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17/10/23

"Il Complotto contro l'America" - perché è una serie da vedere oggi


E' un'opera che tutti, specialmente oggi, dovrebbero vedere.

"Il Complotto contro l'America", miniserie HBO (un marchio di garanzia), in 6 puntate da un'ora ciascuna, disponibile su Sky e NowTv, è tratta dall'omonimo romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 2004.
In quel romanzo, Roth metteva in scena una ucronia (o storia alternativa o allostoria o fantastoria), collocandola nel 1940, cambiando il corso degli eventi e quindi raccontando non della vittoria di Franklin D. Roosevelt, al suo terzo mandato - come è avvenuto nella realtà - ma di quella del trasvolatore Charles Lindbergh, che per primo aveva attraversato l'oceano Atlantico in solitaria con il suo aereo e che negli anni immediatamente prima della guerra godeva di enorme popolarità negli USA.
Lindbergh fu in effetti, nella sua vita, simpatizzante del regime nazista, accolto anche con mille onori da Adolf Hitler a Berlino.
La vittoria di Lindbergh a quelle elezioni, immaginata da Roth, cambia completamente il destino della storia: il Lindbergh del romanzo - e anche della serie, ovviamente - si è candidato contro Roosevelt proprio rivendicando la necessità e il diritto degli USA di rimanere neutrali nella guerra che si è scatenata in Europa e di non intervenire al fianco degli inglesi, sommersi da un diluvio di bombe naziste.
Il paese resta, così, neutrale. E addirittura il ministro degli esteri nazista Von Ribbentrop, viene ricevuto, con tutti gli onori, alla Casa Bianca.
Nel contempo nel paese, comincia una lenta e capillare discriminazione degli ebrei (americani) che vengono destinati a "programmi di inserimento" che si propongono di "integrare" gli ebrei nel modo di vita, nei costumi e nelle credenze del popolo americano.
Il tutto viene visto dalla prospettiva di una famiglia ebrea della midlle class di Newark, New Jersey, che precipita in un incubo e in un orrore pesantissimo, con il padre che non vuole per nessun motivo essere costretto ad abbandonare il paese che ritiene "il suo" e la madre che spinge per fuggire - finché è possibile - in Canada.
La zia, zitella, finisce invece per diventare l'amante del rabbino (vedovo) Bengelsdorf che in buona fede finisce per diventare il megafono del presidente Lindbergh.
La serie è prodigiosa per realizzazione tecnica (costumi, ricostruzione dell'epoca, ambienti, ecc.), di qualità cinematografica, per scrittura e per bravura degli attori: John Turturro in primis nei panni dell'ambizioso rabbino che fino alla fine non vuol vedere cosa sta succedendo, rendendosi complice; Wynona Rider, eccezionalmente brava nel ruolo della zia ingenua; Zoe Kazan (nipote del grande Elia), nei panni della madre, Morgan Spector nei panni del padre.
Si parla di una storia parallela, ma la serie parla - molto - dell'oggi, di quello che succede oggi intorno a noi, per questo va vista: perché i meccanismi umani sono sempre gli stessi e possono precipitare - come è successo sovente nella storia e come succede anche oggi - nella viltà, nell'ignavia, nell'ambizione irresponsabile, nella cecità, nell'incapacità di misurare il principio di realtà, conducendo i poteri all'orrore e gli innocenti al sacrificio.

Fabrizio Falconi - 2023

12/10/23

"Il Cielo Sopra Berlino" riesce al cinema - Un sorprendente ricordo personale


Adesso che il film sta riuscendo nelle sale - nel bagliore del nuovo restauro - posso raccontare questo fatto davvero surreale, che mi accadde anni fa.

Come molti altri, io avevo amato smisuratamente quel film di Wenders, e Bruno Ganz (che ci ha lasciato qualche anno fa) era per me, come per molti altri, soprattutto il meraviglioso, malinconico angelo de "Il Cielo sopra Berlino" (The Wings of Desire), il film diretto da Wim Wenders nel 1987, vincitore come regista al Festival di Cannes di quell'anno, edizione che fra l'altro avevo seguito come giornalista accreditato.
Bene, parecchi anni dopo quel film (15 per l'esattezza) - che però avevo sempre in testa, compresi i dialoghi scritti da Peter Handke - una mattina d'inverno decisi di portare mio figlio a visitare Castel Sant'Angelo, qui a Roma.
Doveva essere il 2002, Matteo era dunque molto piccolo. La giornata era cupa, nuvolosa e con parecchio vento, con un cielo che sembrava più berlinese che romano.
Giungemmo sulla Terrazza superiore, quella dominata dal colossale angelo in bronzo che rinfodera la spada sul cielo di Roma, scolpito da Peter Anton von Verschaffelt nel 1753.


Quella mattina, sulla grande terrazza del Castello c'erano pochissimi turisti. Ad un tratto, sembrandomi davvero sulle prime il frutto di una allucinazione, scorsi, vicino al parapetto una figura di spalle, avvolta in un cappotto scuro, che sembrava piuttosto familiare.
Mi avvicinai di qualche passo e aspettai di vederlo meglio.
Con sconcerto mi accorsi che era proprio lui, era proprio Bruno Ganz, con i capelli raccolti da un elastico sulla nuca e il lungo cappotto scuro fino ai piedi. Per un momento pensai perfino che dovessero esserci le sue ali trasparenti, quelle che di cui era dotato nel film di Wenders, le ali dell'angelo, mentre si sporgeva sui tetti estremi di Berlino.
Era solo. Lo spiai per un po'. Sembrava assorto nei suoi pensieri. Più volte rivolse lo sguardo all'angelo enorme in bronzo che lo sovrastava. Rimase più di venti minuti, poi scomparve in fretta giù per le scale.
Non ho mai dimenticato quell'incontro, e ancora mi chiedo che cosa ci facesse lì, da solo, vestito proprio da angelo, come nel film.
Chissà, forse Bruno Ganz un po' angelo lo era veramente.
Forse non lo ha detto a nessuno. Forse in realtà non è nemmeno morto. Ma è volato da qualche parte senza dir niente a nessuno. Mistero. Comunque, posso dire, la più bella - e indimenticabile - "apparizione" della mia vita.

Fabrizio Falconi - 2023

28/09/23

Rileggere "La Storia" - Il coraggio delle lacrime e le accuse di "patetismo"


Terminata la rilettura de La Storia e fatti i conti con le ultime pagine strazianti, capisco meglio cos'è che diede fastidio, di questo romanzone di 700 pagine, nella temperie degli anni '70, a una parte consistente degli intellettuali dell'epoca (con le notevoli eccezioni di Cesare Garboli, della Ginzburg e di altri, entusiasti)

Dietro l'accusa esplicita, sferzante o allusiva di "patetismo", si celavano più generali riserve (o censure) riguardanti una concezione della Storia vista dalla parte dei deboli (non dei sommersi di Levi, perseguitati per via dell'essere nati appartenenti alla razza "sbagliata"), ma da coloro - Ida, i suoi figli Nino e Useppe, gli avventori tutti dello Stanzone di Pietralata, anche Davide alla fine - che subiscono, come bovini al macello, il destino di sottomessi, di disegni inafferrabili e crudeli : il Fascismo, l'alleanza con i nazisti, la Guerra, la malvagità, il disastro che si abbatte sulle loro case, sui progetti, sulle speranze, sulle illusioni.
E' tutto quel che vede nelle ultime pagine Ida, subito prima della fine di Useppe, come un film a ritroso: un vortice, o meglio, un Maelstrom, imponderabile e cieco che ha inghiottito la sua famiglia, i suoi figli, lei stessa, obbedendo a nessuna logica, se non alla logica di un destino che non si può e che è inutile contrastare.
C'è odore di cristianesimo, insomma, e specialmente di quel cristianesimo continuamente frainteso dalla critica analitica marxista.
Perché il cristianesimo, come si sa, è molte cose. E se si vede soltanto una cosa, del cristianesimo, non si capisce nulla di cosa esso sia. Morante era credente (lo era a tal punto dal non voler concedere il divorzio a Moravia, perché convinta dell'indissolubilità del legame spirituale), ma era cristiana "pauperista" (il cristianesimo di Carlo Borromeo, il cristianesimo degli ultimi, dei poveri, degli analfabeti, degli indifesi).
Confondere questo con l'accettazione supina del proprio destino (nella speranza, evidentemente di una "ricompensa" nell'altra vita), vuol dire non aver capito niente del cristianesimo della Morante, che poi era lo stesso (senza vera fede) di Pasolini e del suo Vangelo secondo Matteo.
Cristo non è un masochista che vuole soffrire e essere macellato sul Golgota: Cristo, nell'orto degli ulivi, è un uomo che chiede, piangendo, di poter evitare quel calice molto amaro.
Cristo è un cantore, anzi IL cantore, della bellezza del vivere, del vivere in pace, della vita intesa come dono: la pianta di fichi che fa frutti meravigliosi, il granello di senape che diventa florido albero, la vigna che produce botti abbondanti, la pesca che sfama tutti e rende tutti sazi.
È lo stesso incanto che ha Useppe, come tutti i bambini e i puri di cuore.
Se nella creazione le cose non vanno come dovrebbero andare, la colpa non è di Cristo e non è degli ultimi. Loro sono le vittime. Cantare questo e piangere con loro, non è patetismo: altrimenti bisognerebbe buttare a mare non soltanto Manzoni, ma anche Chaplin, De Sica, Rossellini e buona parte del neorealismo italiano.
La "colpa" della Morante fu semmai, quella di essere arrivata "fuori tempo massimo". Ma lei era fatta così: pubblicò Menzogna e Sortilegio quando il romanzo classico, di impianto ottocentesco, era morto e sepolto e pubblicò l'Isola d'Arturo quando il lirico-fantastico era già fuori moda. Poi La Storia, pubblicato mentre le avanguardie chiedevano lo scalpo dei "passatisti".
Sul finire della vita, Morante si prese forse la rivincita definitiva con Aracoeli, romanzo indefinibile che spiazzò tutti e brilla ancora oggi come un diamante grezzo: la dimostrazione (o la conferma) che poteva scrivere tutto, meglio di tutti.
"La Storia" doveva essere così: Elsa Morante era maestra di destini (aveva imparato con tutta la durezza possibile a fare i conti con il suo personale, privato), e sapeva che ogni sua opera avrebbe avuto il suo: ben oltre la mancanza di visione dell'attuale e del contingente.

Fabrizio Falconi - 2023

21/09/23

La Lettera su "Il Manifesto" che attaccò frontalmente - da sinistra - "La Storia", il grande romanzo di Elsa Morante


E' una delle pagine più imbarazzanti (e anche abbastanza vergognosa) della storia letteraria italiana del Novecento:

La lettera pubblicata su Il Manifesto del 15 luglio 1974 (che riporto nell'originale in calce all'articolo e si può integralmente leggere ingrandendo l'immagine) contro La Storia di Elsa Morante, e soprattutto contro il giornale, che aveva osato pubblicare qualche giorno prima una recensione elogiativa del romanzo - il quale nel frattempo stava vendendo centinaia di migliaia di copie in tutta Italia, pubblicato da Einaudi.
Ad attaccare in modo frontale la scrittrice al suo terzo romanzo è in Italia, incredibilmente, soprattutto la sinistra intellettuale. Dopo una recensione ammirata e entusiasta di Cesare Garboli, e una dichiarazione commossa di Natalia Ginzburg, scoppia la bagarre.
Sulle pagine del «Manifesto» arriva questa velenosa lettera a firma di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva, la quale stigmatizza la recensione positiva di Liana Cellerino, che inizia con l'arroganza e il disprezzo tipici di quegli anni: "qualcuno di noi ha letto qualche riga, qualcuno qualche pagina...."
Seguiranno interventi di Rina Gagliardi, positivo, e per fortuna una tirata d’orecchie di Pintor ai firmatari, poi però altre recensioni negative e il finale tombale di Rossana Rossanda, decisamente contro.
Arriva così il fuoco ad alzo zero contro il romanzo: tutti schierati: la neoavanguardia, la sinistra extraparlamentare, capitanata da Asor Rosa (lo paragona a un Kolossal cinematografico: puro kitsch), Romano Luperini (ne critica l’impianto ideologico piccolo borghese) e Franco Fortini, che latita e si nasconde (la storia della sua mancata recensione è un saggio nel saggio); ma anche il gruppo romano intorno a Moravia, ex marito della Morante, che entra in campo con una secca stroncatura di Enzo Siciliano.
Così è.
A rileggere oggi questa lettera viene il prurito. Questi censori ideologici - che accusano la Morante di scrivere con un impianto piccolo borghese - vengono da famiglie e salotti borghesi e dai loro divani attaccano la Morante che - indiscutibilmente - viene davvero dal popolo, ha sofferto la fame vera, è stata sfollata, ha rischiato la vita anche per la sua origine mezza ebrea.
Una studiosa italiana, Angela Borghesi, ha recentemente ricostruito il caso "La Storia/Morante" in un corposo saggi uscito da Quodlibet.
La Borghesi mette in luce l’incomprensione che in un paese, dominato culturalmente da marxisti e cattolici, coglie la critica davanti a un’opera che spiazzava le ideologie dell’epoca con una visione del mondo che Garboli giustamente definisce «poetica», al di là delle convinzioni politiche e sociali.
Perché questa reazione? Ci sono almeno tre aspetti che Borghesi riassume nelle pagine finali, arrivando sino al nostro tempp oggi, dove in Italia, in mezzo a tanti "capolavori" dimenticati, La Storia vende 7-8.000 copie ogni anno.
Il primo lo spiega Garboli, il solo che si schiera con decisione e motivazioni a favore della Morante: invidia.
Gran parte degli articoli con un linguaggio politico-militare stigmatizzano l’aspetto commerciale, il best seller che diventa. Aveva successo, quindi non poteva essere un buon libro.
Borghesi ha strada facile nel segnalare come in gran parte delle critiche, con qualche eccezione, manchi l’analisi critica, l’approfondimento, e dire che narratologia e critica stilistica erano ben sviluppate all’epoca.
La seconda ragione, scrive l’autrice, è «il pregiudizio di genere», un tema oggi attuale, forse non così profondamente marcato all’epoca; di certo, in quanto romanziere donna, Morante ha sempre suscitato molte diffidenze.
La terza ragione è probabilmente la più profonda, e anche letterariamente più importante: il rifiuto del patetico. Italo Calvino, che pure stimava Elsa, e a cui il romanzo non piace fino in fondo, lo dice con molta evidenza: un narratore contemporaneo può far ridere o far paura al suo lettore, ma «farlo piangere no».
Quello che la critica marxista in particolare rifiuta è proprio il pathos narrativo de La Storia. Non si concede alla scrittrice di far piangere i suoi lettori, o che usi quella che Calvino chiama la «tecnica letteraria della commozione». All’ "uterina" scrittrice romana non è concesso utilizzare impunemente il registro patetico sentimentale.
L’autore del Marcovaldo si chiede: «Cosa fare allora? Guardarsi dell’essere "umani" nello scrivere?». Il punto probabilmente è qui: il patetico.
Morante non è kitsch, ci dice questo librone, perché quella che suscita non è «la seconda lacrima», per dirla con Milan Kundera, bensì la prima, quella vera.
Ma la sinistra italiana di quegli anni non può capirlo, accecata da un pregiudizio ideologico: in più, dice Borghesi, la sinistra italiana non ha mai fatto bene i conti con il kitsch, nonostante Gillo Dorfles e altri.
Quello che non colsero i critici, come scrisse ex post Marino Sinibaldi, è che una concezione tragica della storia e dei limiti della modificabilità del mondo, come quella del romanzo di Morante, era «utile alla definizione dei confini, dei limiti della politica».
Ma letta oggi questa lettera riassume il massimalismo cieco di certa critica di quegli anni: l'incapacità di riconoscere un capolavoro, la violenza di degradarlo (senza averlo letto) paragonandolo a De Amicis (!), la vergogna di non riconoscerne l'alto valore civile, oltre che letterario.
Negli anni '70 avevamo una Morante. E tutto il mondo, a quanto pare (visto che continua ad essere studiata e letta in tutto il mondo), l'aveva capito. E l'avevano capito anche gli italiani di allora, tutti tranne la critica militante che "ha sempre ragione".

Fabrizio Falconi - 2023

20/09/23

L'attrazione di Elsa per gli omosessuali: un "vulnus" non risolto


Tra i suoi diversi amori, Elsa Morante è attratta, in vita, anche dai maschi omosessuali. Molti sono artisti che frequenta, e di cui diventa anche confidente.

Spesso diventano protagonisti dei suoi romanzi, come il più famoso, Wilhelm Gerace, l'anaffettivo padre di Arturo, nel romanzo vincitore del Premio Strega nel 1957.
C'è una ragione, probabilmente, in questa attrazione, che ha a che fare con la vita personale di Elsa: un vulnus irrisolto e irrisolvibile, contenuto nel segreto che le viene rivelato, senza mezzi termini e con l'impiego di ogni dettaglio, quando lei ha soltanto dieci anni, dalla madre che l'ha generata: Irma Poggibonsi.
Irma le rivela che lei, e i suoi tre fratelli, non sono figli di quello che loro ritengono il loro padre e che ha dato loro il cognome, Augusto Morante, di professione sorvegliante presso il riformatorio giovanile di Trastevere, ma di un "amico di famiglia" che da sempre, i bambini hanno visto aggirarsi in casa loro, un certo Francesco Lo Monaco, portalettere siciliano, amico del padre.
La verità, come brutalmente rivela ai figli la madre, in quel giorno, è che Augusto, sin dalla prima notte di nozze si è manifestato "impotente". E questa impotenza 'coeundi', non solo 'generandi', ha fatto sì che la madre Irma, non rassegnandosi all'idea di non avere figli, abbia accettato di averne con un altro uomo, presentatole proprio dal marito, quindi con l'approvazione di lui.
Francesco Lo Monaco, anche se è già sposato e ha una sua famiglia, si prodiga nell'attività di "donatore di figli", senza mai rivelare il suo vero ruolo. Irma ne diventa perfino gelosa, perché sa che lui, oltre alla sua famiglia e a lei, frequenta anche altre donne.
Tanto per aggiungere dramma al dramma, un giorno Francesco Lo Monaco si toglie di mezzo, suicidandosi.
Augusto, invece, è rimasto sempre al suo posto, sempre più marginale, sempre più umiliato da Irma, sempre più squalificato agli occhi dei suoi stessi figli.
Elsa dirà più tardi di non aver mai avuto un padre, perché il suo vero padre era un estraneo, e quello che viveva con lei non era suo padre.
Ma chi era nella realtà Augusto? Per Elsa rimase probabilmente sempre un mistero.
Il sospetto che in realtà fosse omosessuale è molto più che un sospetto, e questa è forse l'unica versione che poteva dare una spiegazione valida a tutta la faccenda.
Sicuramente Elsa si sforzò nella sua vita adulta, e nella sua attività di scrittrice di elaborare questa figura di padre-non padre, di cercare di penetrarne la sofferenza, la negazione emotiva e sentimentale: padre in fondo non lo era mai stato, per lei. Ma di sicuro quel padre ombroso e lontano fu - nel suo modo - più "padre" di un prestatore d'opera, che davvero con il mondo di Elsa aveva poco o punto a che fare.

Fabrizio Falconi - 2023

14/09/23

Ricordate "Il Danno" ? Torna, sotto la veste di una nuova miniserie, intitolata "Obsession" su Netflix


Dieci minuti dopo che è partito il pilot della miniserie "Obsession" (4 brevi puntate, visibili su Netflix), del 2023, risuona una frase che negli spettatori più accorti risulta inconfondibile: "Ho subito un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... "
Si capisce subito, allora, che - anche se il titolo è diverso - si tratta del rifacimento di un celebre film - regia del grande Louis Malle, 1992 - a sua volta tratto dal celebre e fortunatissimo romanzo di Josephine Hart, pubblicato nel 1991, che ha venduto l'incredibile cifra di 5 milioni di copie in tutto il mondo: "Il Danno".
Siamo dunque esattamente come nel romanzo, dentro la storia di uno stimato professionista, William Farrow, brillante chirurgo e rampante politico, altoborghese, felicemente sposato con due figli, che perde completamente la testa per la donna che è la fidanzata di suo figlio Jay, e che suo figlio Jay sta per sposare.
La donna, Anna Barton, ha un passato di storie familiari torbide, piuttosto misterioso: il chirurgo ne resta soggiogato già dal primissimo incontro, e nonostante il vincolo familiare, intraprende con lei una rovente storia sessuale, basata sulla sottomissione, con virate bondage e sadomaso.
C'è subito da dire che la serie - una coproduzione franco-inglese - si fa apprezzare per qualità e sviluppo (non ci sono lungaggini o ovvietà), presentando qualche differenza abbastanza sostanziale con la storia originale (e con il film di Malle). Di più, è di sicuro una delle serie televisive dal contenuto sessuale più esplicito e il legame quasi senza parole tra i due - funereo, nichilista - viene mostrato senza orpelli, un po' come ha insegnato la scuola del film di Bertolucci ("Ultimo Tango a Parigi").
Il segreto del successo della storia e del libro originario risiede probabilmente nella esplorazione del lato oscuro della sessualità, nel suo legame con la morte (il vecchio binomio eros/thanatos) e nella ineluttabilità del danno elaborato attraverso la perversione: d'altronde lo stesso Freud ammoniva che "la nevrosi si può curare, ma con la perversione non si può fare niente."
Chi è stato danneggiato, dunque, è questa la "morale" della Hart, è più forte, più attrezzato per sopravvivere (anche se nella relazione si traveste da quello più fragile) e chi è più vittima è in fondo chi si avvicina e cade nella rete del danneggiato.
E' una tesi forse rassicurante o forse no, ed è per questo che il successo arrivò copioso.
Questa serie è un buon esercizio su (quel) tema, ambientando la vicenda in una Londra gelida e piuttosto lugubre. Gli interpreti sono all'altezza, a parte Richard Armitage nei panni del protagonista, il chirurgo doppiamente fedifrago, che ha una sola espressione per tutta la serie, e rigido e pallido com'è, fa rimpiangere dalla prima scena, il sensuale e sontuoso Jeremy Irons del film di Malle.
Bravissima è invece Charlie Murphy (già vista in Happy Valley 2 e 3), che offre mille sfumature alla fatale, estrema Anna Barton (anche nelle difficili, esplicite scene di nudo).
Bravissima è anche Indira Varma nel ruolo della moglie e Rish Shah in quello dell'innocente vittima, il ragazzo Jay.
Il finale della serie è diverso sia dal libro che dal film di Malle e concede una opzione in più sia ad Anna che a William: la vita può andare avanti anche quando si è fatto il peggio che si potesse fare (e di certo è una tesi molto, molto discutibile).
Insomma, un voto positivo per un lavoro difficile che aveva il compito di misurarsi con un un libro molto famoso e con un film di un grandissimo regista (che non fu, comunque, uno dei suoi migliori).

Fabrizio Falconi - 2023

22/08/23

"Un Beau Matin" un film che fa bene al cuore (ma perché non si riesce a fare un film così in Italia?)


Vedo Un Bel Mattino (Un Beau Matin) su Mubi, uscito nel 2022 e mi chiedo perché sia inimmaginabile oggi un film così, fatto in Italia.
Lo firma una regista franco-danese (danese è la famiglia del padre), Mia Hanson Love, quarantenne, ex moglie di Olivier Assayas, già vincitrice con i suoi precedenti film, di molti premi in festival importanti, tra cui l'Orso d'Argento per la migliore regia alla Berlinale del 2021.
Un Bel Mattino è un film di bellezza disarmante, perché vero. Un film che parla della vita vera, con luminosità, dolore, intensità. La storia semplice e "ordinaria" (senza la minima ombra di retorica) di Sandra, giovane donna rimasta vedova troppo presto, con una figlia piccola, che deve affrontare la malattia del padre - professore di filosofia (come il vero padre di Mia), colpito da una grave malattia neurologica (Sindrome di Benson) e che nello stesso periodo, dopo lunghi anni di solitudine, vive una intensa storia d'amore con un uomo sposato e a sua volta padre di un bambino.
Tutti i tempi dell'amore e della passione, tutto il dolore per la malattia del padre, vivono e passano sul volto di Léa Seydoux, straordinaria attrice, che "vive" il ruolo di Sandra, più che interpretarlo. Con i silenzi, i gesti ordinari, le lacrime, i sorrisi, le fatiche, i dolori a tratti insostenibili.
C'è la lezione, modernizzata dei grandi maestri, c'è la poesia e la leggerezza di Truffaut, c'è lo scandaglio fotografico di Bergman.
E alla fine, quando questo film ti arriva al cuore con le sue immagini e il suo racconto coerente, apparentemente senza bisogno di altro, ti chiedi perché un film così oggi non possa essere fatto da noi.
E puoi darti una risposta tra una serie che provo a elencare in ordine sparso:
- perché in Italia non esiste una attrice come Léa Seydoux
- perché in Italia si "recita" e non si sa più essere, interpretando.
- perché il mondo borghese - o meglio, piccolo borghese, che è quello di quasi tutti - non sappiamo più raccontarlo.
- perché non sappiamo scrivere un copione così essenziale, funzionante, senza bisogno di trucchi o strizzate d'occhio allo spettatore
- perché la vita - come cantava Franco Battiato con Sgalambro - in Italia, è diventata una "parvenza di vita" o perché non è così e semplicemente è vita vera ma nessuno sa più raccontarla.
Non lo so, scegliete voi quale.
Nel frattempo fatevi un bel regalo, con Un Bel Mattino.

Fabrizio Falconi - 2023

20/08/23

Perché c'è il male nel mondo? La domanda senza risposta. O forse no.


Molti anni fa, quando nacqui, mio padre e mia madre mi battezzarono. Come avevano fatto i propri genitori con loro e risalendo indietro nel tempo, centinaia di generazioni prima di loro.

Quando sono cresciuto, dopo lunghi anni di sostanziale disinteresse, ho riconfermato il senso di questo segno ricevuto - l'ho fatto anche coi miei figli - perché alcune, molte, parole che si trovano nei Vangeli, mi sembrano anche oggi le più oneste e chiare in grado di suggerire una risposta ai dilemmi eterni della nostra vita umana: tra questi, il mistero della presenza del male, nel mondo, nella creazione.
Nella semplicità di questa parabola, Gesù il Nazareno, diede la risposta che per me è ancora oggi la più convincente:
Mt. 13,24-30
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”.
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».

Anche se nel suo linguaggio metaforico, ad uso dei discepoli che venivano dal volgo e non erano certo intellettuali, il senso appare chiaro: il padrone della casa (Dio) non è solo, nella creazione; la creazione non è un dominio incontrastato o una tirannia assoluta del padrone della casa; nella creazione esiste un nemico; un nemico che se ne va in giro di notte (quando tutti dormono) a seminare (anche lui), anche se semina zizzania, quindi un'erba fatta apposta per uccidere la semente buona.

Infine: di fronte a questo nemico che agisce, e che evidentemente controlla una parte di territorio della creazione, il padrone di casa non interviene subito, distruggendo la zizzania seminata, facendo razzia di ciò che quello ha seminato: piuttosto, lascia il buono e il cattivo a contatto, li lascia crescere insieme, perché alla fine arriverà il giorno in cui la malaerba verrà scartata e bruciata, e l'altra, riposta nel granaio.

Fabrizio Falconi - 2o23

09/07/23

La Poesia della Domenica: "Baccano"




Baccano


E non è vero che Floki non sappia

morire: che ne sanno le anime

                                     del pandemonio?

Lui sente, come senziente, la sua vita

minacciata ad ogni istante e il pericolo

                                    è già morte;

come tutti si prostrano prima

di chiudere gli occhi, al dio del non-senso,

Floki invece abbaia e guaisce, si tiene

stretto a quello che viene, il suo chiasso

è la porta del paradiso; nessuno 

del resto lo sa: che la vita vera finisce 

senza finire                   in un baccano.


Fabrizio Falconi - 2023

(foto Elliot Erwitt)

  

05/07/23

Un romanzo dimenticato e molto bello: "La Rossa" di Alfred Andersch


Se oggi andate a cercare su Amazon o altre librerie on line (non parliamo di quelle tradizionali/cartacee) il nome di Alfred Andersch, non troverete nulla di nulla pubblicato in Italia, negli ultimi 40 anni.
Eppure c'è stato un periodo non lontano, nel quale lo scrittore nato a Monaco di Baviera nel 1914 era piuttosto in voga, come si vede, pubblicato anche dagli Oscar Mondadori.
Personalmente questa edizione del 1972 (il romanzo è del 1961), l'ho trovata in una meritevole libreria che commercia prezioso usato (negli stessi scaffali ho addirittura trovato la prima edizione de Il Dono di Humboldt di Bellow, in Italia (la mia ormai è consumata)).
Così ho scoperto questo notevole romanzo di un autore piuttosto controverso: pur essendo tra i fondatori del Gruppo '47, Andersch infatti dovette difendersi, nel dopoguerra, da accuse di ambiguità/collusione con il regime nazista.
Andersch fu effettivamente arruolato nella Wehrmacht nel 1940, quando aveva 26 anni, e schierato sul fronte occidentale contro la Francia.
Prima di allora, però, dal 1930, Andersch era stato un fervente comunista, e dopo l'ascesa al potere dei nazionalsocialisti, era stato rinchiuso - secondo il suo racconto - per tre mesi nel campo di concentramento di Dachau, in quanto sovversivo.
Uscito dalla prigionia, lo scrittore, caduto in depressione, non aveva potuto evitare l'arruolamento, anche se nel 194 fu ufficialmente "licenziato" dall'esercito perché nel frattempo si era legato sentimentalmente alla pittrice Gisela Groneuer, considerata dalla polizia una "mezza ebrea".
Arruolato nuovamente nel 1943, Anders disertò nel giugno 1944, consegnandosi agli americani, che lo trasferirono in un campo di prigionia in Virginia.
Tornato in patria, fu uno dei protagonisti della scena letteraria tedesca del dopoguerra, fino alla morte avvenuta nel 1980 in Svizzera.
Tredici anni dopo la morte, Andersch fu oggetto di pesanti accuse di "contraffazione letteraria e fanatismo" da parte di W. G. Sebald, ma il rapporto di Sebald fu "giustamente respinto nella sua generalità".
Al di là di queste controversie legate alla sua biografia, "La Rossa" (Die Rote), è un romanzo importante, che risente direttamente delle vicende vissute da Andersch negli anni della guerra e del nazismo.
La vicenda ha per protagonista Francesca, una donna trentenne tedesca, che dopo aver lasciato marito e amante, prende il primo treno alla Stazione di Milano, che la porta a Venezia, con sole 40 mila lire in tasca.
La donna forse è incinta. Non sa cosa succederà della sua vita, vuole semplicemente allontanarsi da tutto, ricominciare. Una cupa, allucinata e bellissima città fantasma la accoglie nel pieno dell'inverno.
Qui, attraverso diverse voci modulate nel testo e diverse scritture, Francesca si trova coinvolta, suo malgrado, dentro una tragica resa dei conti tra una spia inglese e un ex criminale nazista.
Ma c'è molto di più di una semplice spy-story in questo romanzo. Ci sono le vite rovinate dall'orrore, l'orgoglio di una donna che non si vuole sottomettere al potere di maschi ottusi o cinici, c'è una Italia distrutta dalla guerra, eppure desiderosa di ricominciare, ci sono tradimenti e imboscate del destino, c'è l'intelligenza che non vuole morire e vuole anzi, sopravvivere, secondo il "suo" modo.
C'è l'ambiguità di Kramer, uno dei più verosimili "boia" nazisti incontrati nella letteratura che scrive di quel tempo oscuro.

Fabrizio Falconi - 2023

26/06/23

"A proposito di Davis", un grande film dei Fratelli Coen - da recuperare su Amazon Prime Video


Chi vuole può recuperare "A proposito di Davis" ("Inside LLewyn Davis") dei fratelli Coen, uscito nel 2013, adesso disponibile sulla piattaforma di Amazon Prime Video.

E' per me la miglior prova in assoluto dei geniali fratelli, dai tempi de "L'uomo che non c'era" (2001, il loro ultimo grande capolavoro), cui aggiungerei il favoloso "Macbeth" (2021) che però è firmato dal solo Joel.
"A proposito di Davis", come è stato tradotto in italiano dall'originale americano, che suona assai diverso (è il titolo dello sfortunato LP pubblicato dallo sfortunato Davis, che nessuno compra e nessuno vuole ascoltare), è uno dei più riusciti ritratti di losers che si è visto sullo schermo.
Gli presta il volto (e la voce) l'eccellente Oscar Isaac, uno dei più talentuosi attori oggi in circolazione (protagonista fra l'altro, insieme a Jessica Chastain, della versione 2021 di "Scene da un matrimonio").
Davis è un personaggio immaginario, ma più vero del vero. I Coen lo hanno disegnato sul modello di due veri folksingers newyorchesi, Dave Van Ronk e Ramblin' Jack Elliott, che ebbero l'immane sfortuna di presentarsi da esordienti sulla stessa scena e nello stesso identico periodo in cui Robert Zimmerman, alias Bob Dylan, muoveva i suoi primi passi, nei fumosi locali di Brooklyn e del Greenwich Village.
Davis è quindi, nella poetica dei Coen, un perfetto contraltare del grande Bob. Mettendo in scena i suoi fallimenti, le sue goffagini, le sue sofferenze esistenziali (chiamiamole anche con il nome più rozzo per quello che sono: "sfighe"), Davis è per i Coen l'eroe della nobile sconfitta: colui che non può farcela (a diventare famoso), colui che è costretto a restare un fallito, un senza casa, un fuori posto, uno che vede la storia scorrergli davanti, da vicino o da vicinissimo, ma la può soltanto sfiorare.
E' oro per il talento dei Coen, che hanno costruito molta della loro fortuna, sul canto (ironico o disperato) degli sconfitti.
La fotografia (pluripremiata) di Bruno Delbonnel, le musiche (T Bone Burnett) e le canzoni tradizionali del folk anglosassone, il cast di grandi attori (tutti accorrono quando i Coen chiamano): Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, F. Murray Abraham, Adam Driver, contribuiscono alla riuscita del film, perfetto e toccante in ogni inquadratura.
Poteva poi essere anche quasi un racconto in prima persona, ma i Coen amano a tal punto le storie e il cinema, che qui inventano un assai tenue, eppure magico macGuffin con le fattezze di un gatto ribelle che riesce a rendere ancora più tortuosa e difficile la vita del povero Davis.
Il film ha ricevuto numerose candidature ai premi più importanti (Oscar e Golden Globe compresi) e ha (stra) meritatamente vinto il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 2013.

Fabrizio Falconi - 2023

19/06/23

"La Famiglia dei Diamanti" - saga familiare Netflix nel quartiere ortodosso di Anversa


La Famiglia dei Diamanti (Rough Diamonds), visibile sulla piattaforma Netflix, serie belga, del 2023, si inserisce sulla scia delle diverse serie che, dalla meravigliosa Shtisel a Unorthodox, si sono addentrate nel mondo della cultura e della vita delle comunità ebree ortodosse.

In questo caso siamo in Belgio, ad Anversa, da sempre "la città dei diamanti", lì dove cioè hanno prosperato da secoli commercianti - non solo ebrei - che si sono specializzati nel mercato delle preziose pietre provenienti dalle miniere dell'Africa.
Il pretesto narrativo è il suicidio - perché coinvolto in debiti di gioco - di un giovane membro della famiglia Wolfson, una delle più blasonate del quartiere dei diamanti.
Al capezzale del morto accorre anche il più classico figliol prodigo: Noah, che venti anni prima ha lasciato la famiglia, lasciando la fede ortodossa. Noah, che è fratello del suicida, vive a Londra e si occupa di affari poco puliti.
La morte del fratello lo spinge però a riconnettersi con la comunità Haredi e con la sua famiglia, che si trova adesso in guai molto seri - ricattata dalla malavita albanese - e che lui si sente in dovere di aiutare.
Coprodotta dagli israeliani Keshet, la serie, solida e ben scritta si segue volentieri fino all'ultima delle 8 puntate.
I punti deboli sono gli attori, in particolare Kevin Janssens, il protagonista, dall'espressione fissa e stolida, modesto come modesti sono anche altri nei ruoli secondari; i personaggi fra l'altro, tranne quello del fratello maggiore, Eli, non "crescono" ; e una inconcludenza generale della vicenda, specie nell'epilogo, irrisolto e tirato via senza convinzione, soltanto per preparare il terreno a una probabilissima seconda stagione.

Fabrizio Falconi - 2023

06/06/23

L'oscura Via del Mandrione, a Roma, amata da Pasolini


Fa una certa impressione immaginare che dalla costruzione dell’ultimo dei grandi maestosi acquedotti romani (i cui resti ancora giganteggiano per l’Italia) trascorsero ben tredici secoli prima che si sentisse la necessità a Roma di realizzarne uno nuovo

L’impresa fu voluta da Papa Sisto V a cui si deve la completa ristrutturazione urbanistica di Roma (con il celebre Piano Sistino), il quale la commissionò nel 1585 all’architetto Matteo Bortolani. 

Tanto per comprendere quale fosse la grandezza dei romani, Bortolani commise degli errori di progettazione del nuovo acquedotto, e il Papa dovette ricorrere a Giovanni Fontana (lo stesso architetto che aveva spostato l’obelisco di Piazza San Pietro) per rimediare e correggere il difettoso deflusso delle acque. 

In onore di Sisto V (che la secolo si chiamava Felice Peretti) il nuovo acquedotto fu chiamato Felice e aveva il compito di utilizzare le antiche sorgenti dell’Aqua Alexandrina, per approvvigionare le zone del Viminale e del Quirinale. 

Il tracciato originale del nuovo acquedotto superava la Via Tuscolana all’altezza della Porta Furba e giungeva fino nel cuore di Roma con il trionfo finale della Mostra della Fontana del Mosè, in Piazza San Bernardo. 

Oggi una gran parte del circuito cittadino dell’Acquedotto Felice è affiancata dalla lunga Via del Mandrione, che dà il nome ad un quartiere, o meglio, ad una porzione del quartiere Tuscolano

In questa Via, una specie di tortuoso serpente che si snodava e in parte si snoda ancora sul confine tra la periferia della città e la campagna, furono trovati i resti di una splendida villa romana e parte di un lastricato. 

Il nome, Mandrione, deriva proprio dal fatto che qui, nella campagna sotto gli archi del vecchio acquedotto, venivano portate le mandrie a pascolare

Era però, già anticamente, una zona di scorribande, adatta agli agguati da parte di briganti e di sabotatori e per questo motivo, lungo questa via transitavano i sorveglianti degli acquedotti, arruolati dalle autorità pontificie. 

I solenni archi divennero però con il passare dei secoli anche un ideale rifugio: dapprima in tempo di guerra quando sotto l’Acquedotto Felice trovarono riparo gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943, che costruirono le prime baracche, e poi, nel dopoguerra comunità di nomadi e prostitute. 

Ben presto dunque la zona del Mandrione divenne malfamata e territorio di studio per le condizioni abitative di disagio in città, che richiamarono nel dopoguerra l’interesse di personalità come Pier Paolo Pasolini, Gian Giacomo Feltrinelli, Elsa Morante, Goffredo Parise. 

Da qui partirono però anche progetti rivoluzionari (come quelli della pedagogista Angelina Linda Zammataro) di integrazione delle comunità nomadi e di recupero della zona archeologica con lo sgombero delle baracche e l’assegnazione di alloggi popolari alle numerose famiglie che vi abitavano

Oggi l’oscura Via del Mandrione ha – come altre parti della periferia romana – cambiato pelle, ospitando locali, botteghe artigiane e vita notturna.


Fabrizio Falconi, tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013