio l’universo primordiale».

Xue-Bing-Wu

 La scoperta è stata realizzata combinando i dati raccolti dal telescopio da 2,4 metri di diametro Lijiang nello Yunnan (Cina), il Multiple Mirror Telescope da 6,5 metri, il Large Binocular Telescope in Arizona, il Magellan Telescope dell’Osservatorio di Las Campanas in Cile e, infine, il telescopio Gemini North da 8,2 metri sul Mauna Kea, Hawaii.

«La formazione di un buco nero così grande e così precocemente – ha spiegato Fuyan Bian, dell’Università Nazionale Australiana e che ha partecipato al lavoro – è difficile da interpretare sulla base delle teorie attuali».

BULIMIA

Si tratta di un oggetto formatosi nelle prime fasi di formazione dell’Universo e risulta ad oggi il più brillante oggetto antico mai conosciuto. Il mistero da risolvere è infatti capire come possa essere cresciuto così rapidamente.

Per arrivare a quei numeri «dovrebbe aver divorato – ha spiegato Adriano Fontana, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf)l’equivalente della Grande Nube di Magellano, una galassia nana compagna della Via Lattea, in appena qualche centinaio di milioni di anni!».

 In realtà non è così e i buchi neri, per quanto dotati di supermassa non possono essere bulimici. A un certo punto anche per loro c’è il rischio indigestione. Nel caso in cui dovessero assorbire una quantità davvero enorme di materia, l’energia che verrebbe rilasciata sarebbe così potente da annullare la forza d’attrazione gravitazionale del buco nero.

«Fino ad oggi – ha spiegato Fontana, che è anche il responsabile italiano dei dati del Large Binocular Teleschope, uno degli strumenti che sono stati utilizzati per studiare il buco nero – pensavamo che si trattasse di una stella alquanto vicina a noi. Ora però che sappiamo quale sia veramente, quanto smisurata sia la sua massa e la sua distanza, la sfida che abbiamo di fronte è spiegare come sia possibile trovare un oggetto tanto massiccio in un’epoca così remota».

Le ipotesi sul tavolo degli scienziati sono tre.

 «La prima – spiega Fontana – è che non abbiamo ancora ben compreso come funzionano i buchi neri. La seconda è che forse, all’inizio, nella prima fase di espansione dell’Universo fossero più grandi di quelli che osserviamo in fasi più vicine a noi. La terza, che è anche la più affascinante sotto il profilo teorico, ma anche la meno probabile, è che in realtà questa scoperta potrebbe portare indietro il momento in cui c’è stato il Big Bang.

 Le prossime indagini già in programma, che coinvolgeranno anche i telescopi spaziali Hubble e Chandra, potranno aiutarci a capire meglio la natura e la storia di questo mostro cosmico».

Emanuele Perugini, Il Messaggero, 26 febbraio 2015

25/02/15

Quel che resta del giorno.




Intervistato subito dopo aver ricevuto il Premio Oscar 2015 per la regia per il film Birdman, il regista Alejandro Gonzalez Inarritu alla domanda:  "Cosa rappresenta questo Oscar nella sua carriera? " ha risposto: Io non ho una carriera, ho una vita. E cerco di viverla pienamente, felicemente, intensamente.

E' una risposta esemplare, su cui bisognerebbe meditare. 

Uno dei più grandi titoli di romanzi degli ultimi anni è Quel che resta del giorno (è il noto libro dello scrittore giapponese naturalizzato inglese Kazuo Ishiguro, adattato a sua volta a film da James Ivory nel 1993).

Già: cosa resta del giorno, al termine delle nostre infaticabili giornate ?

La vita piena, felice o intensa, come quella che descrive Inarritu come orizzonte, non è data, non è il prodotto delle cose che si aggiungono alla propria vita (la carriera, in questo caso, i riconoscimenti, i premi, le incombenze, le attività, gli impegni). 

Non funziona così, anche se quasi sempre per combattere l'horror vacui ci illudiamo che sia così. 

E' in quel che resta del giorno (dopo tutto quello che nel giorno facciamo, occupiamo quasi militarmente) che è il senso. 

In quel vuoto che lasciamo, in quello spazio che facciamo, scorre la nostra vita interiore e ogni cosa importante. 

Una bottiglia piena non può contenere nulla. 

Solo un recipiente vuoto può ospitare.. quel che resta del giorno. 


Fabrizio Falconi -  (C) riproduzione riservata - 2015.


24/02/15

Piazza di Spagna, la Barcaccia, il malocchio e il fischio di Mosè.




Piazza di Spagna, il malocchio e il fischio del Mosè. 

Per molto tempo, la Piazza di Spagna fu definita cristianissima piazza, quasi si trattasse della Piazza più santa di Roma, ancor più di Piazza San Pietro. 

Ciò si doveva in parte alla pianta della Piazza, che sembra ricalcata quasi sul monogramma di Cristo, cioè il Labarum, il Chi-Ro, con le due lettere greche simbolizzate dalle quattro strade laterali che vi convergono e che sembrano una ics (la Chi greca) e l’asse centrale che l’interseca (da Via Condotti alla Scalinata) che rappresenterebbe la erre (la Ro greca); in secondo luogo per l’affollamento di edifici o monumenti di ispirazione cristiana che vi si affacciano, la Chiesa di Trinità dei Monti, il collegio di Propaganda Fide, la Barcaccia del Bernini che sembra richiamare la navicella di San Pietro e infine la colonna dell’Immacolata. 

Questa, ha una storia davvero particolare. Alta quasi dodici metri e con un diametro di un metro e mezzo fu rinvenuta integra durante scavi eseguiti nel 1778, e proveniva probabilmente dal complesso degli edifici augustei che sorgevano in quella zona nel I secolo d.C. 

Proprio per le sue notevoli dimensioni, però, la colonna rischiò incredibilmente di essere di nuovo sotterrata. 

Al contrario degli altri frammenti ritrovati in quegli scavi che si prestavano ad un rapido reimpiego, era difficile trovare una giusta collocazione ad una colonna così imponente. Restò dunque malinconicamente abbandonata per molti anni nei pressi del Quirinale, in attesa di una occasione per un suo riutilizzo, occasione che arrivò quando papa Pio IX decise di celebrare il dogma dell’Immacolata Concezione da lui proclamata. 

L’inaugurazione della Colonna (grazie ai diecimila scudi versati al Papa da Ferdinando II di Borbone), nella nuova collocazione avvenne l’8 dicembre – festa dell’Immacolata – del 1854, e a sorpresa, il Papa non fu presente. 

Uno dei cronisti dell’epoca, il britannico Norton, che era protestante, colse allora subito l’occasione per ironizzare sul Pontefice, vaticinando che l’opera avrebbe avuto sicuramente una ottima riuscita, visto che – come scrisse nei suoi diari – ho sentito dire che la sua presenza era temuta per la fama che egli ha di portare il malocchio. 


Davvero irriverente, nei confronti di un Papa... La Colonna, poi fu oggetto anche di un’altra celebre pasquinata: quando furono svelate le quattro statue alla base del monumento, rappresentanti i quattro profeti, Isaia, Ezechiele, David e Mosè, il popolo non tardò ad accorgersi che l’ultima di queste statue – proprio quella di Mosè – aveva una bocca che appariva sproporzionatamente piccola.

Pasquino allora scrisse uno sferzante epigramma, facendo finta di rivolgersi al Mosè, come aveva fatto Michelangelo, dicendogli: Parla ! E il Mosè dalla bocca piccola, gli rispondeva: Non posso ! E di rimando Pasquino: Allora fischia! E il Mosé: Sì, fischio lo scrittore ! Che era il povero e inconsapevole Ignazio Jacometti.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma  2013, 412 p., ill., rilegatoEditore Newton Compton.

20/02/15

L'amore folle tra Modigliani e Anna Achmatova - Un articolo di Sebastiano Grasso sul Corriere.




Nel 1906 Amedeo Modigliani arriva a Parigi dalla natìa Livorno. 

Ha 22 anni e vuole fare lo scultore («ténere colonne per un tempio della bellezza»). Montmartre, alberghetti; Bateau-Lavoir e La Ruche; Montparnasse, il primo mecenate (il medico Paul Aleixandre); l'amicizia con Soutine (che «adotta») e con Brancusi (che gli presta studio e attrezzi per scolpire); le lesioni polmonari che lo porteranno, con alcol e droghe, alla tubercolosi; la declamazione, per strada e nelle bettole,  di Dante, Leopardi, Baudelaire e D'Annunzio (dal quale, guardando al superuomo di Nietzsche, trae insegnamento per il proprio «eccesso nell'opera e nella vita»). 

Esuberante, irrita Picasso. Indossa abiti lisi, ma che, dicono «porta come un principe». 

Le donne lo idolatrano: non si contano le relazioni. 

Ha avuto un figlio (mai ammesso) da una studentessa canadese, Simone Thiroux («Il mio pensiero più tenero è per voi in occasione di questo nuovo anno che io vorrei fosse quello della nostra riconciliazione. Giuro sulla testa di mio figlio, che per me è tutto, che non ho in mente niente di cattivo. Vi ho amato troppo»), ma frequenta la poetessa inglese Beatrice Hastings di cui è gelosissimo. 

Giocando all'«amore folle», i due litigano dappertutto: «Scenate, seguite da incontri di pugilato», ricorda qualcuno. La leggenda comincia.

Nella primavera del 1910 una coppia di russi, poeti entrambi, fa il viaggio di nozze a Parigi. Si chiamano Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova ed hanno, rispettivamente, 24 e 21 anni. 

La donna è nipote di una principessa tatara, discendente diretta di Gengis Khan. Non particolarmente bella, ma interessantissima. «Alta, slanciata e flessuosa», la descrive un'amica. Fascino misterioso e gran classe. Forse è lo scultore bielorusso Ossip Zadkine a presentarli al Café La Rotonde. 


«Un vero uomo è poligamo, mentre una vera donna è monogama», afferma Nikolaj. Anna non è d'accordo. 

E, poi, la sua natura è troppo libera per adattarsi a sciocchi detti. «Erano inadatti ad una vita in comune», dirà un conoscente della coppia.

Modigliani e «il signore e la signora Gumilëv» si frequentano. 

Che cosa avviene? 

È Boris Nossik a ricostruire la vicenda in 178 pagine ( Anna e Amedeo, Odoya, 14). Occhiate intensissime fra i due e qualche stretta di mano furtiva, seguite da «lettere folli» di Modigliani per tutto l'inverno («Lei è come un'ossessione») che accompagna con ritratti a matita, quando i coniugi rientrano in Russia. 

Cui la donna risponde con versi («Oh come ritrovarsi, rapide settimane / del suo amore, etereo e fugace»).

La passione fisica esplode l'anno dopo. Anna ritorna da sola nella capitale francese ed affitta una casa in rue Bonaparte, dove Modigliani riempie di schizzi il suo taccuino blu. 

Settimane, giorni, ore vengono ricostruiti da Nossik nei minimi particolari. 

Soprattutto attraverso documenti e testimonianze.

Romanzo, racconto lungo? No. Piuttosto, una sceneggiatura. Manca solo il sottofondo musicale per accentuare il pathos dei momenti culminanti. «Mi diverte quando sei ubriaco / e nelle tue storie non c'è più senso. / Un autunno precoce ha sparpagliato / gialli stendardi sugli olmi», scrive l'Achmatova.

Vanno in giro a visitare gli studi degli amici pittori; infilano le viuzze di Montmartre e Montparnasse; passeggiano per i giardini del Lussemburgo e in rue Tournon, dietro il Panthéon, per vedere la casa di Giacomo Casanova.

Ma arriva il momento dell'addio. 

Il Canto dell'ultimo incontro verrà scritto a Carskoe Selo: «Gettai uno sguardo alla casa buia. / Solo in stanza da letto le candele / ardevano di un lume indifferente e giallo». 

La leggenda continua


19/02/15

"Il pappagallo di Flaubert", di Julian Barnes. Un grande romanzo (recensione).




Aveva già pubblicato due romanzi, racconta lo stesso Barnes, prima di questo, ma erano stati un mezzo fallimento, "avevano venduto sì e no un migliaio di copie in edizione rilegata, raggiungendo a stento il traguardo del tascabile." 

Poi è arrivato questo, e per lo scrittore inglese si sono aperte le porte di un successo internazionale, nato dal door to door, dal passaparola.

Cosa ha fatto del Pappagallo di Flaubert  un successo ? Cosa ha fatto di questo strano romanzo un libro notevole, diverso da tutti gli altri ? 

Memoir, saggio, romanzo, biografia, Il Pappagallo di Flaubert appartiene ad un genere indefinibile. Anzi non è un libro di genere, per l'appunto. 

Con il pretesto di raccontare Gustave Flaubert, l'immenso scrittore di Bovary, di raccontare la sua storia, le sue fissazioni, il suo trauma, il suo rifiuto d'amare per paura di soffrire, il suo cuore barricato, il suo apparente cinismo che velava una vulnerabilità perfino eccessiva, le sue malattie, le sue amicizie, i suoi viaggi, il suo erotismo esuberante, le sue amanti, gli amori falliti, le amicizie, le avventure estemporanee omosessuali, Barnes ci racconta se stesso e la sua visione del mondo, attraverso l'alter ego del medico Braithwaite, maniaco studioso di Flaubert ai limiti del feticismo, ossessionato dall'idea di rintracciare il vero pappagallo impagliato usato dallo scrittore francese come modello per quello vero al centro della narrazione di Un coeur simple.

Gustave Flaubert

Barnes ha dunque utilizzato tutto il materiale raccolto su Flaubert utilizzandolo in un perfetto congegno narrativo, destinato a tutti anche chi non ha mai amato o letto il grande classico francese.

Perché è un libro sulla vita, più che sulla letteratura.

Flaubert, che passò tutta la vita a difendersi dagli eccessi emotivi, ha descritto nei suoi romanzi il cuore umano con la precisione che forse nessun altro è riuscito ad avere,  le debolezze, le cadute, i miasmi che si agitano dentro ogni cuore umano. E la forza di sopravvivenza, la disperazione capace di sublimarsi in arte.  

Si scoprono meraviglie linguistiche di Flaubert, aforismi grandiosi (nella virtuosistica traduzione di Susanna Basso), ma la gara è tra quello che leggiamo proveniente direttamente dal genio di Rouen (il mio cuore è intatto, ma i miei sentimenti sono affilatissimi da un lato e smussati dall'altro, come un vecchio coltello molato troppe volte che è pieno di tacche e rischia di spezzarsi ) e quella che è farina del sacco di Barnes (E poi lo saprete anche voi, non è che davvero cerchiamo e scegliamo, non credete ? Siamo scelti piuttosto; veniamo eletti dall'amore attraverso un voto inappellabile, a scrutinio segreto). 

Il pregio più grande di questo libro è anzi proprio questo: quello che ad un certo punto le due voci del romanzo si con-fondono, diventando quasi una, rendendo quasi impossibile dividere l'una e l'altra. Barnes sembra acquisire i resti (oltre che le reliquie materiali) del suo mèntore. La sua narrazione si fa pura luce, pura chirurgia, come era quella del grande Maestro.


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015


Julian Barnes 

18/02/15

"La sua vita era una scuola di disobbedienza." - Un libro-biografia su Henri Cartier-Bresson.




Racconta la storia di uno sguardo la biografia che Pierre Assouline ha dedicato a Henri Cartier-Bresson. Proprio a lui, il grande fotografo, il disegnatore, il viaggiatore, l'artista, "l'occhio del secolo" come veniva chiamato, che "inorridiva solo a sentire parlare di biografie".

La scintilla che ha convinto Assouline e' stata il "prendere coscienza che la vita di Henri Cartier-Bresson era una scuola di disobbedienza". A spiegarlo e' lo stesso Assouline, scrittore e giornalista, autore dell'apprezzata biografia di Georges Simenon, nell'introduzione a 'Henri Cartier-Bresson. Storia di uno sguardo' che esce il 19 febbraio nella collana 'In Parole'di Contrasto, con 25 foto in bianco e nero, nella nuovatraduzione di Laura Tasso.

Il libro e' il risultato di una lunga conversazione privata tra Assouline e Cartier-Bresson durata cinque anni a casa dell'uno o dell'altro, al telefono, per cartoline o via fax. Un lavoro accurato ma nato da un incontro speciale ("aveva finalmente accettato l'idea di un'intervista, benche' a una condizione: che tale non fosse") che ha permesso ad Assouline di disobbedire al grande fotografo che non voleva si scrivesse della sua vita, alquale e' stata recentemente dedicata una mostra all'Ara Pacis diRoma che ha visto un record di 120 mila presenze.

"E' il libro che lo racconta meglio. Assouline ha conosciuto Cartier-Bresson, era una persona che andava al di la' della sua opera fotografica, che si contraddiceva. Mi e' piaciuto molto il modo in cui e' riuscito a raccontarlo" dice all'ANSA Roberto Koch, fondatore e direttore di Contrasto.

La grande curiosita' e l'antico fascino che Cartier-Bresson esercitava hanno fatto superare ad Assouline ogni paradosso e contraddizione fino a perdersi nel "suo universo interiore senza preoccuparsi della cronologia" per raccontare la storia di un uomo "che si e' posto - dice il biografo - tutta la vita la stessa domanda: 'di che si tratta? e che non ha mai trovato la risposta perché non esiste".

Pioniere del foto-giornalismo, il fotografo che ha raccontato Gandhi a poche ore dal suo assassinio e la vittoria dei comunisti cinesi, da adolescente si dedicava solo all'arte, si sentiva piu' disegnatore che pittore e il tratto distintivo del suo carattere era la rabbia, che non e' mai riuscito a domare. 
Viaggiatore, innamorato dell'Africa che restera' sempre nel suo cuore, Cartier-Bresson gia' a ventitre' anni aveva capito che "l'importante e' avere un'idea e seguirla fino in fondo. Una sola basta a impegnare un'esistenza" ricorda Assouline. E quando decide di fare il fotografo lo annuncia al padre, che non lo considera un mestiere ma un hobby, facendosi accompagnare da Max Ernst, che ha 17 anni piu' di lui. Ma diventa veramente fotografo un giorno del 1932 quando trova il suo strumento: la Leica che sara' sempre la sua compagna di strada.

Figlio di Marthe, intellettuale, meditativa, alla quale Henri assomigliava, e di Andre', un uomo con un forte senso del dovere, Henri, detto Cartier, detto HCB, viene raccontato in nove capitoli, dalla nascita il 22 agosto del 1908 alla morte il 3 agosto 2004, a pochi giorni dai suoi 96 anni, annunciata a esequie avvenute. L'uomo che veniva definito "l'occhio del secolo", tra i fondatori della Magnum Photos, non "era malandato, ma stufo, e si e' spento dolcemente. Pare che si sia lasciato morire" dice Assouline nel libro e ci ricorda che alla sua scomparsa "capimmo che solo in quel momento il secolo nuovo era cominciato".

17/02/15

Dio non è felice.


Dio non è felice. Lo sento. 

E’ per questo che non risponde, e non esaudisce mai le mie preghiere. Lui ci ha riempito di bene e di male, e lo ha fatto perché così noi abbiamo anche bisogno di temerlo. Altrimenti, non servirebbe a nulla rivolgersi a Lui, e nemmeno sperare, servirebbe. Che senso avrebbe, sennò, un Dio che non risponde ? 

Oppure, non risponde semplicemente perché non esiste. Ma questa è un’idea ovvia, e perfino troppo strana, e per questo preferisco pensare che non risponda non per questo, ma perché non è felice. In questa sua infelicità c’entriamo anche noi, per forza. 

E’ lo stesso motivo per cui, quando torno a casa, Nero non mi viene incontro, scodinzolando, come faceva nel tempo beato che fu. Non è felice. I cani, poi, hanno un modo risentito di mostrarti che non sono felici. 
Si ricordano di quando non avevi occhi e attenzione che per loro, e io li vedo - durante la passeggiata al giardino - quei padroni ciondolanti e indecisi sotto la chioma di qualche licustro aspettare che loro finiscano di odorare il prato: vedo i cani tornare indietro di malavoglia, ingobbiti e depressi. 

Come se i padroni fossero invisibili li sopravanzano, conoscendo già a memoria la strada, si voltano alla fine come per dire: “allora ? Ci vuole così tanto?”. 

Anche Nero mi rimprovera. Non a caso: è un cane sveglio, lo è sempre stato. E’ sveglio, ma non è più un cane felice. E l’istinto canino gli deve dire, a gran voce, che io c’entro qualcosa con questa sua infelicità. Non arriverà mai ad accusarmi esplicitamente, a pretendere, a ringhiare come fanno i cani quando non sono soddisfatti, o a vendicarsi, perché un cane è un cane, e Nero è – da questo punto di vista – il migliore dei cani. 

Ma il suo modo di farmi capire che non è felice, mi colpisce, non mi aiuta. Non afferra più il bordo del guinzaglio per concedersi un quarto d’ora di matte risate canine, come faceva fino a poco tempo fa. Non mi concede nemmeno qualcuna delle sue goffe imboscate con cui mi spaventava sbucando fuori dalle porte nei lunghi pomeriggi invernali.


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015.

16/02/15

Per la prima volta riuniti gli arazzi di Bronzino, Pontormo e Salviati: Una imperdibile mostra al Quirinale.


Gli splendidi venti arazzi raffiguranti le storie di Giuseppe Ebreo, esposti per più di un secolo nel Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio, nel 1882 furono divisi, per volere dei Savoia, tra Firenze e il Palazzo del Quirinale.

Ed ecco che ora tornano eccezionalmente ad essere esposti insieme in una esposizione unica a Roma, nella prestigiosa sede del Salone dei Corazzieri del Palazzo del Quirinale.

Prossime tappe: Milano, Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale e Firenze, Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio. 

Questa serie di tele monumentali rappresenta una delle più alte testimonianze dell’artigianato e dell’arte rinascimentale. 

Tessuti per incarico di Cosimo I de’ Medici nella manifattura granducale alla metà del XVI secolo su cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati, i venti arazzi tornano ad essere esposti insieme per la prima volta dall’Unità d’Italia. 

La straordinaria raffinatezza della loro manifattura, l’unicità della composizione dei soggetti raffigurati, la singolare vicenda storica che li ha interessati, profondamente intrecciata alla storia d’Italia, fa di questo progetto espositivo un evento di portata internazionale e di eccezionale rilevanza simbolica, culturale e storico artistica. 

Gli arazzi con le storie di Giuseppe vennero commissionati da Cosimo I de’ Medici tra il 1545 e il 1553 per la Sala de’ Dugento di Palazzo Vecchio a Firenze. 

I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti Pontormo. Ma le prove realizzate da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo di Pontormo e già pittore di corte, e a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. 

Gli arazzi vennero realizzati nella manifattura granducale dagli arazzieri fiamminghi Nicholas Karcher e Jan Rost. 

 Le venti tele raccontano la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, odiato dai fratelli perché prediletto dal padre. Cosimo de’ Medici nutriva una particolare predilezione per la figura di Giuseppe, nelle cui fortune vedeva rispecchiate le alterne vicende dinastiche medicee: Giuseppe, tradito e venduto come schiavo dai fratelli, fatto prigioniero in Egitto, riesce comunque, grazie alle sue rare doti intellettuali, a sfuggire alle avversità, a perseguire una brillante carriera politica e a raggiungere posizioni di potere. 

Abile parlatore, consigliere e interprete dei sogni del Faraone, mette in salvo un’intera popolazione dalla carestia e, infine, dà prova di clemenza e magnanimità, perdonando i fratelli che lo avevano tradito. 

La mostra è patrocinata dalla Presidenza della Repubblica Italiana, dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali, dal Turismo Comune di Firenze e dal Comune di MilanoEXPO Milano 2015

15/02/15

Poesia della Domenica - 'Sulle dune' di Aleksandr Blok




SULLE DUNE


A me non piace il vano dizionario
delle frasi e vocaboli d'amore:
"Sei mio." "Son tua." "Io t'amo!" "Tuo per sempre.
A me non piace essere schiavo. Io guardo
la donna bella in fondo alle pupille
e le dico: "Stanotte. Sai, domani
è un altro giorno, nuovo e bello. Vieni.
Portami una follia nuova, trionfale.
All'alba me ne andrò via per cantare".

L'anima mia è semplice. Nutrita
fu dal vento salmastro e dall'aroma'
resinoso dei pini. Ella è segnata
dalle impronte medesime che rigano
la pelle segaligna del mio viso,
che è bello della squallida bellezza
delle fredde marine e delle dune.

Cosí pensavo lungo la frontiera
di Finlandia, la lingua decifrando
strana nei verdi occhi dei Finni scialbi.
C'era gran pace. Accanto alla banchina
un treno pronto accese fuoco e fumo.
Pigra la russa guardia doganale
riposava su un cumulo di sabbia
erto, dove finiva il terrapieno.
Là cominciava un'altra terra, e muta
una chiesa ortodossa contemplava
lo sconosciuto estraneo paese.

Cosí pensavo. Ed ella sopraggiunse,
si fermò sulla china: erano gli occhi
rossi di sabbia e sole. Ed i capelli,
unti come la resina dei pini,
cadevan sulle spalle in flutti azzurri.
S'accostò. S'incrociò il suo ferino
sguardo col mio sguardo ferino. Rise
ad alta voce. E gettò contro a me
un ciuffo d'erba e un pugno d'aurea sabbia.
Poi con un balzo risali. Scomparve,
galoppando al di là del terrapieno.

La inseguii di lontano. Mi graffiavano
le felci il volto. Insanguinai le dita,
mi lacerai il vestito. Ma correvo
urlando come belva e la chiamavo :
e la mia voce era suon di corno.
Ma lei, delineando un'orma lieve
sulle dune friabili, scomparve
fra le trame notturne degli abeti.

Ora io giaccio anelando sulla sabbia.
Ma ancora nelle mie rosse pupille
ella corre, ella ride: ed i capelli
ridono ancora, ridono le gambe,
ride al vento la veste nella corsa.

Io giaccio e penso: oggi sarà notte.
Domani sarà notte. Rimarrò
qui finché non l'agguanti come fiera
o col suono di corno della voce
non le tagli la fuga. E non dirò:
"Mia. Sei mia". Purché lei mi dica:
"Son tua! son tua!".


Aleksandr Blok (1880-1921)

14/02/15

Carlo Rovelli: Sette brevi lezioni di fisica. Un caso editoriale.





Consola sapere che un libro come Sette brevi lezioni di fisica edito da Adelphi è diventato in Italia un best-seller.   Oltre 70.000 copie infatti sono state vendute di questo libricino di appena 85 pagine che mette in scena - è il caso di dire - le moderne acquisizioni scientifiche in materia di teoria generale della relatività, meccanica quantistica, astrofisica e fisica delle particelle elementari. 

Un territorio apparentemente ostico, che Rovelli attraversa con passo british, cioè leggero ed essenziale. 

La divulgazione scientifica nel nostro paese fa sempre fatica. Ma Rovelli, che da molti anni lavora all'estero e attualmente al Centro di Gravità Quantica di Marsiglia, sembra aver trovato la formula giusta.

7 semplici lezioni, di poche pagine ciascuna, che affrontano temi vertiginosi, come i buchi neri, l'illusione spazio-temporale, la probabilità, il calore, l'architettura incredibile del cosmo e delle particelle di cui esso - e anche noi stessi - è costituito. 

Il segreto forse è tutto qui.  Se si sono approfonditi altrove questi temi, il libro potrà risultare anche troppo leggero. Ma se si vuole invece cominciare, se si vuole entrare nel rovescio di prospettiva che rende ardua da pensare la nostra condizione di esseri gettati  (come diceva Heidegger)  nella esistenza, consapevole, in questo incredibile, meraviglioso mistero, questo forse è proprio il testo ideale.

Vi si trovano piccole perle come questa: Abbiamo cento miliardi di neuroni nel nostro cervello, tante quante le stelle di una galassia, e un numero ancora più astronomico di legami e combinazioni in cui questi possono trovarsi. Di tutto questo non siamo coscienti. "Noi" siamo il processo formato da questa complessità, non quel poco di cui siamo coscienti.

Fabrizio Falconi

Carlo Rovelli

12/02/15

Grandi presenze e grandi distacchi: l'amore secondo Terzani.




Mi permettete di parlarvi un attimo dell’amore? Quando si nasce, secondo me, si nasce a metà, perché nell’origine si era una cosa insieme, poi ci ha separato il tempo, lo spazio, ma la vita diventa pienezza quando si trova l’altra metà, e io in questo sono stato fortunatissimo, per questo e per tante altre cose.

E così, in mia moglie, ho trovato l’altro pezzo di me molto presto: avevo appena fatto la maturità, e con quest’altro pezzo abbiamo fatto la strada insieme. E questo è bello perché si cresce insieme. Tanto è vero che io non mi vergogno a dire che quel che vedete qui, davanti a voi, è in gran parte il frutto del rapporto con questa mia straordinaria moglie.

Se poi mi chiedete: ma com’è che sei riuscito a stare quarantadue anni con la stessa persona, in questi tempi in cui si consuma tutto: si consumano le scarpe, gli orologi, i telefonini e anche i partner, i mariti, le mogli e perfino i fidanzati?

Debbo dire che ognuno deve trovare la sua formula nell’amore: la mia è stata questa, ma non è ripetibile, vi prego, e non pensate che tutto quello che io vi voglio dire stasera, sia la formula per la vita, o la soluzione per la pace.

Io non ho formule, non ho nemmeno risposte ai problemi del mondo, che sono immensi, ho soltanto delle domande, non ho nemmeno certezze, ho dei dubbi da porre a chi crede di avere certezze e poi non le ha.

La formula del mio matrimonio è questa: grandi presenze e grandi assenze
Vi faccio anche l’esempio: io avevo già due figli piccoli, e facevo il corrispondente di guerra in Vietnam, dove non potevo tenerela famiglia perché era pericoloso. Chi di voi lo ha studiato, si ricorderà che, nel 1968, in Vietnam c’erano i vietcong che attaccavano le città, e non si poteva tenere i bambini in una zona di guerra, e così i miei stavano con la madre a Singapore, mentre io facevo il corrispondente di guerra in Vietnam, in Cambogia, nel Laos, e poi nelle guerriglie in Indonesia, in Malesia... ero sempre fuori.

Stavo via due o tre settimane e poi tornavo a casa. Ed era bellissimo tornare, perché ero pieno di piccoli regali per i bambini, e tante esperienze da raccontare a mia moglie, che a sua volta mi raccontava le sue. E questo era bello perché tutt’e due avevamo qualcosa da scambiarci. Tant’è vero che dopo un po’ di giorni mia moglie mi diceva: «Ma non hai qualche altra guerra da andare a raccontare?».

Per cui la mia formula era questa: grandi presenze e grandi distacchi. (...)

L’amore!? Una cosa che ormai è diventata così poco di moda. Chi di voi ha i capelli bianchi come me, si ricorderà che la nostra generazione, diceva «fare all’amore» e non «fare sesso». Io trovo, che se insegnassimo ai nostri figli già queste espressioni, avremmo fatto qualcosa di interessante. Avremmo riportato nella vita quella cosa stupenda e meravigliosa che è l’amore. Qualcosa che è più grande della materia.

Qualcuno dirà: «Ma il sesso è importante!».
Lo dite a me che ho 63 anni e ho girato il mondo?
Ma è la cantina, non è l’ultimo piano!

Molti giovani e molti adulti oggi hanno paura a dire: «Sono innamorato, ti amo!»

Perché pensano che sia una debolezza, una vulnerabilità, uno sdilinquimento che non è una forza. Io trovo che se riparliamo d’amore è bellissimo, e il mio messaggio ai giovani è: vi prego, riscoprite la voce del cuore, la testa è bella, la testa è importante, ma la ragione non è tutto! Dobbiamo ascoltare il cuore e il cuore parla con la voce uguale. Mussulmani, cristiani, ottentotti, il cuore è uguale dappertutto. Non c’è un cuore orientale e un cuore occidentale, non c’è una psiche orientale e una psiche occidentale: noi siamo dentro la psiche che è uguale dappertutto. La vita è una, una! Questa piccola straordinaria vita è parte di una cosa meravigliosa, dell’universo...

E questo, ritornando nella natura, è una cosa che sento molto. Io, ora, me lo sono permesso: ho 63 anni e vivo in mezzo alla natura. Cosa che suggerisco a tutti di fare.(...)

Certi grandi dicono che la miglior forma di comunicazione è il silenzio. E le parole spesso sono trappole.
Vi faccio un esempio con una parola che tutti, tutti, tutti conosciamo. La parola “amore”.
A volte è una cosa meravigliosa, a volte una grande sofferenza, a volte una grande gioia, a volte una grande forza, a volte un fuoco, a volte un senso di insufficienza... amore.

Amore: tutto lì? Tutte queste cose? Tutte lì? In questa scatolina della parola? L’amore è molto di più di quella parola, eppure non troviamo altro modo di esprimerlo che con quella parola. (...)


Il testo di Tiziano Terzani arriva in libreria in questi giorni, nel volume di inediti “Le parole ritrovate” (editrice La Scuola) che raccoglie, a cura di Mario Bertini, quattro interventi fatti a Firenze e dintorni tra il febbraio e il marzo del 2002, accompagnati da una rassegna di fotografie. 

10/02/15

Saul Bellow: "Il mio lavoro è essere me stesso."



"Ho delle risposte e ho anche delle domande, e con questo voglio dire che ho smesso da un po' di cercare qualcosa di definitivo.  Ho l'impressione di credere in cose in cui non ho mai pensato di credere, e che agiscono che io voglia o no. Quindi non si tratta di rifletterci sopra, ma di imparare a conviverci. 


E bisogna accettare il fatto che stai cercando di convivere con le preferenze o con le decisioni segrete di cui un modo o nell'altro non sei mai riuscito a liberarti. E non te ne libererai mai. Adesso lo sai. Per esempio, ho smesso di tormentarmi riguardo alla fede in Dio. Non è una domanda vera.


La domanda vera è: "Come mi sono sentito in tutti questi anni?" e "In questi anni ho creduto in Dio?" tutto qui. Cosa ci puoi fare ? Non si tratta dunque di liberare l'intelletto dai vincoli, si tratta innanzitutto di cercare di decidere se la fede sia un vincolo e poi accettare ciò in cui si crede, perché per ora è ciò che possiamo fare." 

Allora torniamo alla scrittura, la tua immagine...

"Il mio lavoro è essere me stesso. E nell'essere me stesso divento un fenomenologo elementare, o fondamentale.   
Ed è così che faccio tornare i conti, prima di andarmene.  Mi chiedi cosa significa essere un artista. Prima di tutto vedi ciò che non hai mai visto prima; hai aperto gli occhi e c'era il mondo; il mondo era un posto molto strano; ne hai ricavato la tua versione, non quella di qualcun altro; e sei rimasto fedele alla tua versione e a quello che hai visto.  Credo che, in senso personale, sia questa la radice del mio essere scrittore. E tu sai perfettamente di cosa sto parlando."

Cosa pensi del mondo?

"Be' posso dire senza alcun problema che non credo che il mondo si sia sviluppato o evoluto in maniera casuale e non diretto da una intelligenza superiore.
Non può essere stato casuale.  Una volta ho avuto una discussione con un famoso biologo che sosteneva: " Se c'è abbastanza tempo può accadere in base a un processo casuale, e visto che sono passati miliardi e miliardi di anni, il tempo c'è stato."  Io ho risposto: "Sufficiente a spiegare l'equilibrio ormonale nel corpo di una donna incinta ? Aleatorio ? Io non credo."  Non credo che sia andata così, questo è il mio scetticismo naturale, diretto contro la scienza, non contro la religione.

Ci fu una famosa controversia, forse un litigio tra Einstein e Bohr. Bohr aveva una visione diversa - sul grande gioco della natura, sul fatto che sia casuale - ed Einstein gli disse: "Senti, io non credo. Sono d'accordo che Dio giochi, e quel gioco non lo capiamo, ma sappiamo comunque che si tratta di un gioco."

"Sì adesso me lo ricordo. Non dico che le conclusioni cui sono giunte siano quelle corrette.  Quello che dico è che è arrivato il momento di fingere che io non ci creda.  In un certo senso ci credo. Uso la conoscenza che ho accumulato in ottantacinque anni. Lo applico a queste domande e mi dico: come può tutto questo essere il risultato di miliardi di episodi casuali ? E' impossibile."



Tratto da Saul Bellow, "Prima di andarsene", Una conversazione con Norman Manea, Il Saggiatore, 2013. 




09/02/15

Vedere e credere, non vedere non credere.



Un bambino di 5 anni mi ha chiesto se sono sicuro che esista l'aria, dal momento che non si vede. E anche il vento. 

Gli ho risposto che noi giudichiamo se una cosa esista dal fatto che produca un qualche effetto su di noi (l'aria ci fa vivere, il vento muovere i vestiti), ma poi mi son detto che i nostri 5 sensi non ci avrebbero mai detto che esistono le onde radio e che l'uomo ha vissuto per una qualche decina di migliaia di anni convinto che non esistessero finché a qualcuno non è venuto in mente di alzare un'antenna. 

Il bambino però già lo sapeva e si è messo a ridere dicendo che per credere non bisogna per forza vedere.

E' la lezione di Saint-Exupéry e del Piccolo Principe, che tutti possiamo sperimentare. 

I sentimenti, le parole che non si pronunciano mai, quello che si sente, quello che non c'è se non nella nostra testa, è ciò che ci tiene maggiormente occupati e che ci fa credere o non credere.

Ciò che esiste o no, dipende quindi dipende molto labilmente da ciò che è

Ma è l'unico strumento di orientamento di cui si dispone.  E anche l'unica cosa su cui due persone - che credono la stessa cosa - possono ri-trovarsi, nella limitata condizione terrestre.



Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015

06/02/15

L'aura, che oggi è scomparsa.



Ascoltando qualche tempo fa in televisione Umberto Galimberti mentre parlava del carisma (o della mancanza di carisma) degli uomini impegnati sulla scena politica, mi è venuto in mente che oggi in Italia, ma un po’ in tutto l’Occidente si fa un gran parlare di carisma. 

Oggi questo termine viene inteso non nel vecchio senso religioso, ma in quello adottato dalla psicologia, e cioè intendendo la capacità di avere influenza sulle persone – ma la radice etimologica è la stessa e deriva dal greco antico di chàris – ovvero di ‘grazia’. Avere grazia. 

Ora è ben certo che molte persone alle quali noi oggi attribuiamo carisma possiedono ben poca grazia. Anche Marylin Manson è carismatico, senza alcun dubbio. E forse anche un assassino o un serial killer ai nostri occhi potrebbe essere definito carismatico.  

Io credo che come ribellione a questa inflazione di banali carismi, spesso alquanto discutibili, bisognerebbe tornare all’antico concetto di Aura. 

Il termine aura deriva anch’esso dal greco, dalla parola alos, che vuol dire corona. Da molte diverse dottrine e religiose orientali e occidentali viene condivisa la convinzione – resa manifesta dall’evidenza – che alcune persone più di altre, posseggano un sottile campo di radiazione luminosa, intorno al loro corpo biologico. 

E’ naturalmente una credenza che non ha basi positivo-razionalistiche, (anche se ci sono scienziati russi che hanno dedicato serissimi studi per misurare il peso dell’anima e il tema apparentemente di natura paranormale è oggetto di ricerca scientifica). 

La connotazione di aura, nelle tradizioni spirituali, non è soltanto un segnale di carisma, di capacità di influire ma è il segnale di un carisma buono, di una influenza buona

Le persone in possesso di un’aura particolarmente luminosa – non a caso il termine cristiano aureola è una derivazione dell’aura, e fu iconizzata a partire dalla pittura medievale – infatti non si limitano ad avere un’influenza sulle persone. Orientano questa influenza verso l’umano: aiutano le anime che incontrano a tirare fuori il meglio, ad evolversi, a crescere, a raggiungere una pienezza esistenziale, spirituale prima che morale. 

 Forse tutti noi, oggi avremmo bisogno di qualche aura – vera – in più e di qualche carisma in meno.

05/02/15

Circostanze e conseguenze.




Tutto somiglia ad un lago lento e calmo.  Tutto si riposa, tutto si spiega e va avanti, tutto recalcitra e resta nascosto. 

Le conseguenze appaiono, e sono come lampi nel cielo.

In fondo è rimasto l'azzurro e permane, ma presto la notte si colorerà del violetto dei lampi e risuonerà la grancassa dei tuoni. La pioggia non smetterà.

Domani mattina ci alzeremo e con passo leggero, le conseguenze appariranno e faranno visita alla nostra casa, rallegrando il sentiero, rallegrando le prime ore del giorno, la fame e il risveglio.

Ecco come sono io: un pozzo di circostanze, un pozzo nero che nessuno vede, un pozzo azzurro di conseguenze, un pozzo che produce acqua nitida.

Mi ha chiamato una circostanza, mi ha svegliato una conseguenza. 

In tutto questo tempo, non ho dormito.  Le acque del mio lago pullulavano sempre di vita. Volevano allagare i campi, volevano restare negli argini, ritirarsi e lentamente evaporare, come nel tempo d'estate.

La trasformazione delle circostanze in conseguenze appaga il mio cuore umano. Lo rende irrintracciabile.



Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015.



'La mia vita con Leonardo'. (Electa)



Electa pubblica La mia vita con Leonardo, il libro attraverso il quale Pinin Brambilla Barcilon racconta i vent’anni di lavoro appassionato per il restauro dell’Ultima Cena di Leonardo. 

Nel 1977 venne chiesto a Pinin Brambilla Barcilon, che aveva alle spalle un’esperienza pluridecennale nel restauro delle pitture murali, di avvicinarsi alla parete dell’Ultima Cena, il capolavoro di Leonardo da Vinci nuovamente minacciato da problemi di conservazione. 

Da quell’incontro prese avvio uno dei più intriganti e controversi cantieri di restauro del Novecento, un’impresa durata oltre vent’anni e destinata a restituire, per la prima volta dopo secoli, la pittura di Leonardo. 

Per circa vent’anni L’Ultima Cena di Leonardo è stata una sorta di compagno di vita per la restauratrice, un compagno che esigeva tutta la passione e la dedizione di cui era capace. 

Sin dall’inizio l’avvio del restauro ebbe grande risonanza sui principali giornali del mondo e Pinin Brambilla Barcilon – schiva per natura e abituata a lavorare con discrezione – si trovò improvvisamente a essere un personaggio da copertina, anche perché all’epoca c’era molta curiosità intorno alla figura di una restauratrice donna. 

Dichiarò in un’intervista: “Che figlio è Leonardo? È un figlio fuori del tempo, di enorme inventiva, alla perenne ricerca della perfezione. È un figlio difficile che mi dà delle preoccupazioni, chissà se mi sarà grato... 
Non so se gli piaccia che si mettano le mani sulle sue opere”. 

Nel libro l’autrice racconta i ricordi personali, le emozioni, le difficoltà incontrate, i momenti salienti – come l’intervento di Olivetti a sostegno del restauro –, ma anche i dettagli tecnici del lavoro. Gravi eventi storici avevano compromesso nei secoli la sopravvivenza del Cenacolo: nel 1796 i soldati francesi trasformarono per tre anni il Refettorio in una stalla, nel 1848 l’esercito austriaco utilizzò l’ambiente per l’acquartieramento delle truppe, ma l’evento più drammatico si verificò nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1943, quando un ordigno caduto nel mezzo del chiostro grande provocò il crollo del muro e della volta del Refettorio. 

Con cura meticolosa, sui ponteggi, spesso sotto gli occhi dei visitatori, la restauratrice porta a termine il restauro del capolavoro che il 27 maggio 1999 con l’inaugurazione del dipinto restaurato, tornava a essere visibile nel massimo della sua leggibilità, lasciando emergere quella “verità” degli animi, degli oggetti, della natura che è ancora oggi all’origine dello stupore che la restauratrice conserva intatta. 

Conclude il libro un capitolo nel quale l’autrice ripercorre la parete vinciana ricordando gli aspetti dell’iconografia riemersa che la colpirono di più. “Avvicinarsi al genio universale di Leonardo costituisce nella carriera di un restauratore un’occasione unica, irripetibile... dovevo vincolare la mia emotività a una disciplina ferrea, dovevo raccogliere tutta la mia concentrazione e tenere a portata di mano, perfettamente schierati, tutti gli strumenti del mestiere.” (Pinin Brambilla Barcilon) 

LA MIA VITA CON LEONARDO autore: Pinin Brambilla Barcilon pagine: 128 illustrazioni 12 editore: Electa prezzo: 19,90 euro in libreria: 24 febbraio 2015.



02/02/15

Roma è un sogno concreto.


Roma per me è un sogno concreto. Non è questione di colori, o di storia. E’ la realizzazione di un sogno misterioso contenuto nell’anima di ciascuno. Provo a spiegarmi meglio: Roma esiste prima che nella sua materia, nella sua forma, nelle sue colonne, nei suoi tempi, nei suoi anfiteatri, nei suoi muri scrostati. Roma è secondo me prima di tutto, un’idea. 

L’idea dei progenitori, innanzitutto. Roma è stata fondata, e già dalle leggende relative alla fondazione, noi sappiamo che vi era l’idea di fondare una città perfetta, legata al favore degli dei, degli astri del cielo, e della natura. L’idea dei progenitori, poi, si è legata ad un sogno di perfezione e di centralità – legata già a quell’umbilicus urbis che riposa al centro del foro romano. 

 L’idea di perfezione e di centralità, a sua volta, ribadita dalla nuova fondazione cristiana della tomba di Pietro, si è deteriorata nel corso dei secoli, si è sgretolata, si è smaterializzata sotto i colpi e le onde di infinite stratificazioni che hanno come disperso il senso di quella centralità, senza mai cancellarlo del tutto. Anche oggi, Roma si presenta unica. Unica, perché l’idea che vive sotto le sue viscere continua ad essere viva, ed unica. E la si percepisce con forme mutate, in ogni angolo, in ogni pietra sopravvissuta. L’idea di Roma vive nelle catacombe e nei trionfi barocchi. 

Essa – quell’idea – è pervasa di sacro e profano, proprio perché fa parte dell’archetipo umano dell’imago urbis che mette d’accordo il favore degli dei con l’armonia della natura. Due millenni prima della città utopica rinascimentale, 

Roma è un progetto di armonia universale, continuamente decadente e decaduto, sepolto dalla polvere, e rinnovato dall’inquietudine umana. Ecco anche perché la sua decadenza è diverso da quello di altre città che furono ‘centrali’ come Heliopolis-Il Cairo o Istanbul-Costantinopoli. 

L’idea di Roma non è morta: essa appartiene all’anima di ciascuno, esattamente come duemila e cinquecento anni fa, e questa affermazione paradossale la si riscontra come vera negli occhi di chi si imbatte, e viene come viandante o pellegrino su una strada tracciata da migliaia di vite prima della sua. Proprio perché l’idea di Roma è l’idea della nostra vita-madre. Qualcosa alla quale non si può fare a meno di tornare, perché appartiene alla nostra origine.