Mercoledì 9 ottobre John Lennon avrebbe compiuto 84 anni. Due in più del suo amico Paul McCartney, che gli ha dedicato il toccante tributo sui social.
Franco Gàbici, L'Avvenire, 16/7/2012
John Lennon e Yoko Ono. Due persone, una cosa sola. Bastano i loro nomi per suscitare, anche nelle generazioni che non li hanno vissuti realmente, qualcosa di unico. Lui, uno dei grandi (ex), leggendari, membri dei Beatles, lei, proveniente da una ricca famiglia di banchieri giapponesi, artista e musicista. Formarono, fino alla morte di Lennon, nel 1980, ucciso da Mark David Chapman, una delle coppie a cui guardare, che più hanno ispirato una forma di ribellione e resilienza creativa, musicale, culturale, di protesta.
Si erano conosciuti il 9 novembre del 1966 all'anteprima di un'esposizione proprio della Ono, all'Indica Gallery di Londra, nella quale lo stesso Lennon fu attratto da diverse opere esposte, una in particolare chiamata, ‘Celing painting’, che prevedeva si dovesse salire con una scala, per vedere attraverso un vetro (e degli specchietti) la parola YES che si ingrandiva. Fu la scintilla, il mix tra immaginazione, ironia e provocazione, a legarli. Si sposarono il 20 marzo 1969.
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Secondo quanto riportato da ScreenRant e Vogue sarebbe stato scelto il cast delle quattro pellicole e in questi giorni si sarebbe riunito per le prime fasi della preproduzione.
Secondo il portale InSneider a interpretare Paul McCartney dovrebbe essere Paul Mescal (NapoleOn, Il Gladiatore 2, All Of Us Strangers, Normal People), John Lennon il giovane Harris Dickinson (A Murder at the End of the World), il talentuoso Barry Keoghan (The Batman, Saltburn, Dunkirk, Eternals, Gli Spiriti Dell'Isola) dovrebbe prendere il ruolo di Ringo Starr e Charlie Rowe (Rocketman, I Love Radio Rock, La Bussola D'Oro) in quello di George Harrison.
Al momento le indiscrezioni pubblicate dai magazine sopra citati non sono state confermate né smentite dalla Sony Pictures, che distribuirà i quattro film di Sam Mendes.
Per la realizzazione del progetto e la scrittura della sceneggiatura la Apple Corps Ltd. e i Beatles (Paul McCartney, Ringo Starr e le famiglie di John Lennon e George Harrison) concederanno i diritti completi sulla storia della vita dei componenti della band e i diritti musicali.
Come concepito da Mendes che dirigerà i quattro lungometraggi cinematografici, uno dal punto di vista di ciascun membro della band, le quattro pellicole si intersecheranno per raccontare "la sorprendente storia della più grande band mai esistita".
Sempre dal sito ufficiale dei Beatles si apprende che la SPE finanzierà e distribuirà le pellicole in tutto il mondo nel 2027. La modalità del rilascio dei film, i cui dettagli saranno condivisi in prossimità dell'uscita, sarà innovativa e rivoluzionaria.
Mendes dirigerà tutti e quattro i film e li produrrà insieme alla sua partner della Neal Street Productions Pippa Harris e Julie Pastor. Jeff Jones sarà il produttore esecutivo per conto della Apple Corps Ltd.
“Sono onorato di raccontare la storia della più grande rock band di tutti i tempi ed entusiasta di sfidare il concetto di ciò che costituisce un viaggio al cinema”, ha affermato Sam Mendes.
"Vogliamo che questa sia un'esperienza cinematografica unica, elettrizzante ed epica: quattro film, raccontati da quattro diverse prospettive che raccontano un'unica storia sulla band più celebre di tutti i tempi", ha affermato Pippa Harris. “Avere la benedizione dei Beatles e della Apple Corps per fare tutto questo è un immenso privilegio. Dal nostro primo incontro con Tom Rothman ed Elizabeth Gabler, è stato chiaro che condividevano sia la nostra passione che l’ambizione per questo progetto, e non possiamo pensare a una casa più perfetta di Sony Pictures”.
“La Apple Corps è lieta di collaborare con Sam, Pippa e Julie per esplorare la storia unica di ogni Beatle e riunirli in un modo adeguatamente accattivante e innovativo”, ha affermato Jeff Jones, CEO di Apple Corps Ltd..
Di dove costoro abbiano appreso a frequentare le alte vette della forma espressiva (e sostanziale) dell'arte, oltre che dalla strada, non è affatto facile dire (se non si ricorre per l'appunto alla "ghianda" di Hillman). Erano "angeli venuti da un altro mondo", come si diceva dello stesso Bowie o di Jim Morrison? Forse no. Erano semplicemente "antenne" che percepivano prima degli altri lo spirito del tempo, anche se il loro punto di partenza e di osservazione, inziale, era assai laterale o parziale. Eppure, furono artefici della loro stupefacente emancipazione.
E questo dovrebbe far pensare soprattutto noi italiani, essendo questo un paese dove la cultura e gli intellettuali sono spesso provenuti da eredità paterne, famiglie benestanti, insomma dalla famosa (esaltata e vituperata) borghesia italiana.
E ancora oggi succede spesso così. In Italia, per il gioco dei poteri e delle cricche, che sono ovunque, è ancora più difficile per il figlio di un operaio (ammesso che esistano ancora) o di un tassista notturno squattrinato, poter sognare un giorno di diventare non una vacua meteora da reality, ma un artista vero (un grande musicista o un vero scrittore), capace di riempire la propria anima di vita e spargerla poeticamente donandola al mondo. Per lui, le porte non si aprono.
Qui di seguito un estratto (p. 162 e ss), de "La Fine del Sogno - Beatles, Manson, Polanski", libro che verrà presentato domenica prossima, 22 settembre alla Libreria Eli di Roma. E' uno dei momenti cruciali della storia, quando Lennon pubblica un album immediatamente dopo l'annuncio dello scioglimento della band che ha cambiato il mondo. E' un regolamento di conti durissimo, principalmente tra i due fautori - John e Paul - della grande rivoluzione musicale (e non solo) del Novecento, e la definitiva rottura del loro "patto di sangue" siglato quando avevano quindici anni e mai violato sino ad allora.
La prima bordata contro Paul, ma contro la storia stessa dei Beatles, è una iniziativa di John– che del resto non si è mai fatto problemi a “lavare i panni sporchi in pubblico” – ed è contenuta in John Lennon/Plastic Ono Band, uscito pochi mesi dopo lo scioglimento: God, penultima traccia del LP, ballata dai toni ultimativi (da resa dei conti appunto), rappresenta il più esplicito “manifesto programmatico” di Lennon, all’indomani del divorzio dei/dai Beatles.
John mette le cose in
chiaro: vuole esprimere in modo essenziale e definitivo, quello in cui egli
crede – quello cioè che lui sostanzialmente è ora – ora che
l’incantamento dei dieci anni sull’Helter Skelter è finito. Quella
giostra si è fermata. Lui è sceso. Cosa è rimasto? Cosa è adesso John, appena oltrepassata
la linea d’ombra dei suoi primi trent’anni di vita?
God lo afferma esplicitamente, ma nel tipico stile di John, cominciando
dall’enunciazione di ciò in cui lui non crede. Di ciò che lui non è o
non è più.
Anche God, come Mother,
viene scritta durante il periodo della Primal Therapy, nella casa di
Nimes Road, a Bel-Air. John ne incide una prima versione acustica, suonata alla
chitarra, oggi presente in diversi bootleg bramati dai collezionisti,
nella quale fa ironicamente precedere al testo vero e proprio, un proclama
nello stile dei predicatori americani: “Ho una missione
dall'alto. E sono qui per dirvi che questo messaggio riguarda il nostro amore.
Gli angeli devono avermi mandato per consegnarvi questo messaggio. Ora
ascoltatemi, fratelli e sorelle.” L’iconoclasta Lennon usa questo espediente
per lanciarsi così, di seguito, in un radicale peana contro-religioso, il
manifesto di un ateismo che sembra radicale e che viene affermato con forza già
a partire dai primi versi:
God
is a concept
By which we measure our pain
I'll say it again
God is a concept
By which we measure our pain
Yeah
Pain
Yeah
Dio, dice Lennon, è
semplicemente un concetto che gli uomini hanno inventato per dare un
nome, o meglio, per misurare, il loro dolore. È una definizione filosofica
lapidaria, che sembra provenire dal pensiero filosofico di Janov, dalle
conversazioni fatte con il dottore, prima del rilascio delle urla del paziente,
nella stanza insonorizzata.
A questo punto, sull’incalzare dello stesso tema, ribattuto in
crescendo, ad ogni rima John elenca ciò in cui non crede, non ha mai creduto o
non crede più. Anche questo è un elenco radicale, che non ammette discussioni,
e che Lennon stila con tono perentorio, definitivo:
I don't believe in magic
I don't believe in I-Ching
I don't believe in Bible
I don't believe in Tarot (cioè nei tarocchi)
I don't believe in Hitler
I don't believe in Jesus
I don't believe in Kennedy
I don't believe in Buddha
I don't believe in Mantra
I don't believe in Gita
I don't believe in Yoga
I don't believe in Kings
I don't believe in Elvis
I don't believe in Zimmerman (cioè in Bob Dylan)
E qui, con un abile colpo di teatro, dopo una improvvisa pausa della
sequenza, e un eloquente vuoto, arriva la voce dell’elenco più difficile
da mandar giù, specie per le moltitudini di fans che avevano fatto del gruppo
di Liverpool, i loro idoli:
I
don't believe in Beatles
John, dunque, ha fatto finalmente a pezzi tutto: non solo non crede ad
alcuna divinità – e Gesù e la Bibbia sono stati inseriti nell’elenco subito
prima e dopo dei Tarocchi e di Hitler - ma non crede nemmeno in alcun idolo
della musica, né Elvis (che pure fu un suo idolo giovanile), né in Dylan, né
nei “suoi” Beatles, che sono, al pari delle altre voci in capitolo, puri idoli,
simulacri, simboli rivestiti di un valore immaginario e inconsistente. Al
dunque, inutili.
E dunque, cosa resta? In cosa crede l’uomo John, al termine di questa
distruzione di miti, divinità e simboli? John crede alla realtà. E la realtà si
restringe, con un cambio di passo drastico della melodia, all’improvviso fattasi
dolce e malinconica, a “me” e a “Yoko e me”:
I
just believe in me
Yoko and me
And that's reality
Ogni sogno è dunque
tramontato, continua John. Anche i Beatles erano fatti di quel sogno.
Adesso che egli è rinato, tutto è più chiaro: il sogno era “Ieri”, con una
velenosa allusione alla canzone di Paul, Yesterday (sempre considerata,
da John, la sua migliore), e ai tempi dei Beatles. Che vengono ripudiati con i
versi seguenti, di facile interpretazione per tutti i fans del gruppo: John non
è più The Walrus (il “tricheco”), nel chiaro riferimento a una delle
canzoni più celebri e autobiografiche di John (scritta sotto acido e ispirata a
una poesia di Lewis Carroll, I’m the Walrus, contenuta nel Doppio
Bianco). The Walrus, cioè il John-nei-Beatles, il dreamweaver (cioè
il “tessitore di sogni”) è diventato ora, soltanto John, il ri-nato.
The
dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday
I was the dreamweaver
But now I'm reborn
I was the walrus
But now I'm John
And so dear friends
You'll just have to carry on
The dream is over
Il sogno è finito: ed è piuttosto singolare che a decretarlo sia proprio
John che - con le sue utopie pacifiste, i bed-in, le tirate contro i
potenti e il loro cinismo - tutto il mondo identifica come il sognatore
per eccellenza. E lui stesso, del resto, così si definisce nella sua più famosa
canzone, Imagine: You may say, i’m a dreamer, but i’m not the only
one. Tu puoi chiamarmi un sognatore. Lui non lo nega, risponde soltanto che
di certo non è l’unico.
Questa canzone, God, è allora un proclama nel più caratteristico
stile provocatorio di John. La sua identità – se ne esiste una – è ora ciò che
risulta da una serie di negazioni: “non posso affermare ciò che sono, posso
soltanto dire ciò che non sono.”
Di sicuro, la canzone è uno shock per molti fan dei Beatles, con effetti
potenziali imprevedibili e violenti, come vedremo tra poco.
Ma ciò che sta a cuore a John, al di là dei toni, è smontare il mito dei
Beatles e ridimensionarlo, nel momento in cui sta “imparando a nuotare”. I
Beatles andavano bene, ma non il loro mito. E lo ribadisce con chiarezza nella
famosa intervista del 1980: “Se i Beatles hanno un messaggio, era quello. Con i
Beatles, il punto sono i dischi, non i Beatles come individui. Non hai bisogno del
pacchetto, così come non hai bisogno del pacchetto cristiano o del pacchetto
marxista per ricevere il messaggio… Se i Beatles o gli anni Sessanta hanno un
messaggio, era imparare a nuotare. Punto. E una volta che impari a nuotare,
nuoti. Le persone che sono attaccate al sogno dei Beatles e degli anni Sessanta
hanno perso il punto, quando il sogno dei Beatles e degli anni Sessanta è
diventato il punto. Portare in giro il sogno dei Beatles o degli anni
Sessanta per tutta la vita è come portare in giro la Seconda Guerra Mondiale e
Glenn Miller. Questo non vuol dire che non puoi goderti Glenn Miller o i
Beatles, ma vivere in quel sogno è una zona crepuscolare. Non è vivere adesso. È
un’illusione.” [1]
Sembra un discorso impeccabile, e in effetti lo è, ma c’è sicuramente di
più, oltre a questo: la lunga intervista di Lennon – una sorta di bilancio,
senza sapere che stava arrivando la sua morte – è in realtà una presa di
distanza dalle biografie dei Beatles, non soltanto dal fenomeno musicale,
culturale che essi hanno rappresentato. Perché ogni aspetto, in questa vicenda,
parla prima di tutto di vite, traumi, mancanze, nevrosi, sogni, utopie,
delusioni, malinconie, perdite, fallimenti. In primis, di John e Paul. Così, il
mistero che resta – l’argomento che John scantona nell’intervista – è perché
queste vicende personali, queste vite, si siano assemblate così stranamente e
per quali cause – con potenza simbolica – esse abbiano collegato le anime di
così tanta gente nel mondo, fino a oggi. Forse Lennon, morendo nel 1980, non ha
fatto in tempo a constatare la durevolezza, la consistenza e l’autorevolezza
nel tempo, del “mito” dei Beatles. E forse se fosse vivo ancora oggi, avrebbe
una percezione parecchio diversa di quello che realizzò con i suoi compagni di
allora.
[1] D.
Sheff, Lennon Interview, op. cit.
Ogni diritto d'autore riservato. Testo tratto da: Fabrizio Falconi, La Fine del Sogno, Beatles, Manson, Polanski, Arcana Editore, Roma, 2024.
Tornano, dopo la fortunata stagione scorsa, dal prossimo 15 settembre 2024 le "Passeggiate Letterarie" con Fabrizio Falconi, alla Libreria Eli di Roma, in viale Somalia 50/a.
Quest'anno gli incontri non seguiranno un percorso cronologico, ma tematico, affrontando le meraviglie di Roma, per argomenti e cominciando, domenica 15 settembre con Le vie consolari che hanno reso Roma famosa nel mondo, che esistono ancora oggi e che permisero lo sviluppo sconfinato dell'impero.
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Nel clima degli anni '60, le imprese spaziali influenzarono prepotentemente il costume, il
cinema, la musica, la letteratura. Il
mondo sembrava sull’orlo di un cambiamento rapidissimo, che avrebbe portato
chissà quali imprevedibili sviluppi, perfino una veloce colonizzazione del
vicino spazio (poi dimostratasi ben più complessa di quanto si immaginava).
Space Oddity
fu pubblicato da David Bowie soltanto sette mesi dopo (luglio 1969); mentre
appena otto mesi prima della missione dell’Apollo 8, il 6 aprile del 1968
Stanley Kubrick aveva presentato alla stampa 2001: A Space Odyssey.
Quattro anni dopo l’impresa di Borman,
Anders e Collins – nel maggio del 1972 -
a simbolico suggello di quella prima epopea culminata con l’allunaggio
del 1969, un gruppo inglese, i Pink Floyd, si riuniva nelle sale di registrazione
londinesi di Abbey Road per il concepimento di un nuovo album che sarebbe stato
significativamente chiamato The
Dark Side of the Moon, destinato a diventare una
pietra miliare della musica contemporanea (28).
Fu quello un album estremamente innovativo
anche dal punto di vista dell’ingegneria del suono – come sanno bene i numerosi
appassionati dell’opera in tutto il mondo: sulla base di un concept che secondo le intenzioni del gruppo avrebbe
evocato temi impegnativi come la condizione dell’esistenza, la morte,
l’alienazione mentale, gli ingegneri del suono costruirono un suono compatto
che prevedeva – oltre alle eclettiche invenzioni dei quattro musicisti –
l’utilizzo dei materiali più disparati, come il rumore di una macchina
calcolatrice, il battito cardiaco – che ricorre all’inizio e alla fine – passi
di corsa in una stanza anecoica, orologi, macchine, frammenti di conversazione.
C’è una rara foto, delle molte che
raccontano l’epopea musicale dei Pink Floyd a cavallo tra gli anni ’60 e gli ’80,
che ritrae i componenti del gruppo in una sorta di foto di famiglia, ciascuno
con la compagna e con i figli al seguito. È stata scattata sulla spiaggia di
Saint-Tropez nell’estate del 1970. Poco prima dell’inizio della lavorazione di The Dark Side of The Moon. Insieme ai quattro musicisti ci sono anche i
più stretti roadies,
collaboratori tecnici che seguivano il gruppo in sala d’incisione e nei lunghi
tour.
Sorridente e seminudo, insieme a Waters, Mason, Gilmour e Wright, compare qui anche Peter Watts, in piedi insieme alla compagna che tiene in braccio una bambina di due anni: la piccola è la futura attrice Naomi Watts, mentre il padre, Peter è l’autore di quella risata che ritorna più volte in The Dark Side of The Moon, e che ne rappresenta quasi il marchio di fabbrica. Anche Peter fu infatti intervistato e registrato da Waters durante la lavorazione dell’album, con altri due roadies, Roger “The Hat” Manifolt e Chris Adamson, e addirittura l’usciere irlandese degli studi di Abbey Road, Gerry O’ Driscoll, il quale finì per essere coinvolto in quei giorni anche lui dal gioco creativo di Waters. Anche senza essere menzionato direttamente nei credits dell’album O’ Driscoll è riuscito a imprimere il suo nome definitivo sull’opera, visto che sua è la voce dell’ultimissima frase che si ascolta nel disco, al termine dell’ultimo brano, Eclipse, sullo sfondo del ritmo dello stesso battito cardiaco che apre l’album. Quasi all’ultimo solco, si sente la voce dell’uomo sussurrare:
«There is no dark side of the moon, really. Matter of fact it’s all dark. The only thing that makes it look alight is the sun».
E cioè: «In realtà non c’è un lato oscuro
della luna. Il fatto è che è tutta oscura. L’unica cosa che la fa sembrare
luminosa è il sole».
In realtà non sappiamo quale fosse la domanda esatta che gli fece a bruciapelo Waters con uno dei suoi bigliettini – la raccomandazione è che gli intervistati rispondessero senza pensarci – ma è sicuro che la risposta dell’anonimo usciere divenuto warholianamente famoso, è davvero interessante.
La litania finale, nei due minuti e mezzo di
Eclipse
(«Tutto ciò che tocchi/Tutto ciò che vedi/ Tutto ciò che assaggi/Tutto ciò che
senti/Tutto ciò che ami… Tutto ciò che distruggi/Tutto ciò che mangi/Chiunque
incontri/Tutto ciò che disprezzi/Tutto ciò che è adesso/Tutto ciò che è
passato/Tutto ciò che arriverà…») esprime le infinite sfumature della vita, tutto
quanto è sotto il sole sintonia, gli infiniti toni dei colori che si riuniscono
nel bianco fascio della luce, come nel celebre prisma della copertina del
disco.
Tutto è (sarebbe) riunito nella luce, tutto è in sintonia con il sole.
Se non ci fosse … la luna, appunto. Il sole eclissato dalla luna.
La luna è l’ombra
del sole. Perché la Luna, come dice
quell’ultimo sospiro – la voce di Gerry O’ Driscoll (29) – è tutta oscura.
E l’unica cosa che la fa sembrare (o diventare) luminosa – a tal punto di
rischiarare perfino la terra - è il sole.
Luce e ombra, pertanto, hanno bisogno una
dell’altra.
La follia dell’ombra permea la vita, la vita
– solo la vita – può dare un senso alla follia (cioè illuminarla).
Durante la cerimonia di inaugurazione della
XXXma edizione dei Giochi Olimpici, a Londra, organizzata e diretta da Danny
Boyle – succeduta di otto anni a quella di Atene – il 27 luglio del 2012,
proprio le note di Eclipse nella edizione originale del disco dei Pink
Floyd hanno accompagnato l’accensione dell’immenso braciere, in un grande gioco
di luci spettacolari.
Migliaia di fiammelle e di fuochi si sono
innalzati sul tempo del rullante di Nick Mason, illuminando a giorno lo stadio
olimpico di Stratford, immerso nella notte londinese, mentre sui mega schermi
si alternavano le immagini di un gigantesco occhio umano e della luna che
lentamente arrivava ad eclissare l’anello solare, rendendone i contorni ancora
più brillanti.
Subito dopo l’ultima esplosione, le parole
dell’uscire Gerry Driscoll sono risuonate in tutto lo stadio.
L’ombra non faceva paura.
I nuovi Giochi erano aperti.
Incuranti delle prossime, inevitabili
rovine.
estratto da: Fabrizio Falconi - Le rovine e l'ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017
Non è dato sapere se sia realmente accaduto o se si tratti di una leggenda, ma sta di fatto che gli studiosi hanno preso in considerazione la questione e alcuni sono andati alla ricerca di riferimenti astronomici che potrebbero giustificare la famosa visione che apparve all’imperatore Costantino 1700 anni fa, il 27 ottobre del 312, alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio combattuta in località Saxa Rubra e nel corso della quale venne sconfitto Massenzio.
Secondo Lattanzio (250-327) la visione sarebbe avvenuta in sogno, mentre Eusebio di Cesarea (265-340) scrive che la croce luminosa sarebbe apparsa in pieno pomeriggio e fu osservata anche da tutti i soldati. Sulla croce campeggiava la scritta «Toutô nika», che più tardi Rufino tradusse Hoc signo victor eris» e che la tradizione trasformò nel più noto «In hoc signo vinces».
Tutti invece concordano sul fatto che Costantino, dopo la visione, fece incidere sui labari dei soldati la lettera greca «chi», il simbolo del Dio cristiano. Già Filostorgio (368-439) aveva proposto una interpretazione astronomica del «segno celeste» e in tempi più recenti Fritz Heiland del Planetario di Jena ha avanzato l’ipotesi che la visione potesse essere interpretata come una congiunzione planetaria. A differenza delle stelle, che vengono chiamate "fisse" perché su intervalli temporali abbastanza lunghi mantengono inalterate le loro reciproche posizioni, i pianeti non hanno posizioni immobili e in effetti il termine "pianeta" deriva da un termine greco che significa «astro errante».
Heiland, dunque, dopo aver ricostruito il cielo del 312 notò che nell’autunno di quell’anno Giove, Saturno e Marte, tre pianeti molto luminosi, si trovavano vicini e allineati fra le costellazioni del Capricorno e del Sagittario.
La configurazione planetaria insolita poteva essere interpretata dai soldati come un cattivo presagio e Costantino avrebbe addirittura inventato la storia della visione per trasformare il presagio in un segno di buon auspicio. Subito dopo il tramonto, inoltre, in mezzo alla volta celeste campeggiava il Cigno, una costellazione a forma di croce, tant’è che viene chiamata dagli astronomi la «Croce del Nord».
Una stella laterale, poi, le conferiva l’aspetto di uno «staurogramma», dove con questo termine si definisce il monogramma che si ottiene sovrapponendo le due lettere greche maiuscole tau (T) e rho (P).
Sotto il Cigno, inoltre, si trova la costellazione dell’Aquila, simbolo di Roma e dei suoi eserciti, e anche questa circostanza contribuì a rafforzare i significati simbolici della visione.
Interessante a questo proposito è l’affresco di Piero della Francesca nella basilica di San Francesco di Arezzo intitolato «Il sogno di Costantino» nel quale l’artista, come ricordano Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi nel volume In hoc signo vinces (Edizioni Mediterranee), riproduce il cielo stellato relativo all’evento e un angelo dall’aspetto di cigno che porge una croce all’imperatore.
Va anche sottolineato che la posizione dell’angelo nell’affresco non è casuale, ma rispecchierebbe la posizione realmente occupata nel cielo dalla costellazione del Cigno.
Un altro segno della visione di Costantino si può ammirare all’interno del battistero paleocristiano di San Giovanni in Fonte di Napoli, fatto erigere dallo stesso imperatore. Sulla cupola, infatti, spicca un bellissimo mosaico che raffigura un grande staurogramma a ricordo della visione di Costantino. Legato a Costantino è anche il casale di Malborghetto, continua a leggere qui.