11/05/22

La vera travolgente storia d'amore de "La mia Africa" - Karen Blixen e Denys Finch Hatton


E' un film memorabile, La mia Africa, girato da Sidney Pollack, nel 1985 e rimasto nel cuore di molti, insieme al romanzo da cui è tratto, della grande Karen Blixen. 
Non tutti sanno comunque la reale storia che è alla base del romanzo, e del film. 


Karen Christenze Dinesen  era nata in Danimarca 17 aprile 1885 e subito dopo essersi trasferita in Kenya, che all'epoca faceva parte dell'Africa orientale britannica , si era sposata con il barone svedese  Bror Blixen-Finecke a Mombasa il 14 gennaio 1914.  
Dopo il suo matrimonio, divenne nota come Baronessa Blixen e usò il titolo fino a quando l'allora ex marito si risposò nel 1929.

Bror aveva frequentato l'università di agraria ad Alnarp e gestiva la fattoria di Stjetneholm, all'interno della tenuta di Nasbyholm. 

Durante i suoi primi anni, Karen trascorse parte del suo tempo nella casa di famiglia di sua madre, la fattoria di Mattrup vicino a Horsens. 

Karen e Bror progettavano di allevare bestiame nella loro fattoria, ma alla fine si convinsero che il caffè sarebbe stato più redditizio. 

La coppia fondò presto la loro prima fattoria, M'Bagathi, nell'area dei Grandi Laghi. Durante i combattimenti della prima guerra mondiale tra tedeschi e britannici nell'Africa orientale , Bror prestò servizio nelle pattuglie di Lord Delamere lungo il confine del Kenya con il tedesco-tanganika e Karen aiutò a trasportare rifornimenti, ma la guerra portò una carenza di lavoratori e forniture. Tuttavia, nel 1916, la Karen Coffee Company acquistò una fattoria più grande, M'Bogani, vicino alle Ngong Hills a sud-ovest di Nairobi . La proprietà copriva 6.000 acri di terreno. 

Inizialmente, Bror lavorava nella fattoria, ma presto divenne evidente che aveva poco interesse per essa e preferiva lasciare la gestione della fattoria a Blixen per dedicarsi  ai safari.  

A proposito dei primi anni di vita della coppia nei Grandi Laghi africaniregione, Karen Blixen scrisse in seguito, Ecco finalmente che si poteva fregarsene di tutte le convenzioni, ecco un nuovo tipo di libertà che fino ad allora si trovava solo nei sogni! 

Il marito di Karen la tradiva sistematicamente e in breve contrasse la sifilide.

Il 5 aprile 1918, Bror e Karen furono presentati al Muthaiga Club al cacciatore di selvaggina grande, inglese Denys Finch Hatton (1887–1931), che fu assegnato al servizio militare in Egitto. 

Al suo ritorno in Kenya dopo l'armistizio, Hatton sviluppò una stretta amicizia con Karen e Bror. Lasciò nuovamente l'Africa nel 1920. Mentre Bror e Karen si separarono nel 1921. 

Hatton viaggiava spesso avanti e indietro tra l'Africa e l'Inghilterra e visitava occasionalmente Karen, rimasta sola. 

Ritornò nel 1922, investendo in una società di sviluppo del territorio. Dopo la separazione dal marito, lei e Finch Hatton avevano sviluppato una stretta amicizia, che alla fine divenne una relazione amorosa a lungo termine. 

In una lettera a suo fratello Thomas nel 1924, scrisse: "Credo che per tutto il tempo e l'eternità sono vincolata a Denys, ad amare la terra su cui cammina, ad essere felice oltre ogni parola quando è qui e a soffrire peggio della morte molte volte quando se ne va..." 

Ma altre lettere nelle sue raccolte mostrano che la relazione era instabile, e che la crescente dipendenza di Karen da Finch Hatton, il quale era invece intensamente indipendente, era un problema. 

Finch Hatton si trasferì a casa sua, fece della fattoria di Blixen la sua base di partenza tra il 1926 e il 1931 e iniziò a condurre safari per ricchi sportivi. 

Tra i suoi clienti c'era perfino Edward, principe di Galles. Durante un safari con i suoi clienti, Denys morì schiantandosi con il suo biplano de Havilland Gipsy Moth nel marzo 1931.

Blixen registrò la loro partenza. "Quando era partito con la sua macchina per l'aeroporto di Nairobi, e aveva abbandonato il vialetto, è tornato a cercare un volume di poesie, che mi aveva dato e che ora desiderava nel suo viaggio. Si fermò con un piede sul predellino dell'auto, e un dito nel libro, leggendomi una poesia di cui avevamo discusso. «Ecco le tue oche grigie», disse. 

Ho visto oche grigie volare sulle pianure 
Oche selvatiche vibranti nell'aria alta - 
Incrollabile da orizzonte a orizzonte 
Con l'anima irrigidita in gola - 
E il loro grigio candore che snoda i cieli enormi 
E i raggi del sole sulle colline accartocciate. 


Poi si allontanò definitivamente, agitando il suo braccio verso di me». 

Poco dopo, il fallimento della piantagione di caffè, a causa della cattiva gestione, dell'altezza della fattoria, della siccità e del calo dei prezzi del caffè causato dalla depressione economica mondiale , costrinse la Blixen ad abbandonare la sua tenuta. La società di famiglia vendette la terra a uno sviluppatore residenziale e Blixen tornò in Danimarca nell'agosto 1931 per vivere con sua madre. Nella seconda guerra mondiale, aiutò gli ebrei a fuggire dalla Danimarca occupata dai tedeschi. E rimase a Rungstedlund per il resto della sua vita.

10/05/22

Che dolore (e delusione) le frasi di Nikita Mikhalkov su Putin


Il grande regista russo Nikita Mikhalkov in una vecchia foto

Fa male al cuore leggere le dichiarazioni recenti di Nikita Sergeevič Michalkov, uno dei più grandi registi del novecento, a proposito del presidente/dittatore Vladimir Putin. 

Viene da chiedersi come possa l'autore di film come "Schiava d'amore"(1975), "Oblomov"(1980) o "Il sole ingannatore" (1994), la stessa persona che si spende in un incondizionato peana per Putin, all'indomani della sanguinosa e terribile invasione dell'Ucraina.

Mikhalkov, che oggi ha 77 anni proviene da una famiglia di inconfondibili tradizioni artistiche: suo padre Sergej Vladimirovič Michalkov è uno scrittore e poeta, celebre in Russia per aver scritto il testo dell'inno nazionale del suo Paese in due diverse occasioni, mentre la madre, la poetessa Natal'ja Petrovna Končalovskaja, era la figlia del pittore Pëtr Petrovič Končalovskij e la nipote del pittore Vasilij Ivanovič Surikov; suo fratello maggiore è invece il regista Andrej Končalovskij, il quale in passato ha operato scelte molto diverse dal fratello, ai tempi dell'Unione Sovietica, andando a vivere e lavorare negli Stati Uniti. 

Del resto l'amicizia tra Mikhalkov e Putin non è nuova. Si ricorda l'aneddoto della presentazione di un libro firmato dal presidente. Al momento di regalare una copia al regista, Putin, sotto una foto che lo ritraeva nell’atto di saldare un conto al ristorante scrisse questa dedica: «Bisogna pagare per tutto nella vita, Nikita». 

Come hanno riportato le agenzie Keystone-SDA, Nikita Mikhalkov è stato intervistato recentemente e richiesto di un parere sulla guerra in Ucraina. Mikhalkov ha spiazzato un po' tutti, schierandosi completamente con il presidente russo Putin e  accusando l'Occidente di essersi coalizzato per distruggere la civiltà russa e i suoi valori. 

Citato dalla Tanjug, Mikhalkov ha attaccato - anche qui sposando completamente i toni e la propaganda russa - il presidente ucraino Volodymyr Zelensky da lui accusato di esprimersi alla stregua dei nazisti. "Accusano la Russia di mettere in pericolo la sicurezza, mentre è la Nato ad avvicinarsi ai confini russi", ha detto il noto regista russo. "Personalmente sono convinto che questa non sia una guerra fra Russia e Ucraina, ma una guerra di Russia, Europa e America. Non è una guerra per la democrazia nella quale i nostri partner vogliono convincerci di qualcosa. Questo è il tentativo globale e forse l'ultimo della civiltà occidentale di attaccare il mondo russo, l'etica ortodossa, i valori tradizionali", ha affermato Mikhalkov. 

A suo avviso, a partire dall'indipendenza dell'Ucraina nel 1991, a generazioni di ragazzi è stato inculcato "l'odio per la Russia", e il mondo ha chiuso gli occhi sul neofascismo in Europa. 

Insomma, gli stessi identici argomenti (piuttosto paranoici) che si sentono tutti i giorni amplificati dalla propaganda della televisione, della stampa russa, e dagli interventi dell'uomo forte del Cremlino.

Davvero, dal grande regista russo era lecito aspettarsi altro. 

09/05/22

Krishnamurti e la Guerra. Che fare?



In questi tempi così complessi, è utile rileggere le parole di Krishnamurti (1895-1986) sulla guerra, le cause e ciò che l'uomo, ogni singolo uomo può fare. In particolare, queste furono pronunciate a Ojai, California, il 27 maggio 1945, nella imminenza della fine della Seconda Guerra Mondiale. 

Domanda: Sicuramente la maggior parte di noi ha visto al cinema o sui giornali le immagini degli orrori e delle barbarie dei campi di concentramento. Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, a coloro che hanno perpetrato tali mostruose atrocità? Non dovrebbero venire puniti? 

Krishnamurti: Chi li punirà? Il giudice non è spesso colpevole come l’accusato? Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno. 

Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare. 

Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili degli orrori della guerra. 

La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità. 

Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione. 

Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre. 

Dovete sradicare le cause della guerra, della violenza, dentro di voi, il che richiede pazienza e gentilezza, non questa maledetta condanna degli altri. L’umanità non ha bisogno di altra sofferenza per poter capire, ma ciò che occorre è che voi siate consapevoli delle vostre azioni, che vi risvegliate alla vostra ignoranza e al vostro dolore, per far nascere in voi stessi la compassione e la tolleranza. Non dovete preoccuparvi di punizioni e ricompense, ma di sradicare in voi stessi quelle cause che si manifestano nella violenza e nell’odio, nella rivalità e nell’ostilità. Uccidendo l’uccisore diventate come lui, diventate voi i criminali. Ciò che è sbagliato non viene raddrizzato con mezzi sbagliati, solo con giusti mezzi si può raggiungere un giusto fine. 

Se volete la pace, dovete usare mezzi pacifici; mentre lo sterminio di massa e la guerra conducono solo a ulteriore sterminio, ulteriore sofferenza. Non si raggiunge l’amore con lo spargimento di sangue, un esercito non è uno strumento di pace. Solo la benevolenza e la compassione possono portare pace nel mondo, non la forza, l’inganno, e neppure le leggi. Voi siete i responsabili per l’infelicità e i disastri, voi che nella vostra vita quotidiana siete crudeli, avidi, ambiziosi, oppressori. La sofferenza continuerà finché non avrete sradicato dentro di voi le cause che generano la passione, l’avidità, la crudeltà. Abbia pace e compassione nel cuore, e troverà la giusta risposta alla sua domanda.

Ojai, 27 maggio 1945

A qualcuno o a tanti, potrà sembrare del tutto utopistico. Ma, a ben guardare è così: ogni possibile cambiamento dell'umanità dipende solo ed esclusivamente dal cambiamento dei singoli. 

06/05/22

E' vero che Mussolini si fece costruire un Bunker sul Monte Soratte?

 



E' stato già dai primordi dell'antichità, un monte considerato sacro dove sorgeva, sulla sommità, che domina la valle del Tevere, a pochi chilometri da Roma, un vetusto Tempio di Apollo, cristianizzato in età antichissima, che servì anche da eremo a papa Silvestro I, esiliato da Massenzio e poi diventato dopo la Battaglia di Ponte Milvio consigliere stretto di Costantino imperatore, e il fautore della cristianizzazione urbanistica di Roma. 

Sul Soratte, però, non c'erano soltanto mistici, predicatori, o astronomi. 

Nel 1937, per volere di Benito Mussolini, fu infatti avviata sul Monte Soratte, data la vicinanza con la Capitale, la realizzazione di numerose gallerie all’interno della montagna, che sarebbero dovute servire da rifugio antiaereo per le alte cariche dell’Esercito Italiano, pur sotto le mentite spoglie di fabbrica di armi della Breda: le cosiddette “officine protette del Duce”. 

Cioè un vero e proprio Bunker. 

I lavori furono svolti sotto la direzione del Genio Militare di Roma e, ancora oggi, questo dedalo ipogeo costituisce una delle più grandi ed imponenti opere di ingegneria militare presenti in Europa (circa 4 km di lunghezza: una vera e propria città sotterranea). 

Durante la Seconda Guerra Mondiale, in particolare nel settembre del 1943, il “Comando Supremo del Sud” delle forze di occupazione tedesche in Italia, guidato dal Feldmaresciallo Albert Kesselring, si stabilì sul Soratte. 

Per un periodo di circa dieci mesi, le gallerie si prestarono come valido rifugio segreto per le truppe naziste e resistettero al pesante bombardamento del 12 maggio 1944,effettuato da due stormi di B-17 alleati, partiti appositamente da Foggia per distruggere il quartier generale tedesco al Soratte. 

Sembrerebbe che, prima di abbandonare l’area, il Feldmaresciallo dette ordine di minare ed incendiare tutto il complesso ipogeo e di interrare delle casse contenenti parte dell’oro sottratto alla Banca d’Italia: le stesse non sono mai state ritrovate.

Per anni, dopo la fuga delle truppe tedesche successiva al bombardamento, il complesso visse periodi di totale abbandono

Fu solamente nel 1967, durante gli anni della Guerra Fredda, che, sotto l’egida della N.A.T.O., venne modificato un tratto delle gallerie, che assunse l’aspetto di bunker anti-atomico, che avrebbe ospitato il governo italiano e il presidente della repubblica in caso di attacco atomico sulla capitale

I lavori, solo parzialmente terminati, si protrassero fino al 1972, quando, per ragioni ancora incerte, vennero bruscamente interrotti

L’area, da alcuni anni, è stata riacquisita dal Comune di Sant’Oreste ed è oggetto di un progetto di recupero delle ex-caserme e di allestimento di un museo storico diffuso, denominato “Percorso della memoria”. 

Oggi le gallerie sono visitabili grazie all'impegno della Libera Associazione Culturale Santorestese “Bunker Soratte”.

Tutte le info per visitare il Bunker al sito: https://bunkersoratte.it/

Informazioni tratte da https://bunkersoratte.it/







05/05/22

Quella volta che Bruce Chatwin fece ridere Jorge Luis Borges

 


E' la foto che documenta un incontro raro, tra due delle personalità più notevoli del Novecento letterario Bruce Chatwin e il grande Jorge Luis Borges. 

Nell'ottobre 1983 infatti, Chatwin fu intervistato per un talk show televisivo della BBC da Frank Delaney, e insieme a Bruce, c'erano anche Borges e Mario Vargas Llosa. 

Di quella storica registrazione, resta anche il ricordo di un curioso aneddoto.

Nello studio, nel momento in cui arrivò Borges, Chatwin disse di lui all'intervistatore:  'È un genio. non puoi andare da nessuna parte senza portarti dietro Borges. È come prendere lo spazzolino da denti"

Borges, sentendo questo, rispose divertito: "Che poco igienico!" -

C'era del resto un sicuro, grande timore reverenziale. Borges aveva 84 anni, mentre Chatwin, ancora giovanissimo, soltanto trentatré. 

03/05/22

A Roma esisteva una "Via Tiradiavoli" - una storia di apparizioni e bizzarrie

 


Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.

Del resto questa consolare fu una delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura al XII secolo a.C.

L’Aurelia Vetus – questo primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno, che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna, Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano durante la costruzione (come i temibili Apuani).

Una costruzione che durò per tre secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle popolazioni alpine.

Ma a noi interessa qui il circuito cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio, anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via Aurelia, intorno al 241 a.C.

La Via Aurelia poi, si inerpicava sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare dal litorale.

Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato, rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.

E proprio lungo questo itinerario c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa nell’Aurelia Antica.

Come nacque la leggenda è opportuno brevemente narrare.

A Donna Olimpia Maldaichini, che il popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a Roma una importante via e una piazza.

La gente di Roma la chiamava anche Papessa,  per le sue frequentazioni importanti oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il Cardinal padrone.

Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia »,  che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta)  pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).

Nata a Viterbo nel 1592 da una famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva  sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj,  fratello di quel cardinale, Giovanni Battista Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di  Innocenzo X. 

Grazie alla sua sottile intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro, contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj. 

Innocenzo X, avvalendosi dell’opera dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano,  edificando la sontuosa Villa Pamphilj, organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali, dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.

Dopo la morte di Panfilio, il fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata  nel 1639 libera dall’assolvere i doveri coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato, alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio dalle pasquinate)  secondo le quali i due erano stati amanti, ed era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli nel sonno un potente veleno.

Cinque anni dopo, l’ascesa di Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il  cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare importante  che a Roma potesse essere deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo avallo.  Al figlio della nobildonna, Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale, ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio paterno.

Questo potere smisurato attirò però su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la proliferazione  di rumorosi scandali, che ne aumentarono la fama controversa.  

Un ultimo episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di Innocenzo X,  che morì il 7 gennaio del 1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora caldo del Pontefice,   Olimpia non si fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto,  due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi  ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper nulla, né di esequie, né di sepoltura  o dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice morto: con il risultato che  la salma di Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima bara e le esequie furono poi pagate da due generosi  maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale dell’austera Olimpia.

Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al Cimino, nel viterbese,  Olimpia sopravvisse due anni, prima di morire.

Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano portare con loro l’anima avida della signora.

Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto, esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013 


01/05/22

Chi era Michael Abram, l'uomo che nel 1999 colpì George Harrison con 44 coltellate

 

Michael Abram, l'autore dell'aggressione a George Harrison nel 1999

Il 1997 fu un anno decisivo per George Harrison. Dopo il progetto Anthology, l'ex Beatle collaborò con Ravi Shankar a Chants of India, l'album di quest'ultimo. 

L'ultima apparizione televisiva di Harrison fu uno speciale per promuovere l'album, registrato nel maggio 1997. 

Subito dopo, ad Harrison fu diagnosticato un cancro alla gola;  ​​fu curato con la radioterapia, che sulle prime sembrò avere pieno successo. Il musicista attribuì l'insorgere della malattia al fatto di aver ripreso a fumare. 

Nel 1998 Harrison fu il più attivo degli ex Beatles nel promuovere la ristampa del loro film d'animazione del 1968 Yellow Submarine .

Ma l'anno seguente, un nuovo inquietante episodio turba la sua vita privata. Nel dicembre 1999, lui e sua moglie Olivia furono vittime di un attacco di coltello da parte di un intruso. Il 30 dicembre 1999, Harrison e sua moglie furono aggrediti nella loro casa, Friar Park . Michael Abram, un uomo di 34 anni affetto da schizofrenia paranoica, fece irruzione e aggredì Harrison con un coltello da cucina, perforandogli un polmone e provocando ferite alla testa prima che Olivia Harrison rendesse inabile l'aggressore colpendolo ripetutamente con un attizzatoio e con l'asta di una lampada. 

Harrison, qualche tempo dopo raccontò la brutta esperienza: "Mi sentivo esausto e potevo sentire la forza prosciugarsi da me. Ricordo vividamente una spinta deliberata al mio petto. Potevo sentire il mio polmone espirare e avevo sangue in bocca. Credevo di essere stato accoltellato a morte». 

Dopo l'aggressione Harrison fu ricoverato in ospedale dove gli furono riscontrate più di 40 coltellate e parte del suo polmone perforato fu rimosso. 

Poco dopo rilasciò una dichiarazione riguardo al suo aggressore: "Non era un ladro, e di certo non stava facendo un'audizione per i Traveling Wilburys. Adi Shankara, un filosofo indiano una volta disse: "La vita è fragile come una goccia di pioggia su una foglia di loto." E faresti meglio a crederci". 


Dopo essere stato dimesso da un ospedale psichiatrico nel 2002 dopo meno di tre anni di custodia statale, Abram disse: "Se potessi tornare indietro nel tempo, darei qualsiasi cosa per non aver fatto quello che ho fatto attaccando George Harrison, ma guardandoci indietro ora, ho capito che in quel momento non avevo il controllo delle mie azioni. Posso solo sperare che la famiglia Harrison possa in qualche modo trovare nei loro cuori la possibilità di accettare le mie scuse". 

Le ferite inflitte a Harrison durante l'invasione domestica furono minimizzate dalla famiglia nei  commenti alla stampa, ma secondo alcuni fu una delle concause del  ritorno del suo cancro. 

Nel maggio 2001, fu rivelato che Harrison aveva subito un'operazione per rimuovere una crescita cancerosa da uno dei suoi polmoni, e in luglio fu riferito che era in cura per un tumore al cervello in una clinica a Svizzera. 

Harrison morì in una proprietà di McCartney, in Heather Road a Beverly Hills, Los Angeles. Aveva 58 anni.  Morì in compagnia della moglie Olivia, dei figli Dhani, Shankar e della moglie di quest'ultimo Sukanya e della figlia Anoushka, e dei devoti Hare Krishna Shyamsundar Das e Mukunda Goswami , che cantavano versi della Bhagavad Gita . 

Il suo ultimo messaggio al mondo, come riportato in una dichiarazione di Olivia e Dhani, era: "Tutto il resto può aspettare, ma la ricerca di Dio non può aspettare e neanche amarsi l'un l'altro". 

Fu cremato all' Hollywood Forever Cemetery e il suo funerale si svolse presso il Self-Realization Fellowship Lake Shrine a Pacific Palisades, California. 

La sua famiglia sparse le sue ceneri secondo la tradizione indù in una cerimonia privata nei fiumi Gange e Yamuna vicino a Varanasi, in India. 

L'ultimo album di Harrison, Brainwashed (2002), è stato pubblicato postumo dopo essere stato completato da suo figlio Dhani e Jeff Lynne. Una citazione dalla Bhagavad Gita era inclusa nelle note di copertina dell'album: "Non c'è mai stato un tempo in cui tu o io non esistessimo. Né ci sarà un futuro in cui cesseremo di esistere"

30/04/22

Libro del Giorno: "La Roma di Pasolini" (Dizionario urbano) di Dario Pontuale

 


Tra le molte, moltissime uscite editoriali (anche troppe) concomitanti con il centenario della nascita del poeta, si segnala degno di nota questo volume uscito dalla Nova Delphi e firmato da Dario Pontuale, che si concentra sulla Roma di Pasolini, scandagliando in trecento serrate pagine, il rapporto e la vicenda sentimentale esistenziale e letteraria che Pasolini ha intessuto con la città che lo accolse, nel gennaio del 1950, insieme alla madre, entrambi sfollati dal nord-Italia dopo i tragici accadimenti della sua famiglia, con la morte dell'amato fratello diciannovenne Guido, ucciso nel 1944 durante i fatti di Porzus. 

A Roma, come è noto, Pasolini cambiò vita e poi anche mestiere. In un irrequieto e continuo spostamento, insieme alla madre, di quartiere in quartiere, alla ricerca di una sistemazione e di un lavoro, Pasolini, durante il periodo dell'insegnamento in una scuola privata di Ciampino, fece il suo apprendistato romano appropriandosi soprattutto di quel mondo di diseredati e poveracci che popolava le borgate e le periferie della Capitale, le quali a partire da quegli anni, conobbero una espansione micidiale e incontrollata, "effetto collaterale" del cosiddetto "boom economico" che avrebbe trasformato rapidamente gran parte della gente di Roma, per l'orrore di Pasolini, testimone furibondo di questi cambiamenti, in piccoli borghesi o aspiranti tali. 

La vita di Pasolini a Roma si svolgeva, rutilante, in quegli anni, su un doppio binario: quello della sua vita privata, consumata a metà tra la gente di periferia, dove inseguiva il mito di un "buon selvaggio" ormai in via di estinzione, e i salotti intellettuali di Roma dove venne molto gradatamente accolto grazie all'amicizia di poeti e scrittori (in primis Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Caproni, poi Moravia); e quello della sua vita pubblica, con i primi romanzi pubblicati, le controversie con i critici e con la censura e poi il folgorante esordio cinematografico con Accattone (1961) che gli aprì le porte della riconoscibilità, della considerazione internazionale, del mondo polemico e controverso delle battaglie civili di quegli anni, dentro una Italia fossilizzata nella gabbia di valori cattolici non più sentiti veri, molto lontani dal reale sentire di un popolo che era stato stremato dalla dittatura, dalla terribile guerra e voleva ricominciare a vivere, a modo suo. 

Il libro di Dario Pontuale racconta tutto questo e lo fa in modo originale, sotto forma di un pratico dizionario - quasi una sorta di moderno baedeker - che riassume in più di un centinaio di voci i luoghi romani che appartengono a quella che ormai è la mitologia pasoliniana: i suoi ristoranti, i suoi quartieri, le sue strade, le sue case, le tappe che hanno scandito la sua vita romana, consumata in appena venticinque anni eppure densissima di cose, avvenimenti, eventi tragici, fino al suo assassinio nella terribile notte di novembre del 1975. 

Ogni voce, nel libro di Pontuale è minuziosamente descritta; ogni borgata o quartiere periferico di Roma che ha visto il passaggio di Pasolini, la sua presenza. Il libro inoltre sfrutta un pratico espediente ipertestuale, per collegare tra di loro le diverse voci pasoliniane, permettendo al lettore, anche quello più attrezzato, di orientarsi, scovando dettagli e cose nuove. 

Oggi più che mai, riscoprire il cammino di Pasolini dentro Roma, il suo sviscerato amore e il suo sviscerato odio per la città che meglio di ogni altra rappresentava il collasso del mondo arcaico/contadino/proletario italiano e il trionfo del nuovo conformismo borghese, aiuta a capire meglio il nostro paese e anche a riscoprire la città della grande bellezza, in una veste del tutto nuova e ancora più autentica. 



29/04/22

Libro del Giorno: "Troviamo le Parole" - Lettere (1948-1973) di Paul Celan e Ingeborg Bachmann

 



Viene finalmente stampato anche in Italia il carteggio (superstite) tra due dei più grandi protagonisti della scena letteraria europea del Novecento, Paul Celan e Ingeborg Bachmann, in un volume che ne ricostruisce la vicenda epistolare. Due spiriti difficili, provati da vite faticose e infelici, che hanno esplorato vette poetiche di difficile accesso, allo stesso penalizzati nella loro vita relazionale da un eccesso di sovrastrutture, di un pensiero contorto, avvitato, negli spazi abitati (anche) dall'ansia e dall'angoscia. 

Nella Vienna del dopoguerra si incontrano Paul Celan e Ingeborg Bachmann, lei diciottenne con un padre fervente nazista, lui ebreo fuggito dalla Romania e scampato ai campi di concentramento

A partire dal ’47 fino al suicidio di Paul nel ’70, le loro vite sono legate da un doppio filo sentimentale e poetico, e queste lettere testimoniano la lunga storia di amori e dissapori, di condivisione e di silenzio, che li ha legati per diciannove anni, sempre alla ricerca delle parole che li facessero incontrare. 

Alle loro voci si uniscono quelle dei carteggi di Paul con Max Frisch, compagno della Bachmann, e di Ingeborg con Gisèle Lestrange, moglie di Celan.

E' la parte forse più interessante di questo libro, penalizzato - almeno nella edizione e nella cura italiana - dalla mancanza di un efficace apparato contestuale, che spieghi al lettore ciò che accade - mentre le singole lettere vengono scritte - alle vite dei due protagonisti, 

Paul Celan non tenne conto di un avvertimento che Ingeborg (Bachmann) gli scrive a un certo punto, in una lettera, e cioè che loro due non potevano, non avrebbero mai potuto vivere insieme a qualcun altro (e d'altronde anche Ingeborg ci provò a lungo, con risultati egualmente disastrosi, con Max Frisch). 

Così è del tutto tragico l'epilogo di tutte e due queste vite: Celan provò una prima volta ad uccidere la moglie, Gisèle Lestrange, il 24 novembre del 1965. Fu sottoposto a ricovero coatto in diverse cliniche psichiatriche fino all'11 giugno 1966. Ci riprovò una seconda volta, il 30 gennaio 1967, senza riuscirci e tentando il suicidio. Di nuovo fu ricoverato in una clinica psichiatrica fino al 17 ottobre 1967. 

Finalmente Gisèle nell'aprile seguente, chiese la separazione, constatando l'impossibilità di vivere insieme. Il 20 aprile 1970 Celan si suicidò nelle acque della Senna, dopo aver riempito le tasche di sassi. 

Ingeborg Bachmann dall'autunno 1965 e fino al 1967 fu ricoverata in diverse cliniche, in seguito alla separazione da Max Frisch. Il 17 ottobre 1973 Ingeborg Bachmann morì in una clinica romana a seguito delle ustioni riportate nel suo appartamento di Via Giulia (si era addormentata al letto con una sigaretta accesa, stordita dalla enorme quantità di farmaci che assumeva).

E' nelle lettere finali tra Paul e Max Frisch, e soprattutto in quelle tra la Bachmann e Gisèle, che il contesto si fa più chiaro, e i due riescono forse come non erano riusciti a far prima, tra di loro, a dare parole concrete ai loro sentimenti, alle paure, al timore, al senso di colpa, ma soprattutto alla consapevolezza.

In questo non sembra un caso che mentre il tono tra i due maschi Paul e Max resti tutto sommato più freddo, distaccato - e vi si percepisca l'implicita rivalità nei confronti di Ingeborg - tra le due donne invece, l'accoglienza sia più vera, naturale, pietosa e anche sublime. Anche qui, le donne sembrano capaci di superare i contrasti, di perdonare, di comprendere, di accogliere. Molto meglio degli uomini. Anche se tutti, sembravano parlare lo stesso linguaggio, quello della poesia.


Paul Celan con la moglie Gisèle Celan-Lestrange


Ingeborg Bachmann

 

Ingeborg Bachmann e Paul Celan 

26/04/22

Apre al pubblico "La solitudine dell'ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio"

 

Pier Paolo Pasolini in una delle sue tante partite al campetto di calcio

Apre al pubblico oggi, alla Galleria Harry Bertoia, a Pordenone "La solitudine dell'ala destra. Pier Paolo Pasolini e il calcio", mostra composta per lo più da materiale inedito, realizzata da Cinemazero e Comune di Pordenone, con il sostegno della Regione Fvg e il patrocinio del Centro Studi Pasolini di Casarsa. 

Con 120 fotografie, filmati, scritti, memorabilia che per la prima volta si svelano al pubblico, il percorso espositivo, curato da Piero Colussi, ricostruisce le tappe salienti della passione sportiva, di Pasolini, nel centenario della nascita. 

La mostra, a ingresso libero, sara' aperta fino al 19 giugno. 

In un'intervista all'Europeo il 31 dicembre 1970, Pasolini dichiarava: «Il calcio e' l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se e' evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio e' l'unica rimastaci. Il calcio e' lo spettacolo che ha sostituito il teatro». 

La mostra narra questa passione dalle origini, a Bologna, citta' natale di Pasolini, dove frequentava il Liceo Galvani e il calcio riempiva le sue giornate; poi a Roma, nei campetti delle borgate, dove conobbe coloro che sarebbero diventati i protagonisti dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. 

A meta' degli anni '60 fu tra gli ideatori, con Ninetto Davoli e Franco Citti, della squadra Attori e Cantanti, che qualche anno piu' tardi sarebbe divenuta Nazionale dello Spettacolo, di cui fu a lungo capitano. 

Nella primavera 1975, qualche mese prima di essere assassinato, organizzo' a Parma la partita tra la troupe di Salo' e quella che a pochi chilometri di distanza girava Novecento di Bernardo Bertolucci. 

Fra i protagonisti della vittoria di Bertolucci, per 5 a 2, c'era un giovane della "primavera" del Parma, Carlo Ancellotti, che, era stato "assunto" come attrezzista nella troupe di Novecento e aveva pure segnato

Il legame di Pasolini con il calcio era fortissimo: nel 1973, a una domanda di Enzo Biagi, per La Stampa, dichiaro' che, senza cinema e senza scrivere, gli sarebbe piaciuto diventare «un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l'eros, per me il football e' uno dei grandi piaceri». 

25/04/22

"L'uomo dimentica l'unica cosa che lo distingue dall'animale". Una pagina meravigliosa e terribile di Cechov


La casa col mezzanino
, che ha il sottotitolo Racconto di un artista, scritto nel 1896, è uno dei racconti più famosi di Anton Cechov. 

Due sorelle, Zenja timida e dolce e Lida forte e dura, conoscono un pittore (chiamato Monsieur N., ovvero il Narratore). Le convinzioni idealistiche di progresso di Lida, tra le quali la costruzione di un nuovo ospedale, si scontrano violentemente con quelle pessimistiche e mistiche del pittore, convinto assertore del bene dell'anima. Quando Zenja si innamora dell'uomo, Lida la manda lontano ed il pittore non le vedrà mai più.

In questo racconto, dove si incontrano e si scontrano due diverse concezioni del mondo, che si potrebbero far risalire a Marta e Maria del racconto evangelico (In Luca, 10,28) c'è una meravigliosa e terribile pagina in cui il pittore descrive con poche e definitive parole la brutalità della condizione umana che ahimé - nonostante sia passato più di un secolo - non sembra cambiata, almeno in molte parti del mondo.

L'importante non è che Anna sia morta di parto, ma che tutte queste Anne, Mavre, Pelageje, debbano curvare la schiena dalla mattina alla sera, ammazzarsi di fatica, tremare per i loro bambini affamati e ammalati, vivere nel terrore delle malattie e della morte, che imbruttiscano e invecchino presto, che muoiano nella sporcizia e nel fetore; e i loro figli, crescendo, ricominciano la stessa musica, e così per centinaia di anni: miliardi di uomini vivono nel terrore, peggio delle bestie, solo per conquistarsi un pezzo di pane.

La cosa più spaventosa della loro situazione è che non hanno un minuto per ricordarsi che hanno un'anima, che sono esseri umani fatti a immagine e somiglianza di Dio; la fame, il freddo, il terrore animale, la fatica, come valanghe di neve, hanno chiuso loro tutte le strade verso qualsiasi forma di vita spirituale, ossia verso l'unica cosa che distingue l'uomo dall'animale e per cui vale la pena vivere.

Voi credete di aiutarli con scuole e ambulatori, ma non li liberate dalle catene, anzi, peggiorate la loro condizione di schiavitù, introducendo nuovi pregiudizi e di conseguenza nuovi bisogni, senza parlare poi del fatto che per medicine e libri devono pagare e quindi curvare la schiena ancora di più. 

Tratto da Anton Cechov, Racconti, 2004 Gruppo Editoriale L'Espresso, p.243 

21/04/22

"L'uomo è un distruttore": La profezia della "Terra Desolata" di Eliot


 

Aprile è il più crudele dei mesi: uno dei più celebri incipit della poesia mondiale è anche - non del tutto stranamente, viste le capacità profetiche di T. S. Eliot - incredibilmente attuale. 

Lo sono i versi che introducono La Terra Desolata (The Waste Land) e tutto il poemetto pubblicato nel 1922, una delle pietre miliari della poesia del Novecento. 

Eliot compose il poemetto tra il dicembre del 1921 ed il gennaio del 1922 mentre era con la moglie in Svizzera, a Losanna, dove fu ricoverato per problemi di instabilità psichica, in seguito ad un forte esaurimento nervoso

Il poeta veniva da un periodo durissimo: alla crisi personale - e relazionale con la moglie - si legava la sofferenza psichica conseguente agli eventi catastrofici del primo conflitto mondiale. 

La "terra desolata" è contemporaneamente la terre gaste (terra guasta) dei poemi epici medievali, cioè un territorio privo di vita, sterile e mortale che devono attraversare i cavalieri per arrivare al Graal (uno dei simboli centrali del poemetto), e il mondo moderno, contrassegnato dalla crisi e dalla sterilità della civiltà occidentale, giunta forse al termine del suo percorso: la prima guerra mondiale, terminata neanche quattro anni prima della pubblicazione del poemetto, era stata vissuta da Eliot come un'inutile e folle strage che aveva dilapidato milioni di vite e portato quasi alla bancarotta le grandi nazioni europee. 

La "terra desolata" è infine anche Londra, città dove Eliot risiedeva, e nella quale ha ambientato alcune scene del poemetto 

Tra le molte voci narranti che intervengono nel poeta, quella di Tiresia, che funge da alter ego del poeta, ma è al tempo stesso il personaggio ripreso dall'Odissea di Omero: Tiresia, che tutto ha visto e tutto sa, funge in più punti da disincarnato e distaccato narratore. 

L'epigrafe in apertura del poema doveva essere “The horror! The horror!” ("L'orrore, l'orrore!"), da Cuore di tenebra di Joseph Conrad, ma Ezra Pound, che non stimava affatto Conrad e che intervenne drasticamente a "tagliare" The Waste Land su richiesta dell'amico, dissuase il poeta: fu così che il poemetto si aprì con un frammento dal Satyricon, in ogni caso assai adatto.

La Sibilla di cui parla la citazione è naturalmente la profetessa greca che risiedeva a Cuma, celebre per gli oracoli enigmatici. La sua aspirazione più profonda era quella di invecchiare senza mai morire: il dio Apollo esaudì il suo desiderio, ma la sua vita - secondo Petronio - divenne un'agonia di noia, poiché essa, rinsecchita e chiusa in un'ampolla, veniva tormentata da gruppi di ragazzi fastidiosi. 

La citazione dal Satyricon recita, in un misto di latino e greco:

«Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: “Σίβυλλα, τί θέλεις;” respondebat illa: “ἀποθανεῖν θέλω”». 

E cioè: «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”».

Se il mondo è una Terra Desolata - per causa principale dell'uomo, che è un distruttore (distruttore peraltro anche della natura, nonostante la natura possa vivere benissimo senza uomo, ma non viceversa) - la scelta estrema è quella di non giocare al gioco degli uomini, quindi morire. 

Eliot, già l'anno dopo, prenderà le distanze da una interpretazione così cupa del suo poemetto, ma quel che è certo che in The Waste Land sono configurate con esattezza insuperabile - perché poetica - i frutti velenosi piantati dalle guerre passate e presenti e di quelle future, nel cuore della Terra degli uomini.


in testa: una illustrazione di Noah Reagan 

19/04/22

La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943


 

San Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.

 

Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc  inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.  

La pioggia di bombe del 19 luglio smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo, scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.

Oltre ad aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri cristiani. 

E anche se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma, martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il 26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano, tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al 36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.

A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme,  assiste anche Paolo, che ancora non si è convertito (dunque prima del  40 d.C.).            .

Pio XII a San Lorenzo il giorno dopo il bombardamento

In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.

Essendo poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in disparati angoli d'Europa.

L'episodio più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono solennemente portate dal vescovo Giovanni II.

Qualche anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide, dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura 

La reliquia della testa di Santo Stefano, invece,  si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del cardinale Scipione Cobelluzi.

Tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton 2013-2017


18/04/22

"The Gilded Age", la nuova serie di quel genio di Julian Fellowes

 


Julian Fellowes è senza dubbio uno scrittore eccezionale. Quando aveva 50 anni il maestro Robert Altman lo contattò per scrivere la sceneggiatura di uno dei suoi ultimi film più riusciti in assoluto: "Gosford Park"

Il film, con un cast tutto di mostri sacri inglesi (Maggie Smith, Kristin Scott Thomas, Alan Bates, Emily Watson, Helen Mirren, Stephen Fry), dopo il successo planetario ricevette ben 7 nominations agli Oscar 2002. 

L'unica statuetta che però il film portò a casa (su 7) fu quella conquistata da Julian Fellowes per la migliore sceneggiatura originale (che aveva firmato da solo). 

Diversi anni più tardi Fellowes, che nella vita ha fatto anche l'attore, il regista, il produttore e naturalmente lo scrittore di romanzi, è diventato universalmente noto per la serie "Downton Abbey" (6 stagioni), una delle più viste di sempre, che ha messo d'accordo tutti, pubblico popolare e platea sofisticata amante delle atmosfere e delle psicologie alla Henry James. 

Ci voleva dunque una buona dose di coraggio per Fellowes, per cimentarsi con una nuova saga originale, intitolata "The Gilded Age", ambientata stavolta nella New York di fine Ottocento, qualche decennio prima dei fatti di Downton Abbey. 

Anche stavolta Fellowes ha messo in piedi un congegno narrativo perfetto (per ora 1 stagione, 9 puntate) basato sullo scontro tra la classe sociale degli immigrati americani di prima generazione legati alla madre patria Inghilterra, e perciò assai snob e la nuova generazione di parvenu americani, fortissimamente intenzionati a prendersi soldi, potere e successo e soprattutto notorietà e riconoscimento da parte della vecchia

La scrittura e i dialoghi sono del solito alto livello, la ricostruzione è fenomenale, senza i soliti trucchi al computer, con centinaia di comparse vere, costumi e ambienti fantastici, nella più consolidata tradizione dei lavori di Fellowes. 

Però sono quasi sicuro che The Gilded Age non avrà lo stesso successo di Downton Abbey (anche se pure qui ci saranno diversi seguiti): i personaggi sono (volutamente) meno empatici, non c'è il tono ironico e leggero (e romantico/sentimentale) del british mood che piace molto in Italia. 

D'altronde Fellowes è troppo serio per non averci pensato: gli USA di fine ottocento, non erano l'Inghilterra. 

Qui il confronto, le ambizioni, la lotta sociale, le dinamiche sono molto più cruente, prive di scrupoli. 

Non mancano personaggi moralmente virtuosi, ovviamente, in primis la protagonista Marion (impersonata da Louisa Jacobson, figlia di Meryl Streep). 

Ma si respira un'aria meno lieta e consolante. La visione The Gilded Age è comunque del tutto raccomandabile: il puro grande piacere dell'intrattenimento anglosassone, sullo spartito di una scrittura sempre brillante, formidabile.

Fabrizio Falconi - 2022 

17/04/22

Poesia della Domenica di Pasqua: "Fede nella primavera" di Ludwig Uhland

 



Fede nella primavera.

Le dolci brezze si sono risvegliate spirano e sussurrano giorno e notte; si muovono ovunque.
Oh, aria fresca, oh nuovo suono ! Ora, povero cuore, non temere, Ora tutto, tutto deve cambiare.
Il mondo diventa più bello ogni giorno, non si sa cosa diventerà.

La fioritura non accenna a finire fiorisce anche la valle più lontana e profonda.
Ora, povero cuore, dimentica il tuo tormento. Ora tutto, tutto deve cambiare.


Ludwig Uhland, (Tubinga, 1787 – 1862) Fede nella Primavera

16/04/22

Ingeborg Bachmann e Roma, un destino tragico

 


Sto leggendo in questi giorni l'epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, meritoriamente pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui parlerò più avanti, e mi torna alla mente il tragico destino della grande scrittrice austriaca, innamorata del nostro paese e di Roma, in particolare, dove finì i suoi giorni nel modo più tragico. 

Dopo diversi soggiorni, in gioventù e nell'età matura, la Bachmann era tornata nel 1965 a Roma, a trentanove anni. Era una autrice ormai affermata, anche se il suo stile raffinatissimo, le sue poesie rarefatte e i racconti e i romanzi densi e magici, non potevano essere destinati a un grande pubblico. 

In quel periodo poi, la scrittrice soffriva per la dipendenza da pillole e alcol e scriveva assai poco. 

Nel 1967 aveva lasciato il suo editore, la Piper Verlag in segno di protesta per aver incaricato l'ex leader dell'HJ (la gioventù nazista) Hans Baumann di tradurre il Requiem di Anna Achmatowa, sebbene la Bachmann avesse caldamente raccomandato l'amico Paul Celan, passando alla Suhrkamp Verlag. 

Nella sua ultima lettera a Bachmann del 30 luglio 1967, Celan la ringraziava per aver preso parte all'"Affare Achmatowa". 

Quattro anni dopo, nel 1971 la Bachmann pubblicò Malina, il romanzo considerato il primo volume di una prevista trilogia intitolata Tipi di morte

L'ultimo lavoro di Bachmann è oggi considerato un "paradigma della scrittura femminile". 

Ancora due anni dopo, la fine improvvisa di uno spirito geniale e tormentato: nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1973, Ingeborg Bachmann subì gravi ferite nel suo appartamento romano, in Via Giulia, a causa di un incendio appiccato da una sigaretta accesa mentre si stava addormentando. 

Oggi  si sa che la sua dipendenza dalle pillole fu considerata una delle ragioni dell'incendio. 

Alfred Grisel, un amico intimo, riferì di una visita a Bachmann a Roma all'inizio di agosto 1973: “Sono rimasto profondamente scioccato dall'entità della sua dipendenza dalle pillole. Dovevano esserci circa 100 pezzi al giorno, il cestino traboccava di scatole vuote. Aveva un aspetto brutto, era pallida come la cera. E su tutto il corpo coperto di macchie. Mi chiedevo cosa potesse essere. Poi, quando ho visto la Gauloise che stava fumando scivolare dalla sua mano e bruciarsi sul braccio, l'ho capito: ustioni causate dalla caduta delle sigarette. Le tante pillole avevano reso il suo corpo insensibile al dolore.”

Dopo il grave incidente, la Bachmann fu portato all'ospedale Sant'Eugenio. La sua forte dipendenza dai sedativi (barbiturici), di cui i medici curanti inizialmente non erano a conoscenza, innescarono convulsioni simili a crisi epilettiche. 

Il 17 ottobre 1973 morì di sintomi di astinenza fatali all'età di 47 anni. 

Fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. 

Le indagini su un possibile sospetto di omicidio furono chiuse dalle autorità italiane il 15 luglio 1974. 

In un necrologio in Der Spiegel, Heinrich Böll descrisse la scrittrice come una dei pochi "intellettuali brillanti" che "non hanno perso la sensualità né trascurato l'astrazione nella loro poesia". 

Il suo patrimonio di 6.000 pagine si trova nella Biblioteca nazionale austriaca dal 1979 e può essere visualizzato nell'archivio della letteratura . Dal 2018 esiste anche un patrimonio parziale di quasi 1000 pagine con scritti e lettere dei suoi giorni da studente. 

Nel febbraio 2021 è stata decisa la vendita della casa dei genitori di Ingeborg Bachmann in Henselstraße 26 a Klagenfurt, alla fondazione privata carinziana.

I beni privati ​​di Bachmann, che Heinz Bachmann, fratello di Ingeborg Bachmann, riportò qui dall'appartamento romano dopo la sua morte, sono ancora conservati nella casa. 

Si prevede di aprire la casa al pubblico sotto la direzione del Klagenfurt Musil Museum.

Fabrizio Falconi - 2022