06/11/20

La Regina degli Scacchi, una bella serie tv. Ma il romanzo è un'altra cosa.

 



La Regina degli Scacchi (The Queen's Gambit è il titolo originario anche del romanzo, cioè "Il gambetto della Regina", che è una celebre mossa del gioco degli scacchi), è la nuova serie Netflix che sta spopolando un po' in tutto l'occidente e anche in Italia, come successe un anno fa per Unhortodox, non a caso anche quella una storia tutta al femminile, di sottomissione e di riscatto. 

La serie, va detto subito, è un ottimo prodotto, in sette lunghe puntate (ciascuna più di un'ora), con straordinarie ricostruzione di interni, costumi (la storia è ambientata negli anni '60 negli USA) e ambienti, con una colonna sonora ottima (Carlos Rafael Rivera) e una interprete brava e adatta (Anya Taylor-Joy) nel ruolo di Beth Harmon, la ragazzina prodigio che scala le vette più alte della scacchistica nazionale e internazionale. 

Ciò che però stona, nella serie, è la profonda differenza rispetto allo straordinario romanzo da cui è tratta, scritto da Walter Tevis nel 1983. 

Il personaggio di Beth, nella serie, è trasformato in salsa glamour (vestiti elegantissimi, fascino, sicurezza, autocontrollo), completamente diverso dal personaggio immaginato da Tevis.   Per ovvie ragioni di appetibilità televisiva anche le competizioni, cioè le partite sono rese in modo del tutto inverosimile - con le mosse che vengono compiute dai giocatori praticamente in automatico, senza pensare nemmeno un decimo di secondo, quando chiunque sa che ogni mossa delle competizioni di alto livello è meditata a lungo - o a lunghissimo - e le partite durano ore intere - a volte giornate - proprio per questo.

Ma torniamo al romanzo.

The Queen's Gambit è considerato il capolavoro di Walter Tevis, morto l'anno seguente, e il suo penultimo romanzo. 

Autore raffinato e appartato Tevis ha scritto una raccolta di racconti e sei romanzi, i quali hanno avuto molta fortuna, con celebri adattamenti cinematografici, come quelli tratti da L'uomo che cadde sulla Terra, scritto nel 1963 e portato sullo schermo da Nicholas Roeg (con Bowie protagonista), Lo spaccone (1959), diventato un classico del cinema con Paul Newman protagonista e Il colore dei soldi (1984), il suo ultimo romanzo, trasposto al cinema da Martin Scorsese, ancora con Newman protagonista e il giovanissimo Tom Cruise. 

La Regina degli Scacchi però, merita un posto a parte. 

Si tratta di un romanzo perfetto, che ha come protagonista l'orfana Beth Harmon e ne segue passo passo le vicende dalle stanze dell'oscuro orfanotrofio cattolico nel quale viene accolta dopo la morte dei genitori, fino ai palcoscenici più esclusivi del gioco degli scacchi, nel quale si dimostra precocemente un puro genio.

Beth inizia a giocare quasi per caso, quando scopre nello scantinato della scuola, il vecchio e burbero custode giocare da solo davanti alla scacchiera al lume di una fioca lampada.

Come avviene per i colpi di fulmine della psiche descritti da James Hillman ne Il codice dell'anima, Beth si sente risucchiata da quello strano oggetto - la scacchiera - e dalla dinamica misteriosa del gioco. Impara in breve tempo, in breve tempo il suo cervello comincia a concentrarsi unicamente su quello. Riesce a battere in poco tempo il suo maestro, poi vola rapidamente sempre più alto, imparando da un manuale trafugato i rudimenti del millenario gioco.

Una volta adottata dalla stramba signora Withley e dal suo pessimo marito, Beth comincia a giocare ad alto livello: torneo dopo torneo, anche i media cominciano ad accorgersi di lei e negli anni '60-'70 in cui il libro è ambientato, Beth finisce addirittura per diventare - a soli sedici anni - l'orgoglio della nazione americana che ha finalmente un grande maestro da opporre agli invincibili dominatori sovietici.

Il pregio di questo meraviglioso libro è soprattutto nello stile e nella narrazione trasparente, sospesa ed essenziale che ricorda un altro capolavoro coevo, Stoner di  John Williams, da poco riscoperto e diventato un caso editoriale mondiale.

Non ha cadute, non ha pause, e tutto procede come un treno senza fermate fino alla fine. Beth è un commovente, vivo personaggio, che resta nel cuore di ogni lettore. Tevis riesce a mantenersi così neutro da evitare ogni smaccata empatia, ogni partecipazione eccessiva con il suo personaggio, che vive di vita propria e non ha bisogno di nessuna sovrastruttura, di nessuna costruzione narrativa.

Così anche il lettore è costretto ad osservarla, senza "tifare": per molte e molte pagine il lettore non sa anzi se sperare che Beth vinca o perda. E' chiaro che vincere per lei, e vincere fino alla fine, trionfando nella partita finale contro il campione del mondo russo Borgov sarebbe l'apoteosi di un riscatto esistenziale. Ma dietro questo successo si nascondono anche molte ombre e gli scacchi - come l'insegnamento universitario per Stoner - sono anche un modo per Beth per eludere la vita, per non affrontarla veramente, per attenuarne le feroci sofferenze.

Il fatto però che la ragazza sopravviva così strenuamente alla autodistruzione è plausibile e catartico.  E' una lezione anzi, che oggi sembra più che mai importante.

Anche i personaggi di contorno sono fenomenali: l'amica di orfanotrofio Jolene, la madre adottiva, così fragile e vera, la signora Withley,  il Signor Schaibel, il custode, e lo stesso Benny, ragazzo prodigio come Beth e come lui autisticamente isolato dal mondo.

Un romanzo veramente perfetto dunque, praticamente impossibile da trasporre nella fiction senza tradirne il nucleo originario: 

nella serie in particolare si è deciso di omettere quasi del tutto il cupio dissolvi della protagonista che, in particolare dopo la morte della matrigna, la avviluppa in una angosciosa autodistruzione e che nel romanzo occupa più della metà delle pagine, mentre nella serie è relegata appena ai margini.  

Si perde inoltre tutta la voce interiore che caratterizza il libro, la voce di Beth, il travaglio psicologico, la sofferenza, che è la grandezza del romanzo. 

E' ovvio che probabilmente non poteva essere diversamente da così, in una serie tv pensata per il grande pubblico onnivoro. 

Sarebbe però un bel successo se la serie televisiva riaccendesse l'interesse e la curiosità su questo libro e su questo autore, che meriterebbero davvero di essere conosciuti e letti in misura molto maggiore di quanto accade oggi.

Fabrizio Falconi - 2020  






Juliette Récamier, la Donna più bella di Francia - 13


 Juliette Récamier, la Donna più bella di Francia - 13

Juliette dunque, partita per la Svizzera nell'estate del 1832 (ha ora 55 anni), va a stare da una vecchia amica a Castle Arenenberg; Chateaubriand (che di anni ne ha 64), lascia la moglie con un conoscente a Lucerna, poi aspetta Juliette in una locanda di Costanza.
Poco dopo Juliette arriva, ma la locanda è addobbata per un matrimonio e i preparativi nuziali colmano la coppia di malinconia.
Decidono di andare sul Bodensee, noleggiano una barca, approdano su una spiaggia di ciottoli; attraversano una siepe di salici e scoprono un viottolo di sabbia che si snoda tortuosamente tra prati molto curati e arbusti ornamentali.
Un velo di crochi di fine estate copre l'erba inducendo nell'anziano cavaliere tristi riflessioni, dalla vicina casetta del custode fluttua una melodia incantevole suonata da un'arpa e da un corno che cessa non appena si fermano ad ascoltare.
Si siedono vicino a lago ed egli legge ad alta voce una composizione che ha scritto sulla gola alpina del Passo del San Gottardo, così cara ai romantici.
Juliette lo implora di scrivere qualcosa nel suo diario. Egli osserva che la pagina è già riempita per metà da una annotazione riguardante la morte di Rousseau e sotto questo appunto scrive:
"Non desidero, come Rousseau, morire. Per molti anni ancora voglio il sole, se posso continuare a stare al vostro fianco. Spero che i miei giorni spireranno ai vostri piedi, come queste onde il cui mormorio voi amate."
Queste righe stabiliscono esattamente lo spirito nel quale egli vivrà gli anni che gli restano: in un certo senso, sarà sempre suo.
Alla trionfante Juliette ormai non rimane che un ultimo girarsi, un'ultima occhiata all'indietro verso i morti: porta Chateaubriand a Coppet, poco distante, sulla tomba di Germaine M.me de Stael.
Chateaubriand muore nel 1848.
13-segue

Fonte: Dan Hofstadter, La storia d'amore come opera d'arte

05/11/20

Le strade del cuore di Gigi Proietti a Roma, la sua Roma.


Una città che e' tutto il mondo.
Gigi Proietti, figlio della capitale e del teatro, a cui la città oggi ha tributato l'ultimo saluto,  veva quel senso della romanità che mischia e rigenera, unisce e riassume tenendo insieme il verso piu' aulico e la battuta fulminante. 

La sua Roma era popolare ma gia' nobile come del resto le sue origini, nomadi tra la strada piu' rinascimentale della citta' e i quartieri piu' lontani dal centro. 

"Sono nato in una traversa di via Giulia, una strada bellissima, un tempo era il corso papale, ma a 10 mesi gia' avevo cambiato casa: ci trasferimmo dietro villa Celimontana, a via dei Santi Quattro. Poi sono finito in periferia, al Tufello, in una casa popolare", scrive lui stesso in una mini guida di Roma e dei suoi posti del cuore

Poi il Liceo Augusto a via Appia, dopo le elementari e le medie alla Vittorino da Feltre, e la Capitale notturna dei locali dove, ad adolescenza conclusa, tentava gia' la strada istrionica e l'urgenza dello spettacolo sebbene iscritto a Giurisprudenza alla Sapienza. 

Di quei night dove cantava , anche, con malinconia ricordava "non ne e' rimasto neanche uno, sono spariti tutti" ma la voce allenata in quei locali fumosi era gia' un ferro del mestiere affidabile che lo fara' essere persino chansonnier scanzonato e sentimentale all'occorrenza, perche' essere attore e' tutto, un po' come essere romano. 

E tra i posti del rimpianto giovanile, dell'eta' in cui sperimentava cosa sarebbe stato da Grande, Proietti ci mette non solo le serate con i "fagotti" e la famiglia nelle trattorie dell'Appio Latino ma anche il Tevere, ci mancherebbe. Ma quel fiume non e' quello di adesso, il fiume di allora viveva con Roma ora invece sembra una ferita che stenta

"Ora sopravvivono, invece, alcuni barconi sul Tevere: mi ricordo quanto erano affollati, ai romani piacevano molto, andavano, prendevano il sole e facevano il bagno. Oggi ce ne sono alcuni che cercano di rivitalizzare quella tradizione, ristoranti e locali anche molto carini, ma un tuffo non si puo' piu' fare, chi nuoterebbe mai in quello che un tempo era il "biondo fiume"? , chiede ricordando poi l'isola dei romani, cioe' Ponza dove aveva casa e li si' che andava a farsi tuffi e bagni, spingendosi col suo gommone fino a Palmarola "per alcuni ancora piu' bella". 

Ma poi, siccome e' un attore, la topografia personale inizia a confondersi con quella artistica, entrambe mappe sentimentali pero' e sempre, sempre, con la citta' policentrica e mai rilegata dentro le mura. 

E cosi' e' dal Flaminio che nasce Proietti, dal Teatro Tenda di piazza Mancini nel '76, da quel A me gli occhi, please dove si riversa mezza Roma, ma anche Eduardo, Fellini e l'allora sindaco Argan

E' il teatro, vero, popolare ma anche colto, da Shakespeare a Petrolini. Perche', artista e artigiano, Proietti mescola anche il romanesco con i versi, anzi ne fa poesia e proprio nella sua lingua madre che omaggia un altro immenso romano, Alberto Sordi che non era piu'. 

E sulla linea del tempo il Teatro Tenda, dopo il Brancaccio e il Brancaccino, porta dritto al Globe, fatto dopo la folgorazione del fratello londinese, che sboccia a Villa Borgese (dove da bimbo andava al Cinema dei Piccoli) e voluto sulla pianta del tempio shakesperiano: tutto in legno, prezzi pop e chi non sta nei palchetti "si deve portare i cuscini". 

Una visione, anzi "una mandrakata", come disse lui stesso (altro posto iconico l'ippodromo di Tor di Valle in Febbre da cavallo), che registra sempre il tutto esaurito e si affida a nidiate di attor e attrici giovani. 

Ma Proietti voleva ancora dare, i suoi progetti non si erano esauriti al Globe. 

In un'intervista a Gloria Satta al Messaggero confessa la sua inesauribile urgenza di dire e fare partendo sempre dalla romanita' universale: l'allestimento di Tosca e la riduzione teatrale di Casotto, il film di Sergio Citti. E non finisce qui. Pensava anche, e come sempre, ai giovani romani. 

"Voglio mettere in piedi Radio Raccordo Anulare, un progetto che mi frulla in testa da anni. Un'emittente gestita da giovani per tenere collegate e informate tutte le zone della citta', specie le periferie: il problema, in una metropoli come la nostra, e' la comunicazione. I romani devono conoscersi, non rimanere distanti come isole", diceva nella stessa intervista. 

E ancora per lo strano compleanno in lockdown della Capitale, 21 aprile 2020 in piena clausura causa covid, torno' sulla citta' stigmatizzando chi descriveva Roma vuota e chiusa come "spettrale". "Roma e' stanca e ha diritto di riposarsi", scolpi' lapidario con quella voce, vissuta ma granitica, che e' gia' un monumento ai Fori Imperiali. 

La voce di uno di Roma, figlio del mondo. 

03/11/20

Libro del Giorno: "Le cose dell'amore" di Umberto Galimberti

 


Quando dico “ti amo” che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto, chi parla? Il mio desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? Non c’è parola più equivoca di “amore” e più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione.

Tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto esperienza che l’amore si nutre di novità, mistero e pericolo e ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall’idealizzazione della persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l’amore in un affetto privo di passione o nell’amarezza della disillusione.

Qui Freud ci pone una domanda: “Quanta felicità barattiamo in cambio della sicurezza?”.

Umberto Galimberti ci consegna un volume in cui l’acutezza del pensiero penetra i meandri del sentimento e del desiderio, registrando i mutamenti intervenuti nelle dinamiche dell’attrazione, nel patto con l’amato/a, nei percorsi del piacere (dall’onanismo alla perversione). Sullo sfondo si muove, come un fantasma, continuamente evocato e rimosso, quello che propriamente o impropriamente gli uomini non smettono di chiamare amore.

In 19 capitoletti di poche pagine - originariamente articoli apparsi su La Repubblica -  densissime, la parola amore viene declinata con parole-corrispettivo, in un range che ne scandaglia ogni risvolto:  Trascendenza; Sacralità; Sessualità; Perversione; Solitudine; Denaro; Desiderio; Idealizzazione; Seduzione; Pudore; Gelosia; Tradimento; Odio; Passione; Immedesimazione; Possesso; Matrimonio, Linguaggio; Folli






Juliette Récamier, la Donna più bella di Francia (12)


 

Juliette Récamier, la Donna più bella di Francia (12)

Ma Chateaubriand rispose che quella proposta aveva risvegliato in lui "dolorose memorie" e che purtroppo non poteva accettarla.
Disperata, sentendo venir meno la determinazione, Juliette lasciò Roma poco dopo Pasqua e arrivò a Parigi alla fine di maggio.
Pochi giorni dopo il suo arrivo, Chateaubriand andò a farle visita nel piccolo appartamento all'Abbaye-aux-bois. Fu un incontro decisivo.
Non si vedevano da circa 20 mesi, tutti e due erano notevolmente invecchiati e dovevano essere pieni di timori. E secondo le testimonianze, non una parola di rimprovero comunque fu pronunciata da nessuno dei due.
Questo è molto credibile. Juliette aveva sempre avuto il dono di riuscire a trasformare in amicizia l'altrui desiderio e ora, rassegnandosi alla delusione permanente, si rese conto di dover applicare lo splendido incantesimo a se stessa.
Poteva essere per lui una cara amica, fargli da confidente, essere un'ame-soeur, ma nulla più: essere qualcosa di più era impossibile.
In quanto a Chateaubriand possiamo congetturare che il suo cuore fosse turbato dalla donna contenuta che gli stava davanti. Perché Juliette era ormai divenuta quello che lui amava e aveva sempre amato di più: era diventata un rudere, una rovina.
La loro vita insieme assunse dunque la sua ultima e mitica forma.
Nel frattempo Juliette era rimasta in ottimi rapporti col marito, Jacque Récamier; egli morì nel 1830, con gran dolore di lei.
Chateaubriand continuava ad andare da lei tutti i giorni alle due e mezza per prendere il tè insieme. E nel tardo pomeriggio se ne andava per cenare con la moglie.
Solo una volta Chateaubriand e Juliette furono insieme fuori di lì, il che avvenne durante l'estate del 1832 quando, all'inizio della grande epidemia di colera che si stava diffondendo per tutta Parigi, si accordano per incontrarsi in Svizzera.
(12 - segue)

Fonte: Dan Hofstadter - La storia d'amore come opera d'arte

02/11/20

E' morto Gigi Proietti - Perché è stato grande e lascia un vuoto non colmabile


Definire Gigi Proietti un "comico", come stanno facendo molti in questi ore, è come definire Nabokov un "cacciatore di farfalle", ed è il più grande sgarbo che si può fare in mortem, a questo grande attore.

Proietti è stato un gigante e ha segnato le nostre vite in modo indimenticabile. Personalmente, non so davvero quante volte sono corso a vederlo a teatro, sin da quando avevo 16 o 17 anni, per "A me gli occhi, please", che recitava al mitico Teatro Tenda di Piazza Mancini per mesi interi di repliche continuamente super-esaurite. Il pubblico sembrava non averne mai abbastanza. Rideva a crepapelle, piangeva quando c'era da piangere (quando declamava "questo amore") soprattutto si interrogava, si indignava, si faceva domande sul testo che il grande Roberto Lerici gli aveva cucito addosso e che lui ogni sera trasformava, plasmava, ri-creava ex novo, grazie alle sue stupefacenti doti tecniche d'attore e al suo cuore grande, senza risparmiarsi.
In più Proietti è stato anche l'ultima incarnazione dello spirito popolare romano - quello vero - che affonda nel tormento e nel disincanto dei secoli, arrivando fino a Fregoli e a Petrolini (suo vero riferimento sempre).
Per fortuna, dunque, Proietti è nato a Roma e resterà un tesoro di questa città, di quel che ne rimane, ancora a lungo.
Se soltanto il destino gli avesse concesso di nascere a Londra, egli senza dubbio sarebbe stato riconosciuto come uno dei grandi attori di teatro (mattatori o non) della scena mondiale. Anche perché il suo enorme talento gli consentiva di passare senza fatica dalle mandrakate al Sogno di Una notte di Mezza Estate di Shakespeare con la stessa eccellente bravura.
La sua grandezza era anche - certamente - come quella dei veri grandi, di non avere un ego auto-riferito. Chiunque lo ha conosciuto, conserva ricordi nitidi della sua generosità e della sua disponibilità all'ascolto, sempre.
Proietti lascia un vuoto non colmabile, a Roma (ma non solo a Roma, naturalmente) e la più stupida crudeltà mi sembra quella che, a causa di questa contingenza sanitaria globale, la sua città non potrà nemmeno accoglierlo a braccia aperte, con un funerale degno, di grande e calorosa folla e un interminabile ringraziamento, come avrebbe meritato.

Fabrizio Falconi - 2 novembre 2020

Juliette Récamier, la Donna più bella di Francia - 11


 Juliette Récamier, la Donna più bella di Francia (11)

Dal canto suo, Delécleuze si era infatuato in modo cupo e addirittura quasi autopunitivo di Amélie.
Nello stesso tempo Delécleuze presto inorridì perché Juliette incoraggiava avventatamente l'infatuazione del giovane Ampère.
Delécleuze si decise allora a scrivere una lettera di dura reprimenda a Juliette.
Secondo Delécleuze, quel pericoloso legame che si stava instaurando tra i due a Roma, permetteva a Ampère di mascherare il proprio desiderio fisico, mentre Juliette dissimulava il persistente accoramento per la rottura con Chateaubriand, adoperando per ripicca verso Chateaubriand, l'affetto di Ampère per il suo orgoglio ferito.
Ampère era sempre più pazzo di Juliette: inosservato dagli altri, come scoprì Delécleuze, prendeva gli abiti di Juliette strappandoli con i denti, pensando di baciarli.
La lettera di Delécleuze sortì qualche effetto: la donna chiese ad Ampère, per il suo stesso bene e anche per quello di lei, di darle un po' di respiro.
Per una apparente coincidenza, il padre di Ampère richiamò il figlio a Parigi. La partenza del giovane addolorò Juliette perché aveva bisogno dei suoi sospiri, della sua mano a sostenerla e disse poi a Delécleuze di aver provato un "terribile senso di vuoto" quando il giovane era partito.
Era terribilmente sola e, durante il secondo inverno passato a Roma, alla fine cedette alla nostalgia di Chateaubriand e lo invitò a raggiungerla.
11- segue

fonte: Dan Hofstadter - La storia d'amore come opera d'arte

01/11/20

Poesia della Domenica - "Incontro" di Karen Blixen

 


Incontro

Ah, quando sei lontano e nessuno
più nomina il tuo nome –
quando ovunque mi rechi sento
cupo e gelido un vuoto –

comincio a credere che tu sia solo un sogno
nato dalle brame della mia mente,
e a questo sogno ho dato vita e nome
e in ultimo il tuo aspetto –

– ma quando poi ti vedo e posso
sentire ancora le tue forti parole,
e posarti ancora il capo sulla spalla –
ascoltare ancora il suono della tua voce –

allora so che il resto è solo notte,
malvagi sogni che presto scorderò,
so che tu mi porti nella luce
e che in te dimorano la vita e il giorno

 

Tratto da: 

Poesie d’amore del ‘900 

Mondadori, 2001 (traduzione B.Berni) 

31/10/20

Libro del Giorno: "Pazza d'amore" di Adèle Hugo

 



L'amore non conosce misura.  Il dio dell'amore è anche un dèmone.

Ne erano perfettamente consapevoli i padri greci - che temevano la potenza di Eros - e quelli latini, i quali inventarono le categorie della temperanza e della giusta misura anche per mettere i freni a ciò che può sottomettere l'essere umano dal suo interno, trascinandolo in un gorgo senza uscita. 

E la figura di Adèle Hugo, la seconda figlia del grande Vate della letteratura francese, nata nel 1830 è da questo punto di vista, un caso di prammatica, o da antologia.  La sua figura ha da sempre attratto studiosi e artisti,  esercitando sui lettori della sua vicenda e delle sue poche lettere sopravvissute, una sorta di culto, in nome della sofferenza o del dolore d'amore - ancor più se senza criterio o smisurato - che forse tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita, pur senza incorrere nell'itinerario autodistruttivo della povera Adèle. 

Per immaginarla, scrive Manuela Maddamma nel bellissimo libro che ha curato con competenza di traduttrice e curatrice, disegnando un percorso così affascinante che è praticamente quasi impossibile smettere di leggere prima di essere alla fine,  bisogna dimenticare il volto sublime di Isabelle Adjani, che nel 1975 il grande Francois Truffaut chiamò per vestire i panni della donna, nel suo bellissimo Adèle H. 

Adèle era infatti sì splendida, come la descrivono le cronache d'epoca, ma la sua bellezza sfiorì assai presto, e si trasformò nel suo contrario, mano a mano che lei stessa precipitava nel burrone della sua perdizione.

Sulla giovane ebbe certamente influsso nefasto la morte, per annegamento nelle acque della Senna, della sorella maggiore, Léopoldine, che aveva all'epoca solo diciannove anni insieme all'uomo che aveva appena sposato.

La tragedia colpì per primo il padre, Victor Hugo che decise di ritirarsi nella casa buia di Hauteville House, la villa fdi Guernsey, un'isola sperduta nel Canale della Manica, dove andò a vivere insieme alla famiglia, e dove organizzava sedute spiritiche, per cercare di mettersi in contatto con la figlia scomparsa. 

Fu proprio qui che il tenente inglese Albert Pinson, il quale prestava servizio sull'isola, precipitò nel destino di Adèle, seducendola su una terrazza a strapiombo sul mare.

Un amore fortissimo - da parte di Adèle - e quanto mai fuggevole, durato pochissimo, perché il giovane tenente quasi subito si dimostrò del tutto indifferente all'idea di sposare Adèle: non solo, le confessò tranquillamente di non amarla,  e che lei non sarebbe mai stata la donna della sua vita.

La tremenda dichiarazione e la conseguente separazione, non minarono affatto il desiderio di Adèle: lo rafforzarono anzi in senso parossistico. 

La ragazza ricorrerà ad ogni sotterfugio e menzogna per riconquistare il tenente, scapperà di casa, annuncerà ai suoi genitori per lettera un matrimonio inesistente, continuerà a inseguire la sua inutile e inutilizzabile fantasia addirittura dall'altra parte dell'oceano, ad Halifax, in Canada, dove Pinson è stato mandato col suo reggimento; starà via da casa per sette lunghi anni, illudendo continuamente la sua famiglia con propositi di ritorno mai messi in pratica; finirà per ammalarsi e ridursi a vivere come una mendicante, sempre nell'unica speranza di poter un giorno riconquistare il suo amore, che intanto continua ad umiliarla, facendosi vedere in giro con altre donne. 

Ormai prossima alla follia, Adèle fa finalmente ritorno a casa, senza riuscire a rivedere la madre, che muore probabilmente anche per il dolore causato dalle vicende delle sue due figlie,  per essere ricoverata e trascorrere i suoi giorni e anni (morirà soltanto nel 1915) in manicomio. 

Una vicenda tragica dunque, borderline, come si direbbe oggi, che suscita interrogativi e pietà, ma induce anche a chiedersi di più sulla natura dell'amore, su cosa esso contenga, su come scelga di dirigere le sue acuminate frecce e di cosa è diventato oggi. 

Manuela Maddamma orchestra il lucido piano autodistruttivo di Adèle ricostruendolo con l'ausilio di lettere inedite, di Adèle e del giro dei suoi familiari, in primis del padre-patriarca Victor Hugo, sempre in bilico tra l'infinita pietà per sua figlia e l'imbarazzo di ciò che lei e la sua vicenda comporta per la sua reputazione e per il suo ruolo pubblico. 

La cosa che colpisce maggiormente è infatti, forse, proprio quella paralisi, quella impotenza che prende padre, madre e fratelli (i due fratelli maschi di Adèle), i quali pur nutriti da ogni buon proposito non riescono a fare nulla di nulla per riportare la ragazza a casa e distoglierla dal suo amore "tossico" (come direbbero gli psicologi oggi).

Una lettura che non si dimentica


La vera Adèle Hugo



30/10/20

In regalo oggi con Il Corriere della Sera il testamento di Liliana Segre "Ho scelto la vita"



Oggi venerdi' 30 ottobre Corriere della Sera regala ai suoi lettori "Ho scelto la vita", il libro che raccoglie l'ultimo discorso pubblico di Liliana Segre, nella Cittadella della Pace di Rondine (Arezzo): il ricordo dell'esperienza ad Auschwitz che la senatrice a vita, sopravvissuta alla Shoah, ha scelto di condividere lo scorso 9 ottobre proprio nel borgo toscano, a conclusione di oltre trent'anni di testimonianza. 

Il volume di 64 pagine, con la prefazione di Ferruccio de Bortoli, sintetizza l'impegno di Liliana Segre, oggi novantenne, che instancabile ha raccontato a migliaia di giovani, future sentinelle delle memoria, cio' che e' stato, e l'orrore vissuto, affidando a loro il compito di vigilare perche' la storia non si ripeta. 

Nel libro inoltre un'intervista esclusiva rilasciata da Liliana Segre ad Alessia Rastelli, giornalista di Corriere della Sera e curatrice del libro: un bilancio sulla sua vita e sul significato dell'impegno profuso in questi decenni, corredata da una scheda biografica conclusiva

"Corriere della Sera con questo libro vuole celebrare la forza, l'impegno e il coraggio di una donna a cui l'Italia sara' sempre debitrice." - spiega il direttore Luciano Fontana - "E' un onore per noi raccogliere il testimone che generosamente ci lascia Liliana Segre. A queste parole e' consegnato infatti il senso profondo della militanza sociale e civile della Senatrice a vita, il suo messaggio per i ragazzi, per noi, per tutti".

Un messaggio intenso da conservare e rileggere perché la memoria di quegli orrori resti sempre viva, come antidoto all'indifferenza e al negazionismo, e consenta un futuro in cui nessuno dovra' piu' sentirsi "respinto"

Juliette Récamier - La Donna più bella di Francia (10)

 


Juliette Récamier - La Donna più bella di Francia (10)

A 47 anni dunque, nel 1824, Juliette faceva ritorno a Roma, dove aveva molti amici.

Adorava visitare le rovine e le pinacoteche e si entusiasmava nel seguire la messa in chiese che erano grandi opere d'arte. Non passò molto tempo che il suo morale si sollevò e decise di prolungare la permanenza per tutto l'inverno seguente.
Sotto il sole di Roma si potevano vedere le striature grigie nei suoi capelli, ma con il viso dolce e gentile e gli occhi espressivi era ancora deliziosa. Era in viaggio con la nipote Amélie che aveva sedici anni.
Erano due donne molto desiderabili e presto trovarono due gentiluomini che si misero al loro servizio. Non erano italiani, come si potrebbe pensare, ma francesi e anche interessanti.
Il più anziano, allora vicino ai cinquanta, era il pittore e scrittore Etienne Delécleuze. Il più giovane, venuto a Roma al seguito di Juliette, era Jean-Jacques Ampère, il figlio del grande fisico, da parte suo appassionato studente di materie umanistiche e ventiquattrenne.
Ci potremmo aspettare che l'età matura sia attratta dall'età matura e la giovinezza dalla giovinezza; ma come in una cinica opera buffa, fu Delécleuze a provare una passione per Amélie, mentre Ampère fu attratto - in modo violento, disperato e, man mano che il tempo passava, imbarazzante - dal dolce splendore materno di Juliette.
Imberbe e penosamente goffo, Ampère era anche versatile, spontaneo, emotivo. E Madame Récamier divenne la sua materia di studio, a giudicare dalla profusione di pagine che le dedicò.
Le faceva quotidianamente visita nelle sue stanze in Via del Babuino e scortava lei e Amélie a Villa Pamphilj e a Villa d'Este.
La maggior parte del tempo, sentendo di essere indifferente a Juliette, Ampère aggrottava la fronte, si passava le mani fra i capelli e camminava stizzosamente avanti e indietro.
10 - segue

Fonte: Dan Hofstadter, La storia d'amore come opera d'arte

28/10/20

Thom Yorke a Roma: " Sono ossessionato dalla musica"


 Un legame tra musica, in forme sempre nuove e immagine e' da sempre al centro del lavoro di Thom Yorke, il leader dei Radiohead, che ha da poco debuttato anche come compositore di colonne sonore firmando le musiche di Suspiria di Luca Guadagnino. 

Capitoli artistici di cui ha parlato nell'ultimo Incontro ravvicinato della 15/edizione della Festa del Cinema di Roma. 

Oltre un'ora e mezza di conversazione con Antonio Monda e Francesco Zippel, centrato sulle colonne sonore, attraverso clip di film e video scelte dal rocker, da Incontri ravvicinati del terzo tipo a 2001 Odissea nello spazio, da Oltre il giardino alla serie sequel di Twin Peaks firmata da David Lynch ("Nessuno puo' essere libero come lui")

Nonostante il suo amore per il cinema Yorke dice no a un suo possibile debutto come regista: "La verita' e' che se avessi una vita parallela a questa, con tempo e spazi a disposizione, lo farei, ma non e' possibile, sono ossessionato da quello che cerco di realizzare musicalmente"

Poi "una cosa e' lavorare in studio, con i tuoi amici, un'altra e' fare quello che fa ad esempio un regista come Paul (Thomas Anderson, che ha diretto Anima, il corto legato all'uscita dell'omonimo album da solista di Yorke del 2019). Avere a che fare con un immenso cast tecnico e artistico, senza mai perdere la calma, improvvisando... non sarei mai capace di farlo" spiega il rocker, sereno e rilassato capace di regalare anche qualche commento e battuta in italiano (e' sposato all'attrice italiana Dajana Roncione presente in sala, ndr).

La clip di Taxi Driver (rivisto da poco insieme alla figlia 16enne), con la colonna sonora di Bernard Herrmann, porta il musicista ad accennare al suo nuovo progetto musicale: "Proprio ora sto cercando di realizzare qualcosa di molto simile a questa musica anni '70, con accordi semplici ma capaci di avere un impatto straordinario". 

Venendo all'esperienza di Suspiria, "quando ho lavorato con Luca ero molto nervoso - racconta -. Ho detto a Jonny (Greenwood, amico fraterno e compagno di band nei Radiohead) , che mi avevano proposto Suspiria e lui mi ha consigliato di leggere la sceneggiatura, e lavorare il piu' possibile su quella, perche' poi quando avrei visto il film, sarebbe arrivato un blocco.....aveva assolutamente ragione".

Se "non avessi passato mesi sulla sceneggiatura e parlando con Luca, confrontandomi con la sua visione, non sarei stato capace di fare le musiche". Al film "ho portato me stesso, non quello che ci si aspettava da me. Noi musicisti dovremmo sempre rispondere in questa maniera. Lo dico da esperto - conclude autoironico - avendo fatto una sola colonna sonora". 

27/10/20

Cosa fare quando tutto va male? La lezione di Keith Jarrett raccontata da Riccardo Luna



Cosa si può fare quando tutto va male, e sembra che non si possa fare altro che rinunciare o rassegnarsi? 
In giorni come questi, la domanda è quanto mai pertinente. 
E oggi Riccardo Luna prova a rispondere brillantemente evocando uno dei più grandi artisti della nostra epoca, Keith JarrettRiporto qui di seguito il suo post sul blog de La Repubblica: 

Qualche giorno fa uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi, sì, Keith Jarrett, ha detto al mondo: ho avuto due ictus, non sono più un pianista. 

Ci lascia con più di mezzo secolo di grande musica e una lezione di vita indimenticabile. Il concerto di Colonia del 1975. Non so se avete già sentito la storia del concerto di Colonia del 24 gennaio 1975. 

Quando mi chiedono come nasce l'innovazione, come si crea un capolavoro, io ripenso a quello che accadde quella sera a Colonia

Keith Jarrett aveva appena 29 anni ed era già famosissimo

Dopo diverse collaborazioni prestigiose, era sbarcato in Europa per la prima tournée da solo. 

A Colonia arrivò da Zurigo nel pomeriggio di un gelido giorno di pioggia che sembrava fatto apposta per mandare tutti al diavolo: non dormiva da due giorni, aveva un mal di schiena furioso e quando nel pomeriggio salì sul palco per le prove, invece del pianoforte che aveva chiesto (un Bösendorfer Grand Imperial), ne trovò uno più piccolo, scordato e con i pedali fuori uso

Ok, me ne vado, disse più o meno, era il minimo. 

Ma l'organizzatrice era una ragazzina di 19 anni, Vera Brandes, e quella notte era il sogno della sua vita e non poteva lasciarla svanire così: inseguì Keith Jarrett disperata fin fuori dal teatro: lo trovò che era già in macchina, gli implorò di suonare lo stesso, gli promise che il piano lo avrebbe fatto accordare, certo era piccolo per il teatro da 1400 posti, tutti venduti, ma, disse più o meno, ti prego fallo per me. 

Vera Brandes doveva avere una passione notevole perché Jarrett accettò; alle 23 e 30 salì sul palco e letteralmente creò musica per circa un'ora. Suonò in modo incredibile, forse proprio perché sapeva che il pianoforte non era adatto, ci mise una energia e una intensità mai viste, dicono, prima e dopo

Il suo manager registrò l'esibizione e quel concerto è diventato il disco di piano solo più venduto della storia del jazz. Avrebbe potuto non suonare, quella sera Keith Jarrett, ne aveva tutte le ragioni. E invece ha suonato e ne è venuto fuori il più bel concerto della sua vita. 

A volte anche noi nella vita non abbiamo il pianoforte adatto e tutto sembra andare storto: ma se abbiamo qualcosa di bello da raccontare, se abbiamo qualcosa di unico dentro, è il momento di dimostrarlo. Da sempre le cose cambiano, le migliori innovazioni succedono, quando usciamo dalla zona di comfort e ci mettiamo a suonare davvero.

Juliette de Récamier, la Donna più bella di Francia (9)


 Juliette de Récamier, la Donna più bella di Francia - 9

L'idillio di Juliette durò ben poco.
Gli amici di Juliette sapevano che in quel periodo l'amante di Juliette, Monsieur de Chateaubriand, si recava assiduamente in visita presso una certa casa padronale normanna abitata da una giovane e graziosa signora.
E nel gennaio del 1820 un rapporto di polizia (che lo teneva costantemente sotto controllo) rilevava che Chateaubriand "ha scritto tutti i giorni alla moglie del musicista Lafont".
In giro insomma tutti parlavano della sua infedeltà e inevitabilmente le dicerie raggiunsero Juliette.
Quello che per gli altri è l'argenteria di famiglia, per Juliette era stata la verginità. Era ormai sparita e, nella sua piccola stanza, deve aver sofferto terribilmente.
Cominciò dunque a cercare di tenerlo a distanza, cominciando a diffidare della natura incostante di lui, cercando di soffocare il proprio amore.
"Non si riesce a trovare di vivere con una persona che manca di sincerità," scrisse a un'amica, "e io sono assolutamente decisa a non espormi più a una tale, terribile, infelicità."
All'inizio del 1824, Juliette decise di cercare rifugio in Italia.
L'afflizione di Juliette, per la quale essa cercava la panacea come se fosse un male nordico di molti suoi contemporanei, era il mal d'amour.
Le solenni dichiarazioni di dolore da parte di Chateaubriand la seguirono per tutta la strada e la sua infelicità era probabilmente genuina perché le era profondamente affezionato anche se non in modo esclusivo.
Ma in realtà non la seguì mai a Roma e l'intermezzo italiano potrebbe essere tranquillamente trascurato se non fosse per un intrigo secondario che rivelò molto della natura di Juliette.
9 - segue

Fonte: Dan Hofstadter, La storia d'amore come opera d'arte