Num cantinho um violao,
este amor uma cancao
pra fazer feliz a quem se ama,
muita calma pra pensar
e ter tempo pra sonhar,
da janela ve se o Corcovado,
o Redentor que lindo….
I versi di Antonio Carlos Jobim,
il padre della musica Brasiliana, di quella rivoluzione chiamata Bossanova,
teorizzata e compiuta insieme a Joao Gilberto e Vinicius De Moraes, risuonano
nella mente quando si intraprende un viaggio nel cuore del Brasile.
A me è capitato qualche anno fa,
in una circostanza speciale, per la realizzazione di un reportage sulla
deforestazione in Amazzonia.
Rimasto in Brasile per quasi un
mese, e attraversato quel paese grande
come un continente da est ad ovest, da nord a sud, ebbi l’impressione di
apprezzarlo pienamente, di percepirne il senso della storia, e di quella
filosofia di vita soltanto quando, lasciati alle spalle gli spazi sterminati
del sertao, il bassopiano arido che abbraccia gran parte del
nord-est, e del bacino fluviale più esteso
del mondo, feci visita al riconosciuto simbolo universale carioca.
Come ogni simbolo, il Redentor,
la monumentale statua eretta sulla sommità del Corcovado, che domina dalle sue
altezze la città di Rio de Janeiro, parla molti linguaggi, e ad ognuno
suggerisce qualcosa di diverso, un frammento o una suggestione di quella grande
anima latino-americana che ha parlato nella storia di questo paese attraverso i
preludi di Villa Lobos, le saghe bahiane di Jorge Amado, le imprese
calcistiche, il cinema novo di Glauber Rocha.
E ha parlato, appunto, anche grazie
all’arte inconfondibile di Antonio Carlos Jobim. Il quale, per sfuggire alle ombre lunghe di
una infanzia grandemente sofferta – il padre, uomo religioso e tormentato, morì
suicida, forse per una dose eccessiva di morfina usata per combattere la
depressione – scoperta la magia di un pianoforte, si inventò una carriera di
musicista, rifiutandosi in questo modo di proseguire le tradizioni diplomatiche
della famiglia.
Scelse, per vivere, una casa
meravigliosa – intatta ancora oggi – immersa nel verde rigoglioso e nella pace
(sembrerebbe incredibile a dirsi) del
quartiere di Ipanema. Ci andò a vivere
con la giovane moglie Thereza, e con i due figli Paulo ed Elisabeth. E qui
scrisse le canzoni di Orfeo Negro (il
film che fece scoprire il Brasile a tutti, europei e americani compresi), A
felicidade, Chega de Saudade, e la stessa Corcovado. Un pugno di
canzoni che cambiarono la musica di quegli anni, e rimasero patrimonio di
tutti.
Erano gli anni del Brasile del
presidente Juscelino Kubitschek, detto JK, eletto nel 1956, gli anni di un memorabile e dissonante
sviluppo economico che portò il Brasile alla ribalta del mondo, nella musica,
nell’arte, nell’industria, nell’architettura.
A scapito di quello che in pochi decenni divenne il più grande
indebitamento pubblico di un paese, destinato a pesare per così tanto tempo
sulle spalle del popolo brasiliano, non si esitava a costruire l’utopia della
città del futuro: la capitale Brasilia, disegnata dal genio di Oscar Niemeyer e
di Lucio Costa, sorta come un fungo nel
deserto nel giro di pochi anni.
Intanto il Brasile, quinto paese
al mondo per estensione e per popolazione, diventava sempre più povero, e uno
dei giganti cattolici del paese si trovava a fare i conti con la revanche
dei riti sincretisti degli Orixas e di Nossa senhora da Bahia.
Non era la prima volta che il Brasile provava
a legittimarsi, nelle ambizioni più che nei fatti, potenza mondiale.
Era già successo negli anni
‘30. In quel tempo il Nord del pianeta
si accorse del Sud non solo come deposito di ricchezze naturali, da
depauperare. Il Sud era anche ricchezza,
mito primigenio, forza creativa, rinnovamento.
In quegli anni dunque –
esattamente il 12 ottobre 1931 – il Brasile si diede il simbolo che desiderava:
una statua di Cristo alta 38
metri , e pesante 1.145 tonnellate. Scelse la data
dell’anniversario della scoperta americana di Colombo, anche se quel giorno
inaugurò per il Sud America (e per il Brasile) la lunga e terribile stagione
dei massacri indiscriminati di ogni cultura indigena, vecchia di secoli.
In
realtà si parlava già da anni di porre una statua di Cristo in quel punto
esatto. Probabilmente se ne parlava anche a causa del fatto che il primo nome
che nel secolo sedicesimo i conquistatori portoghesi diedero a quel monte,
dominante la spettacolare baia di Rio, fu Pinàculo de la Tentaciòn , perché - ripido così come l’aveva disegnato la mano
di Dio - ricordava proprio il monte dal
quale Cristo viene invitato dalle lusinghe del Diavolo a gettarsi nel vuoto. Ma la prima iniziativa concreta per
realizzare una scultura in quel luogo fu presa molto tempo dopo, intorno al
1850, dal padre lazarista Pedro Maria
Boss, che ne aveva parlato, senza molti risultati alla principessa Isabella,
figlia dell’imperatore Pietro II, alla quale il Brasile deve l’abolizione della
schiavitù. L’idea poi fu abbandonata con la proclamazione della Repubblica, nel
1889.
tratto da: © Fabrizio Falconi - Cantagalli editore - Dieci Luoghi dell'Anima, 2009.
(continua a leggere sul libro).