16/03/17

Poesia del Giovedì: "Le vele" di Fabrizio Falconi.








le vele


insubordinandosi, anche la mia
penna d’oca decise
di non scrivere più.

tutto era già accaduto
nel gigantesco mare di riflessi
del dopodomani;
la scrittura non era già più
la mia, sul pontile
i derelitti assisi
guardavano
allontanarsi
le vele.




Fabrizio Falconi - inedito 2014 © riproduzione riservata

15/03/17

"Il senso del Rosso" - Apre oggi a Palazzo Barberini una splendida mostra sulla pittura veneziana.



Straordinarie invenzioni compositive, uso suggestivo della luce che anticipa di quasi un secolo Caravaggio, fulgide tonalità dal cremisi allo scarlatto: e' la piccola, eppure molto preziosa rassegna, allestita dal 15 marzo all'11 giugno alle Gallerie Nazionali di Arte Antica di PalazzoBarberini, che propone alcuni capolavori di Lorenzo Lotto, Giovanni Gerolamo Savoldo e Giovanni Cariani, prestati da grandi musei internazionali come il Louvre, il Prado, Metropolitan Museum of Art e da eccellenze italiane quali l'Accademia Carrara di Bergamo. 

Una selezione attenta che pone al centro quel 'senso del rosso' dei pittori veneti fortemente collegato alla realta' sociale, produttiva e commerciale della citta' lagunare. Intitolata 'Venezia scarlatta: Lotto, Savoldo, Cariani', la mostra, ha spiegato il direttore delle Gallerie Flaminia Gennari Santori intervenuta alla vernice per la stampa, prende le mosse dalla meravigliosa tela di Lorenzo Lotto, dal titolo 'Matrimonio mistico di Santa Caterina d'Alessandria' (1524), conservata a Palazzo Barberini. 

Grazie a "una serie di collaborazioni avviate con i piu' importanti musei per valorizzare le rispettive collezioni e promuoverne la conoscenza e lo studio", il capolavoro, aggiunge il curatore Michele di Monte, e' stato affiancato da opere realizzate nello stesso periodo storico da maestri tra loro molto vicini, al fine di riportare alla luce "intrecci biografici, cromatici e tessili".

Lotto, Savoldo, Cariani, ha proseguito, costituivano una triade minore della pittura veneziana, tutti e tre attivi nella provincia, "ma non erano da meno degli artisti piu' celebrati". Basti pensare al magnifico 'San Matteo e l'angelo' di Giovanni Gerolamo Savoldo, in cui il gioco tra luci e ombre ne fa, con molti decenni di anticipo, un precursore di Caravaggio. O alle soluzioni geniali del Lotto, pittore riservato e misterioso, che come nessun altro infiamma le sue tele di tutte le tonalita' dello scarlatto. 

La mostra pero' vuole offrire un'indagine ancor piu' approfondita, su un'epoca e su un mondo, fiorito sulla laguna tra XV e XVI secolo, seguendo il filo del colore perfetto, il rosso appunto. Le industrie tessili e le botteghe dei tintori, vanto della citta' non meno di quelle dei pittori, facevano infatti a gara per assicurarsi la tonalita' perfetta, il lussuoso 'scarlatto veneziano', frutto di una pratica gelosamente custodita e tramandata, e quindi il nome di un tipo di stoffa prima che di un colore.

Di conseguenza, i pittori veneziani si facevano quasi un punto d'onore nel restituire questa complessa qualita', sviluppando un peculiare "senso del rosso' e trasmutando la materia della loro pittura in una pittura della materia". Questione di sfumature, dunque, sociali oltreche' tonali. E' questo denso ordito che interessa ai committenti e che viene richiesto all'arte dei pittori. Cariani, Savoldo e Lotto, spesso a lavoro per una committenza 'di terraferma', dove la cultura materiale era motivo di orgoglio civico persino piu' che in laguna, esplorano con talento tali sottili variazioni, che sono altrettanti simboli di status e di valore: dal paludato raso cremisi di Giovanni Benedetto Caravaggi (Accademia Carrara), dottore in medicina immortalato da Cariani, al misterioso velluto rutilante del San Matteo di notte (Met), raffigurato da Savoldo, dal vermiglio assoluto delle madonne di Lotto, che si declina nella miracolosa tunica del Cristo portacroce (dal Louvre) fino al carminio di seta della ritrosa consorte di messer Marsilio ('Ritratto di Marsilio Cassotti e Faustina Assonica' del Prado).

 Nelle trame dipinte, sottolinea Michele di Monte, non si intreccia pero' solo il gusto per una materia preziosa, ma si sviluppa anche la narrazione di riconoscimenti biografici, affetti mondani, passioni religiose, devozioni private. Con una sorprendente liberta' di invenzione iconografica, Cariani effigia il suo ritratto come un'icona veneziana, mentre Lotto celebra il sontuoso sposalizio allegorico di Cristo e Caterina direttamente a casa del committente, che era nientemeno che il padrone di casa cui l'artista doveva un anno di pigione. E siccome era un appassionato di tappeti, ne decora l'interno con uno pregiato che fa da sfondo, rivoltandone persino un lembo per far ammirare la perfezione della trama. 

E se Savoldo coglie l'evangelista Matteo come fosse l'umanista solitario e notturno vagheggiato da Petrarca, finisce per vestirlo con gli stessi panni del Cristo portacroce di Lotto, che interpella lo spettatore piu' personalmente e immediatamente di qualunque altro ritratto.

fonte: Nicoletta Castagni per ANSA

14/03/17

"Scene di vita di provincia" di J.M.Coetzee, un grande Libro (Recensione).



Einaudi ha recentemente riunito in un solo volume, con il titolo complessivo di Scene di vita di provincia, le tre parti del racconto autobiografico di J.M.Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, pubblicate in tre differenti volumi, pubblicati nel 2001, 2002 e 2010.  E nel corso delle 558 pagine c'è modo non soltanto di ricostruire porzioni della vicenda biografica del grande scrittore, ma soprattutto i nodi cruciali della sua ispirazione. 

Nel primo dei tre capitoli, Infanzia, Coetzee racconta - in terza persona - la vita di un ragazzino nel quartiere anonimo di una desolata provincia sudafricana, a centosessanta chilometri da Città del Capo, Worcester. Un ragazzino molto intelligente e chiuso, che cerca una via di fuga da un padre ordinario che non riesce a rispettare e da una madre che ama di amore viscerale ma che non gli dà certezze, dai riti di una scuola dove le regole non sono uguali per tutti, dai turbamenti di un'infanzia già minata nel suo carattere più sensibile.  dagli angusti orizzonti nazionalistici del Sudafrica nel secondo dopoguerra. 

Comincia qui, tra le esperienze famigliari, le fughe nel selvaggio Veld con la cuginetta preferita, la percezione di quel profondo senso di inadeguatezza nei confronti della vita, che è soprattutto un blocco relazionale, costruito intorno ad una intelligenza e ad una sensibilità troppo precoci. La difficoltà di costruirsi un'identità nella babele di etnie, lingue, religioni del Sudafrica a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, al di là di ogni pregiudizio, è la sfida che il ragazzino accetta, con la condizione di pagarne il prezzo. 

Nella seconda parte, Gioventù Coetzee è già diventato poco più che ventenne e ha già cambiato vita e continente. Dopo la laurea ha scelto di abbandonare il Sudafrica, quel luogo violento e radicale che gli imprigiona l'anima e ha scelto la disinibita Londra, dove si parla l'inglese che la sua famiglia ha sempre parlato (pur essendo di origini olandesi), dove è possibile sentirsi vicini al cuore europeo dei poeti, i grandi poeti - Pound, Holderlin - e narratori - Ford Madox Ford - che hanno riempito l'immaginazione e i sogni dell'adolescente provinciale.    

A Londra, Coetzee  è ben lungi dal diventare un poeta o uno scrittore, però. Essendo un abile matematico, finisce a lavorare come programmatore presso l'IBM, un mestiere frustrante e solitario che finisce per isolarlo ancora di più, in una città dove non trova sostanzialmente né amici, né rapporti sentimentali stabili, ma anzi dove assapora l'amaro di fugaci sperimentazioni quasi sempre insoddisfacenti.  

Licenziatosi dall'IBM e indeciso tra il proseguire la vita bohémian negli ancora più stranianti Stati Uniti, o fare ritorno a casa (dove comunque sarà costretto a fare rotta più avanti, per la morte della madre), Coetzee cerca affannosamente la propria strada, senza riuscire a fare breccia dentro di sé, senza trovare una via ad una apertura più sincera e radicale del cuore. 

L'ultima parte, Tempo d'Estate, scritta dieci anni dopo le prime due e non nella stessa forma della terza persona come le altre due, Coetzee inventa un proprio ritratto post-mortem: immagina infatti che dopo la sua morte un ricercatore universitario, volendo approfondire aspetti della vita dello scrittore, scelga di intervistare cinque persone che lo hanno conosciuto: quattro donne e un uomo. 

Le cinque lunghe interviste ricostruiscono soprattutto il lato più umano di Coetzee, la sua fragilità emotiva e psicologica, la carenza di affettività, le difese strutturate dietro le quali lo scrittore ha protetto il suo nucleo più profondo. 

Ne escono opinioni crudeli, a volte crudelissime, come nel caso della ballerina brasiliana, conosciuta da Coetzee durante il suo ritorno in SudAfrica per prendersi cura del padre rimasto vedovo e malato, che sprezzantemente giudica lo scrittore un mezzo uomo, un uomo inutile. 

In altri casi i toni sono più vicini - come quelli usati dalla cugina, Margot - o più tranchant come quelli usati dalla insopportabile Julie, la psicologa che ha avuto Coetzee come amante per un lungo periodo.  

Durante quest'ultima parte il lettore è portato costantemente a interrogarsi sul contenuto di verità espresso da Coetzee in questo racconto volutamente frammentario: come in un complicato gioco di specchi, l'autore di Vergogna si nasconde dietro una sofisticata teoria di simulazioni. 

Cosa è vero, cosa è finzione ? Cosa è immaginazione dell'autore su se stesso, cosa denudamento baudelairiano ? 

L'intento forse è proprio questo: dimostrare che nel cuore profondo di ogni esistenza c'è un grande e piccolo mistero insondabile, che nessuno può esplorare, nemmeno chi lo ospita. Ciascuno vive e si guarda vivere in gioco di rifrazioni che comprende gli sguardi degli altri, i giudizi e le omissioni e le proprie ombre e debolezze che abitano i recessi meno illuminati, quelli più oscuri e difficili da decifrare. 

Tutto è parvenza, tutto è dolorosa sostanza. 

In fondo è anche per questo che è così difficile resistere alla tentazione di vivere. 

Fabrizio Falconi 


13/03/17

Per la prima volta il Torso Belvedere, una delle opere più preziose dell'Antichità si sposta dai Musei Vaticani (si vedrà al Senato fino al 26 Marzo).




E' giunto a Palazzo Madama il Torsodel Belvedere, la statua greca dello scultore Apollonios che risale al primo secolo avanti Cristo

L'opera, che pesa 15 quintali, resterà esposta in Senato da sabato 18 a domenica 26 marzo, al piano terra, in sala Caduti di Nassirya.

Il Torso del Belvedere, opera concessa dai Musei vaticani, rientra negli eventi organizzati per il sessantesimo anniversariodella firma del Trattato di Roma

L'ingresso è gratuito e aperto a tutti

Si tratta di un'importante opera scultorea che venne studiata a lungo anche da artisti come Raffaello e Michelangelo, che ad essa si ispirò per la figura del Cristo giudice della Cappella Sistina e per la Pietà Rondanini

Il Torso del Belvedere rappresenta probabilmente la figura di Aiace Telamonio che medita il suicidio, e intorno ad esso sarebbe sorta anche la leggenda secondo cui papa Giulio II, sotto il cui pontificato venne rinvenuta l'opera, avesse chiesto a Michelangelo di completarla, visto che si presenta mutilata

L'artista avrebbe però opposto il suo netto rifiuto, giudicando l'opera troppo bella per essere alterata.

Si tratta comunque di una delle opere d'arte più importanti al mondo, anche perché porta la firma autografa dello scultore ateniese. Ma non si sa con esattezza dove e quando fu ritrovata. Con ogni probabilità deriva da un bronzo del II secolo a.C. e la sua iconografia, ricostruita secondo diverse testimonianze doveva raffigurare il guerriero con la testa appoggiata alla mano destra e la mano sinistra con la spada levata con cui si toglierà la vita. 

Viene citato per la prima volta dal cronachista Ciriaco d'Ancona nel 1435, nella collezione Colonna. Lo acquista poi lo scultore Andre Bregno, e infine, un secolo dopo, arriva in Vaticano. 

Ammirato come abbiamo detto da Michelangelo, Bramante lo immagina nel giardino progettato per papa Giulio II.  

Sfuggita alle razzie napoleoniche, la statua fu enormemente ammirata dai grandi viaggiatori e artisti come Stendhal e fece da modello a innumerevoli altre opere antiche e moderne


fonte askanews e Fabio Isman per il Messaggero (13 marzo 2017). 



12/03/17

Domenica a Roma : Il Monumento a Giordano Bruno in Piazza Campo de' Fiori - Fabrizio Falconi Racconta (Capitolium produzione - 3a puntata) - Youtube.



In questo breve video, oggi vi porto a conoscere la storia del Monumento a Giordano Bruno in Piazza Campo de' Fiori,  che dall'inizio ebbe vita controversa. 

"Fabrizio Falconi racconta #Roma": Il Monumento a Giordano Bruno in Piazza Campo de' Fiori.

Una produzione http://www.capitolivm.it

Blog di Fabrizio Falconi: http://fabriziofalconi.blogspot.it/
Uno speciale ringraziamento a Trastevere App.

Poesia della Domenica: "Canto alla durata" di Peter Handke.



"Si era rivolta a me [...] e come dall'alto
e mi venne così di descrivere
la sensazione della durata
come il momento in cui ci si mette in ascolto,
il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,
in cui ci si sente avvolgere,
il momento in cui ci si sente raggiungere
da cosa? Da un sole in più,
da un vento fresco,
da un delicato accordo senza suono
in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. [...]
Ecco, la durata è la sensazione di vivere. [...]
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita.


E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell'affetto
per i vivi
- per uno di loro -
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
E questo non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovraumana,
non è guerra, non è un allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
Sì, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa più importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un'espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitareun anno dopo l'altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo. [...]

Ma anche continuare per anni a essere ben disposto nei tuoi confronti
può darti durata.
Sapermi guardare amichevolmente negli occhi
talvolta mi assolve. [...]
Essere indulgente con i miei difetti [...]
rabbonirmi, se mi viene fatto un torto,
come mio unico parente,
battermi il petto
in trionfo per una parola felice
al posto giusto
e urlare un «sì» nella foresta della mia stanza
può ringiovanirmi
come una bottiglia di prelibatissimo vino
(con effetto però diverso).


Singolare è il sentimento della durata
anche alla vista di certe piccole cose
quanto meno appariscenti, tanto più toccanti:
un cucchiaio
che mi ha accompagnato in tutti i traslochi
un asciugamano
appeso nelle stanze da bagno più diverse,
la teiera e la sedia di vimini
per anni lasciata in cantina
o accantonata da qualche parte
e ora finalmente di nuovo al suo posto,
un altro, in verità, diverso da quello originario
e tuttavia al suo posto. [...]


Anche a casa mi si fa accanto molte volte
quando cammino su e giù per il giardino
nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale,
[...] oppure quando mi siedo nella mia stanza
al cosiddetto tavolo da lavoro -
non per attendere alla mia occupazione, al testo,
ma per fare tutti quei soliti gesti secondari:
spostare indietro la sedia,
dare uno sguardo nel cassetto [...]
sbirciare dalla finestra in giardino
dove i gatti lasciano le loro tracce
nella neve profonda e tra l'erba alta,
mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento
il fischio e il trabalzare
dei treni che percorrono la pianura.


O durata, mia quiete!
O durata, mia sosta! [...]


La durata è il mio riscatto,
mi lascia andare ed essere. [...]
Chi non ha mai provato la durata
non ha vissuto.


La durata non stravolge,
mi rimette al posto giusto".


Da Canto alla durata, Peter Handke, Einaudi, 1995, traduz. H. Kitzmuller. 

11/03/17

Trovata una statua gigante di Ramsete II al Cairo tra la spazzatura: "una scoperta eccezionale".



Gli archeologi egiziani hanno rinvenuto una statua gigante, lunga otto metri, in un quartiere popolare del Cairo che si ritiene raffigurasse il Faraone Ramses. 

Lo riferisce al Ahram. Accanto alla statua gigante anche un'altra di circa un metro di Seti II. Il ritrovamente e' avvenuto in un'area nei pressi di un tempio di Ramses II dove sorgeva l'antica Heliopolis.

Le due statue regali risalgono alla XIX dinastia, ha precisato in una nota il ministero delle Antichita' egiziano riferendo che la scoperta e' stata fatta da una missione archeologica tedesco-egiziana nel distretto di Matareya. 

La statua che dovrebbe raffigurare Ramses II e' "spezzata in grandi pezzi" ed e' fatta di "quarzite", scrive il sito Egypt Independent riferendosi a un tipo di roccia composta quasi esclusivamente da quarzo granulare. 

Sono emerse solo "parte della testa, con un orecchio e un occhio" e della corona, aggiunge citando il capo del Dipartimento antichita' egiziane del dicastero, Mahmud Afifi. 

La statua di Seti II, di cui sono stati rinvenuti circa 80 centimetri, e' "a grandezza naturale".

La scoperta "e' una delle piu' importanti" fra quelle "recenti", scrive ancora il sito sintetizzando dichiarazioni del capo della missione egiziana, il professor Ayman al-Ashmawy, in occasione dell'annuncio fatto ieri. 

Il tempio di Ramses "e' uno dei piu' grandi dell'antico Egitto visto che raggiungeva il doppio delle dimensioni del tempio di Karnak a Luxor", viene aggiunto. 

"Ovviamente e' una scoperta sensazionale, ma le notizie sono ancora scarse, aspettiamo di saperne di piu'"

L'egittologo Christian Greco, direttore del museo egizio di Torino, non nasconde l'emozione per il ritrovamento al Cairo della colossale statua di Ramses II, "conosco molto bene Dietrich Rowe, l'archeologo tedesco che sta scavando li' nella missione tedesco-egiziana, e anche uno dei nostri curatori e' li' con lui. Heliopolis e' uno dei siti piu' importanti dell'antico Egitto, li' ha scavato anche l'egittologo italiano Ernesto Schiaparelli (al quale il Museo Egizio dedica una mostra che si inaugura oggi a Torino ndr). 

E' un sito pero' anche molto difficile da scavare perche' si trova in una zona molto abitata de Il Cairo, vicina all'aeroporto". 

 Nelle foto e nel video diffuse sul ritrovamento si precisa che le due statue sono emerse nel distretto di Souq al-Khamis, nell'area di  al-Matareya nelle vicinanze del tempio di Ramses II. 

L'eccezionalita' della scoperta viene sottolineata anche dall'egittologo Khaled Nabil Osman : "era il luogo culturale piu' importante dell'Egitto, anche la Bibbia ne parla", ha detto all'Associated Press, "la cattiva notizia e' che ora l'intera zona dovra' essere ripulita, le fognature e il mercato dovranno essere spostati"


Secondo Osman, osservando la grande testa emersa dal terreno e' molto probabile che si tratti proprio di Ramses II, anche se al momento non sono state ritrovate iscrizioni che ne confermino l'identita'. 

Il tempio di Ramses II, viene ricordato, era enorme, tra i piu' grandi d'Egitto, grande il doppio rispetto ai templi di Karnak e Luxor. Venne distrutto in epoca greco romana. Gli obelischi e le statue del tempio vennero trasferiti ad Alessandria e in Europa. 

In epoca islamica molte pietre del tempio vennero usate per la costruzione di palazzi de Il Cairo.

Se si riuscira' a ricostruirla, la statua gigante di Ramses II appena rinvenuta al Cairo sara' esposta al "Grande museo egizio" che dovrebbe essere inaugurato l'anno prossimo nella capitale egiziana. 

Lo riferisce il sito Daily News Egypt sottolineando che il ministero delle Antichita' ha negato che il simulacro del faraone alto otto metri sia stato danneggiato da una scavatrice durante i lavori di recupero. 

 La foto della testa della statua nella pala meccanica ha "causato un putiferio", sintetizza il sito segnalando critiche al mancato uso di tecniche piu' sofisticate per spostare l'enorme reperto. 


Il capo delle Antichita' egiziane del dicastero, in una dichiarazione pubblicata giovedi' sera, ha sottolineato che solo la testa e' stata spostata usando la scavatrice sotto la supervisione di archeologi anche tedeschi e sono state usate travi di legno e sughero per evitare danni. 

La nota cita il capo della missione archeologica tedesca, Dietrich Raue, per sostenere che la statua non e' stata rotta durante lo spostamento, riferisce il sito, ricordando che monumenti faraonici subirono molti danni in epoca greco-romana. 

fonte: ANSA-Ap

09/03/17

Il conto dei corner (di F. Falconi).




Il conto dei corner non vuol dire niente. 

Lo sa bene chi si diletta col gioco del calcio.  Puoi dominare nel conto dei corner, batterne trenta in una partita, tempestare l'area avversaria di cross taglienti o tagliati, allungare la parabola sul secondo palo e oltre, batterlo corto sul difensore che sopravviene, o a sorpresa verso il mediano che si è liberato al limite dell'area per battere; puoi tentare la foglia morta dalla bandierina sul palo più lontano, puoi tirarla forte e bassa sul primo palo sperando nel tocco fortuito, puoi batterlo a casaccio nel mucchio in area sperando nella spizzata di testa, o nella papera del portiere che perde la palla in uscita e la lascia scivolare ai piedi del centravanti;  puoi perfino sperare nel colpo di mano in area del difensore avversario che è saltato per liberare.   Ma niente, in certe partite, quella maledetta palla non vuole entrare. 

E potresti batterne anche centodieci di corner, non servirebbe a niente.  Sguinzagliare tutta l'artiglieria dei corner, da destra e da sinistra, quella maledetta porta resterebbe inviolata. 

Il conto dei corner non vuol dire niente. 

Puoi aver dominato il conto dei corner, essere 50 a 0 e perdere quella dannata partita per un solo tiro avversario, con quella squadra di mezzi brocchi che di corner non  ne ha battuto nemmeno uno. 

E' superfluo dunque, il conto dei corner.  E' statistica, campionario, vuoto numero che non c'entra nulla e non dice nulla sulla sostanza delle palle che sono finite in rete. 

E quella odiosa bandierina resta simulacro di sconfitta. Bandiera bianca, resa al destino o agli eventi. 

Prima di disperderti, prima di consumare il conto dei corner, cerca di ricordarti questo: la linea di gesso bianco sulla linea di porta non sa che farsene dei tuoi corner.  Il cuore coraggioso oltre l'ostacolo colpisce con la zampata sporca da fuori area. Una deviazione, un rimorso, una fitta al muscolo della gamba: la palla, schizzando imprevedibile, entrerà proprio sotto il sette.  

E nessuno si ricorderà mai di tutti quei corner che hai battuto invano. 

Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata)

08/03/17

Scoperto un misterioso, unico Dolmen in Israele, di 4.000 anni fa.


Un dolmen di 4.000 anni fa, del peso di 50 tonnellate, e' stato scoperto nei campi del kibbutz Shamir, nell'alta Galilea, ed ha subito emozionato gli archeologi israeliani perche' per molti versi appare unico nel suo genere nella Regione. 

La sua presenza fa inoltre supporre che nella Media eta' del bronzo nell'attuale Galilea - e possibilmente anche nelle vicine alture del Golan - ci fosse una civiltà dotata di notevoli capacita' tecnologiche e di un sistema gerarchico rigido, in grado di mobilitare per un notevole lasso di tempo la manovalanza necessaria alla realizzazione di un progetto monumentale

Ma di quella ipotetica societa' - viene anche fatto notare - non sono rimaste tracce di insediamenti ed il dolmen di Shamir puo' dunque rappresentare un punto di partenza per l'esplorazione di quel mistero che affonda nella notte dei tempi. 

Secondo quanto hanno riferito oggi l'Autorita' israeliana per la archeologia, l'Universita' ebraica di Gerusalemme e il Collegio accademico di Tel Hay (alta Galilea), il dolmen in questione e' stato scoperto fortuitamente dal professor Gonen Sharon, di Tel Hay

Il dolmen - ha spiegato il professor Gonen - si trova al centro di un gigantesco tumulo di pietre dal diametro di 20 metri circa. 

Il loro peso complessivo e' di 400 tonnellate: la loro sistemazione fu un'operazione "monumentale", ha aggiunto, che ha totalmente cambiato la fisionomia della zona

La ragione di tanto sforzo e' forse da ricercarsi all'interno di un locale di due metri per tre situato sotto al dolmen principale (nelle immediate vicinanze ce ne sono altri quattro, di dimensioni inferiori)

Qua i ricercatori israeliani sono stati totalmente colti di sorpresa perche' nel "soffitto" di quell'ambiente, con un martello e con un oggetto analogo, erano state incise forme di carattere artistico. 


"Si tratta di linee rette - ha spiegato il professor Sharon - che vanno a congiungersi con un arco". Ad occhio nudo ne ha viste nitidamente alcune: poi, con l'aiuto di un laboratorio di archeologia computerizzata, ha potuto stabilire che ce n'erano una quindicina. 

Inoltre sul pavimento sono state trovate alcune perline colorate di vetro. "E' la prima volte che in un dolmen del Medio Oriente viene trovato un lavoro artistico" secondo Uri Berger, un ricercatore dell'Autorita' israeliana per l'archeologia. 

"Le forme che abbiamo visto a Shamir sono senza eguali in questa regione. Ed il loro significato - ha ammesso - e' per noi un mistero

fonte: Aldo Baquis per ANSA

07/03/17

"Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento..." Dietrich Bonhoeffer, 1944.



Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento che interessa tutti gli strati sociali; e nello stesso tempo ci troviamo di fronte alla nascita di un nuovo stile di nobiltà che coinvolge uomini provenienti da tutti gli strati sociali attualmente esistenti. 

La nobiltà nasce e si mantiene attraverso il sacrificio, il coraggio e la chiara cognizione di ciò cui uno è tenuto nei confronti di se e degli altri; esigendo con naturalezza il rispetto dovuto a se stessi e con altrettanta naturalezza portandolo agli altri, sia in alto che in basso. 

Si tratta di riscoprire su tutta la linea esperienze di qualità ormai sepolte, si tratta di un ordine fondato sulla qualità

La qualità è il nemico più potente di qualsiasi massificazione. 

Dal punto di vista sociale questo significa rinunciare alla ricerca delle posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta della cerchia intima degli amici, significa saper gioire di una vita nascosta ed avere il coraggio di una vita pubblica. 

Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dallo snobismo alla modestia, dall’esagerazione alla misura.  
Le quantità si contendono lo spazio, le qualità si completano a vicenda


Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.

06/03/17

Rivelazioni: il progetto Adelphi (grazie a Bazlen) avrebbe potuto realizzarsi a Trieste e non a Milano.





C'e' mancato poco che una casa editrice come la Adelphi nascesse, invece che a Milano nel 1962, a Trieste alla fine del 1949. 

Lo si evince dalla scoperta, fatta dalla Libreria antiquaria Drogheria 28 di Simone Volpato, del carteggio intercorso tra i triestini Bobi Bazlen, uno dei fondatori-ispiratori della Adelphi appunto, con Anita Pittoni che proprio nel 1949 crea la casa editrice Lo Zibaldone. 

Il carteggio e' composto di dieci lettere scritte tra la fine del 1949 e il 1953 e comincia con l'invito della Pittoni a Bazlen di entrare nello Zibaldone, editore da lei ideato con Giani Stuparich e Luciano Budigna. 

L'invito e' insistente: sotto qualsiasi forma "come mozzo, come timoniere, come conoscitore dei venti? aspettiamo consigli o silenzi, qualche scritto o un messaggio in bottiglia". 

Bazlen non si fa pregare: comincia col mandare messaggi e subito dopo orienta la casa editrice in direzione della Mitteleuropa, una zona mentale e linguistica che sara' fortemente rappresentata ovviamente proprio nel catalogo Adelphi tra gli anni 70-80 con autori come Kraus, Roth, Schnitzler, Canetti. 

Bazlen consiglia alla Pittoni di lasciar stare la letteratura triestina, che ha una vena stanca, per aprirsi "alla Mitteleuropa ... farei una casa editrice che viaggia mentalmente tra Trieste, Gorizia, Vienna, Budapest, Lubiana ... pubblicando scrittori di queste ampie zone tu entreresti in una mentalita' di ordine, di pulizia, di scrittura aurea e scopriresti il disordine, il decadimento progressivo che corrompe corpi, mente e sogni; una letteratura simile ad uno scheletro con una divisa impeccabile". 

Gli autori da pubblicare sono quelli: Schnitzler, Trakl, Daubler, Rilke, Heine, Grillparzer. La Pittoni riflette e si scontra con problemi pratici, come le traduzioni, espone i dubbi ma Bazlen non demorde e le consiglia di leggere le poesie di Holderlin curate da un giovane Gianfranco Contini e Kaethchen di Heilbronn di Von Kleist e Misteri di Knut Hamsun. 

Bazlen afferma che Svevo e' autore irrinunciabile per le generazioni future di scrittori (e si chiede se Svevo fosse nato ad Agrigento e Pirandello a Trieste) e consiglia alla Pittoni di pubblicare le poesie di Carlo Michelstaedter, mitteleuropeo, scrittore "giovane e' un po' acerbo che gia' contiene i fuochi della disperazione (Gorizia e' scenografia schizofrenica). 

Il piccolo ma ricco carteggio, dove compaiono anche giudizi acidi su Saba e sulla sua Libreria e amorevoli su Giotti (proprio a 60 anni dalla loro morte) e' stato acquistato da Giampiero Mughini; tuttavia sara' visibile alla Mostra Internazionale Libri Antichi e di pregio che si terra' a Milano tra il 24-26 marzo 2017. 

03/03/17

Federico Fellini, il Genio Nevrotico.




Ci manca. 

Manca il grande genio nevrotico di Federico Fellini.  Sentiamo la sua mancanza ogni giorno di più, perché solo attraverso quell'occhio forse avremmo potuto oggi decifrare, accendere una luce su giorni sempre più caotici, insensati, grotteschi. 

Ho il sospetto che in fondo Fellini si sia sentito sempre un alieno rispetto al tempo che viveva. Era come se provenisse da un altro mondo. La sua anima si elevava probabilmente su strati diversi, lontana dalle apparenze, anche se le apparenze degli altri, le manie, i tic, le deformazioni, le deformità, erano quelle che più affascinavano il suo cinema. 

Si sentiva un alieno perché - pur essendo pienamente epigono della italianità (un concetto ambiguo e temporalmente breve visto che l'Italia esiste solo da un secolo e mezzo) - era estraneo alle masse, come recitava uno slogan di qualche tempo fa. 

Anche se - ennesima contraddizione - delle masse egli seppe perfino diventare il cantore. 

Si sentiva un alieno perché era sostanzialmente un nevrotico, tendenzialmente depressivo. Gli giovò l'analisi (junghiana), gli giovarono le escursioni nel folle e nel magico (come le visite da Rol), gli giovò la contiguità con il senso cattolico dell'esistenza, di cui seppe essere - estrema contraddizione - il massimo dissacratore, come nella celebre scena della sfilata degli abiti talari. 

Fu tutto sommato sempre un sofferente (e massimo gaudente), fragile e potentissimo dal punto di vista psicologico.  Sofferente perché disadattato alla realtà che viveva e che non riusciva ad accettare per colmo di volgarità (il vero tarlo che lo uccideva e che riusciva ad esorcizzare pienamente solo traducendolo in paradigma). 

Sofferente perché estraneo in un mondo sbagliato che lo affascinava oltre ogni misura e che gli incuteva timore. 

Sofferente al punto che aveva bisogno di ricrearlo, il mondo, nel chiuso confortevole dello Studio 5 di Cinecittà. 

Soltanto tra quelle mura si sentiva padrone del gioco, si sentiva libero, in grado di trasformare e sublimare la sua nevrosi in arte creativa. 

Ricreato il mondo, lui era finalmente libero di rovesciarne i lati angosciosi in gioco, le ossessioni in girandole, la morale in sentimento nostalgico. 

Nostalgia di quello che non esiste e non può esistere, di ciò che è libero e non è prigioniero degli incardinati meccanismi della prosa. 

Nella vita si sentiva spesso vittima - di se stesso, degli eventi, della fortuna, delle relazioni - nell'arte era libero e vittorioso perché libero di poter fallire. 

Il Genio in fondo è questo. Libertà dall'essere e dal dover essere. Libertà di essere (tutto) per se stessi e quindi per il mondo e nel mondo. 

Fabrizio Falconi
(riproduzione riservata). 

02/03/17

Nel 5 anniversario della morte (e nel 73mo della nascita) apre per un mese ai visitatori la Casa di Lucio Dalla.





Un mese di apertura straordinaria per la casa di Lucio Dalla.

Visto il successo di 'A Casa di Lucio va in citta" - la tre giorni di apertura in occasione del quinto anniversario (1 marzo) della morte dell'artista allargata ad alcuni luoghi bolognesi di Dalla in programma da oggi al 4 marzo, curata da Elastica - con visitatori in arrivo da tutta Italia e anche dall'estero (in particolare Grecia, Olanda e Svizzera), la Fondazione Dalla ha deciso di tenere aperti gli spazi di via D'Azeglio dal 9 marzo al primo aprile nei giorni di giovedi', venerdi' e sabato.

Nel frattempo si arricchisce il programma degli eventi serali di 'A Casa di Lucio': Alessandro Haber leggera' brani di Dalla (domani, 3 marzo) e altri giovani talenti affiancheranno gli annunciati Dente e Brunori SAS il 4, tra cui Ermal Meta, terzo posto all'ultimo Sanremo, e il cantautore salentino Antonio Maggio.

Salta invece la prevista partecipazione di Gabriele Muccino, che ha dovuto rinunciare all'ultimo momento per il protrarsi delle riprese di un progetto video.

fonte ANSA 


01/03/17

La storia dei "Monument Man" italiani che salvarono i capolavori. Da domani il libro di Alessandro Marzo Magno.



L’Italia è un enorme museo a cielo aperto: nelle sue città, fra le sue colline, lungo le sue spettacolari coste sono nati alcuni dei più grandi capolavori artistici della nostra civiltà.

Ma sono tante le opere create in Italia che hanno vissuto destini travagliati: rubate in guerra, a volte restituite a volte no, spesso perdute. Non c'è da stupirsi quindi che i più temuti personaggi della storia, da Napoleone fino a Hitler, abbiano preso di mira lo stivale d’Europa e i suoi tesori. Ma in loro difesa si sono battuti eroi, spesso sconosciuti, che hanno rischiato la vita per riportare in patria parte del bottino, e di cui oggi Alessandro Marzo Magno ricostruisce le gesta: Antonio Canova in missione a Parigi per conto del papa, l’ambiguo Rodolfo Siviero, agente segreto dall’oscuro passato, che ha dedicato tutta la vita al recupero delle opera trafugate dai nazisti.

E poi ancora le Monuments Women italiane: Palma Bucarelli a Roma, Noemi Gabrielli a Torino e Genova, Fernanda Wittgens a Milano. 

Quasi come in un thriller, grazie alla capacità dell’autore di farci leggere il passato come una straordinaria avventura del presente, rivivono le storie coraggiose di quelle donne e di quegli uomini che hanno recuperato e messo in salvo la bellezza del nostro paese.



Alessandro Marzo Magno, veneziano, laureato in storia, vive e lavora tra Milano e Trieste. È stato per quasi dieci anni caposervizio esteri del settimanale «Diario». Ha scritto, tra l’altro, Il leone di Lissa. Viaggio in Dalmazia (2003), La carrozza di Venezia. Storia della gondola (2008), Piave. Cronache di un fiume sacro (2010), Atene 1687. Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone (2011). Con Garzanti ha pubblicato L’alba dei libri(sette edizioni, tradotto in inglese, giapponese, coreano e spagnolo), L’invenzione dei soldi(sei edizioni, tradotto in coreano e in turco), Il genio del gusto (seconda edizione 2015, tradotto in coreano) e Con stile (2016). 



Storie di uomini e donne
che hanno restituito all’Italia i suoi tesori trafugati 


 
Dal 2 marzo in tutte le librerie 

MISSIONE GRANDE BELLEZZA
Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler
di 
ALESSANDRO MARZO MAGNO

Saggi Garzanti - pp. 250 - € 20,00 

28/02/17

All'asta in Francia disegni foto e scritti di Jules Verne, tra i quali anche la Mappa de "L'Isola Misteriosa".




Disegnata a mano da Giulio Verne, con tanto di note in inchiostro rosso e nero, la mappa dell'"Isola misteriosa", sinonimo di avventura per generazioni di lettori, sarà messa all'asta domani da Drouot, a Parigi. 

"Lincoln Island", ultimo porto del Nautilus e santuario del capitano Nemo, fa parte di queste contrade immaginarie che non hanno mai smesso di far sognare. Realizzato nel 1874 per quello che in molti considerano il più bel romanzo di Verne, il disegno dell'"Isola misteriosa" costituisce il pezzo forte di questa asta dedicata all'universo del grande romanziere francese. 

La mappa (che assomiglia a una testa di elefante) con i nomi scritti in inglese è stimata fra i 100.000 e i 150.000 euro. In tutto 166 pezzi appartenuti a Eric Weissenberg (scomparso nel 2012), uno dei più grandi collezionisti di oggetti dell'autore di "Venti mila leghe sotto i mari", sono in vendita. Fotografie, lettere personali, copie originali dei romanzi di Giulio, gouaches, incisioni, manifesti Hetzel saranno messi all'incanto da Drouot. 

Fra i numerosi lotti figura anche una fotografia di Giulio Verne del 1856 circa - aveva allora 28 anni - considerata l'unica originale conosciuta, appartenuta allo scrittore. 

Questa foto dove lo scrittore posa "in atteggiamento romantico", è stimata fra i 5.000 e i 6.000 euro. All'asta anche la prima edizione illustrata di "Il giro del mondo in 80 giorni", primo grande romanzo di Giulio Verne destinato ai giovani. 

Il volume conteneva una fotografia di Estelle Hénin, amante supposta dello scrittore, risalente al 1873, firmata Nadar. La stima è fra gli 8.000 e i 10.000 euro. 

fonte Askanews - Afp

27/02/17

La terribile Mannaja Romana e il Carnevale Romano: Il Conte di Montecristo.


La mannaja romana e il Conte di Montecristo

L’invenzione di una macchina per la decapitazione, cioè del taglio della testa per i condannati dei reati più gravi, affonda nella notte dei tempi. Macchine simili alla ghigliottina erano già in uso in Gran Bretagna a partire dal 1300 d.C. e ben prima che il dottor Joseph-Ignace Guillotin mettesse la sua egida e il suo nome sulla macchina taglia-teste (fu introdotta con un progetto di legge in sei articoli all’Assemblea Nazionale il 9 ottobre del 1789 alla vigilia della Rivoluzione), pochi sanno che un efficace e macabro precursore della Ghigliottina francese era già usato a Roma, nella Roma papalina, da molto tempo, da almeno due secoli prima, da quando nel Cinquecento si dava la morte ai rei confessi e agli omicidi con la cosiddetta Mannaja romana il cui uso restò in vigore fino alla conquista della città da parte del Regno d’Italia, nel 1870.

Per molto tempo le esecuzioni a Roma furono organizzate proprio all’inizio del celebre Carnevale Romano, erano pubbliche – vi assisteva una grandissima folla – ed erano accompagnate spesso da torture, come quella della frusta: i ladri venivano caricati su somari, con le mani legate sulla schiena e un cartello appeso al collo che descriveva con minuzia il delitto commesso. Il macabro corteo attraversava le vie cittadine capeggiato da un subalterno del boia (in genere vestito con l’abito da Pulcinella) che conduceva il corteo, chiuso dal boia in persona, la faccia coperta da un cappuccio bianco. Al cosiddetto cavalletto, situato all’inizio della Via del Babuino, tra le urla di scherno della folla, il condannato veniva frustato a sangue con il nervo di bue.  Oppure, sempre a Via del Corso, all’angolo con Via della Frezza, nello slargo che viene chiamato Piazzetta della Corda, si praticava un'altra spaventosa tortura che era appunto quella della corda: il condannato veniva appeso ad una specie di carrucola e legato ad un’asta per i piedi, e quindi veniva sollevato e tirato per l’alto finché non si arrivava a slogargli del tutto le giunture. Ma era nell’anfiteatro classico di Piazza del Popolo che si celebrava invece il rito più cruento, quello riservato ai delitti più gravi: la decapitazione.
Della Mannaja e del suo funzionamento si ha una fedele e accurata descrizione nel celebre capolavoro di Dumas, Il Conte di Montecristo, che il romanziere ambientò tra Italia e Francia tra il 1815 e il 1838.

A Roma Dumas era giunto una prima volta nell’estate del 1835 e qui era rimasto per tre settimane, prendendo affitto nell’Hotel de Londres, una locanda famosa in quei tempi, in Piazza di Spagna, che il romanziere trovò il modo di riprodurre fedelmente nel suo romanzo, compreso l’eccentrico proprietario Pastrini, che finì anche lui nel libro come personaggio di contorno, tenutario dello stesso albergo nel quale Dumas fece scendere i principali protagonisti della storia, in visita a Roma. 
A Roma Dumas si fermò anche sei mesi più tardi, nel viaggio di ritorno, quando conobbe la nobildonna Teresa Guiccioli (che era stata l’amante di Byron), di cui si innamorò. Le circostanze dei due soggiorni offrirono al romanziere la possibilità di documentarsi con esattezza sui luoghi e sulle usanze romane, specialmente quelle del grandioso carnevale e delle brutali esecuzioni che avvenivano nella Capitale.
Nella celebre scena del carnevale romano, nel Montecristo, a Franz d’Epinay, in compagnia del Conte, capita di assistere ad una cruenta decapitazione in Piazza del Popolo.  Dumas, che era sempre scrupoloso nelle sue ricostruzioni attinse a testimonianze dirette. Il passo in questione recita:

Franz non intese che imperfettamente le parole del conte, e forse non apprezzò al giusto valore questa nuova gentilezza, poiché tutta la sua attenzione era rivolta allo spettacolo che rappresentava la piazza del Popolo ed allo strumento terribile che ne formava in quell'ora il principale ornamento. Era la prima volta che Franz vedeva una ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, ma la falce romana è presso a poco della stessa forma del nostro strumento di morte. La falce ha la forma di una mezza luna, taglia dalla parte convessa cade da minore altezza: ecco tutta la diversità! Due uomini, seduti sulla tavola ad altalena, dove viene steso il condannato, aspettavano, e mangiavano, a quanto sembrò a Franz, del pane e della salsiccia. Uno di essi sollevò l'asse, e ne estrasse un fiasco di vino, ne bevve e passo il fiasco al suo compagno: erano gli aiutanti del carnefice!
A questa sola vista, Franz aveva sentito venirgli il sudore fino alla radice dei capelli. I condannati erano stati trasportati, dalla sera innanzi, dalle carceri nuove alla chiesa di Santa Maria del Popolo, ed avevano passata tutta la notte assistiti ciascuno da due preti in una cappella chiusa da un cancello, davanti al quale passeggiavano le sentinelle cambiate d'ora in ora. Una doppia fila di gendarmi posti da ciascun lato della chiesa si estendeva fino al patibolo, intorno al quale formava un circolo di dieci piedi di spazio fra la ghigliottina ed il popolo. Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di teste d'uomini e di donne delle quali molte avevano i loro bambini sulle spalle, e questi vedevano meglio di tutti, perché venivano ad aver la testa al di sopra delle altre... Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi è di più curioso nella vita è lo spettacolo della morte.

L’evidenza che la mannaja romana cioè un prototipo della ghigliottina fosse usata a Roma da molto tempo, e anche alcuni secoli prima della decapitazione raccontata da Dumas, c’è nel resoconto della esecuzione pubblica forse più famosa che si sia mai svolta nella Capitale, quella di Beatrice Cenci, accusata di parricidio, e della sua matrigna Lucrezia Petroni, decapitate nella piazza antistante il Castel Sant’Angelo l’11 settembre del 1599.  Nella relazione del supplizio della Cenci si legge che Lucrezia – la prima ad essere giustiziata – anche a causa della sua mole, della sua corporatura, faticò non poco a cavalcare la tavoletta del ceppo – come gli comandò il boia - e accomodarsi con il corpo sotto la mannaia, a cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo, non era capace per l’appoggio delle mammelle. E quando toccò a Beatrice, essa cavalcò senza indugi la tavola e pose il collo sotto la mannaia, affrettando questo suo ultimo atto, circostanza che causò la tardanza del colpo.  E se il colpo non poteva affrettarsi come aveva fatto la condannata, è chiaro che questo non poteva venire dal braccio del boia, ma dal congegno di una macchina, la mannaja romana, per l’appunto, predisposta per fare giustizia dei condannati con la freddezza chirurgica del taglio della testa.


Al supplizio di Beatrice fra l’altro, si ispirò direttamente proprio Alexandre Dumas che alla celebre donzella romana e alla sua sfortunata vicenda umana dedicò una serie di racconti: Les crimes celebres: Les Borgia; La marquise de Ganges; Les Cenci.

tratto da: 


26/02/17

Cesare Viviani: "Dov'è finito il tempo dei sentimenti ?"




Oggi, guardando alla vita di chi lavora, una cosa salta subito agli occhi: il tempo è occupato per la maggior parte dall'attività (e dal suo valore, che sta nei risultati, nell'autostima e nella stima degli altri).

Certamente il lavoro condensa grandi significati. 

Poi, nel tempo libero c'è il divertimento e lo svago (gli hobby e le diverse opzioni per distrarsi e giocare, oggi accresciute dalle attraenti novità tecnologiche): un modo questo per bilanciare il sacrificio e l'impegno delle ore occupate.

Perciò la vita è lavoro e divertimento. 

E il sentimento ? C'è un tempo, non striminzito, per gli affetti, per viverli, nutrirli e approfondirli ? Ci sono ore per l'ascolto e per il cuore ? 


Oppure, sia per il gran lavoratore che per l'appassionato hobbista è tutto tempo perso ?

25/02/17

Pedro Calderòn de la Barca - L'Anno Santo di Roma (1650) - un magnifico testo finora inedito in Italia.




E' un volume prezioso quello uscito da poco per La Camera Verde: la pubblicazione di un auto sacramental scritto da Calderon de la Barca per il Giubileo del 1650, inedito in Italia. 

Pubblico qui di seguito il testo scritto dal curatore e traduttore del volume Raoul Precht per Succede oggi, poco prima dell'apertura del Giubileo della Misericordia. 

Tra qualche giorno verrà dato il via alle celebrazioni dell’Anno Santo straordinario della Misericordia, fortemente voluto dall’attuale Pontefice e deciso, a quanto pare, in piena autonomia, senza alcuna consultazione con le autorità comunali e statali per le quali l’evento avrà un impatto anch’esso straordinario, in termini di entrate ma anche di uscite e di complicazioni organizzative.

Sulle ripercussioni per la città di Roma del probabile afflusso di un ingente numero di pellegrini è già stato scritto abbastanza, e sebbene le stime possano variare, e anche di molto, di certo l’avvenimento, che oltre tutto si protrae per quasi un anno, non migliorerà le condizioni di vita già difficili dei romani.

C’è però da chiedersi se questi ultimi dal 1300 (anno del primo Giubileo) in poi ne abbiano mai tratto vantaggi, ma questa sarebbe una questione complessa e fors’anche oziosa.

 Di certo, a Bonifacio VIII più che il benessere della città ospite premeva all’epoca la buona riuscita del traffico delle indulgenze, elargite ai pellegrini che avessero compiuto il viaggio a Roma e visitato le basiliche prescritte; quel traffico che avrebbe tra l’altro contribuito al disgusto provato due secoli dopo da un sacerdote per qualche mese di passaggio a Roma, tale Martin Lutero, e alla nascita dello scisma protestante.

Pure, ai tempi di Bonifacio VIII il Giubileo viene istituito ancora come misura straordinaria, addirittura ogni cento anni; sarà Clemente VI, nel 1342, ad abbreviare il lasso di tempo fra un Anno Santo e l’altro a cinquant’anni, seguendo alla lettera quanto prescritto dal Signore a Mosè sul Monte Sinai (Levitico: 25, 8-55, lettura tra l’altro interessante per chi si occupi di agricoltura e messa a maggese delle terre); peggio di lui (o meglio, a seconda dei punti di vista) faranno Urbano VI nel 1390, diminuendo la distanza fra un Giubileo e l’altro a 33 anni, e Paolo II, che nel 1475 la riduce a 25 anni.

Fino a quando, nel 1500, Alessandro VI la riporta a cinquant’anni e definisce una volta per tutte le cerimonie di celebrazione, con l’apertura e la chiusura delle quattro Porte Sante a S. Pietro, S. Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e S. Paolo fuori le mura.

Se gli aspetti commerciali dell’operazione sono innegabili – e non è un caso che ai Giubilei ordinari oggi se ne aggiungano di straordinari, come questo che ci attende –, dal punto di vista dottrinale la celebrazione del Giubileo induce a una riflessione approfondita su diversi aspetti della fede, riflessione che fra l’altro ha portato alla nascita di un genere teatrale a sé stante.

E se parlo di teatro, è perché di sicuro in passato il Giubileo permetteva al popolo anche di divertirsi un po’, sia pure nei limiti imposti dalla devozione, con spettacoli e feste sfarzose da cui altrimenti sarebbe stato escluso.

Viene in mente, a mo’ d’esempio, la grande festa offerta dagli spagnoli a Piazza Navona nel 1650, con spettacolari fuochi d’artificio e una scenografia provvisoria con due grandi cappelle (una dedicata al Resuscitato, l’altra alla Vergine) davanti alla Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore (in passato San Giacomo degli Spagnoli, appunto, chiesa del Regno di Castiglia, ricolma di statue e altari dedicati a Santiago).

Va detto che l’architettura barocca della piazza non era ancora ultimata, in quanto la fontana del Bernini è dell’anno successivo e della chiesa di Borromini non c’erano neanche i progetti: in un certo senso Piazza Navona offriva quindi uno spazio scenico ideale, lasciando mano libera agli organizzatori dello spettacolo e permettendo alle folle di goderne pienamente.

Un esempio di questi spettacoli è offerto dal genere teatrale cui accennavo poc’anzi, gli autos sacramentales, genere nato nel Medioevo (il primo è la Representación de los Reyes Magos, nel 1145), ma perfezionatosi poi nella Spagna della Controriforma.

Il sottogenere che ci interessa qui, l’auto allegorico, trova il suo primo rappresentante in Lucas Fernández, con il suo Auto de la Pasión, intorno al 1500, ma avrà consacrazione definitiva con Pedro Calderón de la Barca (nell’illustrazione).

In pratica, il misterio o moralidad medievale va pian piano approfondendo i contenuti dottrinali, anche in conseguenza del Concilio di Trento, e sul palcoscenico compaiono personaggi simbolici chiamati a incarnare concetti astratti.

Sembrerebbe qualcosa di estremamente asciutto e poco attraente, non fosse stato per l’apparato scenografico, le trappole teatrali e gli effetti speciali, che facevano di questi spettacoli qualcosa di simile ai nostri film in 3D sui dinosauri.

Con una piccola differenza: i temi centrali erano di volta in volta l’esaltazione dell’eucaristia, l’ultima cena, la vita dei santi, episodi dell’Antico Testamento, parabole evangeliche, e così via. In altre parole, essendo il plot meno che avvincente, gli ultimi ritrovati della pittura, della scultura, dell’architettura e, perché no, della musica diventavano imprescindibili per la fruizione di questo tipo di rappresentazioni, che non a caso si sviluppano solo in Spagna, mentre in tutto il resto d’Europa il teatro religioso attraversa una profonda crisi.

La maestria di Calderón sta nel saper conciliare elementi teologici e dottrinali con le correnti letterarie alla moda (concettismo e gongorismo) e soprattutto con gli espedienti spettacolari offerti dalle macchine teatrali di allora.

 Proprio nel 1650 Calderón scrive e fa mettere in scena L’Anno Santo di Roma, il cui protagonista, l’Uomo, assistito dai dieci comandamenti, si mette in viaggio da pellegrino per poter raggiungere Roma e ottenere l’indulgenza.

Il viaggio si fa davvero drammatico quando il Mondo, all’uomo se non ostile, indifferente, gli fa incontrare la Lascivia, ovvero il principale fra i vizi, e Lucifero, che rappresenta il Demonio e che con la sua complice tenterà in tutti i modi di allontanarlo dalla retta via.

Oggi può sembrarci un’impresa improba, ma all’epoca su questo canovaccio si era capaci di costruire un evento spettacolare, con danze, musica, oggetti scenici bizzarri, costumi, battute (quasi sempre affidate al libero arbitrio che fa le veci del gracioso nella commedia classica), effetti speciali e sorprese a non finire, con cui intanto il drammaturgo veicolava sornione la visione del peccato, delle passioni e del riscatto che Santa Madre Chiesa imponeva ai suoi sudditi.

Chissà se in Vaticano qualcuno ci ha pensato, o ci sta pensando: recuperare Calderón e metterlo in scena sarebbe davvero uno spettacolo, senz’altro più degno di quelli a cui certi monsignori e cardinali ci hanno abituato negli ultimi secoli.

Pedro Calderòn de la Barca
L'Anno Santo a Roma (1650)
La Camera Verde
Roma, 2017