25/04/16

Il misterioso "cimitero delle scarpe" di Piazzale Ostiense, forse legato ai fatti della Liberazione di Roma.



La Via Tecta di San Paolo e il misterioso cimitero delle scarpe

La sua esistenza è attestata da molte e diverse fonti storiche, ma finora le risultanze archeologiche erano piuttosto scarse: la celebre Via Tecta di cui parlano le fonti antiche era quel porticus lungo ben tre chilometri (quattordici stadi, secondo le misurazioni romane) che collegava la Porta delle Mura Aureliane (la moderna Porta San Paolo) alla tomba dell’apostolo lungo la Via Ostiense

Si trattava di un’opera monumentale, poggiata su uno splendido colonnato, che è andata interamente perduta e di cui sono rimaste soltanto tracce nel sottosuolo, tra le quali quella della Chiesa di San Salvatore de Porta che sorgeva proprio lungo il criptoportico. 

Questa antica e preziosa chiesa fu anch’essa interamente distrutta nel 1849 durante i moti rivoltosi di quell’anno e anche le rovine furono ingoiate dai lavori di costruzione della nuova via di collegamento stradale. Nuove e importantissime conferme dell’esistenza del porticus (pilastri in mattoni e archi in travertino) sono arrivate recentemente da scavi nella zona (per la realizzazione di condutture del gas) che ha messo anche in luce strutture archeologiche risalenti al IV secolo d.C. (l’epoca in cui fu ricostruita la prima Basilica di San Paolo voluta da Costantino e rifatta dagli imperatori Teodosio I, Valentiniano e Graziano) compresi i resti della cripta sotterranea della chiesa di San Salvatore de Porta. 

Ma una nuova e più incredibile sorpresa è riaffiorata dal cantiere, lasciando del tutto sbigottiti i ricercatori e gli archeologi: in Piazzale Ostiense, infatti, è riemerso un inquietante deposito di decine e decine di scarpe di cuoio, di ogni tipo e foggia, di modello maschile, femminile e perfino molte di taglie per bambini, appartenenti di sicuro alla prima metà del Novecento. 

Tutto lasciava intendere che ci si fosse imbattuti in una fossa comune, della quale si ignorava e si ignora l’esistenza. 

Ma, proseguendo gli scavi, non sono state trovate ossa umane. E il mistero, si è, paradossalmente infittito: chi ha sepolto tutte quelle scarpe ? E per quale motivo ? E perché in quella zona ? Le scarpe hanno subito fatto pensare ad episodi di violenza: le scarpe sono la prima cosa che viene tolta ai morti.

La zona, poi, quella di Porta San Paolo, non è lontana (o è pertinente) dalle aree che furono teatro di vicende belliche importanti: le deportazioni del Ghetto di Roma, l’eccidio delle Fosse Ardeatine, i combattimenti di Porta San Paolo per la liberazione di Roma, i bombardamenti di San Lorenzo.

 Il lugubre cimitero delle scarpe, riaffiorato da una profondità di circa due metri, potrebbe far pensare a qualche evento di quel periodo del quale si è persa traccia. Oppure proprio ad uno di quelli di cui già sappiamo, ma che non è mai stato messo in relazione con questo luogo e con questo recente ritrovamento. A rendere intricato il giallo è anche la numerosa percentuale, tra i reperti trovati, di scarpe appartenuti a bambini.

24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





22/04/16

"La lezione del maestro" di Henry James (RECENSIONE).





Pubblicato a puntate nel 1888, e nella sua forma definitiva nel 1909. 

L'idea nacque dopo una conversazione che Henry James ebbe col giornalista suo amico Theodore Child sulle conseguenze del matrimonio. Alla data del 5 gennaio 1888, nei taccuini (Notebooks) utilizzati dallo scrittore per registrare le prime idee sulle sue opere, James scrive infatti che Child attribuiva la scarsa qualità letteraria di una recente opera di Daudet al fatto che quest'autore aveva moglie e figli ed era quindi obbligato a produrre indiscriminatamente a buon mercato.

Di questo parla infatti La lezione del Maestro:  l'incontro tra il vecchio scrittore, St. George e il giovane autore, Paul Overt, che ha scritto un solo romanzo, Ginestrella, e che idolatra il vecchio maestro. 

Quando ha finalmente occasione di incontrarlo, durante un convivio in una lussuosa casa di campagna, Paul può verificare con mano il carisma del vecchio scrittore, il quale dichiara di aver letto l'opera prima di Overt e di esserne entusiasta.  Paul rimane però piuttosto sconcertato quando St, George ammonisce il giovane sui rischi che comporta - nell'arte e nella vita - un'accettazione idolatra dei precetti dei maestri, e soprattutto sui rischi che comporta il matrimonio e l'avere dei figli, per uno che vuole veramente scrivere, e diventare un grande scrittore. 

St. George in effetti è sposato, con una moglie molto attiva che gli cura perfino i rapporti con gli editori, e con figli e  - anche Paul lo sa - negli ultimi libri ha fatto passi falsi, cedendo evidentemente alle lusinghe della commerciabilita'.

A legare i due uomini c'è Miss Fancourt, figlia di un generale e "provinciale di genio", amica e devota di St. George.  Paul se ne innamora.   St. George, in una lunga discussione notturna, da una parte sembra sospingere Paul tra le braccia di Miss Fancourt, dall'altra caldeggia il rigore più assoluto. 

Paul prende alla lettera questo secondo ammonimento, e parte - insalutato - per la Svizzera, intenzionato a scrivere il suo secondo "perfetto" romanzo.   

Resta lontano dall'Inghilterra per due anni e in Italia gli giunge la notizia che la moglie di St. George è morta. 

Tornato finalmente  a Londra, Paul va per prima cosa a casa di Miss Fancourt, che non ha dimenticato e che vorrebbe ritrovare. Da suo padre però, il Generale, viene a sapere che St. George ha annunciato che si sta per risposare.  E che si risposerà proprio con sua figlia. 

Nel finale, amarissimo, Paul fa i conti prima con Miss Fancourt - che gli manifesta l'innocente affetto di sempre, e con St.George, che senza ritrattare di una virgola, e senza vergognarsi - come gli chiede Paul - si vanta di aver salvato il ragazzo, e di averlo consegnato alla pura creatività. 

La breve storia è l'occasione per James per fornire un apologo crudele e sottilissimamente psicologico sulla creatività (la letteratura) e i rapporti umani (cioè la vita vera), e la distanza che sempre esiste tra le due cose. 

La Lezione del maestro è una lezione ben cinica, e dura da sopportare per Paul, che però è principalmente vittima della propria ambizione, e dello sbaglio distorto di deificare una persona (prima che uno scrittore) profondamente umana e profondamente debole. 

St. George ha manipolato Paul, ma Paul ha praticamente chiesto di essere manipolato. 

La vita non è la letteratura, e sa presentare il conto.  L'inganno sottile di St.George è anche l'autoinganno che Paul persegue per (poter) dimostrare a se stesso di essere uno scrittore. 

Ma forse, ed è questo il gioco di specchi più grandioso di questo grandioso breve romanzo, è tutta la vita ad essere un inganno, perché niente risulta veramente autentico in questa caccia alla volpe alla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nel mondo. 

Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.

21/04/16

Roma compie 2769 anni ! Tutte le iniziative per il "Natale di Roma 2016.



Letture poetiche, concorsi di letteratura latina, concerti, installazioni d'arte, rievocazioni storiche, inaugurazione di spazi pubblici restaurati, musei gratis e visite guidate. E luce, molta luce su monumenti, musei, Fori. 

Questo e altro è il Natale di Roma 2016, 2769mo dalla data tradizionale della fondazione dell'Urbe (21 aprile del 753 avanti Cristo). 

Il programma, si legge sul sito del Comune di Roma, parte oggi per andare avanti fino al 6 maggio. 

Primo appuntamento di rilievo, oggi, maratona di lettura dei sonetti di Belli, dalle 16 alle 19 nella sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini. Recitano i versi 40 lettori selezionati tra cittadini: uomini e donne, professori, studenti, religiosi, laici e anche amministratori capitolini, romani e non. A cura della Sovrintendenza capitolina con l'Archivio storico capitolino e il Centro studi Giuseppe Gioachino Belli.

Domani, in Campidoglio, il cuore delle celebrazioni. Dalle 11 nell'aula Giulio Cesare si susseguono i consueti eventi del Natale di Roma: l'edizione annuale della Strenna dei Romanisti, i premi e i concorsi (Cultori di Roma, Certamen Capitolinum, Premio Urbis), la medaglia 2016 dedicata al gemellaggio Roma-Parigi. 

Poi, sulla piazza, il concerto della banda dei vigili, che fa da contrappunto a una serie di concerti mattina e pomeriggio in centro, con la banda di esercito, guardia di finanza, aeronautica, Marina, polizia, polizia penitenziaria e carabinieri

Il 21 aprile i musei civici di Roma Capitale sono aperti gratis: liberamente visitabili le collezioni e le mostre in corso. 

A seguire, la riapertura di due spazi storici restaurati: alle 12.30 il Giardino degli Aranci all'Aventino, alle 15 il giardino di piazza Cairoli. E al tramonto, alle 19.58, l'accensione della nuova illuminazione Acea del Foro Romano, da contemplare dalle pendici del Campidoglio

La giornata prosegue alle 20.30 sulla banchina destra del Tevere, all'altezza di Ponte Sisto, con una performance musicale e di danza al cospetto di 'Triumph and laments', il fregio di 500 metri realizzato dal sudafricano William Kentridge pulendo selettivamente la patina biologica del travertino dei muraglioni (il progetto è dell'onlus Tevereterno)

A conclusione, i Viaggi nell'antica Roma di Piero Angela ai Fori di Augusto, Cesare e Traiano, un'anteprima ad ingresso gratuito ad entrambi gli spettacoli fino ad esaurimento posti con prenotazione obbligatoria allo 060608 (è possibile prenotare al massimo 5 posti per ogni telefonata). Le repliche proseguiranno tutte le sere fino al 30 ottobre 2016.

Nei giorni successivi si segnala: venerdì 22 la riapertura di Villa Aldobrandini dopo i lavori di restauro (ore 12); domenica 24, al Circo Massimo, le rievocazioni in abiti storici a cura del Gruppo storico romano (dalle 10 in poi); venerdì 6 maggio in Campidoglio (sala della Protomoteca), un concerto cameristico tutto all'insegna della stagione fiorita: in programma una trascrizione de La primavera da Le quattro stagioni di Vivaldi e la Sonata per violino e pianoforte n. 5 in fa maggiore, opera n. 24 'la Primavera' di Beethoven. Lungo tutto il periodo, un ciclo di visite guidate ai musei civici e ad altri luoghi storici di Roma.

20/04/16

Roma Anni '50 - Storia di una foto 3.


Dopo le due precedenti puntate dedicate a foto di Henri Cartier-Bresson scattate a Roma negli anni '50, ci siamo cimentati con una nuova foto, quella che si vede qua sopra, scattata nei primi anni '50. 

In questo caso, la caccia era molto più semplice. 

E' stato abbastanza facile infatti individuare il celebre palazzo di Luciano Manilio, nel cuore del Ghetto ebraico di Roma, in Via Portico d'Ottavia 2 che oggi si presenta così: 



La cosa interessante è che il bar, è rimasto sempre allo stesso posto.  Si tratta infatti di uno dei caffé più antichi di Roma. 

E oggi si presenta così: 



All'interno del locale, diverse foto in bianco e nero, che ricordano la storia del bar e dei diversi proprietari. 




E infine, qui di seguito la storia di questo splendido palazzo Romano, tratta da Misteri e segreti dei Quartieri e dei Rioni di Roma (per chi vuole saperne di più): 

La casa di Lorenzo Manilio 

A Roma si sente spesso ripetere che non c’è un romano più vero, più verace, di quelli che abitano nel cosiddetto “ghetto ebraico”, notoriamente uno dei più antichi del mondo (per l’esattezza il secondo, dopo quello di Venezia, sorto quaranta anni prima) essendo stato istituito per volontà di papa Paolo IV nel 1555. 

Proprio gli ebrei abitatori del ghetto hanno mantenuto vive nel tempo molte delle tradizioni popolari di Roma, dimostrando un grande attaccamento alla storia della città. L’esempio forse più eclatante di questo vero e proprio amore è “stampato” in uno dei palazzi più importanti e centrali di quella zona, anche se il suo autore realizzò l’impresa parecchi anni prima dell’istituzione del ghetto e cioè nel 1468

 Il nobiluomo che abitava il palazzo all’epoca si chiamava Lorenzo Manili, e si sa poco di lui, se non che doveva pur avere qualche smania megalomane, visto che era solito romanizzare il proprio nome in Laurentius Manlius o Manilio, ricollegandolo alla gensManlia. 

La sua casa, che ancora oggi esiste in via di Santa Maria del pianto, riporta il suo nome per ben quattro volte sulle porte del pianterreno, mentre sulle finestre che affacciano su piazza Costaguti si legge il motto – che doveva esser di famiglia – “Have Roma”. 

Ma il motivo per cui questo palazzetto nel cuore del ghetto ebraico è diventato così famoso è la grande iscrizione, a caratteri di imitazione romana, che si legge sulla facciata del palazzo e che indica una data – quella in cui è stato realizzato il fregio – davvero singolare: ovvero l’anno 2221. 

 Ovviamente la cosa, nel corso dei secoli, ha suscitato curiosità, anche se la spiegazione è ben chiara: essendo infatti il Manili un vero e proprio estimatore di Roma, e della Roma antica, adottava il calcolo degli anni secondo il metodo dell’abUrbe condita, cioè dalla fondazione della città, nel 753 a.C. 

 Il calcolo esatto della data inscritta da Manili – 2221 anni dalla fondazione di Roma – riconduce al 1468 d.C., ovvero al primo periodo del “Rinascimento romano”. 

L’intraprendente possidente, nella lunga iscrizione in latino, riportò una specie di dichiarazione d’amore, che tradotta suona così: “Mentre Roma rinasce all’antico splendore Lorenzo Manili, in segno d’amore verso la sua città, costruì dalle fondamenta sulla piazza Giudea, in proporzione alle sue modeste fortune questa casa che dal suo cognome prende l’appellativo di Manliana, per sé e per i suoi discendenti, nell’anno 2221 dalla fondazione di Roma, all’età di 50 anni, 3 mesi e 2 giorni; fondò la casa il giorno undicesimo prima delle calende di agosto.” 

 Un “ornamento” che ha resistito intatto per cinque secoli e mezzo e ancora oggi rinnova l’interesse e la curiosità sulla figura misconosciuta di questo protagonista della vita cittadina di allora.

Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.

19/04/16

Archeologia: Una splendida villa romana riemerge da scavi nel Wiltshire in Inghilterra.



I resti di un'antica villa romana suddivisa in diversi spazi sono riemersi "per caso" dalle profondita' della storia in un giardino del Wiltshire, in Inghilterra, dove il padrone della proprieta' di campagna in cui e' stata fatta la clamorosa scoperta stava interrando alcune linee elettriche per far giocare i suoi bambini senza pericolo. 

 Alle prime avvisaglie di quello che stava saltando fuori, riferisce la Bbc, il proprietario del terreno, Luke Irwin, ha chiesto aiuto

E i successivi scavi hanno confermato tutto, rivelando resti "straordinariamente ben conservati" incluso un mosaico pressoche' intatto. 

Secondo gli archeologi di Historic England si tratta di una scoperta "senza precedenti negli ultimi anni". Una delle ville romane piu' grandi riportate alla luce in Inghilterra, simile per dimensioni e pregio a quella di uno dei siti piu' famosi del Regno Unito: quello di Chedworth, nel Gloucestershire.



18/04/16

Cartier-Bresson e Roma - Storia di una foto 2.

Henri Cartier-Bresson, Roma 1953

Dopo la prima puntata (e la prima foto) siamo tornati sulle tracce di Cartier-Bresson e di quel suo leggendario viaggio nella Roma nel 1953, ci siamo messi a caccia di una nuova foto, quella che si vede qui sopra.  Stavolta abbiamo potuto appurare anche che la didascalia Trastevere, Roma è errata. La foto infatti non fu scattata a Trastevere, ma sul lato opposto del fiume, nel mezzo del Ghetto ebraico. 

Per arrivare alla soluzione del mistero, ci siamo avvalsi di un'altra foto realizzata nella stessa serie (e nello stesso giorno?) da Cartier-Bresson, con l'inquadratura più ampia, che permette di riconoscere un locale con l'insegna Fantino sulla sinistra. Eccola: 


Il particolare ci ha permesso di ricostruire con esattezza il luogo dove la fotografia è stata scattata: si tratta di Via Sant'Angelo in Pescheria (proprio alle spalle del Portico d'Ottavia), dove la piccola strada compie una curva verso sinistra. Ecco come si presenta oggi:


C'è ancora un ristorante al civico n.30 (ora si chiama Giggetto 2). La finestra di luce al centro del selciato, in cui gioca la bambina illuminata dalla luce, era creata dalla finestra nell'arco del Portico d'Ottavia, alle spalle di chi scatta la fotografia, oggi tappata dai ponteggi infiniti che ormai da 50 anni ingabbiano il meraviglioso Portico d'Ottavia: 



Ai lati dell'entrata del ristorante sono ancora visibili i due ganci per la tenda, utilizzati dal ristorante precedente Fantino



Seconda traccia svelata, dunque. Proseguiremo ancora il viaggio sulle orme del grande Cartier-Bresson. 


Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.




17/04/16

Poesia della Domenica: da 'Conseguito silenzio' di Paul Celan.





Anche noi vogliamo essere,
dove il tempo dice la parola di soglia
il millennio giovane si alza dalla neve,
l'occhio errante
si calma nella propria sorpresa
e capanna e stella
stanno nel blu da vicini di casa,
come se la strada fosse già percorsa.


Paul Celan, Conseguito silenzio

16/04/16

"Purity" di Jonathan Franzen (RECENSIONE).




Premetto: il nuovo Franzen mi ha deluso consistentemente. 

E qui spiego perché.  Non si tratta di discutere dello straripante talento di Franzen, della sua abilità e complessità stilistica, che gli hanno dato fortuna e celebrità (con tutto quel che ne consegue al punto che oggi è difficile parlare di lui, perché come ogni fenomeno troppo popolare, ci si distingue aprioristicamente in partiti a favore e contro).  Da questo punto di vista credo che Franzen superata la soglia dei 55,  non debba dimostrare nient'altro.

E il suo romanzo è come sempre un meccanismo di altissima precisione, perfettamente oliato, dove tutto funziona o sembra funzionare a dovere. 

Nell'arco di 642 pagine - Franzen ha dichiarato recentemente di non riuscire a scrivere romanzi brevi, che il lungo è il suo formato naturale - Purity mette in scena di tutto: almeno quattro personaggi protagonisti (la prima, la ragazza chiamata Purity o Pip, in esplicito omaggio dickensiano), una ventina di personaggi secondari, trame e sottotrame che si rincorrono, racconti in prima persona, diari, messaggi, mail, flashbacks a profusione, ganci  per lasciare il lettore in sospeso alla fine di ogni capitolo, sei parti, ciascuna funzionante come una novella autonoma, colpi di scena efficacissimi, come quello di pag. 265, che scoperchia il romanzo. 

La storia è stata descritta ampiamente sui giornali, sugli inserti, sui siti: si comincia con la giovane Purity, ragazza neolaureata che vive in una sorta di casa-comune, in povertà, con i debiti accumulati per studiare che non sa come pagare.  Della madre sappiamo che ama smisuratamente sua figlia ma per qualche motivo misterioso le nasconde l'identità del padre - e anche del resto della sua famiglia. Anche lei vive ai margini, con un lavoro di commessa, psicologicamente fragilissima. 

La caratteristica di Purity, come già accadeva in Correzioni e in Libertà, è quella di lasciare ad un certo punto quello che si presume essere il protagonista, e andarsene apparentemente altrove (non è così ovviamente).  Ecco dunque che a metà del libro, a pag. 352- ma era successo già precedentemente nella parte La repubblica del cattivo gusto - Purity viene abbandonata al suo destino, dopo che ne abbiamo seguito le tracce prima a Denver, come stagista per il quotidiano locale indipendente locali, e poi in Bolivia, adepta del Sunlight Project, una sorta di Wikileaks creata dallo spregiudicato Andreas Wolf (una sorta di via di mezzo tra Julian Assange e Snowden). 

Nella seconda parte del romanzo Pip scompare. E tutta l'attenzione di concentra su Wolf (di cui abbiamo già conosciuto le radici, nella parte ambientata nella DDR dove abbiamo scoperto che è anche un assassino, anche se apparentemente per amore della giovane Anngret) e su Tom Aberant (due cognomi molto espliciti, il primo il Lupo, il secondo un Aber(r)ant), il direttore del Denver Indipendent, che ha conosciuto Wolf anni prima in Germania, e di cui custodisce l'inconfessabile segreto. 

E' proprio questa la parte debole del romanzo.  Franzen è superficiale, indugia con cinismo su Wolf e sulla sua lucidissima follia, e su Tom e le sue vergognose ipocrisie, tra la ex moglie psicotica, Anabel,  e la nuova compagna, la giornalista in carriera Leila. Gira sostanzialmente a vuoto, con l'obiettivo fin troppo dichiarato di dimostrare che la purezza non esiste, i segreti fanno parte della identità costituiva di tutti, il web è un mondo sporco forse anche più del mondo che pretende di ripulire, le amicizie non esistono, tutti tradiscono tutti. 

Il Gioco è esplicito, l'architetto del pregevole meccanismo (Franzen) è sempre al centro, esibendo le qualità della narrazione e compiacendosi di esse, mentre manca del tutto l'ironia (che in Libertà era felicemente dispensata) che rende pietoso il racconto, e possibile l'empatia del lettore. 

Alla fine della lettura si ha un senso di vuoto: la storia non ci ha dato niente, c'è l'impressione che Franzen sia rimasto vittima del suo stesso meccanismo e che la preoccupazione di dire qualcosa (molto di quello che già si sa sulla solitudine, sul mondo di internet, sulle anime sempre più connesse e sempre più disorientate) abbia prodotto il risultato di non dire nulla (o almeno nulla di nuovo). 

Gli amanti di Franzen ritrovano tutte le sue ossessioni (la mancanza e il dolore familiare, l'ornitologia, il sesso); in compenso i personaggi maschili sono terrificanti e il romanzo in molte pagine esprime una concezione totalmente maschilista del presente (le donne sono quasi tutte geishe devote in adorazione del maschio scopatore, o psicolabili irrecuperabili). 

Insomma alla fine l'unica cosa che si ammira veramente è la struttura narrativa insieme alla brillantezza dei dialoghi, alla acutezza e alla genialità delle sentenze.  Ma Purity è un romanzo che si avvicina di più a Donna Tart (e alla sua superficialità ben commerciale) piuttosto che ai grandi maestri del Romanzo Americano ai quali Franzen esplicitamente tenta e dice di ispirarsi (primo fra tutti l'inarrivabile Saul Bellow che in Purity viene continuamente evocato con uno dei suoi romanzi più grandi, Le avventure di Augie March): in effetti la differenza tra un Bellow e un Franzen è tutta qui. Bellow ha scritto una ventina di romanzi, tutti allo stesso livello di eccellenza e senza che il suo io (pure piuttosto consistente) divenisse mai l'esplicito referente della tecnica narrativa; Franzen, giunto alla terza prova della maturità scivola nell'ovvio e commette la presunzione di salire sulla ribalta più di quanto la sua nuova storia riesca mai a fare. 


Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata



15/04/16

Il libro del giorno: "Il legno storto dell'umanita' " di Isaiah Berlin.




Ormai un classico, sempre ristampato da Adelphi: 

Otto saggi scritti da Berlin tra il 1959 e il 1990, sulla rivoluzione delle idee, dal 1792 (la rivoluzione principe) ad oggi. 

Il nostro evo, da Platone in poi, si è basato su concezioni universali della storia universale: tutti gli uomini sono legati da una stessa radice e da uno stesso destino.  L'età dell'oro è alla portata, se l'uomo saprà superare gli ostacoli che egli stesso ha disseminato lungo la sua strada, aprendo le porte al vizio, al peccato, all'egoismo. 

Nell'inizio dell'ottocento questa concezione è entrata in crisi. Sturm un drang, Romanticismo, effetti della Riforma, pensatori come Herder e De Maistre, hanno evidenziato che NON ci sono VALORI UNIVERSALI e i valori validi, riconosciuti, possono, anzi entrano in conflitto tra di loro, generando guerre ideologiche per conquistare una supremazia assoluta. 

Il risultato di questa crisi è il Novecento, con le sue aberrazioni nazionalistiche.  Il pensiero di Berlin è lucido, chiarissimo, divulgativo, saggio: l'uomo di oggi è sperso, non ha più sistemi. 

L'unico modo per garantire il progresso è un faticoso equilibrio delicato tra i diversi valori o codici di riferimento. Dall'uomo, che secondo Berlin è un legno storto, non si potrà mai ricavare qualcosa di definitivamente diritto. 



13/04/16

Cartier-Bresson e Roma - Storia di una foto.

Henri Cartier-Bresson, Rome, 1953

Era partito come un gioco.  Stupiti dalla bellezza di questa foto di Cartier-Bresson, siamo partiti alla ricerca del luogo in cui fu scattata. 

La didascalia della Agenzia Magnum, proprietaria dei diritti della foto non aiutava, recitando laconicamente Henri Cartier-Bresson, Rome, 1953.

Quel che si sa per certo è che tra il 1951 e il 1971, durante un ventennio, il grande genio viaggiò spesso in Italia e tornò spesso a Roma. 

Questa foto fa parte di una serie scattata nello stesso luogo.  Con una certa fatica, grazie all'aiuto di preziosi amici, siamo riusciti a trovarlo.  Le tracce portavano a Trastevere.  E infatti l'angolo ritratto è proprio quello della piccola Piazza dei Ponzani (sulla foto originale, la dicitura della targa non si legge chiaramente), nel cuore di Trastevere. 

Ci sono tornato stamattina per un sopralluogo.  E sono riuscito a ritrarre più o meno la stessa angolazione (anche se purtroppo oggi il luogo è sopraffatto da sporcizia, macchine parcheggiate una sull'altra,  ecc...) 


Anche il bar è rimasto al suo posto, anche se oggi in parte ricoperto di edera: 


I proprietari del bar sono a conoscenza della illustre foto che immortala il locale nel 1956. E hanno anche provveduto ad affiggerne una riproduzione all'interno


Ho anche parlato con alcuni abitanti della zona.  In effetti sembra che Cartier-Bresson in quella estate del 1953 soggiornò proprio in Piazza dei Ponziani, probabilmente ospite di un amico architetto (oggi scomparso). 

Realizzò diverse foto in questo luogo, una anche dall'interno dello stesso bar. 



Certo il contesto oggi è ben diverso.  Ma esiste ancora stoicamente la vecchia fontanella (vicino ad un albero che doveva già esserci all'epoca), dall'alto lato della piazzetta e che è quella alla quale sicuramente la ragazzina immortalata dalla foto ha portato la grande bottiglia di vetro per riempirla, che porta sulle spalle. 


Insomma, un angolo della vecchia Roma di CB, che resiste nonostante tutto... 

Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.




12/04/16

Trovare un quadro in soffitta e scoprire che è (forse) di Caravaggio.


Una tela scoperta nella soffitta di una casa nel Sud-Est della Francia e un'opera "autentica" di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. 

Lo sostiene l'esperto Eric Turquin, che oggi ha tenuto una conferenza stampa a Parigi.

"Questa illuminazione particolare, questa energia tipica del Caravaggio, senza correzioni, con una mano sicura e i materiali pittorici fanno sì che la tela sia autentica" ha detto Turquin. Sul dipinto "ci saranno più controversie che expertise" ha aggiunto l'esperto, i cui colleghi sono molto più prudenti. 

La tela, che raffigura una Giuditta nell'atto di tagliare al testa di Oloferne, era stata scoperta nell'aprile 2014 dai proprietari di una casa nella regione di di Tolosa, che avevano aperto un sottotetto per porre rimedio a un'infiltrazione d'acqua, ha raccontato Turquin all'AFP

Il dipinto è poi transitato dall'ufficio di un banditore, che ha contattato Turquin in qualità di esperto

 Il ministero della Cultura il 31 marzo aveva "respinto il certificato di esportazione richiesto per la tela attribuito forse a Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, in attesa di un parere degli esperti. 

Per il ministero la tela merita di essere "mantenuta sul territorio come una testimonianza molto importante del caravaggismo, il cui percorso e la cui attribuzione restano da approfondire". 

11/04/16

Le incredibili proprietà solari del Pantheon. DUE VIDEO.





In molti, dopo la pubblicazione della foto che ho realizzato il giorno 7 aprile alle ore 13 (12 solari) al Pantheon, testimoniante l'incredibile fenomeno del 'cerchio (o meglio, semicerchio) di luce che si forma sopra il portale di ingresso, mi hanno chiesto di tornare sull'argomento, riguardante le straordinarie proprietà del Pantheon - ricostruito da Adriano  nel 138 d.C.

Pubblico quindi qui due video molto semplici, e didascalici con animazioni, realizzati dall'Istituto Politecnico di MIlano, ricordandovi quindi che il prossimo appuntamento per verificare le proprietà solari del Pantheon è il 21 aprile - data della fondazione di Roma - sempre alle ore 13 (12 solari). 









foto in testa:  Fabrizio Falconi.

10/04/16

La poesia della domenica: "Ti ricordi gli storni" di Toti Scialoja.





Ti ricordi gli storni che a stormi
nei tramonti dei nostri bei giorni
quando i treni si fanno notturni
attorniavano Terni e dintorni?

Bei tramonti che accesero Terni
rispecchiandone il fuoco dei forni
mentre i cieli diventano inferni
taciturni se ruotano stormi.

Neri stormi sui monti di Terni
che di sera perdendo i contorni
frastornavano i nostri ritorni
con l’eterno stormire degli orni.

Son trascorsi gli autunni e gli inverni
sono andati e tornati gli stormi
sulla Nera su Terni su Narni
sulle pere forate dai vermi.




Toti Scialoja

08/04/16

Incontro (gratuito) con il grande William Kentridge, Lunedì prossimo a Palazzo Barberini.



E’ l’artista di rilievo internazionale William Kentridge l’ospite di Massimiliano Finazzer Flory per il quarto appuntamento de «Il Gioco serio dell’Arte», X edizione. Autentico «uomo rinascimentale», artista a 360 gradi, attivo nella pittura e nel disegno, nel teatro e nel cinema, nella performance e nelle installazioni, Kentridge attribuisce da sempre un’indispensabile valenza sociopolitica alla propria opera, facendone un oggetto culturale utile alle riflessioni su grandi temi del contemporaneo, come la convivenza tra le razze, la sopraffazione e la tolleranza, il conflitto e la pacificazione - che nel Sudafrica, da dove Kentridge proviene, ha conosciuto criticità, drammi e possibili soluzioni.

Dunque un interlocutore di speciale prestigio per un confronto di grande interesse sul tema che Finazzer ha scelto per questa decima edizione de «Il Gioco serio dell’Arte». “Mai come oggi -dichiara Massimiliano Finazzer Flory- abbiamo bisogno dell’arte per comprendere la nostra realtà che non è divisa tra politica, economia, comunicazione… ma si chiama realtà proprio perché tiene insieme fenomeni diversi e ovviamente in modo asimmetrico e variabile. Impossibile dunque avere un modello oppure una visione diretta di questa realtà. Ecco perché serve l’arte. Perché attraverso essa noi possiamo con rappresentazioni, mediazioni, disegni o messe in scena ottenere conoscenza e dialogo che non sono altro che gli ultimi due residui non bellici della nostra cultura. In questi termini ho invitato William Kentridge perché si possa discutere di tecnologia e realtà per chiederci dove sia più presente l’uomo per scoprire forse che la sua rappresentazione con l’arte è più credibile delle informazioni che abbiamo dai media”, anticipando alcuni argomenti sui quali si confronterà con Kentridge, la cui presenza, in questi giorni a Roma, assume un significato ancor più importante a meno di due settimane dall’inaugurazione della monumentale opera-installazione che ha concepito sugli argini del Tevere: Triumphs and Laments, al tempo stesso un omaggio senza precedenti, una celebrazione grandiosa, ma anche una rappresentazione originalissima dei grandi momenti di Bene e Male che la Città Eterna ha vissuto nel corso della propria storia. E aggiunge Finazzer Flory : “William Kentridge non è solo l’artista che ha dato vita al disegno per proiezione ma la sua opera è tale perché mette in discussione il nostro pensiero come disegno non lineare. Invitare Kentridge, dunque, significa offrire il disegno storto della storia. In una rassegna il cui tema quest’anno è migranti la presenza dell’artista sudafricano è anche una nota di polemica contro l’estetizzazione e la retorica della sofferenza e della morte che invade la nostra comunicazione. Utilizzare il cinema di animazione di Kentridge per scuotere le coscienze per rappresentare la denuncia sociale significa in altri termini preferire le ombre della realtà, l’ambiguità al tutto chiaro. Come del resto ha ben scritto Kentridge “se c’è qualcosa che l’arte deve fare è renderci coscienti di un precetto: mediare sempre”. La sfida della cultura europea che riguarda un’idea di integrazione fondata su legami profondi potrebbe avere in questo artista un punto di riferimento, un esempio, un’azione”.

William Kentridge, artista, regista teatrale e di film di animazione, è nato a Johannesburg, Sudafrica, da famiglia ebraica. Suggestionato dall'orrore della segregazione razziale e dalle problematiche connesse - abusi nell'ambito del lavoro, barriere razziali, aspirazioni libertarie dei neri - Kentridge ha affrontato l'argomento in molte sue opere, traendo ispirazione tanto da quadri di Goya e di Hogarth quanto dalle pellicole dell'Espressionismo tedesco e dai film di S.M. Ejzenštejn. Si è servito del disegno a pastello o a carboncino per i filmati d'animazione, rivelando innovative capacità tecniche. 

Della sua ricca attività teatrale si ricordano i lavori svolti in collaborazione con la Handspring Puppet Company, tra cui Il ritorno d'Ulisse e la regia de Il flauto magico di W.A. Mozart. Kentridge ha partecipato a manifestazioni internazionali quali le Biennali di Venezia, Istanbul, Johannesburg, L'Avana, Shanghai. Numerose mostre l’hanno visto protagonista nei più prestigiosi musei del mondo. 

Kentridge sta ultimando l’installazione Triumphs and Laments, straordinario progetto per la città di Roma: un fregio – lungo 550 metri – composto da 80 figure alte fino a 10 metri, realizzato con una pulizia selettiva della patina biologica accumulata sui muraglioni nel tratto del Tevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Triumphs and Laments racconta la storia millenaria di Roma in una sequenza non cronologica, volgendo lo sguardo sia ai trionfi che alle sconfitte. L’inaugurazione è prevista il 21 aprile del 2016, in occasione del Natale di Roma.

Il Gioco serio dell’Arte, nato nel 2006, per volere de Il Gioco del Lotto – Lottomatica, è ideato e condotto da Massimiliano Finazzer Flory e presentato presso le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, guidate dal nuovo direttore Flaminia Gennari Santori. Quest’anno, la rassegna culturale viene nuovamente ospitata a Palazzo Barberini, che risplende nella sua bellezza dopo i recenti lavori di restauro realizzati anche grazie ai fondi de Il Gioco del Lotto.

“Migranti sono i pensieri che si connettono ad altri pensieri. Migranti, oggi come non mai, sono le nostre identità” suggerisce il regista e attore Massimiliano Finazzer Flory, ideatore de Il Gioco Serio dell’Arte, nel presentare il tema di questa edizione. “Migranti sono i quadri, le opere d’arte, adesso anche i musei e con loro gli uomini che attraverso le arti uniscono culture e costumi”.

La X edizione del Gioco Serio dell’Arte, “Migranti”, vuole rappresentare una casa d’accoglienza per tutti coloro che desiderano darsi convegno per celebrare una visione dell’arte totalizzante, alla ricerca del segno culturale in ogni gesto e in ogni attimo della nostra vita. La manifestazione è incentrata sull’incontro/dialogo con personalità di statura nazionale e internazionale, sul tema prescelto per ciascuna edizione. La parola intesa come momento artistico del vivere. La conversazione come scintilla della percezione e come provocazione intellettuale.

lunedì 11 Aprile 2016 ore 18.30
Palazzo Barberini, Via delle Quattro Fontane 13, Roma
Ingresso libero fino ad esaurimento posti

Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma
Palazzo Barberini
Roma - Via delle Quattro Fontane 13

07/04/16

Torna in Italia la "Testa di Augusto" rubata negli anni '70.




E' pronta a tornare a casa sua, a Nepi, una testa in marmo di Ottaviano, futuro imperatore Augusto, rubata negli anni '70 e ora ritrovata in Belgio. 

Il prezioso reperto romano sara' ufficialmente riconsegnato all'Italia e alla cittadina laziale dal museo reale d'arte e di storia di Bruxelles con una apposita cerimonia, il prossimo 28 aprile. 

Una storia a lieto fine, fra quelle dei tanti tesori nazionali trafugati e scomparsi per anni, oltre che una testimonianza concreta di una collaborazione fruttuosa fra le autorità belghe e italiane

"Per noi si tratta di un ritorno importante - spiega Pietro Soldatelli, sindaco di Nepi - visto che si tratta di un pezzo ben conservato, che penso potrà essere visibile al nostro museo gia' da maggio". 

Il museo belga aveva regolarmente acquistato la scultura nel 1975, da un antiquario di Zurigo, non risultando all'epoca il pezzo come mancante. 

Da allora la testa in marmo del futuro imperatore romano è rimasta al sicuro a Bruxelles nella 'galleria dei ritratti', di fronte ad un ritratto di Livia e vicino a quello di Druso

La comunicazione del furto di fatto e' avvenuta solo di recente, grazie ad una vecchia fotografia scattata dall'Istituto di archeologia tedesco che custodiva l'origine del reperto: il togato che ornava negli anni '70 il portico del palazzo comunale della piccola città laziale non era acefala, ma sfoggiava un ritratto di Augusto velato

Una volta appurata la reale provenienza "il museo di Bruxelles ha dato subito la sua disponibilita' alla restituzione - racconta Soldatelli - e lo stesso re del Belgio ha dato il via libera all'operazione di rientro", che sara' festeggiata da una analoga cerimonia anche in Italia

 Alta quaranta centimetri e mezzo, leggermente girata verso destra, la testa ritrovata presenta i tratti di un uomo giovane e magro, una delle prime rappresentazioni di Ottaviano (68 a.C.), il futuro imperatore Augusto (27 a.C. - 14 d.C.), all'epoca in cui si batteva per recuperare l'eredita' di Cesare, suo padre adottivo, prima della decisiva vittoria di Azio (31 a.C.)

Il giovane Ottaviano e' togato e con la testa coperta, ritratto sia come sacerdote (pontifex) che come uomo pio. 

06/04/16

Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito. (Pietro Zullino - "Cinzia con i suoi occhi").


Il più grande romanzo italiano degli ultimi 15 anni è inedito.  Succede anche questo nell'editoria italiana. Pietro Zullino, che ho avuto la fortuna di avere come amico, scrisse questo suo libro qualche anno prima di morire. 
E' un romanzo fiume, dedicato a Lucio Properzio, il grande poeta romano vissuto nel I sec. a.C., penalizzato dalla critica storica per secoli, e in tempi recenti riscoperto come forse il più moderno dei poeti antichi. 
Zullino ha scritto un libro memorabile. Con l'uso di una lingua geniale e modernissima, erudito (ritraducendo ex novo tutte le poesie di Properzio) e passionalmente coinvolto, enormemente attuale nei suoi risvolti, su ciò che è la ribellione nel campo dell'intelligenza e della produzione artistica. 
Zullino, che era autore di lustro, e aveva pubblicato con i più grandi editori italiani, scelse volontariamente (esacerbato dalle logiche editoriali) di autoprodursi il libro e di stamparlo in poche copie da distribuire agli amici (senza nemmeno firmarlo, ma attribuendolo direttamente al nume di Properzio). 
Sono dunque ben pochi quelli che hanno avuto il privilegio di leggerlo. 
Nell'attesa che qualcuno - di quelli che contano (ma cosa contano?) si accorga di lui, è già stata fatta una traduzione in americano moderno del romanzo.  
E a Pietro e alla sua opera è stato dedicato post-mortem un volume di studi a cui ho contribuito proprio con questo testo, su Cinzia
Che qui ripropongo. 


Cinzia con i suoi occhi di Pietro Zullino: “Chi ama può vagare”, il romanzo di una ribellione

di  Fabrizio Falconi

 La fortuna dei libri di Pietro Zullino presso i maggiori editori italiani – Mondadori e Rizzoli tanto per citare soltanto i più blasonati – durò oltre un decennio, a cavallo tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’80.
 A partire da quella data, qualcosa si spezzò: a Zullino, come ad altri autori di quegli anni, che si erano concentrati, nella loro produzione, sulla adesione profonda agli ideali interiori (autenticità, fedeltà, vero) invece che all’inseguimento delle mode del momento e dei diversi conformismi del mondo editoriale italiano, capitò di sentirsi sempre più ai margini, sempre più fuori posto, sempre meno in sintonia con i gusti prevalenti.
 Zullino, con la sua propensione per lo studio, con il suo rovesciamento dei canoni storico-accademici, con il suo spiccato senso per la colta provocazione che gli permetteva di leggere la realtà contemporanea con occhi sempre nuovi, sentiva di non appartenere alla folta schiera dei narratori per una stagione. Il suo sguardo era rivolto all’oltre, ciò che gli premeva era la continuazione dell’indagine del contesto storico-politico come conformazione ed estensione delle contraddizioni individuali umane, quelle cioè celate nel cuore di ogni uomo.
 Da questo punto quindi l’esplorazione del mondo classico e delle sue radici era per Zullino il terreno ideale per dare corpo a quella esplosione multiforme di ripensamenti sulla realtà che si vive (nell’oggi) e su quella che si immagina, se è vero che proprio nei reconditi del mondo antico, e in specie nella vicenda della Roma imperiale, è possibile rintracciare i segni sensibili e tutte le contraddizioni del presente storico e antropologico, come scriveva Ungaretti a proposito di Virgilio che – diceva -  ci accompagna non più come un emblema ma come uno dei fatti della nostra vita (1). 
  I fatti della nostra vita, dunque, quelli che più interessavano Zullino e che nei primi anni del 2000 lo portarono a cimentarsi in un lungo, estenuante progetto rappresentante la summa di una meticolosa ricerca capace di coniugare lo studio e l’esercizio linguistico – da sempre cifre caratteristiche della sua opera – con la pura narrazione, con il disegno di un amplissimo (e definitivo) affresco su quel mondo, il mondo degli amati classici latini, di quei cantori che prima e forse meglio di tutti gli altri seppero scendere nei recessi dei fondamentali umani.