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12/01/15

Facciamo pace con il caso - Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare (La lettura, 11 gennaio 2015)





Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare su La Lettura di ieri


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. 

Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti.

Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. 

Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna. La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno.

A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso». Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?

Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita.
Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé. Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.

Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?

Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi.

Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. 

Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla».

Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.

Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso».

Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica. I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. 

Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia.

Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità? Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile.

Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli. Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente.

Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare.

Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.

Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.

Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.



16/02/09

Ancora su Eluana -"Vivere e Morire secondo il Vangelo", un articolo di Enzo Bianchi.


Cari amici, vi trascrivo integralmente l'articolo comparso ieri su La Stampa Vivere e morire secondo il Vangelo, scritto da ENZO BIANCHI

C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» ammoniva Qohelet, così come «c'è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire...». Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana - prima ancora che biblica - è parsa dimenticata. Anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v'era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Da parte mia confesso che, anche se il direttore di questo giornale mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio aspettando l'ora in cui fosse forse possibile - ma non è certo - dire una parola udibile. Attorno all'agonia lunga 17 anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una gazzarra indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all'umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana.

Non potevo ascoltare quelle grida - «assassini», «boia», «lasciatela a noi»... - senza pensarea Gesù che quando gli hanno portato una donna gridando «adultera» ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: «Donna neppure io ti condanno: va' e non peccare più»; non riuscivo ad ascoltare quelle urlaminacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla «ladro, assassino!»al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il supplizio. Che senso ha per un cristianorecitare rosari e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con unostile da manifestazione politica o sindacale? Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la strumentalizzazione politica dell'agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio - offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili - e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un'etica superiore, l'etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile.

L'abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità profetica, ma sarebbe ridotta a cappellania del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore. È avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella polis e, va detto, anche nella Chiesa.

Da questi «giorni cattivi» usciamo più divisi. Da un lato il fondamentalismo religioso che cresce, dall'altro un nichilismo che rigetta ogni etica condivisa fanno sì che cessi l'ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla barbarie.

Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L'Osservatore Romano ha coraggiosamente chiesto- tramite le parole del suo direttore, il tono e la frequenza degli interventi - di evitare strumentalizzazioni da ogni parte, di scongiurarelo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti mass media in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine.

Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all'altro, a una cultura o a un'altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell'amore: amore per chi resta e accettazione dell'amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso.

Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmentecome candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è «agonia»,lotta dolorosa, perfino abbrutente a causa della sofferenza fisica; oggi èsempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, allestrutture e ai macchinari... Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una preda: nessuno si dà la vita da se stesso né puòconquistarla con la forza.

Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: «Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...». Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell'incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un «sì» che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel faccia a faccia temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini santi, di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell'eucarestia, quanti hanno recitato il Nunc dimittis,il «lascia andare, o Signore, il tuo servo» come ultima preghiera nell'attesa dell'incontro con colui che hanno tanto cercato...

In anni più vicini a noi, pensiamo al patriarca Athenagoras I e a papa Giovanni PaoloII: due cristiani, due vescovi, due capi di Chiese che hanno voluto esaputo spegnersi acconsentendo alla chiamata di Dio, facendo della morte l'estremo atto di obbedienza nell'amore al loro Signore. Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche achi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull'ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un vociare indegno.

La Chiesa cattolica e tutte le Chiese cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale,essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza devemostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.

Allora, da una millenaria tradizionedi amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella risurrezione possono nascere parole in grado di rispondere agli ineditiinterrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano.

Così le riassumevala lettera pontificale di Paolo VI indirizzata ai medici cattolici nel1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico diuccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significatuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza chegli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi nonsarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile?

In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e inqualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l'ora ineluttabile e sacra dell'incontro dell'anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della passione di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita». Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividonola loro fede, affinché la società ritrovi un'etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell'amore e nella libertà.

16/01/22

Chi era il vero poeta che si nascondeva dietro il nome di Humboldt nel romanzo che valse a Saul Bellow il Premio Nobel per la Letteratura?

Delmore Schwartz in una foto giovanile 

Il Dono di Humboldt è il grande romanzo che, uscito nel 1975, valse a Saul Bellow il premio Pulitzer nel 1976 e contribuì non poco anche al conferimento del Premio Nobel per la Letteratura, assegnato a Bellow in quello stesso anno. 

Un romanzo fiume, che aveva al centro la figura di un poeta vero, cui la fama non aveva arriso, che viveva una vita piuttosto oscura, sempre in bilico sul disagio psichico, ma il cui enorme talento incuteva nei confronti di Charles Citrine, il protagonista del romanzo (costruito da Bellow con toni autobiografici, sul modello di se stesso), soggezione e enormi sensi di colpa.

Ma chi era nella realtà il vero Humboldt? 

Le recensioni dell'epoca sottolinearono che il personaggio di Humboldt era basato sulla vita del poeta Delmore Schwartz (1913-1966). 

Come Humboldt, Schwartz aveva fantasie paranoiche che lo coinvolgevano in situazioni farsesche e umilianti

La carriera di Schwartz era iniziata brillantemente; ma alla fine non sapeva più scrivere; beveva molto e litigava con i suoi amici. La fine arrivò in uno squallido hotel nel centro di Manhattan, un infarto nel cuore della notte mentre portava fuori la spazzatura. Per giorni il corpo del poeta rimase incustodito. 

Humboldt ovviamente non era l'unico personaggio in "Il dono di Humboldt" che sembrava essere stato preso dalla vita. Charlie Citrine, che racconta la storia in prima persona, ha, come abbiamo detto, una sorprendente somiglianza con Saul Bellow. In effetti, ci sono momenti in cui la narrativa di Bellow sembra più vicina alla realtà della pubblicità di Bellow. Charlie è uno scrittore. Ha avuto un certo successo commerciale ma non ha raggiunto i suoi ideali giovanili, e ora scrive soprattutto di noia. 

L'altro protagonista è il poeta morto Von Humboldt Fleisher, resuscitato nelle memorie di Charlie. 

Ma per far muovere il romanzo, Bellow coinvolge Charlie con un personaggio di nome Cantabile, una sorta di gangster, che inizia a umiliarlo.  Charlie ha anche una ragazza, Renata, un tipo di bomba sexy, che ha già precedenti nella narrativa di Bellow, in particolare "Herzog". Renata alla fine lascia Charlie e se ne va con un becchino. 

Per quanto riguarda il "regalo" promesso dal titolo, si scopre essere denaro. 

Humboldt ha scritto la sceneggiatura di un film basato su un'idea con cui lui e Charlie si divertivano anni fa. "Ho sempre pensato che sarebbe diventato un classico", dice Humboldt nella lettera che ha lasciato a Charlie.

Come sempre, però, l'interesse di “Humboldt's Gift” non sta nella trama, è nelle idee di Bellow. 

Ha scelto di fare di Delmore Schwartz un personaggio perché la vita di Schwartz ha illustrato la difficoltà di essere un artista in America, un problema che affligge lo stesso Bellow

Inoltre, Schwartz era ebreo e Bellow è fedele alle tradizioni ebraiche. Schwartz è nato a Brooklyn nel 1913, figlio di Harry e Rose (Nathanson) Schwartz

Ha studiato all'Università del Wisconsin, alla New York University, dove si è distinto in filosofia, e ad Harvard. 

Da studente curò na piccola rivista, Mosaic, e si guadagnò la reputazione di "precocità". All'età di 24 anni pubblicò un racconto, "In Dreams Begin Responsibility" (edito anche in Italia), che lo rese famoso, almeno nei circoli letterari. 

Dwight Macdonald, che iniziò a pubblicare Partisan Review nel 1937 come "rivista socialista rivoluzionaria", ricorda l'impatto delle "Responsabilità"

Era una storia sbalorditiva, secondo Macdonald, migliore di qualsiasi altra di Hemingway o Fitzgerald, e altri critici hanno concordato sul merito di questo particolare lavoro

Nella sua concezione, dalla prima riga alla fine, “Responsabilità” ha l'aspetto di un mito o di una favola, un'idea che è balzata in piena forma nella mente, una situazione che ci sembra perfettamente ovvia una volta che l'abbiamo vista

La storia inizia nel 1909. "Mi sento", dice il narratore, "come se fossi in un cinema". Sta guardando un vecchio film muto. “È domenica pomeriggio, 12 giugno 1909, e mio padre sta camminando per le tranquille strade di Brooklyn mentre va a trovare mia madre” Suo padre sta pensando mentre cammina: come sarà bello presentarla alla sua famiglia. Ma lui - non è sicuro di volersi sposare, "e ogni tanto va in panico per il legame già stabilito".

In questa storia, come scrisse la critica dell'epoca, Schwartz è stato il primo ad avere una visione della vita ebraica in America che sarebbe stata ripresa da altri scrittori. Tutti dicevano che Delmore Schwartz era brillante, ed era stato elogiato da TS Eliot, che era come "essere stato canonizzato da un arcivescovo"

Ma questo era già un successo più grande di quanto Delmore sapesse gestire.

Fu coinvolto nella politica letteraria, cercando di preservare la fama che aveva conquistato così presto. Era terribilmente imbarazzato. Sapeva che ci si aspettava che realizzasse dei capolavori e che i critici erano pronti per lui.

La “canonizzazione” di Schwartz da parte di Eliot portò, in parte, alla morte del poeta più giovane: come qualsiasi altro genere di affari, infatti, nessuno scrittore che sia stato elogiato non riesce a suscitare invidia. 

Il secondo libro di Schwartz, "Genesis", fu così piuttosto deludente. La gente lo diceva. Fece una traduzione di "Una stagione all'inferno" di Rimbaud ed era evidente che non conosceva il francese: la traduzione era piena di passi falsi. Cosa gli ha fatto pensare di poter tradurre da una lingua che non conosceva? Aveva manie di grandezza. 

Questi sono stati seguiti da una serie di sospetti. Negli anni successivi Schwartz uscì fuori di testa, ed era convinto, come Humboldt nel romanzo, che Rockefeller stesse complottando contro di lui, danneggiando il suo cervello inviando raggi dall'Empire State Building. 

Tra i due estremi, la mente che poteva vedere la vita dei suoi genitori chiaramente come se stesse guardando un film, e la mente offuscata dal sospetto, c'erano molte fasi: contorcimenti, perdite, ritorni a se stessa, nuovi inizi e nuovi fallimenti. Le fasi sono descritte o suggerite da Bellow nel romanzo basato sulla vita di Schwartz. 

La prima edizione italiana de Il Dono di Humboldt di Saul Bellow

Ci sono aspetti di Schwartz, tuttavia, che non sono rappresentati da Bellow. Schwartz aveva una venerazione per la tradizione, in particolare le tradizioni letterarie. Quando insegnava ad Harvard, il primo di una serie di incarichi accademici, accompagnava i visitatori in un tour del cimitero di Mt. Auburn, dove è sepolta la famiglia di Henry James. 

Come si sa, l'America non è stata gentile con i poeti; offre loro abbandono e oscurità. Pochissimi poeti americani sono conosciuti dal pubblico, anche il pubblico che legge. 

Ciò che Wordsworth dice dei poeti di tutto il mondo sembra particolarmente vero per i poeti in America. Noi poeti nella nostra giovinezza cominciamo con letizia, ma ne derivano alla fine lo sconforto e la follia. Le idee con cui un uomo sceglie di vivere possono fare la differenza per il suo benessere anche se può avere una debolezza psicologica. 

Delmore Schwartz, come altri letterati in un'epoca di incredulità, non aveva altro di cui fidarsi se non la letteratura. 

Ne "Il regalo di Humboldt", Bellow fa dire a Charlie Citrine alcune cose dure sui compilatori di antologie che, dalla morte di Humboldt, hanno omesso le sue poesie dalle loro raccolte. 

Nella sua passione per l'arte Schwartz era ingenuo, nel buon senso del termine. Era l'amante della poesia che la gente amava. 

Alcuni artisti si consumano nel processo di creazione: hanno fatto del loro meglio e non c'è più niente da fare. Un episodio in cui Humboldt insegue un critico è tratto dalla vita. Schwartz era fuori di testa per la gelosia, o geloso perché era fuori di testa. Il critico aveva una stanza al Chelsea Hotel. Con suo sgomento, anche Schwartz prese una stanza lì e iniziò a molestarlo. Le cose sono arrivate al culmine una notte con Schwartz che ha bussato alla sua porta, gridando: "Esci e combatti come un uomo!"  Il critico ha telefonato alla reception e loro hanno chiamato la polizia. Quando sono arrivati, il critico non ha voluto sporgere denuncia. Aveva la sua carriera a cui pensare: non gli sarebbe servito a niente essere conosciuto come il critico che ha fatto rinchiudere un poeta. La polizia ha fatto alcune domande e Schwartz è salito nella sua stanza e si è chiuso dentro. La polizia è salita e lui non li ha lasciati entrare. È diventato isterico. Sono entrati dopo di lui. È diventato violento. Lo hanno portato via.

Era difficile per coloro che conoscevano Schwartz solo nei suoi ultimi anni capire che una volta era stato un uomo dotato e attraente. 

Negli ultimi anni Schwartz ebbe un lavoro alla Syracuse University. Lo trattavano generosamente; hanno sopportato molto, perché non ha insegnato la materia, ha insegnato da solo. Ma i giovani lo amavano: era uno dei pochi professori a casa cui sarebbero andati. Negli ultimi mesi, quando era nei bar del Greenwich Village, a bere birra nel tentativo di rimanere sobrio, era al centro di un gruppo di giovani, tra i quali un giovane Lou Reed che successivamente e per sempre, considerò Schwartz il suo maestro. Poi sarebbe tornato al suo albergo delle pulci sulla 48esima strada.

Tutti concordano sul fatto che Schwartz nel suo periodo migliore fosse un grande oratore: "se fosse stato inglese sarebbe stato nominato cavaliere per la sua conversazione", afferma Dwight Macdonald. 

Bellow è sempre stato affascinato dal comportamento disinibito e turbolento. È particolarmente affascinato dalla vita bassa, le persone sagge del mondo. "I figli delle tenebre", diceva spesso, "sono più saggi nella loro generazione dei figli della luce". 

Il poeta di Bellow è pazzo, mentre Delmore Schwartz lo era solo a volte e sempre più verso la fine della sua vita. Questo ci porta al punto del romanzo: Bellow vede l'artista come un capro espiatorio. L'uomo sensuale ordinario guarda la vita dell'artista e dice a se stesso: “Se non fossi un bastardo, un ladro e un avvoltoio così corrotto e insensibile, non potrei sopravvivere neanche a questo. Guarda questi uomini buoni, teneri e dolci, i migliori di noi. Hanno ceduto, poveri pazzi"

 Il messaggio non è nuovo. Altri hanno sottolineato che la vita autodistruttiva di Dylan Thomas o Plath o Berryman serve a rassicurare la classe media sui suoi valori

E gli stessi poeti si sono affrettati a conformarsi, accettando il ruolo assegnato, e si sono ubriacati fino allo stordimento, si sono uccisi, hanno recitato un'idea borghese della vita dell'arte. “E poeti come ubriaconi e disadattati o psicopatici, come i miseri, poveri o ricchi, sono sprofondati nella debolezza". 

Il comportamento di Humboldt - comprare una pistola e inseguire il critico che crede abbia sedotto sua moglie - è irrimediabilmente antiquato. A questo punto, Bellow  sta dicendo all'artista: "Povera linfa, non ce la farai mai". Gli consiglia di rinunciare alla sua arte e di trovare “la cosa nuova, la cosa necessaria” che gli permetterà di poter competere con la modernità tecnologica. 

Qual è la "cosa nuova?" Bellow non dice. Charlie Citrine ipotizza nuovi tipi di coscienza e l'immortalità dell'anima, ma i suoi pensieri sono troppo vaghi per essere confortanti. Tutto ciò di cui possiamo essere sicuri è la distruzione del poeta. E non c'è differenza tra la vita e l'arte: come il poeta è condannato, così è la poesia. Bellow si è impegnato a dimostrare che l'arte come l'abbiamo conosciuta non è più possibile in un mondo di macchine. Sembra determinato a portarlo con sé, senza lasciare nulla per il resto di noi. Ma non è necessario accettare questo punto di vista. 

Schwartz ha detto questo sul futuro della poesia: “Nel mondo moderno, la poesia è alienata; rimarrà indistruttibile finché sopravvive la fede e l'amore di ogni poeta nella sua vocazione”. 

La vita di Schwartz, per quanto infelice, sembra rappresentare qualcosa di più: una devozione. Schwartz è rimasto insomma una delle figure simboliche che tormentano la coscienza degli americani, dai tempi in cui non riusciva più a scrivere e vagava per New York in cerca di affetto. Nella vita riuscì a raggiungere le vette della commedia, gli abissi dell'umiliazione, il pathos che ammirava nei libri. La sua vita è un classico americano, anche se forse non la sua arte. Ed è tutto questo che Saul Bellow ha cantato con la sua grande opera. 

Saul Bellow


fonti: Louis Simpson, The New York Times 


 

11/05/11

Lessico dei Poeti 4 - 'Mare'.


Mare.

Una volta partecipai ad un corso nel quale si chiedeva ai partecipanti di associare a diverse parole una sensazione. Tra queste parole, molto comuni, vi era la parola “mare”. Al momento di svelare le risposte scoprimmo che molti avevano associato la parola “vita” alla parola “mare”. Ma, anche se in misura meno consistente, alcuni avevano invece associato la parola “morte”, e uno aveva scelto invece il verbo “perdersi”. Questi sentimenti estremi suscita in noi il mare. Paura dell’abisso, beatitudine dell’acqua che rigenera, senso di perdizione. Tutto questo esprimono, con la sintesi tipica che solo i grandi poeti possono avere, i versi scritti da Jacques Prevert (1900-1977), nella poesia “L’annegato” :

Per l’annegato la morte è il mare/ E per il mare l’annegato è forse un po’ della sua vita/Ma/ se domandate all’annegato cosa pensa del mare/ Se gli domandate cosa pensa del mare /Se gli domandate il suo parere/ sulla vita della morte e l’amore della vita/ sulla morte della vita/ sulla vita dell’amore/ la più leggera schiuma delle onde di questo mare/ del più lontano dei suoi nuovi e così vecchi fiumi/ sorride senza rispondervi/senza rispondere per lui.

In questi versi di un poeta che forse un po’ a torto è stato ritenuto troppo ‘facile’ e ‘popolare’, c’è tutto questo: il mare che per l’annegato è la morte; ma anche paradossalmente il mare che è vita anche in quel corpo dell’annegato; e quel senso di perdersi che è appunto “la più leggera schiuma delle onde che… sorride senza rispondere. “ Tutto trascina, tutto porta via, il mare, per i poeti. Tutto ricorda, tutto suggerisce, tutto rinnova. Tutto spegne e tutto accende, tutto spera, e tutto dispera.

Sentimento bene espresso da Giovanna Bemporad, grande poetessa italiana, in In riva al mare, contenuta nella sua raccolta di esordio, Esercizi, che resta una specie di miracolo nel panorama della poesia italiana del Novecento. Una raccolta uscita a Venezia nel 1948, quando la poetessa aveva vent’anni.

Dalla mia fronte io esco in riva al mare

Dove destreggia sommessa i suoi baci

L’onda e conchiglie, imbuti del rumore,

ci ascoltano pudiche e indifferenti.

Su me sospende il cielo la sua curva

Larga, ariosa, e modella i miei passi

Non di un’età, non di un attimo , un’ora

Ma di un’antichità: parola estratta

Dalla tua pausa, o mare, fronte colma.

Antichità. Un’altra parola chiave per capire il linguaggio del mare, il suo esercizio attrattivo nei confronti dei mortali. Il mito è metafora per interpretare la disperazione del vivere, in un’altra meravigliosa poesia, I figli del mare , una della ultime composizioni poetiche di Carlo Michelstaedter, scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare: Itti e Senia costretti ad attraversare la morte dei mortali.

Ritornate

Alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.

Ma a questo invito alla rassegnazione Itti replica che la morte così temuta dagli uomini altro non è che coraggio, e non abbandono: il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore, navigando verso il mare libero, scegliendo il rischio e la sfida.

Il mare che è attesa. Quel senso di sospensione, quello ‘stare sulla riva’ (dopo il fallimento delle passioni e delle ideologie), che un altro poeta italiano, Gianni d’Elia ( nato a Pesaro nel 1953) descrive propriamente in una lirica che dà il titolo a Sulla riva dell’epoca (pubblicata da Einaudi, nel 2000) :

Qui stiamo. Aspettiamo, sulla riva

Del mare, che appaia qualche segnale

Che ancora non sappiamo. Oltre il macello

Umano, anche oltre il sogno che avevamo

Nella mente e nel cuore, facendo pugno

Nella mano. …. Pure qui

Restiamo e insistiamo, fra mondo

E terra, a dare il fiore….

Il mare che non dà sonno e non dà requie. Che atterrisce e invita, che – visto da fermo – invita sempre e sempre a ricapitolare la propria vita, a ripercorrerne i passi, i ricordi, le attese, i gesti minimi. L’estate al mare, un altro “must” che i poeti italiani – gente che sa cosa vuol dire il mare – ha saputo raccontare con i toni più alti, e suggestivi.

Tra gli ultimi in ordine di tempo, Milo de Angelis, nato a Milano nel 1951, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, in Tema dell’Addio, pubblicato da Mondadori nel 2005:

Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza

di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.

E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria.

a tre secondi dalla fine. E Roberta

che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,

in un silenzio di ospedali, quando il tempo

rivela i suoi grandi paradigmi.

“Torneranno vivi gli amori tenebrosi

che in mezzo agli anni lasciarono una spina,

torneranno, torneranno luminosi."

Fabrizio Falconi

06/08/19

Libro del Giorno: "Dove va l'anima dopo la morte" di Cesare Boni




Al contrario di molti libri futili pubblicati sull'argomento, questo volume è uno studio serio, erudito, profondo e comparato dei più grandi testi sapienziali di tutte le tradizioni che descrivono, istante per istante, il viaggio dell'anima dopo la morte, una ricerca condotta meticolosamente da uno dei più brillanti tanatologi italiani. 

E dunque quest'opera non è affatto di facile lettura. 

Ma se si ha costanza e voglia di conoscenza, spalanca notevoli orizzonti.

Cesare Boni, già docente alla Scuola di Specializzazione in "Psicologia del Ciclo della Vita" ed insegnante nei Corsi di Perfezionamento dell'Università Statale Federico II di Napoli, ha insegnato nelle più prestigiose scuole di psicologia in Italia e nel "Master in psicologia oncologica" dell'Ospedale Bellaria di Bologna. e in questo libro ha condensato le pratiche di conoscenza della vita e della morte e dell'accompagnamento del morente maturata sul campo in numerosi grandi ospedali italiani.

Boni parte anche da esperienze personali approfondite poi in lunghe permanenze in India e in numerosi convegni universitari in Italia e all'estero, collaborando con l'Università di Roma "La Sapienza", con quelle di Parma, Magonza (Spagna), Monaco di Baviera (Germania), New Delhi, Mumbai e Varanasi (India).

La morte come si sa, è divenuta, nel mondo contemporaneo l'ultimo dei grandi tabù.  Della morte, sempre in Occidente, è divenuto sempre più difficile parlare. Come altrettanto difficile è parlare, informare, diffondere conoscenza sul cammino di avvicinamento della morte e su quello che le grandi tradizioni sapienziali e quelle spirituali dicono sul post-mortem (in alcune parti rilevanti suffragate dalle testimonianze di coloro che hanno vissuto esperienze di pre-morte, le cosiddette NDE, Near Death Experience). 

L'Occidente ha un ossessivo timore per un processo che non conosce: è ossessionato dal mito dell'eterna giovinezza, vede la morte come la fine della vita, e dunque la tratta come un argomento tabù. 

Eppure i grandi libri sapienziali di tutte le tradizioni e i grandi saggi di ogni epoca dicono esattamente l'opposto, descrivendo una dimensione eterna della vita, che già esisteva ben prima della nascita e che non finirà con la nostra morte. 

Cesare Boni in questo testo più volte ristampato, ripercorre l'affascinante cammino di conoscenza delle pratiche di pre e post-morte, confrontate con  le teorie dei maggiori studiosi di questa fase dell'esistenza umana, il professor Moody, la dottoressa Kübler-Ross e il dottor Melvin Morse. 

Dalle oltre 400 pagine di questo libro si esce affascinati dalla constatazione del pozzo di misteri nel quale la nostra vita terrestre è calata, ma anche fortificati dalle massime sapienziali di culture antichissime che hanno indagato ad Oriente, come ad Occidente, i limiti della vita, o meglio - come direbbe l'autore - l'altra faccia della vita, perché la morte, se soltanto vi si riflette, non è qualcosa di separato dalla vita, ma qualcosa che è essenzialmente legato alla vita, dal suo punto di vista più naturale. 

Come scrive Mario Mastropaolo nella prefazione: "Il libro è un racconto attendibile e circostanziato del viaggio che attende l'anima, una volta lasciato il corpo, verso il compimento del suo destino: la fusione con la Luce. Intriso della tristezza del distacco, struggente per l'inevitabilità dell'evento e nello stesso tempo gioioso, aperto, fiducioso della realtà ultima dell'uomo."

Un viaggio, insomma, che è necessario prepararsi immediatamente, dopo aver preso coscienza della dimensione dualistica dell'esistere e di quella profonda nostalgia per l'unità perduta che viene continuamente espressa dal tentativo di confluire nell'indifferenziato senza aver raggiunto la piena consapevolezza della separazione e della disperazione che ne consegue.

Fabrizio Falconi



28/06/15

Gli orrori dei nostri tempi. Una pagina di Jung.



La moralità non è un malinteso escogitato da un ambizioso Mosè sul Monte Sinai, ma appartiene alle leggi della vita e risulta dal normale decorso della vita, come una casa o una nave o un altro strumento della civiltà. 

La normale corrente della libido, cioè appunto questo sentiero intermedio, significa una completa obbedienza alle leggi fondamentali della natura umana, e non si può stabilire alcun principio morale più alto della concordanza con le leggi naturali, dalla cui armonia deriva la direzione della libido nella quale consiste l'optimum della vita. 

L'optimum di vita non è rappresentato dal cupo egoismo; né l'uomo raggiungerà mai il suo optimum di vita attenendosi all'egoismo, giacché in fondo egli è fatto in modo che la gioia del prossimo, della quale egli è causa, costituisca per lui qualcosa di indispensabile.

E tanto meno l'optimum di vita può essere raggiunto per mezzo di uno sbrigliato impulso individualistico verso una superiorità di livello, giacché l'elemento collettivo è così forte nell'uomo che il suo anelito verso la società gli guasterebbe ogni gioia fondata sul puro egoismo.

L'optimum di vita può essere raggiunto solo obbedendo alle leggi che regolano il flusso della libido, le quali determinano il succedersi di sistole e diastole, che danno la gioia e la necessaria limitazione; le quali ordinano anche i compiti della vita, di natura individuale, senza il cui adempimento l'optimum di vita non potrà mai essere raggiunto. 

Ora, se il raggiungimento di questa via consistesse unicamente in un lasciarsi sospingere, appunto secondo un deprecato "naturalismo", la più profonda speculazione filosofica che la storia del pensiero conosca non avrebbe alcuna ragione d'essere.

Anche considerando di sfuggita la filosofia delle Upanisad si ha l'impressione che il raggiungimento del sentiero non sia un compito dei più facili.

Il tono di superiorità di noi occidentali di fronte alle concezioni indiane è frutto della nostra natura barbarica, ancora assai lontana dall'avere un'idea della loro straordinaria profondità e della loro sorprendente esattezza psicologica.

Noi siamo ancora così immaturi che abbiamo bisogno di leggi dall'esterno e di chi ci tenga a freno con la ferula (ossia di un padre) per poter sapere cosa è bene e pote agire correttamente.

Ed è perché siamo ancora così barbari che crediamo che la fiducia nelle leggi della natura umana e della via umana sia una specie di naturalismo pericoloso e immorale.  Perché ?

Perché nel barbaro sotto la scorza sottile dell'uomo civile spunta subito la bestia, e di questa bestia il barbaro ha giustamente paura. Ma non si domina la bestia limitandosi a chiuderla in una gabbia.

Non vi è moralità senza libertà. 

Se un barbaro lascia libera la bestia che è in lui, questo non è libertà ma esattamente l'opposto. Per poter essere liberi è necessario che prima la barbarie sia domata.

Ciò accade in linea di massima se il fondamento e la forza determinante della moralità sono avvertiti e sentiti dall'individuo come elementi costitutivi della sua stessa natura e non come limitazioni esteriori.  Ma come può l'uomo giungere a una tale sensibilità e perspicacia se non attraverso il conflitto degli opposti ?


Carl Gustav Jung, da Tipi psicologici, Edizione integrale di riferimento, Traduzione di Cesare L. Musatti e Luigi Aurigemma, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2001, pag. 230-2. 

12/01/11

Hereafter - Un capolavoro spirituale.



Sono piuttosto esterrefatto dalla lettura che sui giornali italiani alcuni osservatori hanno dato di ‘Hereafter’, il nuovo film di Clint Eastwood appena uscito in sala.


In verità, me lo aspettavo. Il fatto che il rude Clint, il prosaico Clint, il Cavaliere Solitario, abbia deciso di affrontare un tema scivoloso come l’aldilà e la vita dopo la morte, lo poneva a serio rischio di vedersi piovere addosso critiche liquidatorie.


In realtà va così da sempre, almeno già da un paio di millenni, da quando – per dire – quel Paolo di Tarso sull’Aeropago, ricevuto dai dotti ateniesi fu ascoltato e considerato finché non pensò di tirar fuori la storia della Resurrezione. “Sì, sì, di questo parleremo un’altra volta”… gli dissero, compatendolo. Arrivederci e grazie.


La stessa cosa succede oggi a chi si mette a tavolino a discutere con qualcuno che abbia tanto buon senso e sale in zucca, pretendendolo di convincerlo che sì, che forse una vita dopo la morte esiste, che forse anche l’eterno esiste, e che forse non è nemmeno tanto difficile averne contezza.


Viviamo infatti in un mondo – almeno in quello che oggi è l’Occidente (e che comprende anche molte parti di Oriente)– dove esercita la sua dittatura e il suo dominio l’hic et nunc. Il qui ed ora.


La prospettiva è asfittica, limitata, anzi quasi cieca. E risponde, semplicemente, a questo imperativo:

pensa a quello che hai ora, vivi il tuo presente, comprati la cintura firmata ai saldi, guardati la partita, fatti la tua vacanza in crociera, e vivi tranquillo. Per morire, c’è sempre tempo.


Chiunque osi ribellarsi a questa dittatura, viene guardato come un sabotatore, e anche come un tipo stravagante, tutt’al più da compatire per la sua ingenuità.


E’ questo forse il lato più bello del bellissimo film di Eastwood: la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando la bella anchorman che è rimasta sospesa tra la vita e la morte durante lo tsunami in Indonesia e ha visto l’aldilà, pretende di mettere questa cosa al centro dei suoi interessi; la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando il povero Marcus, il ragazzino sopravvissuto alla tragica morte del suo gemello, pretende di mettersi in contatto con lui, con il fratello morto, pretende di proseguire a dialogare con lui, a farlo parte della sua vita; la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando il sensitivo George Lonegan (Matt Damon) deve addirittura rinnegare le sue qualità di tramite con i morti, per poter vivere tranquillo e avere una vita normale.


E’ questo, credo, che dovrebbe farci riflettere tutti.


E come si fa a liquidare tutto questo con ‘melassa newage’ come fa Luca Doninelli sulle pagine de ‘Il Giornale’ ? Come si fa a scrivere che “Sapere o non sapere se esiste qualcosa dopo la morte non cambia quasi niente della vita di un uomo” ? (sic!).


Ma davvero ?


Eastwood non scollega affatto l’hic et nunc, la vita che viviamo ora e adesso su questa terra con quello che succede dopo. Fa anzi esattamente l'opposto. E la sua prospettiva non è né eretica, né pagana, né new age. E’ la più vicina al buon senso. Il fatto che non sia corrispondente a una logica ‘confessionale’ cioè religiosa, non toglie nulla al rigore di un’opera che va letta semplicemente per quello che è.


Gli esperimenti di Near Death Experience non sono new age. Le migliaia di persone che sperimentano nel mondo un legame – in qualsiasi modo questo avvenga - con coloro che non ci sono più, non sono new age. Sono parte – e che parte ! – della nostra vita. La parte che ogni lutto, qualsiasi lutto che affrontiamo nella vita, ci costringe, volenti o nolenti, ad affrontare.


Non è poco. E’ moltissimo, anzi. E non finiremo mai di ringraziare Clint Eastwood, il rude, prosaico, cinico Eastwood, per averci regalato, a 80 anni suonati, il film più spirituale degli ultimi dieci anni.


Fabrizio Falconi

16/11/08

Vito Mancuso sul Caso Eluana Englaro


Mi fa piacere postarvi questo intervento di Vito Mancuso sul caso Eluana, pubblicato oggi sul Corriere della Sera a firma di Luigi Accattoli. Sono infatti tra quelli che non condividono - per affrontare questo caso così delicato, così moralmente ai limiti - l'utilizzo di definizioni 'tranchant' che ho letto a destra e manca, come 'omicidio', 'assassinio' o 'eutanasia'. Penso che mai come in queto caso bisognerebbe misurare con molta molta prudenza le parole.

«Quando ci sarà il testamento biologico io disporrò di essere mantenuto in vita finché possibile, perché anche un filo d'erba rende lode al Creatore. Ma non posso volerlo per altri e sono convinto che nel caso di Eluana l'interruzione del trattamento non sia omicidio né eutanasia.

Vorrei che le autorità della Chiesa cattolica - alla quale appartengo - si esprimessero con prudenza in una materia che è nuova e ricca di zone grigie»: è l'opinione del teologo Vito Mancuso che insegna all'università San Raffaele di Milano.

Professore perché non si tratterrebbe di eutanasia? «Non è eutanasia attiva, in quanto non ci sarà un farmaco che provocherà la morte. Ma neanche passiva: se l'alimentazione tramite sondino non è "terapia", non è cioè assimilabile a un farmaco, la sua cessazione non può essere detta eutanasia passiva».

Che cos'è allora? Un abbandono alla morte per fame e sete? «È l'interruzione di un trattamento di rianimazione risultato inefficace, deliberata in conformità a un orientamento espresso a voce dall'interessata in anni precedenti l'incidente ».

Possiamo giurare su una battuta detta in famiglia, non attestata per iscritto?
«Purtroppo no, non possiamo tirarne una conclusione sicura. Ma quelle parole di Eluana sono tutto ciò di cui disponiamo per cogliere la sua intenzione e possiamo fare credito ai genitori che le attestano - e che tanto l'amano - e ai magistrati che hanno vagliato la loro attestazione».

Lei è favorevole al testamento biologico?
«Lo vedo come uno strumento di libertà di fronte allo sviluppo delle
tecnologie mediche».

Ma la vita non è un valore indisponibile?
«Concordo sull'indisponibilità della vita, ma reputo che vada rispettata la libertà di chi rifiuta per sé un trattamento che lo mantiene in una condizione di vita che egli reputa non-vita. La vita si dice in tanti modi. Il principio primo non è quello della vita fisica da protrarre il più a lungo ma è quello della dignità della vita e questa si compie nella libertà personale».

Con il testamento biologico uno dovrebbe poter scegliere di non essere alimentato se venisse a trovarsi in stato vegetativo? «Ritengo che vi debba essere questa possibilità. Per me non la sceglierei, ma non sono sicuro riguardo a ciò che vorrei per i miei figli: c'è sempre divario nell'accettazione della propria sofferenza e
di quella dei figli».

Lei contraddice alcune affermazioni dell'arcivescovo Fisichella e del cardinale Bagnasco: che la Corte apra all'eutanasia e che l'alimentazione sia sempre dovuta...
«Auspico una maggiore saggezza nella parola degli uomini di Chiesa. Come si può tenere per certo che l'alimentazione tramite sondino non sia una terapia se gran parte della scienza medica la considera tale? E perché definire eutanasia qualcosa che formalmente non lo è? Non sarà alzando il tono della voce che si difende la vita».

13/04/13

Si nasce soli, si vive insieme, si muore soli. .. O no ?






Il pensiero contemporaneo - quel che ne rimane, spappolato in mille apps, in mille rivoli, in mille frammenti - sembra non volerci convincere altro che di questo: Si nasce soli, si vive insieme, si muore soli.

E' la nostra condizione umana, viene asserito. 

Ma è proprio così? Nasciamo soli ? Se nascere soli vuol dire che nel trapasso dalla non-vita alla vita, cioè nel momento del parto siamo soli (l'avventura è da soli), non è propriamente vero. Anzi: non è vero in senso assoluto.   Quando un bambino nasce, non nasce solo. Nasce propriamente dal corpo stesso della madre. Vive dapprima una vita segreta nel corpo della madre e quando viene al mondo lo fa attraverso la partecipazione stessa del corpo della madre. 

Viviamo insieme ?  Indubitabilmente sì.  Sembra che per nessuno sia possibile vivere completamente solo. L'uomo è un animale sociale, anzi l'animale sociale per eccellenza. Ciò che gli ha permesso di dominare il pianeta è esattamente questo.  Per quanto siano esistiti uomini che hanno scelto la solitudine o l'eremitaggio, nessun uomo ha vissuto mai la sua intera vita isolato, da solo. Solo nella socialità, nei rapporti umani, nella parentela, nella cura, nell'amore, nella generosità, nell'amicizia, ma anche nella guerra e nell'antagonismo, l'uomo ha realizzato la sua indole, la sua missione su questa terra. 

Moriamo soli ? Se per questo si intende che ogni uomo è chiamato a compiere in prima persona il trapasso dalla vita senza poterlo condividere con altri, non c'è dubbio che ciò è profondamente vero. 

La morte sembra essere l'elemento connaturale di ogni vivente. (Anche se oggi sappiamo che esistono forme di vita quasi eterne, nella profondità dei ghiacci antartici o nelle viscere degli oceani o della terra, che esistono immutate nella loro costituzione da milioni e milioni di anni).

Ma cosa è la morte ? E cosa ne sappiamo esattamente ?  Ogni cosa in natura - e nelle grandi leggi della fisica e dell'astrofisica moderne - ci insegna che nulla sparisce definitivamente - o si annichilisce, nel linguaggio della fisica - ma tutto si trasforma.  In qualcos'altro.  Siamo abituati a pensare in forma di individuazione, di forma. Ma nella vita universale l'energia, i moti, e soprattutto le relazioni tra oggetti sono molto più importanti degli oggetti stessi. 

E' la relazione, il rapporto, che determina tutto. 

Pensiamoci. 

Pensiamoci anche quando l'istinto - se non altro verbale - ci suggerisce che dopo una nascita da soli - almeno nella individualità del trapasso alla vita - e dopo una vita insieme e una morte da soli, si potrebbe concludere la sequenza affermando che si ri-nasce insieme.  

Fabrizio Falconi


06/02/13

"Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita."


 

In Un Mondo di Marionette (titolo originale: Aus dem Leben der Marionetten, 1979-80 )  - uno dei film dell'esilio tedesco (per motivi banalmente fiscali) - Ingmar Bergman perfezionò il suo lungo decennale lavoro di scavo sull'umano. 

In un film considerato minore della sua lunga e gloriosa filmografia, Bergman espose con piglio da entomologo ciò che pensa del dramma umano. 

Il dramma umano, sempre in bilico tra due diverse pulsioni: amore/condivisione - morte/separazione. 

Bergman, con la sua formazione interamente protestante, considerava il male della creazione realtà presente e non evitabile. 

Nella vicenda della follia di Peter e del suo amore frustrato e frustrante con Katharina c'è tutto quello di incompiuto che rende ogni vita umana un possibile abisso. 

Peter non sa e non può - e non vuole - sottrarsi al suo destino. 

Peter, come molti, decide di sublimare la propria vita interiore attraverso il più radicale e distruttivo dei gesti esteriori - l'omicidio (gratuito) di una prostituta.

Nella scena del sogno, però, raccontato nella lettera che invia all'analista,  Peter vive - anche se soltanto nella sua vita interiore, che però è importante quanto quella esteriore - la rappresentazione completa del proprio dramma personale (e collettivo, umano) che si realizza nella frase:   Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita.

E' quella totale accettazione - senza volontà, senza ego, senza sovrastrutture - della semplice verità della vita, che Peter, da sveglio, nel crogiolo della sua vita reale, complicata, inutilmente sovrastrutturata, egoistica, volontaristica, non riesce e non può in nessun modo né pronunciare, né sentire. 

Fabrizio Falconi 

30/11/10

La morte di un grande Maestro: Mario Monicelli.



'Beat' a iss..' : è la magnifica 'chiosa' del povero ignorante alla morte di 'Abacucco', uno degli straordinari personaggi inventati da Mario Monicelli in quel capolavoro assoluto che è 'L'armata Brancaleone,' del 1966, scritto insieme ad Age e Scarpelli (che vale da solo più di un centinaio di pesantissimi saggi di politica culturale, per comprendere l'antropologia storica dell'homo italicus) uno dei moltissimi film che il grande maestro viareggino ha lasciato in eredità al cinema e alla cultura italiana.

In questa scena c'è tutta la filosofia di vita del 'pessimista' Monicelli (la vita come una condanna, una croce da portare): sembrava anzi, nel suo consolidato scetticismo toscano, che nessun altro approccio che il pessimismo fosse consentito di fronte alla vita.

Eppure, tutto il suo cinema è uno straordinario inno alla vita. La vita in tutti i suoi aspetti più folgoranti e grotteschi, in tutte le sue misere e grandi esaltazioni e in tutte le sue rovinose cadute.

Se c'è stato un innamorato della vita, questi era Monicelli. Che nel suo cinema non si è limitato a descrivere - forse come meglio non si poteva - l'italia e gli italiani (ai quali era legato da un sentimento di amore/odio che 'Brancaleone' massimamente esprime), ma ha fornito una visione autentica dei fatti della vita, dei contenuti della vita per quello che è. Non a caso i suoi film, privilegio della vera arte, si sono rivolti e sono stati compresi da ogni tipo di pubblico, di ogni età, di ogni censo, di ogni nazionalità.

Il suicidio del novantacinquenne Monicelli è l'ultimo disperato atto di appropriazione del proprio destino: la vita, anche nel distacco finale, ha voluto come sempre dirigerla lui, fino all'ultimo.

06/09/11

Le vite concitate, il caos, e il senso che non si trova.



Si avvicina la ricorrenza del decennale dell'11 settembre, l'attentato alle Torri Gemelle di New York.  Su La Stampa mi è capitato di leggere l'intervista ad Edward Fine, il celebre sopravvissuto che fu immortalato con la sua valigetta 24 ore negli attimi successivi alla tragedia, diventando di essa un simbolo.

Mi ha colpito questa sua frase: "Prima lavoravo anche quando ero in vacanza, telefonate, computer e non sapevo neanche chi fosse mia moglie. Ora conosco e apprezzo le cose della mia vita che contano."


Questa frase ha ronzato nelle mie orecchie per alcuni giorni, sommandosi a quest'altra, che il grande Woody Allen - sempre più avvitato in una specie di ostentato nichilismo personale - ha rilasciato a 'La Repubblica':

"continuo a girare film in modo forsennato perché se lavoro e sto sul set, non ho tempo di fermarmi. Se mi fermassi mi deprimerei constatando che la vita non ha alcun senso."

E' il problema di molti, oggi.

Molte persone sembrano convinte che il senso della vita non esista, ma non fanno nulla per fermarsi a riflettere.  Temendo, anzi,  che la riflessione corrisponda a un vuoto, ed essendo del tutto terrorizzati da quel vuoto, non fanno altro che rimpinzare la vita di quante più cose possibili, per la maggior parte del tutto inutili.

Sono convinte, più o meno inconsciamente, che questo rappresenti una formidabile protezione da quel vuoto che attira e terrorizza, per l'appunto.

Il problema però è che, dentro esistenze così stipate, così enormemente sovradimensionate,  si pretende di trovare un 'senso' a questa vita.

E' ovvio che nessun senso si può trovare.

Anche perché con esistenze sempre più caotiche, e sempre meno ordinate (nel flusso di cose semplici) è molto molto difficile percepire un senso, a meno che - come sembra oggi diventata 'vulgata' comune - non si teorizzi che il caos stesso, cioè il disordine E' il senso.

Ma l'uomo, che è principalmente - e resta sempre tale - materiale biologico enormemente organizzato, quindi ordinato (ché altrimenti nessuna vita biologica potrebbe esistere)  non può trovare nessun senso nel caos e nel disordine assoluto. 

E' perfino troppo ovvio che il senso - un senso o IL senso - può essere trovato solo se e quando siamo capaci di fermarci, e di creare un vuoto e di abitare quel vuoto, senza lasciarsene spaventare, ascoltarlo, lasciarlo crescere dentro di noi, e sentire se e come ci parla, se e come ha qualcosa da dirci.

Non è un caso che Edward Fine abbia capito soltanto ora quali sono le cose da conoscere e apprezzare nella vita. Solo ora, quando la giostra si è fermata, indipendentemente dalla sua volontà.

Il problema è proprio questo: che spesso ci fermiamo soltanto quando non possiamo farne a meno, per una crisi improvvisa, per una empasse della nostra vita, un lutto, una crisi, la perdita del lavoro.   Soltanto allora siamo costretti a mettere ordine. A comprendere che la vita è - sarebbe - del tutto semplice, e ha - avrebbe - bisogno di molto poco.

La prima cosa da fare dunque è quella di smetterla di dire "ho troppo da fare per farmi domande."  Dovremmo tutti comprendere che le domande - e solo le domande - danno senso all'esistenza.  E che senza mai porsi domande si possono soltanto compiere disastri, nelle proprie vite individuali e in quella collettiva, come la storia dovrebbe averci abbondantemente insegnato.


Fabrizio Falconi

nella foto in testa: Woody Allen alle prese con la pennichella durante le riprese del suo film romano, agosto 2011. 

15/11/10

I rassegnati e i resistenti.




Come atteggiamento complessivo di fronte alla vita, gli esseri umani potrebbero essere divisi in due grandi categorie: i rassegnati e i resistenti.

I rassegnati sono quelli che hanno (o avrebbero) una decisa opinione della vita, frutto di idealizzazione e, di conseguenza, grosse aspettative. La vita, perciò, non è mai – o quasi mai – ‘all’altezza’ di queste aspettative. E di conseguenza i rassegnati vivono la loro frustrazione aspettando continue conferme al fatto che la vita ‘reale’ non può e non potrà mai essere congrua alle aspettative che si nutrono, in forma del tutto ideale.

I resistenti invece sono coloro che privilegiano la vita reale, così com’è, che idealizzano poco e che affrontano i problemi uno alla volta, senza trarre conclusioni definitive, e senza perdere definitivamente la speranza. Ma capaci anche di godere del frutto del proprio lavoro. Il loro atteggiamento è quello di considerare la vita per quel che è: come fa un contadino quando la mattina esce di casa. Piove, bisognerà portare l’ombrello. C’è il sole, si potrà mangiare frutta all’aperto.

L’atteggiamento di fronte alla vita è importante, è anzi tutto. I rassegnati corrono il rischio di rinchiudersi nella fatalità e nel senso di impotenza, e di imbucare le loro vite nel cassetto. I resistenti rischiano ugualmente di soccombere alle avversità, ma vogliono farlo lo stesso.

La vita, però, indipendentemente dai risultati raggiunti, non è – bisognerebbe esserne coscienti – mai qualcosa di ‘separato da noi.’
Qualcosa che ‘ci’ succede.

La vita è una continua e dinamica interazione tra quello che succede e quello che noi facciamo succedere.

In questo senso ha ragione chi dice che il destino è quello che è in noi, e che noi facciamo esistere, ogni giorno, adattandoci e cambiando – con la nostra presenza di resistenti e non di spettatori – il destino pre-dato della realtà esistente. Un destino che noi – unico elemento cosciente di questa creazione e di questa realtà – possiamo e dobbiamo interpretare. Compito coraggioso, molto più alto di quello che siamo soliti immaginare.

16/04/12

Enlightened - La serie televisiva. Spunti per l'oggi.



E' molto interessante Enlightened, la serie televisiva statunitense trasmessa dal 2011 sul canale HBO, e co-ideata ed interpretata da Laura Dern, la grande attrice americana, figlia d'arte (suo padre è Bruce Dern) divenuta 'attrice feticcio' di David Lynch.

La prima stagione, andata in onda dal 10 ottobre 2011, è composta da dieci episodi. HBO ha poi rinnovato la serie per una seconda stagione, anch'essa di dieci episodi.

L'idea di questa serie è molto originale: seguiamo infatti la storia e le peripezie di Amy Jellicoe, una dirigente aziendale di una multinazionale attiva nel settore della cosmetica che, dopo una crisi di nervi causatale dal crollo della propria vita professionale e privata, ottiene il risveglio spirituale grazie ad un percorso di riabilitazione nelle Hawaii e decide così di riprendere in mano la propria vita.

Laura Dern è impareggiabile nel rendere la velleità perfino naif della protagonista di 'cambiare il mondo', una volta tornata alla sua solita vita: cambiare un luogo di lavoro - e colleghi di lavoro - infernali.  Cambiare la madre, persa in un deliquio anaffettivo e catatonico. Cambiare il marito, dipendente dalle droghe e completamente sballato. Cambiare gli amici.
Renderli partecipi di una nuova consapevolezza maturata: cosa è veramente importante nella vita.

Naturalmente questa velleità - convincere gli altri che si è compreso il vero senso della vita, e che la vita che vivono gli altri è piena di cose false, vacue, inutili e dannose - si scontrerà contro un poderoso muro di gomma:   Amy sbaglia tutto, ovviamente, sbaglia nel modo stesso in cui pretende di convincere e di rendere consapevoli gli altri.

Ma gli altri sono impietosi.  E' davvero troppo irresistibile rovesciare in faccia a chi pretende di cambiarti la vita il tuo disprezzo, bollando questa persona  semplicemente come una pazza supponente, una pazza fuori del mondo, che non sa o non vuole rendersi conto di come va la vita. 


E' perciò molto interessante Enlightened, per le dinamiche che descrive, e che ci riguardano tutti. 

Una volta raggiunta la consapevolezza che la vita che si vive fa schifo, cosa si può fare di concreto per cambiarla ? E una volta che siamo disposti a cambiarla, come possiamo per rendere consapevoli gli altri ?

Amy è una ingenua. Ma è anche, indubbiamente, una persona di buona volontà.

I suoi metodi sono sbagliati ma non c'è dubbio che il suo fine sia autenticamente giusto. Ma .. come fare ?  E particolarmente toccanti sono le pagine del suo discorso interiore che viene recitato, in ogni puntata, dalla voce di Amy fuori campo.

Da vedere.