25/11/21
Quando arrivarono con esattezza i primi cristiani a Roma?
24/11/21
30 anni dalla morte di Freddie Mercury. Ma qual era il segreto della sua incredibile voce?
23/11/21
58 anni dall'assassinio e dai funerali di John Fitzgerald Kennedy - Qual era la poesia "macabra" che amava e che era la sua preferita?
Su qualche contesa barricata
Quando la Primavera torna
Con la Sua tremula ombra
E i fiori di melo riempiono l'aria
Ho un appuntamento con la Morte
Quando la primavera riporta
giorni azzurri e chiari.
Forse prenderà la mia mano
E mi condurrà nella sua scura terrà
E chiuderà i miei occhi e fermerà il mio respiro
O forse passerò oltre ancora.
Ho un appuntamento con la Morte
Su qualche pendio sconvolto o quota battuta,
Quando la primavera ritorna ancora quest'anno
E il primo fiore di campo compare,
Iddio sa se stanno meglio nel profondo,
Fasciati di seta e profumati
Là dove l'Amore vibra nel sonno dorato,
Stelo accanto a stelo, respiro con respiro,
La dove prementi risvegli sono cari
Ma ho un appuntamento con la Morte
A mezzanotte in qualche città in fiamme,
Quando la primavera va verso nord ancora quest'anno
E per quanto vera sia la mia parola
Non mancherò a quell'appuntamento.
21/11/21
I resti di Villa Pepoli - Un luogo romano del tutto sconosciuto
A Roma, nascosta dal e al caos cittadino quotidiano, c'è una porta "magica" che conduce in un luogo insolito, dove restano le memorie di antichi fasti, a un passo dalle grandiose Terme di Caracalla.
Via di Villa Pepoli è una strada molto elegante, inclusa nel quartiere di San Saba, uno dei più appartati e suggestivi della Capitale, e alla quale si accede attraverso una vecchia porta rimasta ancora in piedi.
Questa porta, in realtà, era uno degli accessi alla Villa Pepoli (di cui è rimasto il toponimo), anche conosciuta come Vigna Cavalieri, sulla quale insisteva l'antico tracciato della Via Ardeatina, quello all'interno delle mura Aureliane.
La villa apparteneva, fino ai primi del '900 al conte Agostino Pepoli, studioso, collezionista e archeologo, che morì nel 1910.
Villa Pepoli era magnifica: disponeva di un amplissimo parco - sovrastante le Terme - con scorci di paesaggio rurale, tipicamente romano, che dovevano apparire di grande suggestione.
Alla morte del conte Agostino, questa stupenda proprietà fu velocemente dismessa e poi svenduta a privati, con la conseguenza di venire usata per la realizzazione di nuove costruzioni.
Oggi l'ingresso a quanto resta del parco è indicato proprio dall'elegante portale posto all'entrata della via di Villa Pepoli, oltrepassato il quale però si aprono due file di villini quasi tutti realizzati intorno agli anni '20.
E' assai curioso che durante i lavori di costruzione di questi villini non risultano essere emersi resti archeologici - i quali furono invece quasi sicuramente riinterrati - considerando che invece negli anni '50, durante i lavori di scavo per la rete fognaria, vennero alla luce importantissimi resti di antichi edifici di età imperiale, a 2 metri di profondità, decorati con splendide pavimentazioni a mosaico.
I resti più imponenti vennero scoperti più recentemente, nei pressi della odierna via Fabio Cilone.
Gli archeologi si misero al lavoro dunque per trovare anche le pertinenze della famosa Porta Naevia, da cui doveva avere inizio la Via Ardeatina e che doveva trovarsi fra la Chiesa di San Saba e quella di Santa Balbina, che però non è mai stata identificata con esattezza.
Tutta la zona, si è scoperto successivamente, è comunque occupata da sepolture antiche, che culminano in un incredibile mausoleo circolare, ritrovato alla fine di Via Fabio Cilone, datato ad età augustea, che finora non è stato possibile attribuire a nessun personaggio dell'epoca, e che - incredibilmente - oggi è impossibile visitare, essendo stato completamente invaso dalla vegetazione spontanea della zona e dal degrado.
L'edificio fu esplorato per la prima volta nel 1838 dal sacerdote Alessandro Volpi, che ottenne il permesso di scavare nella proprietà della allora Vigna dei Cavalieri.
Il sacerdote si imbatté in un sepolcro enorme, di circa 40 metri di diametro! Con un interno purtroppo completamente spogliato durante i secoli. In quella occasione furono comunque recuperate epigrafi e materiali di spoglio, funerari.
Intorno al Mausoleo più grande, negli scavi successivi furono identificati altri 39 ambienti funerari, una domus, i resti di due strade e l'acquedotto antoniniano.
Purtroppo tutto questo incredibile apparato archeologico è oggi nascosto e inaccessibile ai visitatori.
L'unico auspicio che si può fare è che presto ritorni ad essere fruibile per la città e per la ricostruzione della sua stessa millenaria storia.
Fabrizio Falconi - 2021
(notizie tratte da: Paola Quaranta, La Via Ardeatina nella Villa Pepoli all'Aventino Minore, in Studi Romani, Anno LVIII - NN. 1-4, p.107)
20/11/21
Davvero oggi scrivendo libri si può aspirare all'immortalità ?
15/11/21
Il mistero della scomparsa di Ettore Majorana - C'è una traccia che porta a Roma ?
La scomparsa di Ettore Majorana è uno dei grandi enigmi irrisolti che ha appassionato a lungo giornalisti e storici. Il geniale fisico catanese infatti, come si sa, scomparve letteralmente nel nulla nel marzo del 1938, dopo aver preso un traghetto della Tirrenia da Napoli a Palermo. Nessuno sa con certezza se giunse mai a destinazione, nessuno sa se mise in opera una geniale messinscena, nessuno sa se si suicidò nelle acque del Tirreno (le ricerche in mare non diedero mai frutti), nessuno sa se – come ha sostenuto il prof. Antonino Zichichi - Majorana, sconvolto da quanto aveva scoperto sull’atomo e preconizzando i disastri che sarebbero provenuti dalle scoperte sull’energia nucleare, non decise di sparire rinchiudendosi in un convento.
In realtà, tra le diverse
piste, la Procura di Roma, che recentemente ha chiuso dopo decenni le indagini,
ha privilegiato quella sudamericana: della scomparsa cioè volontaria del fisico in Venezuela, sotto falsa identità, laddove
la sua presenza sarebbe stata accertata – nella città di Valencia – negli anni
compresi tra il 1955 e il 1959.
Ma l’ipotesi di una
sopravvivenza, sotto falso nome, di Majorana segue anche una pista romana, che
negli ultimi tempi si è arricchita di nuovi particolari.
Secondo un nuovo testimone,
infatti, il grande fisico avrebbe terminato i suoi giorni proprio a Roma, e
nemmeno troppo distante, anzi molto vicino a quell’Istituto di Fisica di via Panisperna
89/a dove insegnava Enrico Fermi e dove si formarono quei geniali ragazzi destinati
a scompaginare la storia della scienza e a far parlare di sé nel mondo intero.
Le ultime tracce di
Majorana, infatti, portano sugli scalini della Università Gregoriana, in piazza
della Pilotta, a pochi passi da Fontana di Trevi.
La testimonianza arriva da
un uomo che asserisce di aver parlato a lungo con quel barbone, incontrato un
giorno del marzo 1981 insieme a monsignor don Di Liegro, fondatore della
Caritas romana (il quale però, essendo scomparso, non può avvalorare la testimonianza).
Secondo il racconto dell’uomo,
il clochard dimostrò di conoscere la soluzione del Teorema di Fermat, un difficilissimo
enigma matematico rimasto irrisolto per quattro secoli, definitivamente sciolto
nel 2000.
Fu proprio monsignor Di
Liegro, racconta il testimone, a confermare l’identità dell’uomo, spiegandogli
che si trattava proprio del grande fisico, il quale, dopo una sosta in un
convento di Napoli, si era trasferito in un altro istituto religioso, nei
pressi di Roma, e da qui si era allontanato, proprio per tornare sui suoi passi, nella zona di Roma cioè dove aveva mosso i
suoi primi passi di brillantissimo fisico.
Di Liegro chiese al
testimone di mantenere il segreto «per almeno quindici anni dopo la mia morte».
E l’uomo decise di
rispettare le volontà del sacerdote.
Vero o falso che sia il
racconto, fa molta impressione ancora oggi immaginare Ettore Majorana nei panni
di un barbone trasandato, tra la folla indifferente, in quella piazza della
Pilotta dove ha sede una delle istituzioni accademiche romane più prestigiose e
in prossimità di quei luoghi dov’era nato il mito dei Ragazzi di via Panisperna.
12/11/21
Il suicidio di David Foster Wallace nelle parole di sua moglie
10/11/21
Chi ha scritto l'aforisma "C'è un campo oltre il giusto e lo sbagliato..." che perfino Brad Pitt porta tatuato sul braccio?
Quando sull'ultimo frame della serie tv The Victim - ottimo drama targato BBC in onda sulla piattaforma Sky - ho visto su schermo nero calare per l'ennesima volta il celebre aforisma sul Campo oltre il giusto e lo sbagliato ho sentito la necessità di andare un po' a indagare.
L'aforisma - o breve poesia - attribuito al poeta mistico persiano Gialal al-Din Rumi, chiamato più semplicemente in occidente Rumi, è infatti diventato così famoso da noi che perfino il divo Brad Pitt ha pensato di tatuarselo sul suo muscoloso bicipite (vedi foto qui sopra).
Ma questo aforisma è veramente di Rumi, il poeta mistico persiano vissuto nel 1200?
E cosa dice esattamente?
La traduzione con cui questi antichi versi sono giunti a noi, in Occidente, recita:
Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.
Una frase molto suggestiva che fa pensare soprattutto al perdono e alla riconciliazione. E a questo uso viene sostanzialmente riferita.
Esistono diverse versioni occidentali di questo aforisma. Che in realtà farebbe parte di un testo più lungo che nella sua completezza reciterebbe così:
Al di là delle idee di cosa sbagliata e cosa giusta, c'è un campo.
Ci incontreremo li.
Quando l'anima si sdraia in quell'erba, il mondo è troppo pieno per parlarne.
Idee, linguaggio, anche la frase “reciprocamente” non ha alcun senso
La citazione esatta da cui questo aforisma è estrapolato è infatti uno dei quartetti - precisamente il n.157 - di quell'opera sterminata di Rumi, il suo Canzoniere, che si chiama Divan-i Shams-i Tabrīz ("Canzoniere di Shams-i Tabrīz").
Scopriamo così che il testo originale di Rumi, di quel Quartetto è, in lingua farsi:
La traduzione letterale, lascerebbe infatti intendere non il campo attraente dove lasciamo cadere tutte le nostre idee e disaccordi nell'erba in cui ci stendiamo e ritroviamo la nostra perduta unità, ma una terra desolata e desolata di disillusione.
Una occasione, forse, per tornare a rileggere i meravigliosi componimenti di Rumi.
08/11/21
Chi era Giorgio, il padre di Francesco De Gregori omaggiato da "Tutto più chiaro che qui" ?
07/11/21
Quali sono stati i 5 film più visti di sempre al cinema, per numero di spettatori, in Italia? Molte sorprese.
Siamo da sempre abituati alle classifiche del box-office, per ciò che concerne il cinema, sempre aggiornate però sulla stagione in corso, oppure sull'unico parametro degli incassi, sulla base dei quali è ben difficile fare confronti con il passato: costo del biglietto, numero delle sale, diverso valore della moneta, delle lire prima e dell'euro poi, rendono impossibile stilare classifiche che abbiano un qualche senso.
L'unico criterio valido resta allora quello del numero di biglietti staccati: cioè del numero di spettatori che effettivamente si è recato in una sala cinematografica per vedere quel certo film.
Anche qui non mancano i problemi nel paragonare gli anni d'oggi con quelli del passato: troppo diverso il sistema di fruizione del cinema, ieri e oggi. Come sappiamo oggi l'offerta del cinema è variatissima e i mezzi per usufruire della visione di un film sono infiniti, dal web agli smartphone, dalla smart tv allo streaming: la sala è rimasta un mercato praticamente di nicchia.
La classifica del maggior numero di spettatori GLOBALE dei film proiettati in Italia nella storia del cinema e della distribuzione riserva tuttavia interessanti sorprese.
Il film più visto nella storia del cinema in Italia è infatti Dottor Zivago: il capolavoro di David Lean, uscito nel 1966, risulta essere stato visto nel nostro paese da una cifra incredibile di spettatori: 22 milioni e 900.000. Considerando che all'epoca la popolazione italiana era di circa 51.000.000 di abitanti, significa che quel film fu visto da quasi un italiano su due, al cinema.
Al secondo posto si piazza Il Padrino di Francis Ford Coppola, che nel 1972 portò al cinema qualcosa come 21.800.000 spettatori.
In terza posizione il colosso biblico I dieci comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, che nel 1953 (quando gli italiani erano 47 milioni) realizzò 16.800.000 spettatori.
Quarto è il più grande successo italiano della saga dell'agente 007: Missione Goldfinger, uscito nel 1964, ottenne 15.800.000 spettatori.
Quinto, un altro kolossal: Guerra e Pace, tratto da Tolstoj con la regia di King Vidor, anche se di completa produzione italiana, nel 1956. Al botteghino realizzò 15.623.000 spettatori (dato certificato dalla SIAE che lo conferma film di produzione italiana più visto di tutti i tempi nel nostro paese).
A sorpresa, il sesto posto è occupato dal controverso Ultimo Tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci. Il film con Marlon Brando e Maria Schneider, pur essendo stato sequestrato poche settimane dopo la sua uscita, e tornato nelle sale nel 1973, fu visto da ben 15.623.000 milioni di spettatori.
Sono numeri da capogiro, oggi del tutto irripetibili. Basti pensare che La vita è bella di Roberto Benigni (1997) o il recente Quo vado di e con Checco Zalone, non hanno raggiunto la soglia dei 10 milioni di spettatori.
Fabrizio Falconi (Fonte dati: http://boxofficebenful.blogspot.com/)
06/11/21
Il figlio segreto di Maria Callas: l'ombra della "Divina".
Una vita straordinaria, colma di successi straordinari, ma colma anche di un dolore profondissimo e sordo, di una inquietudine insopprimibile, di una fragilità congenita unita ad una determinazione straordinaria nella sua carriera mirabolante. Maria Callas, nel corso della sua vita custodì anche un segreto poco noto, che in un articolo tempo fa, fu così ricostruito:
Milano, 5 settembre 1977 Luigi era nervoso. Erano le undici e cinque e «La Signora» non era ancora arrivata. Quella scena si ripeteva ogni primo lunedì del mese. Da diciassette anni. Era il suo piccolo, grande segreto. Una vita onesta la sua: da quarant'anni per tutti lui era solo «il Ginetto», il vecchio custode del cimitero di Bruzzano, alla periferia nord di Milano.
Se la ricordava ancora come fosse ieri quella mattina di diciassette anni prima. Era un lunedì. Il primo lunedì di maggio. Faceva ancora freddo, il cielo non prometteva niente di buono. E lui se ne stava attaccato alla piccola stufetta della sua guardiola a leggere il giornale. Come ogni lunedì mattina, non c'era niente da fare: il cimitero era chiuso al pubblico.
All'improvviso il rumore di una macchina, di quelle potenti. Ginetto non credeva ai suoi occhi. Davanti al cancello c'era una berlina, di quelle che si vedevano giusto alle feste dei morti al Monumentale, il cimitero dei ricchi: blu, con le tendine grigie, per proteggere la privacy dei «signori», tirata a lucido come nuova.
Non aveva mai visto niente di simile in tutta la sua vita. «È lei il custode?» Un uomo alto, magro, in un elegante completo grigio, interruppe d'un tratto i suoi pensieri. «Guardi che qua è tutto chiuso. Dovete tornare più tardi, nel pomeriggio» rispose Ginetto, seccato per quell'intrusione che spezzava la monotonia del suo inizio settimana. «Lo sappiamo. Ma "La Signora" deve assolutamente far visita al cimitero. Questo è per il suo disturbo» disse l'autista senza scomporsi, mettendogli frettolosamente una busta in mano e guardandosi in giro con aria circospetta, per paura che qualche occhio indiscreto potesse assistere a quella scena.
Ginetto aprì in fretta la busta: c'erano cinquecentomila lire in contanti. Un'enormità. Non aveva mai visto tanti soldi tutti insieme. Con le mance, qualche cresta sui lumini e lo stipendio del Comune riusciva a stento a raggranellare centottantamila lire alla fine di ogni mese. Quell'uomo gli stava offrendo lo stipendio di tre mesi. E non ci doveva pagare nemmeno le tasse. Era lì a contare, ancora incredulo per tutto quel ben di Dio, quando l'anonimo autista lo interruppe ancora una volta. «Allora? Ci fa entrare? Se saprà conservare questo segreto ci vedrà arrivare alle undici del mattino di ogni primo lunedì del mese. Le garantiamo questa rendita in cambio del più assoluto riserbo. Niente chiacchiere. Con nessuno. Accetta?»
Ginetto fece due calcoli: quella sarebbe stata la svolta della sua vita. Il tredici al Totocalcio che aveva sempre sognato. Non era onesto? Be', in fondo lui non rubava niente a nessuno. Faceva solo un piacere a una sconosciuta «Signora». Senza pensarci due volte, aprì il pesante cancello del cimitero. «Vi accompagno. Dove dovete andare? Qui dentro è casa mia» propose. «Non si preoccupi. "La Signora" sa dove andare.»
Avrebbe voluto ringraziarla, «La Signora». Ma una tendina grigia la nascondeva al resto del mondo. Andava avanti così da diciassette anni. Tutti i mesi. Puntuale come un orologio svizzero, la berlina blu arrivava alle undici. «Son quasi le undici e mezzo. Che le sarà successo?» Ginetto ora incominciava a preoccuparsi sul serio. Non era mai successo in tanti anni che «La Signora» mancasse al suo appuntamento.
Poi, all'improvviso, il rumore della berlina. Ginetto tirò un sospiro di sollievo. Anche per quel mese la sua rendita era assicurata. Maria piangeva, come ogni volta. Lasciava che le lacrime scorressero lungo le sue guance scavate dalla solitudine. Dietro quella piccola foto di un neonato morto, dietro quel nome, Omero, inciso nel marmo a lettere d'oro, si nascondeva un pezzo della sua vita. Un segreto. Suo figlio. Sì, quel figlio che era stata costretta a nascondere agli occhi del mondo; quel figlio che aveva fatto seppellire di nascosto in un angolo remoto di Milano, come se se ne dovesse vergognare.
Quel figlio che non aveva potuto abbracciare neppure una volta per la crudeltà di suo padre, Aristotele Onassis.
fonte Il Giornale, 8 settembre 2007
02/11/21
"Meddle" compie 50 anni. I segreti del mitologico album dei Pink Floyd
01/11/21
L'uomo è una creatura assurda - Dostoevskij
29/10/21
Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?
Quando
fu costruito il primo teatro a Roma?
Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana.
Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C.
Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio.
Il
teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri
– e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo
Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della
città di Roma.
Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020
27/10/21
Il Palazzo del Monte di Pietà a Roma e l’orologio dalle ore matte
Il Palazzo del Monte di Pietà e
l’orologio dalle ore matte
E’ davvero molto lunga la storia del Palazzo del Monte di Pietà che
affaccia sulla piazza omonima, nel cuore del rione di Regola. Il Palazzo fu
costruito nel 1588 come nobile residenza di un Cardinale, Prospero Santacroce.
E’ soltanto quindici anni più tardi, nel 1603, dopo la morte del Cardinale, che
divenne la sede del Monte dei Pegni fondato nel 1527 da un padre minorita,
Giovanni da Calvi e che era originariamente ospitato in Via dei Coronari.
Per destinarlo alla nuova funzione – che era quella del Monte dei Pegni,
istituita da un gruppo di nobili romani papalini per combattere la piaga
dell’usura – furono necessari lavori di ampliamento del Palazzo Santacroce,
affidati ai più geniali architetti dell’epoca, Carlo Maderno e Francesco
Borromini: il Palazzo fu ingrandito e diviso in due parti, una destinata a
conservare il denaro, e l’altro i pegni che da quel periodo in poi i Romani in
difficoltà economica andavano a piazzare
al Monte.
Tra i numerosi abbellimenti e ornamenti del Palazzo, si provvide nel
Settecento anche a dotare il Palazzo di un grande orologio – uno dei più grandi
di quelli pubblici a Roma – al di sotto del campanile a vela sul frontone.
A quanto pare però, questo orologio monumentale, sin dalla sua
installazione, cominciò a mostrare difetti di funzionamento, con gli orari che
quasi mai coincidevano con gli altri orologi romani.
Una leggenda – probabilmente basata su un fondamento di verità – allora,
spiegò questo malfunzionamento con l’ira di un orologiaio, quello che si era
dedicato alla costruzione del meccanismo, il quale indignato per la somma
ricevuta, ben più bassa rispetto a quanto pattuito, aveva deciso di sabotare il congegno lasciando perfino
la firma del suo dispetto, con una iscrizione incisa sull’orologio stesso: Per non esser state a nostre patte/ orologio
del Monte sempre matte. E cioè, in
pratica: accordi saltati, orario impazzito. Più verità che leggenda visto che
l’iscrizione pare vi fosse realmente e fu cancellata dalle autorità cittadine
in tempi relativamente recenti.
Resta la singolare circostanza che proprio una comune, quotidiana
questione di soldi finì per condizionare e per restare ad emblema – visto che
l’orologio anche ai tempi nostri continua a seguire un suo orario – del Palazzo
che più di ogni altro a Roma è stato ed è il simbolo del denaro.