10/04/16
La poesia della domenica: "Ti ricordi gli storni" di Toti Scialoja.
Ti ricordi gli storni che a stormi
nei tramonti dei nostri bei giorni
quando i treni si fanno notturni
attorniavano Terni e dintorni?
Bei tramonti che accesero Terni
rispecchiandone il fuoco dei forni
mentre i cieli diventano inferni
taciturni se ruotano stormi.
Neri stormi sui monti di Terni
che di sera perdendo i contorni
frastornavano i nostri ritorni
con l’eterno stormire degli orni.
Son trascorsi gli autunni e gli inverni
sono andati e tornati gli stormi
sulla Nera su Terni su Narni
sulle pere forate dai vermi.
Toti Scialoja
08/04/16
Incontro (gratuito) con il grande William Kentridge, Lunedì prossimo a Palazzo Barberini.
E’ l’artista di rilievo internazionale William Kentridge l’ospite di Massimiliano Finazzer Flory per il quarto appuntamento de «Il Gioco serio dell’Arte», X edizione. Autentico «uomo rinascimentale», artista a 360 gradi, attivo nella pittura e nel disegno, nel teatro e nel cinema, nella performance e nelle installazioni, Kentridge attribuisce da sempre un’indispensabile valenza sociopolitica alla propria opera, facendone un oggetto culturale utile alle riflessioni su grandi temi del contemporaneo, come la convivenza tra le razze, la sopraffazione e la tolleranza, il conflitto e la pacificazione - che nel Sudafrica, da dove Kentridge proviene, ha conosciuto criticità, drammi e possibili soluzioni.
Dunque un interlocutore di speciale prestigio per un confronto di grande interesse sul tema che Finazzer ha scelto per questa decima edizione de «Il Gioco serio dell’Arte». “Mai come oggi -dichiara Massimiliano Finazzer Flory- abbiamo bisogno dell’arte per comprendere la nostra realtà che non è divisa tra politica, economia, comunicazione… ma si chiama realtà proprio perché tiene insieme fenomeni diversi e ovviamente in modo asimmetrico e variabile. Impossibile dunque avere un modello oppure una visione diretta di questa realtà. Ecco perché serve l’arte. Perché attraverso essa noi possiamo con rappresentazioni, mediazioni, disegni o messe in scena ottenere conoscenza e dialogo che non sono altro che gli ultimi due residui non bellici della nostra cultura. In questi termini ho invitato William Kentridge perché si possa discutere di tecnologia e realtà per chiederci dove sia più presente l’uomo per scoprire forse che la sua rappresentazione con l’arte è più credibile delle informazioni che abbiamo dai media”, anticipando alcuni argomenti sui quali si confronterà con Kentridge, la cui presenza, in questi giorni a Roma, assume un significato ancor più importante a meno di due settimane dall’inaugurazione della monumentale opera-installazione che ha concepito sugli argini del Tevere: Triumphs and Laments, al tempo stesso un omaggio senza precedenti, una celebrazione grandiosa, ma anche una rappresentazione originalissima dei grandi momenti di Bene e Male che la Città Eterna ha vissuto nel corso della propria storia. E aggiunge Finazzer Flory : “William Kentridge non è solo l’artista che ha dato vita al disegno per proiezione ma la sua opera è tale perché mette in discussione il nostro pensiero come disegno non lineare. Invitare Kentridge, dunque, significa offrire il disegno storto della storia. In una rassegna il cui tema quest’anno è migranti la presenza dell’artista sudafricano è anche una nota di polemica contro l’estetizzazione e la retorica della sofferenza e della morte che invade la nostra comunicazione. Utilizzare il cinema di animazione di Kentridge per scuotere le coscienze per rappresentare la denuncia sociale significa in altri termini preferire le ombre della realtà, l’ambiguità al tutto chiaro. Come del resto ha ben scritto Kentridge “se c’è qualcosa che l’arte deve fare è renderci coscienti di un precetto: mediare sempre”. La sfida della cultura europea che riguarda un’idea di integrazione fondata su legami profondi potrebbe avere in questo artista un punto di riferimento, un esempio, un’azione”.
William Kentridge, artista, regista teatrale e di film di animazione, è nato a Johannesburg, Sudafrica, da famiglia ebraica. Suggestionato dall'orrore della segregazione razziale e dalle problematiche connesse - abusi nell'ambito del lavoro, barriere razziali, aspirazioni libertarie dei neri - Kentridge ha affrontato l'argomento in molte sue opere, traendo ispirazione tanto da quadri di Goya e di Hogarth quanto dalle pellicole dell'Espressionismo tedesco e dai film di S.M. Ejzenštejn. Si è servito del disegno a pastello o a carboncino per i filmati d'animazione, rivelando innovative capacità tecniche.
Della sua ricca attività teatrale si ricordano i lavori svolti in collaborazione con la Handspring Puppet Company, tra cui Il ritorno d'Ulisse e la regia de Il flauto magico di W.A. Mozart. Kentridge ha partecipato a manifestazioni internazionali quali le Biennali di Venezia, Istanbul, Johannesburg, L'Avana, Shanghai. Numerose mostre l’hanno visto protagonista nei più prestigiosi musei del mondo.
Kentridge sta ultimando l’installazione Triumphs and Laments, straordinario progetto per la città di Roma: un fregio – lungo 550 metri – composto da 80 figure alte fino a 10 metri, realizzato con una pulizia selettiva della patina biologica accumulata sui muraglioni nel tratto del Tevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Triumphs and Laments racconta la storia millenaria di Roma in una sequenza non cronologica, volgendo lo sguardo sia ai trionfi che alle sconfitte. L’inaugurazione è prevista il 21 aprile del 2016, in occasione del Natale di Roma.
Il Gioco serio dell’Arte, nato nel 2006, per volere de Il Gioco del Lotto – Lottomatica, è ideato e condotto da Massimiliano Finazzer Flory e presentato presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, guidate dal nuovo direttore Flaminia Gennari Santori. Quest’anno, la rassegna culturale viene nuovamente ospitata a Palazzo Barberini, che risplende nella sua bellezza dopo i recenti lavori di restauro realizzati anche grazie ai fondi de Il Gioco del Lotto.
“Migranti sono i pensieri che si connettono ad altri pensieri. Migranti, oggi come non mai, sono le nostre identità” suggerisce il regista e attore Massimiliano Finazzer Flory, ideatore de Il Gioco Serio dell’Arte, nel presentare il tema di questa edizione. “Migranti sono i quadri, le opere d’arte, adesso anche i musei e con loro gli uomini che attraverso le arti uniscono culture e costumi”.
La X edizione del Gioco Serio dell’Arte, “Migranti”, vuole rappresentare una casa d’accoglienza per tutti coloro che desiderano darsi convegno per celebrare una visione dell’arte totalizzante, alla ricerca del segno culturale in ogni gesto e in ogni attimo della nostra vita. La manifestazione è incentrata sull’incontro/dialogo con personalità di statura nazionale e internazionale, sul tema prescelto per ciascuna edizione. La parola intesa come momento artistico del vivere. La conversazione come scintilla della percezione e come provocazione intellettuale.
lunedì 11 Aprile 2016 ore 18.30
Palazzo Barberini, Via delle Quattro Fontane 13, Roma
Ingresso libero fino ad esaurimento posti
Per informazioni www.giocodellotto.it - www.finazzerflory.com
Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma
Palazzo Barberini
Roma - Via delle Quattro Fontane 13
07/04/16
Torna in Italia la "Testa di Augusto" rubata negli anni '70.
E' pronta a tornare a casa sua, a
Nepi, una testa in marmo di Ottaviano, futuro imperatore
Augusto, rubata negli anni '70 e ora ritrovata in Belgio.
Il
prezioso reperto romano sara' ufficialmente riconsegnato
all'Italia e alla cittadina laziale dal museo reale d'arte e di
storia di Bruxelles con una apposita cerimonia, il prossimo 28
aprile.
Una storia a lieto fine, fra quelle dei tanti tesori
nazionali trafugati e scomparsi per anni, oltre che una
testimonianza concreta di una collaborazione fruttuosa fra le
autorità belghe e italiane.
"Per noi si tratta di un ritorno importante - spiega Pietro
Soldatelli, sindaco di Nepi - visto che si tratta di un pezzo
ben conservato, che penso potrà essere visibile al nostro museo
gia' da maggio".
Il museo belga aveva regolarmente acquistato la scultura nel
1975, da un antiquario di Zurigo, non risultando all'epoca il
pezzo come mancante.
Da allora la testa in marmo del futuro
imperatore romano è rimasta al sicuro a Bruxelles nella
'galleria dei ritratti', di fronte ad un ritratto di Livia e
vicino a quello di Druso.
La comunicazione del furto di fatto e' avvenuta solo di
recente, grazie ad una vecchia fotografia scattata dall'Istituto
di archeologia tedesco che custodiva l'origine del reperto: il
togato che ornava negli anni '70 il portico del palazzo comunale
della piccola città laziale non era acefala, ma sfoggiava un
ritratto di Augusto velato.
Una volta appurata la reale
provenienza "il museo di Bruxelles ha dato subito la sua
disponibilita' alla restituzione - racconta Soldatelli - e lo
stesso re del Belgio ha dato il via libera all'operazione di
rientro", che sara' festeggiata da una analoga cerimonia anche in
Italia.
Alta quaranta centimetri e mezzo, leggermente girata verso
destra, la testa ritrovata presenta i tratti di un uomo giovane
e magro, una delle prime rappresentazioni di Ottaviano (68
a.C.), il futuro imperatore Augusto (27 a.C. - 14 d.C.),
all'epoca in cui si batteva per recuperare l'eredita' di Cesare,
suo padre adottivo, prima della decisiva vittoria di Azio (31
a.C.).
Il giovane Ottaviano e' togato e con la testa coperta,
ritratto sia come sacerdote (pontifex) che come uomo pio.
06/04/16
Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. (Pietro Zullino - "Cinzia con i suoi occhi").
Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. Succede anche questo nell'editoria italiana. Pietro Zullino, che ho avuto la fortuna di avere come amico, scrisse questo suo libro qualche anno prima di morire.
E' un romanzo fiume, dedicato a Lucio Properzio, il grande poeta romano vissuto nel I sec. a.C., penalizzato dalla critica storica per secoli, e in tempi recenti riscoperto come forse il più moderno dei poeti antichi.
Zullino ha scritto un libro memorabile. Con l'uso di una lingua geniale e modernissima, erudito (ritraducendo ex novo tutte le poesie di Properzio) e passionalmente coinvolto, enormemente attuale nei suoi risvolti, su ciò che è la ribellione nel campo dell'intelligenza e della produzione artistica.
Zullino, che era autore di lustro, e aveva pubblicato con i più grandi editori italiani, scelse volontariamente (esacerbato dalle logiche editoriali) di autoprodursi il libro e di stamparlo in poche copie da distribuire agli amici (senza nemmeno firmarlo, ma attribuendolo direttamente al nume di Properzio).
Sono dunque ben pochi quelli che hanno avuto il privilegio di leggerlo.
Nell'attesa che qualcuno - di quelli che contano (ma cosa contano?) si accorga di lui, è già stata fatta una traduzione in americano moderno del romanzo.
E a Pietro e alla sua opera è stato dedicato post-mortem un volume di studi a cui ho contribuito proprio con questo testo, su Cinzia.
Che qui ripropongo.
Testo scritto per PIETRO ZULLINO, UNA VITA PER LA SCRITTURA, Carabba, 2014
Cinzia
con i suoi occhi
di Pietro Zullino: “Chi ama può vagare”, il romanzo di una ribellione
di Fabrizio Falconi
La
fortuna dei libri di Pietro Zullino presso i maggiori editori italiani –
Mondadori e Rizzoli tanto per citare soltanto i più blasonati – durò oltre un
decennio, a cavallo tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’80.
A
partire da quella data, qualcosa si spezzò: a Zullino, come ad altri autori di
quegli anni, che si erano concentrati, nella loro produzione, sulla adesione
profonda agli ideali interiori (autenticità, fedeltà, vero) invece che
all’inseguimento delle mode del momento e dei diversi conformismi del mondo
editoriale italiano, capitò di sentirsi sempre più ai margini, sempre più fuori posto, sempre meno in sintonia con
i gusti prevalenti.
Zullino, con la sua propensione per lo studio,
con il suo rovesciamento dei canoni storico-accademici, con il suo spiccato
senso per la colta provocazione che gli permetteva di leggere la realtà
contemporanea con occhi sempre nuovi, sentiva di non appartenere alla folta
schiera dei narratori per una stagione. Il
suo sguardo era rivolto all’oltre, ciò che gli premeva era la continuazione
dell’indagine del contesto storico-politico come conformazione ed estensione
delle contraddizioni individuali umane, quelle cioè celate nel cuore di ogni
uomo.
Da
questo punto quindi l’esplorazione del mondo classico e delle sue radici era
per Zullino il terreno ideale per dare corpo a quella esplosione multiforme di
ripensamenti sulla realtà che si vive (nell’oggi) e su quella che si immagina,
se è vero che proprio nei reconditi del mondo antico, e in specie nella vicenda
della Roma imperiale, è possibile rintracciare i segni sensibili e tutte le
contraddizioni del presente storico e antropologico, come scriveva Ungaretti a
proposito di Virgilio che – diceva - ci accompagna non più come un emblema ma
come uno dei fatti della nostra vita (1).
I
fatti della nostra vita, dunque,
quelli che più interessavano Zullino e che nei primi anni del 2000 lo portarono
a cimentarsi in un lungo, estenuante progetto rappresentante la summa di una meticolosa ricerca capace
di coniugare lo studio e l’esercizio linguistico – da sempre cifre
caratteristiche della sua opera – con la pura narrazione, con il disegno di un
amplissimo (e definitivo) affresco su quel mondo, il mondo degli amati classici
latini, di quei cantori che prima e
forse meglio di tutti gli altri seppero scendere nei recessi dei fondamentali
umani.
05/04/16
Il libro del giorno: "I racconti di Belzebù a suo nipote" di Georges I. Gurdjeff
Il primo dei grandi libri scritti dall'armeno Gurdjeff dopo il 1924, filosofo, scrittore, mistico e "maestro di danze" , una delle personalità più rilevanti del Novecento. Un impressionante, ridondante affresco visionario che ricostruisce la storia del mondo dagli albori fino alla civiltà indiana, tibetana ed europea, vista dagli occhi di Belzebù, essere superiore, navigatore spaziale, emissario del Creatore Unico sul nostro pianeta, e raccontata al nipotino Hassin, ansioso di conoscere particolari sulla vita degli abitanti del pianeta Terra.
Gurdjeff stupisce, sconcerta. La sua è una visione del mondo, della vita e dell'universo realmente nuova, del tutto inedita, che ribalta ogni luogo comune e ogni consolidata certezza.
Lo scienziato Ouspenskij sistematizzò, teorizzandola, l'opera di Gurdjeff, attribuendo valore filosofico ad un'opera per molti versi poetica sulla natura umana, interpretata attraverso una smodata voglia di classificare, enumerare, nominare, che rende difficile e estremamente affascinante questa lettura.
Gli uomini sono esseri tricentrici, tricerebrali che hanno smarrito la loro via (non praticano più i loro "doveri esserici") e si sono abbandonati alle cristallizzazioni dell'utilizzo dell'organo kurdabuffer che porta: odio, invidia e ogni altro tipo di bassezza umana.
Da rileggere oggi, di straordinaria attualità.
I racconti di Belzebù a suo nipote
di Georges I. Gurdjieff (Autore),
M. Fumagalli (Traduttore), R. Cervetti (Traduttore)
Neri Pozza Editore
Neri Pozza Editore
04/04/16
Una grande mostra dedicata a Mario Monicelli e al suo cinema.
Alla Galleria d'ArteModerna e Contemporanea di Viareggio si è appena inaugurata 'Mario.
Chiara Rapaccini e Andrea Vierucci per Monicelli', terza mostra
del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016 che ha aperto i
battenti ieri per proseguire sino al 10 aprile, tra
Lucca, Viareggio e Barga.
Proprio il 3 aprile, al cinema
Centrale di Viareggio, che Monicelli aveva eletto come sua citta'
d'adozione, verra' riproposto in sala L'Armata Brancaleone, del
1966.
Introdurra' la proiezione Chiara Rapaccini, compagna di una
vita del regista. La mostra, che gli rende omaggio, proseguira'
fino al 16 maggio.
L'esposizione e' nata dall'incontro tra l'artista Chiara
Rapaccini, in arte Rap, e il fotografo Andrea Vierucci.
L'incontro, avvenuto sul set di un servizio fotografico per la
rivista Ville Giardini, ha segnato l'inizio di un'amicizia e un
sodalizio artistico che li ha portati nel corso del 2015, anno
dedicato al centenario della nascita del cineasta, a collaborare
con entusiasmo a diversi progetti.
Le opere di Chiara Rapaccini
sono diventate, tra le altre cose, protagoniste di
un'installazione surreale, ambientata all'interno di una
fabbrica abbandonata nella laguna di Orbetello, che Vierucci ha
poi fotografato.
Alla GAMC di Viareggio i due artisti scelgono
di raccontare il cinema italiano attraverso le arti.
Le foto di
scena dei set di Monicelli si trasformano in teli dipinti,
graffiati, ricamati, fotografati in un'archeologia industriale,
per tornare, come in un gioco dell'oca, al filmato proiettato
sul muro del museo.
Dai tessuti di cotone, un giovane Mario
Monicelli sorride, giocando con i suoi cappelli. Intorno,
leggeri, fluttuanti, i volti di Toto', Anna Magnani, Gassman e
Mastroianni.
L'unione tra architettura, cinema, pittura e fotografia
sembrano magicamente ritrovare un unico filo conduttore nelle
immagini di Andrea Vierucci che ha raccolto con grande
coinvolgimento emotivo oltre che professionale il lavoro di
Chiara Rapaccini.
Per i suoi teli, Chiara Rapaccini si e'
ispirata alle fotografie del suo archivio privato scattate dai
piu' grandi fotografi di scena degli anni '60, '70, '80, '90, sui
set dei film di Mario Monicelli.
Queste foto erano state gettate
via, insieme ad altri documenti preziosi, dallo stesso
Monicelli, come "documenti del passato di nessun valore".
Chiara
le ha recuperate, e negli anni le ha catalogate, ordinate,
archiviate, lasciandosi ispirare dai forti contrasti del bianco
e nero della pellicola e dalla straordinaria forza espressiva
del lavoro dei maestri della fotografia di scena, Secchiaroli,
Strizzi, Doisneau.
03/04/16
Intervista a Eugenio Borgna - "La fragilità degli adolescenti è una ricchezza."
E' il cantore delle fragilità umane. Il paladino della debolezza adolescenziale. Il difensore strenuo del disagio mentale. Eugenio Borgna, 85 anni, psichiatra, mi accoglie con passo lento nella sua casa di Novara. Libri alle pareti, uno spartito originale di Ennio Morricone sul tavolo del salotto. Lui ha una lieve cadenza piemontese e modi gentili, accoglienti. Ha studiato per sessant'anni le ferite dell'anima, il dolore e le sofferenze dei suoi pazienti e non ha mai abbandonato la parte della barricata che oppone la parola all'uso dell'elettroshock o dei farmaci "un tanto al chilo".
Dice: «Non sono uno psichiatra robot che passa attraverso le fiamme della vita con tranquillità». Racconta con garbo un breve periodo di depressione: «Mi sono auto-curato». E si accende quando chiacchierando trova una formula sintetica per descrivere l'opera di Simone Weil su cui ha appena scritto il volume L'indicibile tenerezza (Feltrinelli): «È il ritrovare in un essere umano che racconta le proprie sofferenze, quelle di tutti».
Tra testi scientifici e divulgativi ha sfornato più di venti opere: adolescenza, malinconia, amore tragico...
Spiega: «I pazienti considerati matti, i bipolari, gli schizofrenici... rappresentano circa l'1,5% della popolazione. Il 25%, invece, soffre di depressione, di diverse forme d'angoscia, di ansia o di malattie psicosomatiche». Chiedo: «Sono così frequenti i problemi mentali?». Replica secca: «Certo». Uno dei punti centrali del Borgna-pensiero è il tempo. Quello da usare per l'ascolto, da concedere a chi sta male, da dedicare all'educazione delle giovani generazioni.
Educazione. Per prepararli alla concorrenza globalizzata, oggi ai bambini sono richiesti voti ottimi sin da quando vanno alle elementari e performance eccellenti.
«E così si rischia di far danni. L'ho scritto. Lo dico nel deserto, inascoltato».
Danni?
«Certo. Molte delle défaillance scolastiche dei bambini nascono dalla timidezza e dalla fragilità, che in realtà sono grandi doti, ma finiscono per essere dilatate e drammatizzate da chi non le comprende. Una caratteristica positiva può essere trasformata in una drammatica auto-distruttività. Si prende in considerazione solo la performance, il bambino-ragazzo è da subito ipervalutato, ultrapremiato. L'insegnante e il maestro, quando esagerano, si trasformano in agenti patogeni, causano sofferenze evitabili».
Meno studio e meno esami per tutti?
«No. Ma di fronte alla fragilità di un bambino non posso imporre un significato della vita tutto incentrato sulla prestazione, sulla riuscita e sul successo. Anche perché quando poi arriva un insuccesso, una sconfitta, dovuta magari a un fattore esterno, si rischia il crollo. Quel che dovrebbe essere chiaro è che spesso le connessioni tra modelli sociali e ricadute psicologiche è strettissimo».
Mi fa un esempio?
«Negli Stati Uniti la paura delle conseguenze della iperattività e del deficit di attenzione ha portato alla diffusione dell'utilizzo del Ritalin per i ragazzi. Non è facile resistere alla pressione sociale e a quella pubblicitaria. Anche i medici sono in difficoltà. Il problema è sempre pensare che la semplice somministrazione del farmaco risolva tutti i problemi. Perché non fa perdere tempo: è più facile dare una pasticca a un bambino piuttosto che ascoltarlo e giocarci. Lo stesso discorso si può applicare ai malati psichiatrici».
Si preferisce impasticcarli piuttosto che ascoltarli?
«Esatto. Il tempo di cui il paziente ha bisogno per essere compreso, interpretato e curato, si scontra con il tempo dei medici e dei familiari. Loro pensano al farmaco come a un bisturi e cercano di sbrigare subito la faccenda. Come se l'ansia, la depressione e l'angoscia equivalessero a una appendice infiammata che il chirurgo asporta con un taglietto».
Lei non è un fan degli psicofarmaci.
«Sono indispensabili in alcuni casi, ma non in tutti come si tende a pensare oggi. Serve anche la parola che tolga le ombre, che sciolga le ansie. Serve per comprendere la sofferenza. Gli psicofarmaci non sono come gli antibiotici che agiscono indipendentemente dal consenso del paziente. Ed è un'illusione che il paziente guarisca più rapidamente ricevendo dosi maggiori o mix di farmaci».
Di nuovo il tempo, la fretta...
«Il tempo non dovrebbe essere percepito come moneta di scambio, ma come occasione per ascoltare. A proposito di tempo: ci sono cliniche universitarie in cui vengono ancora praticati gli elettroshock».
In Italia?
«Sì. In anestesia generale. Non costa, non c'è bisogno di assistenza, si fa in fretta... Io la considero una pratica intollerabile. Non l'ho mai usata e non ho mai permesso che un mio paziente vi fosse sottoposto».
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02/04/16
I Coldplay utilizzano una poesia di Rumi nell'ultimo album (e Obama).
Alla traccia 7 del nuovo - bellissimo - album dei Coldplay, nel brano intitolato Kaleidoscope, alcuni avranno riconosciuto, recitata dalla profonda voce del cantante blues Coleman Barks, una delle più celebri poesie di Rumi, poeta mistico persiano, fondatore della confraternita sufi dei dervisci, La locanda.
Eccone il testo in Italiano:
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.
Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.
Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa
spogliandola di tutto il mobilio,
lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.
Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.
Sii grato per tutto quel che arriva,
perché ogni cosa è stata mandata
come guida dell'aldilà.
Nella stessa canzone, alla fine, I Coldplay utilizzano un frammento della voce del presidente Obama: non di un discorso, ma mentre canta "Amazing Grace" al funerale del reverendo Clementa Pinckney , uno delle nove vittime della sparatoria giugno 2015 a Charleston, South Carolina.
Chris Martin, il frontman del gruppo, parlando a The Sun , ha spiegato, " Abbiamo un piccolo frammento del presidente mentre canta 'Amazing Grace' in quella chiesa. A causa del significato storico di quello che ha fatto e anche perché il significato di quella canzone è più o meno: "io mi sono perso, ma ora mi sto ritrovando" E' un messaggio ispiratore di per sé, ma è reso ancor più forte in connessione con le altre parole che Obama ha condiviso durante l'elogio per Pinckney , in cui ha toccato la violenza armata, razziale tensione, e il significato della fede nel mondo terrificante di oggi.
31/03/16
Einaudi: una mostra a Milano celebra una grande casa editrice.
La storia dei 50 anni più gloriosi
della casa editrice Einaudi raccontata attraverso i suoi libri,
la sua grafica, il suo lavoro editoriale.
Nella Galleria del
Gruppo Credito Valtellinese nel Palazzo delle Stelline a Milano è
aperta la mostra "I libri Einaudi 1933-1983", un viaggio tra la
letteratura e il design che presenta al pubblico la collezione di
libri di Claudio Pavese.
"Abbiamo voluto - ci ha spiegato -
ripercorrere tutti questi momenti della casa editrice, però
mettendo a disposizione del pubblico finalmente per la prima
volta, e non solo esposte ma anche in catalogo, tutte le 92
collane della casa editrice. Teniamo presente che l'Einaudi negli
anni Sessanta è stata ritenuta la più grande casa editrice al
mondo".
E dunque nelle teche esposte è possibile trovare i Narratori
contemporanei Pavese, Hemingway e Sartre; oppure i Coralli di
Joyce e Robbe-Grillet, o ancora la prima edizione italiana, nei
Supercoralli Einaudi, di un romanzo mitico come "Il giovane
Holden" di Salinger, con la copertina di Ben Shahn, accanto al
"Partigiano Johnny" di Fenoglio.
Senza dimenticare Bruno Munari,
figura chiave nella storia einaudiana, Samuel Beckett, presente
come narratore, commediografo e poeta e, naturalmente, Antonio
Gramsci.
Ma accanto a questi mostri sacri, e qui sta forse la
parte più viva della mostra, con una reale adesione all'idea di
cultura popolare.
"Citiamo alcune collane come esempio - ha aggiunto Pavese - I
Libri per ragazzi, che hanno accompagnato l'infanzia di
generazioni di lettori. La collana Tantibambini, che tanti ancora
si ricordano di Bruno Munari, un gioiello assoluto di editoria,
oppure altre collane come la Biblioteca di cultura storica, una
delle più longeve della casa. O i Saggi Einaudi, nella quale sono
passati testi fondamentali come Dialoghi con Leucò di Pavese, in
prima edizione, come Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, e
così via".
La sensazione, uscendo dalla mostra, è quella di avere
ripercorso la storia di un editore che pubblicava Musil e Walter
Benjamin, certo, e che lo faceva utilizzando il lavoro dei
migliori grafici, dando all'oggetto libro quella capacità di
resistere, anche oggi, non solo come prodotto culturale, ma anche
come vera e propria opera d'arte. Pronto, nonostante tutto, ad
affrontare il futuro.
fonte askanews
30/03/16
"Pastorale americana" di Philip Roth (RECENSIONE).
Ho letto Pastorale Americana, uno degli ultimi Roth che mi mancava da leggere, negli stessi giorni in cui a Roma è accaduto un brutale fatto di cronaca, l'omicidio a sangue freddo - per sapere cosa si prova - di un ragazzo, da parte di altri due, apparentemente tipi normali, provenienti da ottimi genitori e ottimi padri, i quali hanno pensato bene subito dopo l'efferato crimine, a cadavere ancora caldo, di andare in tv in prima serata (o scrivere sul proprio blog personale) a difendere questi figli e rivendicarne la bontà, la probità, l'innocenza.
C'era dunque parecchio da meditare, mentre si scorrevano le pagine (423) di questo grande romanzo americano, nel quale Roth descrive la discesa agli inferi di Seymour Levov, detto Lo Svedese, aitante e perfetto americano (ebreo figlio di figlio di immigrati dall'est europeo), con perfetta moglie (Miss New Jersey) al fianco, che scopre nell'unica figlia Merry, una pluriomicida, bombarola contestatrice in fuga da tutto, ritrovandola più avanti nella storia in miseria, finita in una sorta di comune giainiana, sempre più disperata e sola, e del tutto immune ai richiami dell'affetto familiare.
La catastrofe descritta da Roth è perfetta, e si dipana principalmente intorno all'argomento della rimozione dell'ombra. Seymour è in buona fede, crede "ai valori", al modello di vita americano, crede nelle cose giuste, e la vita gli ha sempre dato ragione premiandolo con riconoscimenti e onori (nello sport, nell'amore, nel lavoro). Ma questa perfezione è sterile, la famiglia perfetta - si sa - genera mostri (come è il caso anche delle famiglie romane di cui sopra, a quanto pare) e il piccolo mostro Merry - insieme ai suoi compagni d'avventura prima fra tutte la perfida Ruth - sa il fatto suo: sa come distruggere l'icona perfetta dalla quale proviene, sa come minarne ogni certezza, ogni convincimento, ogni sicurezza, ogni appiglio, ogni immagine ideale a dosi di deflagrante realtà.
Roth tiene in pugno il lettore e lo spreme fino alla fine, essendo qui la sua scrittura al culmine di una abilità non fine a se stessa.
Semmai, anzi, la scrittura risente anche troppo dell'obiettivo che sta a cuore a Roth. La sua voce parteggia fin troppo apertamente per qualcuno dei personaggi, come Ruth, la messaggera incaricata di scaricare addosso a Seymour il suo completo fallimento, o come Jerry il fratello cinico dello Svedese.
A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.
Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale, mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.
Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.
Fabrizio Falconi
Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997
A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.
Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale, mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.
Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.
Fabrizio Falconi
Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997
29/03/16
"Scenari" - lo scritto di Pasqua di Fabrizio Centofanti
Si cominciava a parlare di scenari. Ormai era chiaro che le profezie non riguardavano solo il Vaticano, l'attacco tremendo alla Chiesa che l'avrebbe costretta a rinnovarsi, ma un'area molto più vasta, e forse il mondo intero.
I cento anni di dominio di satana sarebbero finiti coi fuochi d'artificio di una guerra totale, che avrebbe seminato la morte e innescato un meccanismo di autodistruzione che solo il Pantokrator, il Signore che tiene i fili e le trame della storia, avrebbe frenato al tempo giusto.
Già parlavamo di ritorno all'essenziale, di valori che sarebbero riemersi, dopo la grande parentesi di confusione e di non senso, in cui ogni capriccio era un diritto, ogni voglia dell'io una legge da imporre con la forza o con la persuasione occulta.
Stavamo toccando il fondo del liberismo e del libertinismo, la democrazia era ormai diventata una facciata che nascondeva il governo assoluto di pochi potentati e lo sfruttamento di una massa inconscia di obbedienti manichini manovrati dall'alto.
La cultura procedeva con parole d'ordine cui tutti dovevano piegarsi; lobby intoccabili proclamavano del tutto indisturbate il loro verbo lascivo, viscido, sfuggente, e nello stesso tempo categorico e rigido, intollerante riguardo al pur minimo accenno di dibattito.
Un'idea valeva l'altra, perché tutte finivano nel grande calderone di una dittatura invisibile e implacabile, fondata sull'apparente libertà dei social network, degli squallidi spettacoli dei media, proni alla ferrea volontà delle multinazionali del pensiero unico.
Persino la fede era gestita da un'industria sofisticata e aggiornata del politically correct, dell'adeguamento al mondo.
Era sempre più chiaro che la corsa verso il nulla sarebbe sfociata in un esito al contempo sorprendente e prevedibile: si sarebbe compreso, finalmente, che il male è male, e fa male.
Da questa coscienza elementare si sarebbe generata la nuova civiltà; una bella mattina, ci saremmo guardati negli occhi dal fondale di un mondo totalmente rinnovato.
testo di Fabrizio Centofanti
Qui il suo blog La poesia e lo spirito.
foto in testa di Fabrizio Falconi
28/03/16
Palmira è libera ! Una mostra a Mantova "Salvare la Memoria" con i reperti di Palmira e di altre zone di guerra.
Le notizie della liberazione di Palmira da parte delle forze governative di Damasco, hanno riacceso la speranza, in quei luoghi flagellati dalla guerra e dalla occupazione dell'Isis.
Assume ancora più rilevanza la splendida mostra organizzata a Mantova:
È una mostra idealmente dedicata al Direttore del sito archeologico di Palmira Khaled Asaad, quella che si può ammirare al Museo Nazionale Archeologico di Mantova fino al 5 giugno, con il titolo “Salvare la Memoria”.
Ma anche al non meno prezioso, e spesso anonimo, esercito di “Monuments Men” che ovunque nel mondo si vota al recupero di un patrimonio di arte che è storia di tutti.
Un patrimonio violentato da guerre, come quella in Siria appunto, ma anche da terremoti, alluvioni e da tutti quegli eventi che, ferocemente e improvvisamente, si sovrappongono al fisiologico effetto del tempo su ciò che è testimonianza del nostro passato.
Una grande storia raccontata, nei tre piani dell’Archeologico di Mantova, da immagini originali, documenti, filmati, reperti (simbolicamente preziosi quelli provenienti da Palmira), testimonianze dirette.
Un laboratorio, aperto al pubblico, mostrerà dei restauratori all’opera su testimonianze di una villa distrutta dal terremoto del 2012 nel mantovano.
Protagonisti di vicende di salvaguardia e difesa del patrimonio artistico mondiale incontreranno il pubblico nel corso di incontri calendarizzati nel periodo della mostra.
Il progetto “Salvare la Memoria” è un’iniziativa del Polo Museale della Lombardia, a cui si affiancano il Comune di Mantova, l’ISCR, l’ICCROM, l’Università degli Studi di Milano, l’Università IULM, Monuments Men Foundation, Palazzo Ducale- Mantova, Diocesi di Mantova, Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale.
Ad affiancare Elena Maria Menotti e Sandrina Bandera, che ne sono curatrici, è un ampio e qualificatissimo Comitato Scientifico.
A contrapporsi alla violenza della distruzione c’è la forza della restituzione. Come racconta questa affascinante mostra e come ricorda, non a caso, il suo sottotitolo. Non caso ad accoglierla è Mantova, città devastata dal terremoto del 2012. Quell’evento causò, tra l’altro, il crollo del cupolino della Basilica di Santa Barbara e produsse seri danni ad uno dei luoghi simbolo della città, la Camera degli Sposi in Palazzo Ducale, rendendolo a lungo non visitabile.
E con quello di Mantova, altri terremoti, dal Friuli ad Assisi, a Bam, L’Aquila, sino al Nepal. Come dimenticare poi l’alluvione del 1966 a Firenze e l’esercito degli “Angeli del fango”? O, su altro fronte, l’attentato all’Accademia dei Georgofili?
Le distruzioni scientemente provocate dagli uomini non si sono rivelate meno catastrofiche di quelle naturali.
Distruzioni ereditate da guerre del passato recuperate molto tempo dopo, come è accaduto per Vilnius dove le distruzioni perpetrate dalle truppe di Pietro il Grande, sono state sanate solo dopo il 1989.
Rievocando la Prima Guerra Mondiale, l’attenzione è proposta su Mantova, Milano, il Veneto. Ancora Mantova, nella Seconda Guerra Mondiale, insieme a Milano - con focus sulla sala delle Cariatidi a Palazzo Reale, e su Cenacolo, Brera e Poldi Pezzoli - , le figure e l’azione di Pasquale Rotondi e di Modigliani e Pacchioni per la messa in sicurezza delle grandi opere d’arte italiane.
Ma anche le vicende dell’obelisco di Axum, con le immagini della traslazione a Roma dall’Etiopia e della sua restituzione.
A questa sezione della grande mostra ha collaborato, tra gli altri, la Monuments Men Foundation di Dallas.
Tra i troppi conflitti recenti, la mostra propone quelli in Kosovo e in Afghanistan, evidenziando gli interventi di restauro dell’ISCR e la ricostruzione del ponte di Mostar.
Le cronache quotidiane documentano le distruzioni in Iraq e Siria.
Le immagini delle distruzioni di Palmira hanno colpito l’opinione pubblica mondiale. Da ricordare che in quell’area archeologica era attivo il progetto “Pal.M.A.I.S.” dell’Università degli Studi di Milano, così come ed Ebla l’Italia era presente con una propria missione archeologica. Per scelta delle curatrici, in questa sezione le immagini saranno esclusivamente “positive”: proporranno le attività di ricerca archeologica svolta. Nessuna immagine di distruzione, ma un puro segnale grafico a simboleggiare la temporanea, forzata interruzione di un percorso di ricerca, recupero e valorizzazione.
La grandezza di Palmira sarà testimoniata da reperti originali concessi dai Musei Vaticani. La mostra, inoltre, suggerirà di approfondire la grande storia della Mezzaluna Fertile visitando la Collezione Mesopotamica custodita in Palazzo Te.
L’attenzione del visitatore viene attratta anche su altri fenomeni presenti durante i conflitti, quali gli scavi clandestini, evidenziando i casi di Apamea, Umma e Zabalam, con l’utilizzo di foto satellitari.
Mentre scorrono le immagini della “Giornata Unesco di lutto per la distruzione dei beni culturali”, la mostra porta l’attenzione sul farsi strada di una nuova consapevolezza. Citando come esempio la salvaguardia dei monumenti anche nel caso di grandi opere di ingegneria: emblematico è stato l’innalzamento dei templi di Abu Simbel per consentire l’invaso della diga di Assuan.
Questa è una mostra che vuole ostinarsi a guardare avanti, a valorizzare il bello dell’uomo: ed ecco l’attenzione sui “blue shields”, il Comitato Internazionale dello Scudo Blu (ICBS) fondato nel 1996, "per lavorare per proteggere il patrimonio culturale mondiale minacciato da guerre e disastri naturali". E sull’attività davvero fondamentale del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, soprattutto in Iraq, i nostri “Caschi blu della cultura”.
Una mostra per non smarrire la memoria e condividere con i nostri cari, con le famiglie, con gli amici, con i compagni di classe significative e potenti immagini da non dimenticare e un patrimonio di cui essere fieri.
Orari:
martedì, giovedì e sabato dalle ore 14 alle ore 19
mercoledì, venerdì e domenica dalle ore 8.30 alle ore 13.30
Per informazioni:
museoarcheologico.mantova@beniculturali.it
Tel. 0376.320003
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27/03/16
La Resurrezione di Grunewald, un quadro meraviglioso e misterioso.
La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim
I Vangeli sono tutti di una sconvolgente discrezione: annunciano la Risurrezione senza descriverla; ne proclamano la realtà senza dire come Cristo è risorto dai morti.
Essi preservano così il cuore del mistero e scelgono di comunicarlo attraverso le apparizioni di Cristo che, dopo la Risurrezione, è in un’altra condizione — può essere presente senza essere riconosciuto, può attraversare le porte sbarrate — e si rivela rivolgendosi ai suoi, come fa con Maria di Magdala, quando la chiama per nome, o attraverso le parole che accendono in quelli che ascoltano il fuoco della fede. Cristo risorto si comunica già attraverso una sottigliezza della parola in grado di farci vedere con gli occhi dello spirito e del cuore.
È lo stesso e tuttavia è diverso, portatore di un’alterità che non altera l’identità della persona, ma la colloca in una realtà in cui il corpo non veste lo spirito, ma lo svela; non è contro lo spirito, ma ne è proprio l’espressione e manifesta il volto interiore.
Il mondo che Cristo rende presente attraverso la sua Risurrezione è il mondo della trasparenza, della piena coincidenza del corpo con lo spirito, della loro unità trasfigurata attraverso la vittoria sulla morte. Ciò che i Vangeli non dicono non è rimasto, tuttavia, nella zona dell’ineffabile e dell’invisibile, non era possibile. La storia del cristianesimo è anche una storia delle forme che riflettono significati che attribuiamo alla Risurrezione.
In questa prospettiva, tra i maestri dell’arte occidentale, Matthias Grünewald (1480-1528) trasmette in modo diverso il mistero della Risurrezione, con un’intensità e una profondità teologale mai raggiunte prima di lui.
Sull’altare di Isenheim la sua singolarità artistica si manifesta pienamente nella rappresentazione del Cristo risorto che non vediamo uscire vittorioso dal sepolcro mentre solleva il vessillo crociato come, per esempio, in Piero della Francesca o in tanti altri.
Sebbene la parte inferiore della tavola conservi la scena tradizionale delle guardie del sepolcro, sorprese dal sonno e terrorizzate da ciò che accade, Grünewald dipinge un Cristo trasfigurato che infilza il “velo” della notte cosmica del silenzio e dell’attesa.
Il suo corpo diffonde la luce interiore della natura divina; è, di fatto, una concentrazione di luce, un «riflesso della divinità», come diceva Gregorio Nazianzeno, che si fa visibile attraverso una creatura trasparente, di una mitezza infinita, la cui vittoria ha il volto eterno dell’amore.
Il potere di Cristo risorto è, nella visione di Grünewald, l’espressione del suo amore che si mostra ai nostri occhi attraverso la manifestazione riconciliata — sotto la forma di una croce che comprende tutto l’universo — dei segni della sofferenza divenuti sorgente di luce.
fonte Osservatore Romano, 4 aprile 2015.
La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim, particolare
Il mondo che Cristo rende presente attraverso la sua Risurrezione è il mondo della trasparenza, della piena coincidenza del corpo con lo spirito, della loro unità trasfigurata attraverso la vittoria sulla morte. Ciò che i Vangeli non dicono non è rimasto, tuttavia, nella zona dell’ineffabile e dell’invisibile, non era possibile. La storia del cristianesimo è anche una storia delle forme che riflettono significati che attribuiamo alla Risurrezione.
In questa prospettiva, tra i maestri dell’arte occidentale, Matthias Grünewald (1480-1528) trasmette in modo diverso il mistero della Risurrezione, con un’intensità e una profondità teologale mai raggiunte prima di lui.
Sull’altare di Isenheim la sua singolarità artistica si manifesta pienamente nella rappresentazione del Cristo risorto che non vediamo uscire vittorioso dal sepolcro mentre solleva il vessillo crociato come, per esempio, in Piero della Francesca o in tanti altri.
Sebbene la parte inferiore della tavola conservi la scena tradizionale delle guardie del sepolcro, sorprese dal sonno e terrorizzate da ciò che accade, Grünewald dipinge un Cristo trasfigurato che infilza il “velo” della notte cosmica del silenzio e dell’attesa.
Il suo corpo diffonde la luce interiore della natura divina; è, di fatto, una concentrazione di luce, un «riflesso della divinità», come diceva Gregorio Nazianzeno, che si fa visibile attraverso una creatura trasparente, di una mitezza infinita, la cui vittoria ha il volto eterno dell’amore.
Il potere di Cristo risorto è, nella visione di Grünewald, l’espressione del suo amore che si mostra ai nostri occhi attraverso la manifestazione riconciliata — sotto la forma di una croce che comprende tutto l’universo — dei segni della sofferenza divenuti sorgente di luce.
fonte Osservatore Romano, 4 aprile 2015.
La Resurrezione di Matthias Grünewald (1480-1528) - Trittico dell'altare di Issenheim, particolare
18/03/16
Due camere segrete nel sepolcro di Tutankamen - "Forse è la tomba di Nefertiti".
La scultura originale del busto di Nefertiti, conservata presso il Neues Museum di Berlino.
"C'è "almeno il 90% di possibilità" che nel sepolcro di Tutankamen a Luxor vi siano due camere segrete, mai scoperte sinora né dagli archeologi né dai tombaroli."
Lo ha affermato il ministro delle antichità egiziano Mamdouh al-Damati illustrando i risultati di studi condotti con sofisticati mezzi radiologici da un'equipe giapponese.
La quasi certezza alimenta quella che ormai è diventata una leggenda, ovvero la presenza, accanto a quella di Tutantakamen, della tomba della regina Néfertiti.
Secondo altri studiosi nelle camere segrete potrebbe trovarsi la moglie del faraone Akhenaton, padre di Tutankamen, o una delle sue figlie.
Entrando nel dettaglio dello studio condotto dalla squadra dell'esperto giapponese Hirokatsu Watanabe, il ministro ha spiegato: "Ci sono degli spazi vuoti, ma non totalmente vuoti, infatti congengono materiali organici e metalli".
Quindi il ministro ha precisato che ha fine marzo nel sepolcro verranno realizzate ricerche più capillari e accurate.
Risalente a 3300 anni fa, a differenza dei sepolcri degli altri faraoni la tomba di Tutankamen non è mai stata saccheggiata.
Scoperto nel 1922 dall'archeologo britannico Howard Carter, il sepolcro celava oltre 5000 oggetti intatti, di cui buona parte in oro massiccio.
l'apertura della tomba di Tutankamen, nel 1922 da parte di Howard Carter
17/03/16
"Rotta delle civiltà" di Fabrizio Falconi.
Rotta delle Civiltà
Non so come questa
vecchiaia sia arrivata. Non me ne rendo proprio conto. Il mio nome – Yeronimus
- e il mio mestiere – Grande Viaggiatore –
sono stampigliati a lettere d’oro sulla copertina di una pubblicazione che
odora di cuoio fresco.
Sono io quello. E’ il
mio nome. E mi domando come abbia fatto quel me stesso ad arrivare fin qui. E
come possa essere io, il medesimo di allora.
Eppure ogni volta,
ogni volta, ogni volta che il cuore pensa, ritrova lo stesso frutto dei
desideri, e tremori, follie: rinasce. Anche se sono soltanto un vecchio, una
energia sempre nuova discende dal cielo, e mi bagna ancora. Quintessenza,
materia oscura, ghiaccio che scotta, esiste dall’inizio dei tempi, e io ne
faccio parte, finché mi è dato.
Quando la prima nave
staccò la prua dal porto, mi dissi: “il mondo ti appartiene“ e invece ora so
che mi aspettava soltanto un viaggio di trasformazione. Tutto è cambiato, anche
se io sono lo stesso di allora.
Anche se sono lo
stesso di allora, adesso mi specchio nella paura di una notte infinita.
A quale scopo, mi
chiedo, il terrore si diverte ? Davvero
la parvenza della mia vita, come quella di chiunque altro, è destinata a
sciogliersi, come si scioglievano le vele nell’azzurro dei tropici ? Davvero
dietro ad ogni miraggio appare l’ombra di una resa ?
Il viaggio sta per
chiudersi, l’ancoraggio è vicino, e dai venti invernali stavolta non mi salverà
nessuno. Eppure guardo dalla finestra il lento spegnersi delle luci al confine
della foresta, e so che domani, forse,
tornerò a rivederle spegnersi un’altra volta. Mi rimarrà questo conto
scarno di giorni, e non sarò io a decidere quando fermare la testa sul cuscino,
per lasciare che la mano bluvenosa della morte carezzi i miei capelli.
Voglio dire quel che
ho visto. Voglio liberare ancora una volta il cuore: se chiudo gli occhi, sento
gli stessi profumi di allora, il canto dolce e amaro del mare sul viso. Le
corde di canapa ruvide intorno alla vita, il silenzio disperato di pomeriggi
infiniti. Le amanti accarezzate, il
destino che ho letto nel loro fuggirmi, alla fine di ogni sosta. Lo rivedo come se fosse adesso, e lo posso
raccontare:
ero libero, ero io.
Ero, nei pomeriggi
infiniti.
Ero al centro di
tutto. Ero in piedi sulla rocca più alta della città, ero sotto un cielo che
non ho più visto. Pieno di colori e ombre, di portenti e silenzi.
Ero io quello che si
immerse nel mare.
Ero io quello che
restò a galleggiare, sospeso tra cielo e mare.
Ero il misterioso
essere che mi contiene.
Ero il contenuto
pulsante che viveva, e pensava. E sognava.
Ero io, come sono io
ora.
Ma ora, che
le tenebre avanzano, l’uomo col messale legge i Suoi decreti. E davanti a lui
c’è il me stesso che sono: il vecchio che non dorme e preferirebbe il sonno
alle parole, e finisce per disperarsi, che aspetta il Tempo, che non ha tempo,
che aspetta un morbo lontano, che lo ipnotizzi. Il vecchio che si abbandona al
soffio di una melodia, e senza certezze dilania i suoi discorsi a furia di morsi
amari. Il vecchio appeso a un filo che
ha imparato persino a pregare.
Alla mia età, che ho
visto tutto, non ho visto ancora niente.
Non ho visto il
meglio e non ho visto il peggio. E sulla prima pagina del libro c’è scritto:
Attraversi il mare con
un guscio di noce, guardi le stelle, ti affidi al vento, e non sai niente della
nera tempesta che avanza. Sei chiamato a scavalcarla un’altra volta,
affidandoti al coraggio del cuore, affidandoti soltanto…
Fabrizio Falconi (C) - 2010 riproduzione riservata
immagine in testa tratta da : Il vecchio e il mare (Старик и море), cortometraggio d'animazione del 1999, diretto da Aleksandr Konstantinovič Petrov, vincitore dell'Oscar al miglior cortometraggio d'animazione nel 2000.
16/03/16
La meravigliosa Galleria Farnese affrescata da Annibale Carracci a Roma - Un volume di Silvia Ginzburg.
La Galleria Farnese affrescata da Annibale Carracci
Primo titolo della collana “In primo piano”, La Galleria Farnese, presenta la volta affrescata
all’interno dell’omonimo palazzo oggisede dell’Ambasciata di Francia, da Annibale Carracci con la
collaborazione del fratello Agostino tra il 1598 e il 1600 per il
cardinale Odoardo Farnese: un ciclo di primaria importanza artistica
che, a dispetto della sua fortuna nei secoli è oggi, tra i grandi monumenti
della sua epoca, uno dei meno conosciuti.
Costruito
attorno a una campagna fotografica eseguita per l’occasione da Zeno Colantoni,
il volume permette di percepire, nell’avvicinamento progressivo dalla visione
d’insieme ai macrodettagli, il susseguirsi delle invenzioni, le varianti di
stile, le caratteristiche della tecnica esecutiva degli affreschi della
Galleria Farnese. Oggetto di una simile lettura ravvicinata, la
decorazione della Galleria, celebrata fino al XIX secolo quale modello della
cultura classicista e d’accademia e proprio per questo poco considerata dalle
stagioni critiche successive, dominate dal prevalere del gusto per il
naturalismo, si rivela ricca di passaggi inaspettati proprio sul fronte
della pittura di genere basso, a conferma dell’intento, già registrato
dai contemporanei di Annibale, di dar vita a una decorazione in cui potessero
trovar posto tutti i generi, dal tragico al comico, e il dispiegarsi di
un linguaggio che fosse il risultato della fusione dei diversi accenti della
tradizione pittorica italiana.
Palazzo Farnese
I dati stilistici, tecnici,
iconografici, resi facilmente leggibili dalla campagna fotografica e
riletti alla luce delle testimonianze delle fonti più antiche e dei più recenti
contributi storiografici, indicano infatti l’opportunità di tornare a
considerare la Galleria Farnese, in piena consonanza con quanto indicato dalle
voci più antiche, il momento più alto del tentativo compiuto dai Carracci e
perseguito soprattutto da Annibale, di coniare un linguaggio pittorico
che potremmo definire multidialettale, frutto dell’unione degli accenti
proprii delle scuole pittoriche regionali quali si erano imposte all’apertura
del Cinquecento. Come avevano inteso i suoi primi sostenitori, nella Galleria
Annibale ha voluto combinare gli ingredienti distintivi della maniera
moderna – i modelli della scultura antica, di Michelangelo, Raffaello,
Tiziano, Correggio, Parmigianino – rifondendoli in uno stile tanto più nuovo
in quanto, per la prima volta dopo la lunga stagione del tardo manierismo,
tornava a riverificare ogni invenzione sulla natura, come attestato dal
ricchissimo corpus di disegni
preparatori, di cui si esaminano nel saggio introduttivo alcuni esempi. Alla
luce di questa analisi, e ancora una volta in accordo con quanto indicato dalle
voci critiche più vicine ai Carracci, la Galleria Farnese si rivela come il testo
figurativo più dichiaratamente e radicalmente antimanierista della
storia della pittura italiana.
Il volume ripercorre le tappe
principali della vicenda critica degli affreschi farnesiani, tornando a
considerarne i punti più spinosi, dalla questione relativa al significato
dell’iconografia della decorazione, al rapporto tra la volta, i lati brevi e i
lati lunghi della sala, al problema della datazione, fino ad aspetti più
trascurati dagli studi, su cui il nuovo materiale fotografico permette di
ragionare con nuovi elementi, quali la già ipotizzata partecipazione di
Agostino alla decorazione della volta al di là delle due storie maggiori, da
sempre ascrittegli dalle fonti, o il problema finora di fatto
inesplorato relativo alla partecipazione della bottega di Annibale alla
decorazione della volta. In questo modo il volume permette di studiare i
molteplici aspetti di quella che davvero paradossalmente resta un’opera tra le
meno note del suo tempo, pur essendo il capolavoro di un artista oggi
oggetto di nuovo interesse da parte degli studi e del grande
pubblico: un'opera di cui è tempo di riconoscere pienamente il ruolo e
l’importanza nel panorama artistico italiano ed europeo.
Il volume Electa curato da Silvia Ginzburg
Silvia Ginzburg: già docente a contratto presso l’Università della Calabria,
insegna dal 2004 Storia dell’arte moderna presso l’Università degli Studi di
Roma Tre. Il suo ambito di studio riguarda in particolare la cultura artistica
del Cinque e Seicento. Ha
pubblicato le sue ricerche sui Carracci, con nuove proposte di attribuzione e
cronologia, in riviste scientifiche, in atti di importanti convegni (con Sybille Ebert-Schifferer, “Nuova luce su Annibale
Carracci”, in corso di stampa), e in alcuni cataloghi di mostre, quali “Domenichino
1581-1641” (Roma 1996), e “Annibale Carracci” (Milano 2006). Gli
affreschi della Galleria Farnese sono stati oggetto di una sua pubblicazione
monografica, “Annibale Carracci a Roma. Gli affreschi di Palazzo Farnese”,
Roma 2000. Ha lavorato inoltre sui rapporti tra Roma e Parigi attorno a
Nicolas Poussin e sulla genesi della prima edizione delle Vite di Vasari (in Testi,
immagini e filologia nel XVI secolo, Pisa 2007).
Con Barbara Agosti e
Patrizia Zambrano cura una collana di saggi di storia dell’arte per Electa,
nell’ambito della quale ha pubblicato la raccolta “Obituaries. 37 epitaffi
di storici dell’arte nel Novecento” (Milano 2008).
15/03/16
5 anni dall'inizio della Guerra in Siria. Il miracolo della biblioteca tra le rovine.
La biblioteca sotterranea di Daraya, in Siria
E' una data tristissima, oggi.
L'anniversario di una delle guerre più sanguinarie e feroci, che all'alba del Terzo Millennio, insanguinano il pianeta.
La guerra civile in Siria è una ferita aperta per ogni uomo. E mentre oggi vengono in mente tutte le migliaia di persone innocenti che hanno perso la vita, c'è una notizia che pare una sorta di miracolo nell'orrore. Ad essa forse vale la pena destinare la nostra attenzione.
Sopra la devastazione di una guerra che dopo cinque anni non finisce, infatti, sotto i bombardamenti e l'assedio del regime, c'è uno scantinato che è stato trasformato in biblioteca, con 15 mila volumi che i ribelli siriani hanno salvato dagli appartamenti e dalle scuole distrutte.
Gli abitanti di Daraya, quartiere alla periferia di Damasco, sono stati tra i primi a sollevarsi contro Bashar al Assad, tra i primi a prendere le armi per reagire alla depressione: erano studenti, insegnanti, impiegati, gente qualsiasi. Tra di loro anche Ahmad, uno degli organizzatori di questa biblioteca improvvisata, che insieme ad una quarantina di attivisti, durante gli scontri, hanno preso qualche rischio in più per scavare tra le macerie e mettere in salvo il maggior numero di libri possibile.
Il sotterraneo ha un nome ufficiale: Fajr, cioè Alba. E, coprifuoco permettendo, mantiene l'orario di apertura dalle 11 del mattino alle 17.
Ogni giorno venti, trenta persone, passano e si fermano a leggere al riparo dei barili-bomba, oppure prendono un libo e lo portano al fronte.
Tra i libri salvati, anche molti titoli e autori proibiti dal regime. Ma anche molti libri e autori occidentali, e moltissimi libri per bambini.
Non so se è un segnale di speranza.
E' sicuramente un segno di resistenza umana. Nel fragore immondo della guerra. E non è poco.
Fabrizio Falconi
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