Nel clima degli anni '60, le imprese spaziali influenzarono prepotentemente il costume, il
cinema, la musica, la letteratura. Il
mondo sembrava sull’orlo di un cambiamento rapidissimo, che avrebbe portato
chissà quali imprevedibili sviluppi, perfino una veloce colonizzazione del
vicino spazio (poi dimostratasi ben più complessa di quanto si immaginava).
Space Oddity
fu pubblicato da David Bowie soltanto sette mesi dopo (luglio 1969); mentre
appena otto mesi prima della missione dell’Apollo 8, il 6 aprile del 1968
Stanley Kubrick aveva presentato alla stampa 2001: A Space Odyssey.
Quattro anni dopo l’impresa di Borman,
Anders e Collins – nel maggio del 1972 -
a simbolico suggello di quella prima epopea culminata con l’allunaggio
del 1969, un gruppo inglese, i Pink Floyd, si riuniva nelle sale di registrazione
londinesi di Abbey Road per il concepimento di un nuovo album che sarebbe stato
significativamente chiamato The
Dark Side of the Moon, destinato a diventare una
pietra miliare della musica contemporanea (28).
Fu quello un album estremamente innovativo
anche dal punto di vista dell’ingegneria del suono – come sanno bene i numerosi
appassionati dell’opera in tutto il mondo: sulla base di un concept che secondo le intenzioni del gruppo avrebbe
evocato temi impegnativi come la condizione dell’esistenza, la morte,
l’alienazione mentale, gli ingegneri del suono costruirono un suono compatto
che prevedeva – oltre alle eclettiche invenzioni dei quattro musicisti –
l’utilizzo dei materiali più disparati, come il rumore di una macchina
calcolatrice, il battito cardiaco – che ricorre all’inizio e alla fine – passi
di corsa in una stanza anecoica, orologi, macchine, frammenti di conversazione.
Le voci con le risposte vennero poi mixate e disseminate lungo i diversi pezzi musicali e tra le interiezioni di questi, componendo un ulteriore mosaico di sottotesto, di lettura alternativa.
C’è una rara foto, delle molte che
raccontano l’epopea musicale dei Pink Floyd a cavallo tra gli anni ’60 e gli ’80,
che ritrae i componenti del gruppo in una sorta di foto di famiglia, ciascuno
con la compagna e con i figli al seguito. È stata scattata sulla spiaggia di
Saint-Tropez nell’estate del 1970. Poco prima dell’inizio della lavorazione di The Dark Side of The Moon. Insieme ai quattro musicisti ci sono anche i
più stretti roadies,
collaboratori tecnici che seguivano il gruppo in sala d’incisione e nei lunghi
tour.
Sorridente e seminudo, insieme a Waters, Mason, Gilmour e Wright, compare qui anche Peter Watts, in piedi insieme alla compagna che tiene in braccio una bambina di due anni: la piccola è la futura attrice Naomi Watts, mentre il padre, Peter è l’autore di quella risata che ritorna più volte in The Dark Side of The Moon, e che ne rappresenta quasi il marchio di fabbrica. Anche Peter fu infatti intervistato e registrato da Waters durante la lavorazione dell’album, con altri due roadies, Roger “The Hat” Manifolt e Chris Adamson, e addirittura l’usciere irlandese degli studi di Abbey Road, Gerry O’ Driscoll, il quale finì per essere coinvolto in quei giorni anche lui dal gioco creativo di Waters. Anche senza essere menzionato direttamente nei credits dell’album O’ Driscoll è riuscito a imprimere il suo nome definitivo sull’opera, visto che sua è la voce dell’ultimissima frase che si ascolta nel disco, al termine dell’ultimo brano, Eclipse, sullo sfondo del ritmo dello stesso battito cardiaco che apre l’album. Quasi all’ultimo solco, si sente la voce dell’uomo sussurrare:
«There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun».
E cioè: «In realtà non c’è un lato oscuro
della luna. Il fatto è che è tutta oscura. L’unica cosa che la fa sembrare
luminosa è il sole».
In realtà non sappiamo quale fosse la domanda esatta che gli fece a bruciapelo Waters con uno dei suoi bigliettini – la raccomandazione è che gli intervistati rispondessero senza pensarci – ma è sicuro che la risposta dell’anonimo usciere divenuto warholianamente famoso, è davvero interessante.
La litania finale, nei due minuti e mezzo di
Eclipse
(«Tutto ciò che tocchi/Tutto ciò che vedi/ Tutto ciò che assaggi/Tutto ciò che
senti/Tutto ciò che ami… Tutto ciò che distruggi/Tutto ciò che mangi/Chiunque
incontri/Tutto ciò che disprezzi/Tutto ciò che è adesso/Tutto ciò che è
passato/Tutto ciò che arriverà…») esprime le infinite sfumature della vita, tutto
quanto è sotto il sole sintonia, gli infiniti toni dei colori che si riuniscono
nel bianco fascio della luce, come nel celebre prisma della copertina del
disco.
Tutto è (sarebbe) riunito nella luce, tutto è in sintonia con il sole.
Se non ci fosse … la luna, appunto. Il sole eclissato dalla luna.
La luna è l’ombra
del sole. Perché la Luna, come dice
quell’ultimo sospiro – la voce di Gerry O’ Driscoll (29) – è tutta oscura.
E l’unica cosa che la fa sembrare (o diventare) luminosa – a tal punto di
rischiarare perfino la terra - è il sole.
Luce e ombra, pertanto, hanno bisogno una
dell’altra.
La follia dell’ombra permea la vita, la vita
– solo la vita – può dare un senso alla follia (cioè illuminarla).
Durante la cerimonia di inaugurazione della
XXXma edizione dei Giochi Olimpici, a Londra, organizzata e diretta da Danny
Boyle – succeduta di otto anni a quella di Atene – il 27 luglio del 2012,
proprio le note di Eclipse nella edizione originale del disco dei Pink
Floyd hanno accompagnato l’accensione dell’immenso braciere, in un grande gioco
di luci spettacolari.
Migliaia di fiammelle e di fuochi si sono
innalzati sul tempo del rullante di Nick Mason, illuminando a giorno lo stadio
olimpico di Stratford, immerso nella notte londinese, mentre sui mega schermi
si alternavano le immagini di un gigantesco occhio umano e della luna che
lentamente arrivava ad eclissare l’anello solare, rendendone i contorni ancora
più brillanti.
Subito dopo l’ultima esplosione, le parole
dell’uscire Gerry Driscoll sono risuonate in tutto lo stadio.
L’ombra non faceva paura.
I nuovi Giochi erano aperti.
Incuranti delle prossime, inevitabili
rovine.
estratto da: Fabrizio Falconi - Le rovine e l'ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017