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25/12/18

Poesia di Natale: "Torna Gesù" di Luigi Pirandello.




Torna Gesù

La memoranda notte è ormai vicina
e mi risuona ancora negli orecchi,
eco gentil dell'età mia bambina,
la voce de' miei vecchi:
Candido roseo e biondo
come nato da giorni, eri anche tu,
vien questa notte al mondo
il Bambino Gesù !

Ogn'anno, ogn'anno in questo freddo mese,
per quanto stanca, l'anima risogna
la festa che a Gesù fa il mio paese.
Già suona la zampogna...
Ah che profonda, arcana
malinconia, che nostalgia m'assal
della casa lontana,
del villaggio natal !

Rigide sere della pia novena
in cui, sur ogni piazza, in ogni via,
fiamman, fuochi gregal, fasci d'avena:
mentre la litania
il vicinato intuona
raccolto innanzi a un rustico altarin,
e la zampogna suona,
tintinna l'acciarin.

Ed io fanciullo, alla finestra dietro
me ne stavo, e schiarendo con un dito
timidamente l'appannato vetro,
rimiravo smarrito,
in un'ansia segreta,
se in quella notte piena di mister
la fulgida cometa
apparisse davver... .

E dubitavo allora, e ho dubitato
sempre, dappoi. S'inaridì l'istinto
della fede nel cuore: errai bendato
per questo labirinto
della vita mortale,
e te pure chiamai causa, Gesù,
d'una parte del male
che si soffre quaggiù.

Ma santa adesso appar la tua follia
anche al mio sguardo, o dolce redentore.
E torna, io prego, a noi, torna, Messia,
a predicar l'amor!
Altri, del rosso tuo mantello avvolto,
d'odio nudrendo la gentil parola,
batte alle oscure case, e infosca il volto
de la miseria. Vola

il grido della guerra...
Pace tu sei, Gesù, tu sei pietà:
torna a rifare in terra d'amor la carità.

Luigi Pirandello (1867-1936)

21/09/18

Dio Esiste ? "Le non ragioni degli atei - La grande domanda metafisica" - un bellissimo (e definitivo) intervento di Dario Antiseri.


«La scelta fra l’esistenza e l’inesistenza di Dio» – ha scritto Luigi Pareyson – «è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma. Tale opzione è eminentemente religiosa, anche quando si risolva in senso negativo, perché il ripudio di Dio è così strettamente legato all’accoglimento che in alternativa si può farne, che ne conserva sempre un’inconsapevole nostalgia. La filosofia, poi, in quanto sopravviene a scelta già fatta, non ha più voce in capitolo, non certo per affermare l’esistenza di Dio, ma nemmeno per negarla, perché anche il ripudio di Dio non è frutto d’un ragionamento, ma atto profondo e originario della persona. D’altra parte la filosofia non ha il compito di dimostrare l’esistenza di Dio, perché essa non estende la conoscenza a nuovi ambiti di realtà, ma riflette su esperienze esistenziali: il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico»

E va da sé che il credente che non ha dubbi non ha fede. Hanno dubitato gli Apostoli. La «notte dell’anima» è esperienza di grandi anime mistiche

«L’uomo religioso» – è ancora Pareyson a parlare – «può capire il dubbio, che non è se non il risvolto della sua fede, un aspetto essenziale di essa o un suo momento interno, giacché la fede è ben lungi dall’essere un possesso tranquillo, sicuro e incontrastato, favorito dalla tradizione e ribadito dall’abitudine, ché anzi spesso è lotta durissima e tensione lancinante, appena lenita dalla consapevolezza ch’essa è cosa vivente e vivificatrice, bastevole a ispirare e riempire una vita intera». 

Dunque, se non hai dubbi non hai fede. 

Ma l’ateo troppo sicuro di sé usa o abusa della ragione? 

Quale prova è disponibile per poter sostenere che il tutto-della-realtà è rigorosamente e convincentemente riducibile a quella realtà di cui parla e può parlare la scienza? 

L’ateismo non è una teoria scientifica.

E non è certamente la scienza, finché la ricerca rimane nel suo legittimo ambito di azione, a negare la possibilità di una realtà trascendente.

E c’è di più. Difatti, se la fede conduce al mistero di un Dio creatore, l’ateo non si trova pure lui di fronte al fatto misterioso di un grumo di materia originario da cui si è sviluppata e si sviluppa la storia dell’universo? Questo grumo di materia si è autocreato? 

Come sostiene Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-philosophicus, l’esistenza dell’universo è un fatto misterioso, suscita uno stupore abissale. La fisica sposta la «grande domanda» – la domanda metafisica –, non la elimina. 

Così come non la elimina, anzi la genera, la teoria dell’evoluzione della vita

Nessuno può negare che la scienza – con le sue domande e le sue risposte e la sua storia – non abbia alcun valore perché costruita da un essere che avrebbe per antenato una «scimmia». Ma questa «scimmia» rimessa a nuovo, oltre che porsi problemi scientifici, si è posta e seguita a porsi il problema del «senso», del «senso del tutto», un problema eminentemente religioso

E, allora, con quali argomenti lo scientista evoluzionista potrà affermare insensatezza, illusorietà della «richiesta di senso», cioè della domanda religiosa? 

La realtà è che la teoria evolutiva della vita non solo non cancella il problema religioso, ma lo fa emergere. 

Scrive Darwin: «Il sentimento di devozione religiosa è sommamente complesso perché consta di amore, di compiuta sommissione a un essere superiore elevato e misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di timore, di riverenza, di gratitudine, di speranza nell’avvenire, e forse di altri elementi. Nessuna creatura potrebbe provare un’emozione tanto complessa, senza che le sue facoltà morali e intellettuali abbiano raggiunto un certo grado di elevatezza».

11/02/18

Michio Kaku: "Il caso non esiste. C'è una forza intelligente che governa tutto".



Fisico e teorico americano molto rispettato, Michio Kaku, famoso per la formulazione della teoria rivoluzionaria delle stringhe (modello di fisica fondamentale che presuppone che le particelle materiali apparentemente specifici sono in realtà “stati vibrazionali”), ha recentemente causato una piccola scossa nella comunità scientifica sostenendo di aver trovato le prove dell’esistenza di una forza sconosciuta e intelligente che governa la natura. Più semplicemente, qualcuno di simile al concetto che molti hanno di Dio come creatore e organizzatore dell’universo. Per arrivare a questa conclusione Michio Kaku ha utilizzato una nuova tecnologia creata nel 2005 e che gli ha permesso di analizzare il comportamento della materia su scala subatomica, basandosi su un “primitivo tachioni semi-radio”. Tachioni, incidentalmente, sono tutte quelle ipotetiche particelle in grado di muoversi a velocità superluminali, cioè sono particelle teoriche, prive di qualsiasi contatto con l’universo. Quindi questa materia è pura, totalmente libera dalle influenze dell’universo che la circonda.

Secondo il fisico, osservando il comportamento di questi tachioni in diversi esperimenti, si arriva alla conclusione che gli esseri umani vivono in una sorta di “Matrice”, cioè un mondo governato da leggi e principi concepiti da una specie di grande architetto intelligente

“Sono giunto alla conclusione che siamo in un mondo fatto da regole create da un’intelligenza, non molto diversa da un gioco per computer, ma naturalmente, più complessa”, ha detto lo scienziato.

Analizzando il comportamento della materia a scala subatomica, colpiti dalle primitive tachioni semi-radio , un piccolo punto nello spazio per la prima volta nella storia, totalmente libero da ogni influenza dell’universo, la materia, la forza o la legge, è percepito il caos assoluto in forma inedita . 

“Credetemi, tutto quello che fino a oggi abbiamo chiamato caso, non ha alcun significato, per me è chiaro che siamo in un piano governato da regole create e non determinate dalle possibilità universali, Dio è un gran matematico” ha detto lo scienziato .

Michio Kaku ha ricordato che “qualcuno fece ad Einstein la grande domanda: c’è un Dio? Al che Einstein rispose dicendo che credeva in un Dio rappresentato dall’ordine, dall’armonia, dalla bellezza, dalla semplicità e dall’eleganza, il Dio di Spinoza. L’universo potrebbe essere caotico e brutto, invece è bello, semplice e governato da semplici regole matematiche. ”

Per quanto riguarda la formulazione del famoso “String Campo Theory”, o teoria delle stringhe, modello fondamentale della fisica che presuppone che particelle di materiale apparentemente specifici sono effettivamente “stati vibrazionali” un oggetto esteso più base chiamato ” corda “o” filamento “che renderebbe un elettrone, per esempio, non un” punto “struttura interna e dimensione zero, ma una massa di minuscole corde vibranti in uno spazio-tempo di più di quattro dimensioni , Kaku ha affermato che “per lungo tempo ho lavorato su questa teoria, che si basa su musica o piccole corde vibranti che ci danno le particelle che vediamo in natura. Le leggi della chimica con cui abbiamo avuto problemi alle superiori, sarebbero le melodie che possono essere suonate su queste corde vibranti. L’universo, sarebbe una sinfonia di queste corde vibranti e la mente di Dio, su cui Einstein scrisse molto, sarebbe la musica cosmica che risuona attraverso questo nirvana, attraverso uno spazio iper-dimensionale “.

Il fisico americano di origine giapponese ha concluso che “i fisici sono gli unici scienziati che possono pronunciare la parola “Dio” e non arrossire. 

Il fatto essenziale è che queste sono domande cosmiche di esistenza e significato. Thomas Huxley, il grande biologo del secolo scorso, ha affermato che la questione di tutte le questioni della scienza e della religione è determinare il nostro posto e il nostro vero ruolo nell’universo. Pertanto, scienza e religione trattano la stessa domanda. Tuttavia, c’è stato essenzialmente un divorzio nel secolo scorso, più o meno, tra scienza e umanesimo, e penso che sia molto triste che non parliamo più la stessa lingua “.


07/11/17

"Fermati o Sole!" Uno degli episodi più celebri della Bibbia spiegato da una Eclissi ?



Riecheggiata per millenni, la frase del condottiero israelita Giosuè: "Fermati, o sole" e' stata adesso esaminata da esperti di archeologia, di linguistica, di fisica e di astronomia che ritengono di poter finalmente stabilire il giorno in cui quelle parole potrebbero essere state pronunciate

Correva il 30 ottobre 1207 a.C quando chi si trovava nella valle di Ayalon (a nord ovest di Gerusalemme) resto' impietrito perché' allora la luna andò sovrapporsi al sole in quella che oggi viene definita una eclissi solare anulare

Mesi fa questa tesi era stata avanzata da tre ricercatori dell'Universita' di Beer Sheva (Hezi Yitzhak, Daniel Weinstaub e Uzi Avner). 

Adesso, aggiorna il Times of Israel, anche un team della Universita' di Cambridge e' arrivato alla medesima conclusione dopo essere andato a ritroso del tempo alla ricerca di fenomeni celesti che potevano essere osservati ad occhio nudo nella terra di Canaan in un periodo compreso fra il 1500-1000 avanti Cristo. 

Grazie a computer sofisticati - i ricercatori israeliani si sono rivolti alla Nasa - è stato possibile identificare la eclissi anulare del 1207 e proporre cosi' un contesto preciso alla narrazione biblica

Le truppe di Giosué avevano marciato tutta la notte per risalire i mille metri di dislivello e i 30 chilometri di distanza fra Ghilgal (valle del Giordano) e la alleata Ghivon, a nord di Gerusalemme. 

Di fronte avevano una agguerrita coalizione di Amorei, ostili a Ghivon. 

All'alba Giosué avanzo' verso Beit Horon. Poi discese la valle di Ayalon (oggi vi passa la Highway 443 Gerusalemme-Tel Aviv, a ridosso della Cisgiordania) diretto verso le località nemiche di Azeca e Yarmut. 

Gli Amorei erano in rotta: ma bisognava assolutamente sbaragliarli prima che col favore delle tenebre potessero trovare nascondigli, poiche' conoscevano bene il terreno. Occorrevano altre ore di luce. 

Qui giunse la invocazione: 'Sole fermati in Ghivon e tu, Luna, sulla valle di Ayalon'. 


E il Sole - si legge nella Bibbia - si fermo' a meta' del cielo e "non si affretto'" a tramontare

 Se le parole attribuite a Giosue' riflettono una osservazione reale, ha notato un ricercatore britannico citato dal Times of Israel, "allora in quel momento stava avvenendo un importante evento astronomico"

I ricercatori israeliani e britannici si sono soffermati in particolare sul doppio significato della parola ebraica 'dom' del testo biblico. Oltre che 'fermarsi' puo' indicare anche un affievolimento ('dimdum') della luce. Forse appunto una eclissi anulare. 

L'unica che poteva essere osservata da Giosue', secondo questi ricercatori, avvenne nel 1207 a.C. 

 Sul web, come spesso avviene in questi casi, c'e' chi ostenta una dose di scetticismo. In particolare viene fatto notare che nel versetto in questione il Sole e' sopra Ghivon mentre la Luna e' sulla valle di Ayalon. Non danno l'idea di essere sovrapposti. 

Ma come questi versetti biblici, anche la 'teoria dell'eclissi' viene riproposta periodicamente e forse e' destinata a restare sospesa a mezz'aria appunto come il Sole, quel giorno di tre millenni fa sopra Ghivon. 

13/01/17

"Il libro del Tao - Tao Te Ching" di Lao Tzu, un libro per la vita.




E' un libro che non si smette mai di rileggere e che ogni volta restituisce un tesoro di conoscenza. 

Si tratta di uno di quei testi sapienzali che come accade per lo stesso I-Ching sembra rispondere diversamente ogni volta al lettore che lo interroga e che vi si accosta. Proponendo risposte ricche di implicazioni da decifrare, che hanno riscontro nelle vite di tutti. 

Scritto, secondo la tradizione cinese, nel VI secolo a.C. dal leggendario Lao-tzu e, secondo i filologi, in un’età oscillante fra il VI e il III secolo a.C., il Tao-tê-ching è considerato il fondamento della religione e della scuola filosofica taoista.

Lao-tzu utilizza e interpreta categoria che all'epoca in cui egli scrive già esistevano e facevano parte della civiltà cinese arcaica: il Tao, cioè la «Via», regolatrice della totalità; il , «Virtù», ma piuttosto nel senso di «potenza magica»; lo Yin e lo Yang, princìpi femminile e maschile; il Wu wei, cioè il «non-agire», ricetta della suprema efficacia. 

Tali categorie vengono rielaborate dal Tai-te-Ching in brevi frasi apparentemente semplici, che possiedono una risonanza infinita e pur rasentando la paradossalità esprimono idee di pura evidenza, illuminanti nella introspezione dell'animo umano.  

In particolare - in pieno contrasto con l'ideologia preminente nella civiltà occidentale - il Tao-te-ching è una esaltazione della debolezza e della mollezza come antidoto alla forza e alla durezza umana, che causano i più grandi disastri, nelle vite individuali e in quella collettiva. 

Pratica il non agire. Impegnati a non essere indaffarato (LXIII), scrive Lao-Tzu, Più vai lontano, meno conosci. Per questo il saggio conosce senza spostarsi, riconosce senza vedere, compie senza agire. (XLVII)

 Fai vivere le creature, nutrendole e trattandole come se fossero tue, senza aspettarti nulla in cambio. Lasciale crescere e non pretendere di possederle e governarle. Questa è la virtù più misteriosa. (X)

In poche pagine si dipana una saggezza difficile e antica, che si basa sull'accettazione della trasformazione e sull'essere predisposti e consistenti per il cambiamento.  Come ogni bambino che nasce che - scrive Lao Tse - è molle e debole, e proprio per questo cresce e diventa colmo di pienezza.  Per questo chi muore è duro e rigido. 

Non bisognerebbe mai dimenticarlo. 



26/10/16

Carlo Maria Martini, "l'uomo del dialogo". Un ricordo in questi tempi di barricate.



Prima di dirvi addio (e alla mia età ogni incontro è un addio) vorrei dirvi in breve come, secondo me, gli uomini dovrebbero organizzare la loro esistenza, affinché essa cessi di essere miserabile e sventurata, come è oggi per i più, e divenga invece quale dovrebbe essere, quale Dio la desidera e tutti noi la desideriamo e cioè buona e lieta… Lo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice. (Lev Tolstoj) 

Sono parole che potrebbero essere tranquillamente attribuite al Cardinale Carlo Maria Martini, perché riassumerebbero come forse meglio non si potrebbe il sentire dell’uomo che dopo aver condotto per 33 anni l’arcidiocesi Milanese, è divenuto un punto di riferimento della spiritualità non solo cattolica, nel mondo. 

E in effetti le parole di Tolstoj, riferite all’inizio, furono scritte in una sorta di testamento spirituale – poco conosciuto – Amatevi gli uni e gli altri, poco prima della morte, dal grande scrittore. 

Carlo Maria Martini era ‘tolstojanamente’ convinto che l’amore fosse la via rivelatrice e conoscitrice di cui gli uomini dispongono, nell’attraversamento di questa vita.

 Il cristianesimo – scriveva nella risposta alla missiva di uno dei tanti lettori che si rivolsero a lui nella rubrica del Corriere della Sera che curò negli ultimi anni della sua vita – è molto di più di una religione; esso nasce dall’iniziativa divina di entrare in contatto con l’uomo e di rivelargli se stesso. 

E non è un caso se, a partire dal momento esatto della sua morte, la sera del 31 agosto scorso, la parola più usata in relazione a Martini sia stata proprio ‘dialogo’. Dia-logo: Martini era l’uomo del dialogo. 

E cioè l’uomo del logos (cioè della parola) e del dia (cioè del ‘fra’: parole fra soggetti diversi, questo è dia-logo): solo una forma di com-prensione e di amore infatti permette il reale dialogo tra le persone; solo l’amore permette il vero dialogo, solo il dialogo mi permette di uscire da me stesso e di farmi altro, farmi-con-l’altro. Che nel caso di Martini era un Altro. 

Un Altro-alto, che attraverso di me trova il suo posto nel mondo, in questo mondo. 

Tutta la vicenda umana di Martini, dunque, dai primi passi compiuti, appena adolescente, nella casa dei Gesuiti di Cuneo, fino alla mirabile carriera universitaria che lo portò fino a ricoprire il ruolo di rettore della Pontificia Università Gregoriana, fino al prestigioso incarico di Arcivescovo di Milano, nel ruolo che fu di Sant’Ambrogio prima e di San Carlo Borromeo poi, e fino ancora ad una forte candidatura a divenire Papa, è improntata, ha come sigillo questa ricerca continua di spiritualità autentica, fondata cioè non tanto e non solo sulla elaborazione dei dogmi e delle liturgie, quanto soprattutto sul dialogo umano e vivente con i diversi, con gli atei, con l’altro, con la comunità intera dei fedeli, oltre che sulla preghiera.

 E a proposito del Soglio sfiorato, chi scrive era, insieme ad altri, sul tetto del Collegio dei Padri Agostiniani, quella sera del 18 aprile 2005. Si stava tenendo il Conclave per la elezione del 265mo successore di Pietro. C’erano diversi motivi di disorientamento tra coloro che seguivano i lavori, in quei giorni. 

Il primo motivo era la morte di Giovanni Paolo II, Karol Wojtyla, avvenuta 16 giorni prima, il tardo pomeriggio del 2 aprile, dopo una lunga e lenta agonia. Un pontefice che aveva segnato così profondamente la storia degli ultimi anni. 

Il secondo motivo era il tempo passato dalla elezione precedente: 27 anni. Essendo stato eletto il polacco, il 28 ottobre del 1978. 

Un tempo così lungo che perfino per i più esperti segnava una barriera temporale ostica: chi ricordava, tra i presenti, esattamente i riti del Conclave ? Chi poteva dirsi preparato ad affrontarli per descriverli minuziosamente, quei riti così complessi, sedimentati nei venti secoli precedenti, frutto di infinite variazioni e correzioni del cerimoniale canonico ? Una sola certezza sembrava esservi, all’inizio di quello che fu poi uno dei Conclave più veloci della storia (e su questa velocità pesò sicuramente anche proprio quella necessità di riempire il più presto possibile il vuoto lasciato da un predecessore così “ingombrante”): i due pretendenti più accreditati e più autorevoli erano Joseph Ratzinger da un lato e Carlo Maria Martini dall’altro. 

A molti - e la stampa ovviamente giocò molto su questa dicotomia - sembrava il confronto perfetto: la dogmatica contro il colloquio, la dottrina della fede contro l’umanità del confronto cristiano. Vinse Ratzinger. 

Le cronache dei retroscena del Conclave riferirono che Martini, riluttante sin dal principio, a ricoprire un compito così gravoso, sin dopo il primo scrutinio - avvenuto appunto la sera del 18 aprile - scelse esplicitamente di rinunciare, convinto dal numero non sufficiente di voti ricevuti (il vero antagonista divenne così Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, anche lui Gesuita; ma soltanto per altre due votazioni: al quarto scrutinio Ratzinger ottenne il quorum necessario) nel primo scrutinio e dalla eventuale possibilità di frammentare in due il Collegio dei Cardinali, con la prospettiva di un lungo Conclave che avrebbe potuto avere conseguenze pesanti. 

Sulla decisione pesò anche sicuramente la consapevolezza di una malattia che non perdona - Martini aveva già da sette anni quel Parkinson che quest’anno l’ha portato alla morte, consumandolo lentamente. 

Che speranza poteva darsi alla Comunità dei credenti eleggendo un nuovo Papa afflitto, per ironia del destino, dalla stessa malattia che aveva segnato e portato via l’illustre Predecessore? Martini decise, prima ancora che vi fosse il rischio di una elezione, di defilarsi. Mi sono chiesto più volte (me lo chiesi anche in quei giorni) – e in tanti sono tornati a chiederselo in questi giorni, dopo la sua scomparsa - cosa sarebbe accaduto se Martini fosse divenuto Papa, se fosse stato lui l’erede di Wojtyla, e non Ratzinger. 

Oggi che la grande anima di Carlo Maria Martini ci ha lasciato su questa terra, è inevitabile - ma forse anche profondamente inutile – domandarselo, speculare su cosa sarebbe potuto essere e non è stato. Per un cristiano, oltretutto, queste sono questioni veramente superflue, che non dovrebbero essere mai poste, perché il primo credo è quello della fiducia e dell’affidamento ad una Volontà superiore, che ne sa sicuramente più di noi. 

Anche perché probabilmente il progressivo, lento isolamento a cui la malattia ha costretto Martini - isolamento dovuto negli ultimi tempi anche alla impossibilità di parlare - ci ha regalato qualcosa di molto grande, indipendentemente dall’essere divenuto o meno il capo effettivo della Chiesa cattolica. 

Lo spirito infatti ha parlato in ogni momento, in ogni giorno, attraverso le parole di Martini pronunciate magari sottovoce, ai più stretti confratelli e negli ultimi tempi solo grazie ad un apparecchio acustico in grado di amplificare e rendere comprensibili i flebilissimi suoni della sua voce; attraverso le parole scritte per coloro - sempre più numerosi - che hanno voluto leggerle nei suoi molti libri, nei suoi Esercizi Spirituali, nelle lettere dalla Terra Santa, dove per diversi anni si era ritirato, nelle lettere ai giornali. E ha parlato anche - fortissimo - attraverso il suo silenzio sofferente. 

Forse, anzi, lì più che altrove. Non c’era modo più esplicito e più concreto, per tutta quella che è stata la sua parabola terrestre, per lasciare un segno tangibile della sua presenza che durerà a lungo, che sarà per molti incancellabile e che si racchiude forse in una sola parola: speranza. “Occorre avere una forte fiducia in Dio Padre”, scriveva negli ultimi tempi Martini, “che conosce tutta la nostra eternità e vuole il meglio per noi, e un grande amore per Gesù. Per questo non si tratta mai di una operazione astratta, ma di un dramma in cui si scopre l’amore di Dio e la nostra capacità di dono e di perdono”.

Fabrizio Falconi

16/03/15

David Lynch parla di Dio e della creatività. (intervista di Antonio Monda).


Brano dell'intervista a David Lynch realizzata da Antonio Monda per il suo libro: Tu credi ? Conversazioni su Dio e la religione, Fazi editore, 2006, pagg. 95 e seguenti. 


A.M.: Vorrei chiederti come mai le tue storie privilegiano il mistero, il paranormale e l'assurdo.

D.L. : Potrei limitarmi a dire che sono affascinato da tutti questi elementi, ma anche che ritengo che nessuno possa arrogarsi il diritto di dire cosa sia assurdo e cosa logico, cosa sia normale e cosa paranormale.
E sul concetto di mistero potremmo parlare a lungo: la mente umana lavora di intuizione, e quindi è in grado di intuire anche l'astrazione. 
Il cinema è il linguaggio delle immagini in movimento, e quindi costringe l'autore ad esprimere queste astrazioni con gesti e azioni. Come artista sono affascinato da ogni creazione che nasce da questo contrasto. 

A.M. : Una domanda diretta: credi in Dio ?

D.L. : Credo che esista un essere divino, onnipotente ed eterno. 

A.M. : Come te lo immagini ?

D.L. : Non me lo immagino, se non per le caratteristiche che ti ho appena detto.

A.M.: Nei tuoi film il male è assoluto, e il bene è segno di una purezza infinita che sconfina nella santità. Non ti sembra una impostazione manichea ?

D.L. : La prima risposta che mi viene da darti è che si tratta unicamente di un modo di esprimermi artisticamente. Ma voglio aggiungere che non credo esista qualcosa che sia in sé cattivo o buono: è il nostro modo di vederlo che lo rende tale.

A.M. : Intendi dire che non esiste il bene o il male ?

D.L. ; Quello che intendo è che sono dentro di noi, e da lì provengono.

A.M. : Negli ultimi anni hai dedicato molta energia e passione alla meditazione trascendentale. Cosa c'è di diverso dal Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homini habitat veritas di Sant'Agostino?

D.L. : La meditazione trascendentale è una tecnica mentale - che io pratico due volte al giorno - che consente ad ogni essere umano di tuffarsi nel proprio io e raggiungere la pura coscienza e la pura felicità. In Sant'Agostino è invece tutto strettamente legato alla rivelazione cristiana. Detto questo, ritengo che ogni essere umano sia destinato alla felicità, che ogni forma di negatività sia come il buio, che scompare appena accendi la luce della pace, della pietà e dell'unità. 


Brano dell'intervista a David Lynch realizzata da Antonio Monda per il suo libro: Tu credi ? Conversazioni su Dio e la religione, Fazi editore, 2006, pagg. 95 e seguenti.

12/01/15

Facciamo pace con il caso - Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare (La lettura, 11 gennaio 2015)





Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare su La Lettura di ieri


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. 

Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti.

Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. 

Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna. La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno.

A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso». Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?

Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita.
Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé. Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.

Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?

Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi.

Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. 

Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla».

Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.

Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso».

Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica. I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. 

Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia.

Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità? Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile.

Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli. Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente.

Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare.

Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.

Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.

Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.



29/06/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)





Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)

Il nome di Roger Louis Schutz, detto frère Roger fece il giro del mondo quel caldo giorno, il 16 agosto del 2005, quando la notizia che una donna squilibrata aveva accoltellato l’ottantenne fondatore della Comunità di Taizè, impressionò  gettando nello sconforto le centinaia  di migliaia di persone che nel corso dei decenni avevano soggiornato tra quelle colline della Borgogna, alla ricerca di un ristoro o di una rigenerazione spirituale.
Le circostanze della morte del frère, assai simili al martirio (seppure per mano di una persona non in possesso di tutte le facoltà mentali) contribuirono alla riconsiderazione della vicenda umana di un uomo dalla personalità unica, che con la sua opera dedicata agli altri ha attraversato gran parte del Novecento, un cammino che ha lasciato tracce ben visibili, e tutt’oggi importantissime.

Ogni settimana, a Taizè, continuano a riunirsi e a pregare, recitando i famosissimi canti della Comunità,   nella  Chiesa della Riconciliazione – costruita nel 1962 e ampliata con un grande avancorpo nel 1990 – migliaia di persone di almeno 70 nazionalità diverse.  Gli incontri intercontinentali organizzati dalla Comunità  riuniscono da 3000 a 6000 persone ogni settimana d’estate,  e da 500 a 1000  in primavera e in autunno.  La preghiera di ogni sabato sera – a Taizè ogni settimana è scandita sui tempi della Settimana Santa di Cristo -  è come una veglia di Pasqua, una festa della luce.   Ogni venerdì sera c’è la suggestiva adorazione della croce, che si prolunga per ore.  E ognuno è chiamato a prostrarsi, affidando al Legno le proprie pene personali. Le lettere di  Frèrè Roger continuano ad essere diffuse in 60 diverse lingue del mondo.  Alla fine di ogni anno Taizè organizza grandi incontri  di giovani – si arrivano a contare fino a centomila presenze – nelle grandi città europee e negli altri quattro continenti.  Al termine di questo pellegrinaggio di fiducia  sulla terra, ogni partecipante è chiamato a portare la pace e la riconciliazione  nelle loro città, nei luoghi di lavoro,  nelle università, tra le diverse generazioni.

Taizè, nel corso degli anni, è divenuta quella sorgente che il suo fondatore sognava.  I fratelli – delle diverse confessioni cristiane -  non sono lì per accettare doni o regali. Svolgono, invece, quel ruolo che la fede, secondo Frère Roger è chiamata sempre di più ad assolvere nel convulso mondo moderno:  Quando la Chiesa ascolta, guarisce, riconcilia, essa diventa ciò che di più trasparente  ha in se stessa: il limpido riflesso di un amore. (1)

Un sogno, quello della pace e della riconciliazione – prima di tutto tra i diversi fratelli che si riconoscono in Cristo e che sono da secoli divisi – inseguito da Frère Roger sin dall’infanzia, e tenacemente portato avanti – con una forza che assomiglia molto alla santità -  attraverso molti e radicali ostacoli.


Roger Schutz - il nome completo è Roger Louis Schutz-Marsauche -  nato a Provence, un paese di trecento anime, nel cantone svizzero del Vaud, il 12 maggio del 1915, proveniva, ultimo di nove figli,  da una famiglia protestante.   Il padre, Karl Ulrich Schütz era il pastore della parrocchia di Provence, sua madre  Amélie Henriette Schütz-Marsauche aveva invece origini francesi, della Borgogna, ed era una appassionata di musica che, prima di sposarsi, aveva studiato canto a Parigi con l’ambizione di diventare un giorno una cantante solista.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.      Così  Frère Roger in Olivier Clément, Taizè-un senso alla vita, edizioni Paoline, Milano 1998, pag. 84.

20/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (4)



(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (4)    

Ma è proprio quel papista e quel filologo -  Tolkien - a spalancare a Lewis le porte di una nuova comprensione di quel Cristianesimo rifiutato nell’adolescenza, proprio a partire dai vecchi miti pagani, i quali  tutti indistintamente parlano di morte e resurrezione.

Per Lewis è una vera e propria illuminazione.   E’ la nascita dell’esclusiva compagnia degli Inklinks (in italiano  gli Imbrattacarte ), molto più che un salotto letterario,  un sodalizio di artisti che segnerà la vita culturale britannica dagli anni ’30 agli anni ’50.

Nel settembre del 1931 l’occasione è fornita da una lunga conversazione notturna con Tolkien Charles Williams, autore del celebre The Place of the Lion, e Hugo Dyson.  Tolkien  suggerisce all’amico  che il Cristianesimo si presenta come l’unica verità nella quale è possibile riassumere, comprendere e sciogliere i miti pagani e le credenze degli antichi. Il Cristianesimo, alla luce di quelle considerazioni, comincia ad apparire agli occhi di Lewis non solo e soltanto come religione o filosofia in senso stretto – lo scrive in Surprised by joy – ma come “riassunto e attualizzazione” di ogni mito e cultura preesistente.
      Sono appena passato dal credere in Dio al credere definitivamente in Cristo [...]. La mia lunga chiacchierata con Dyson e Tolkien ha certamente a che fare con questo, scrive in una lettera all’amico di infanzia Arthur Greeves.

 Dopo una settimana Lewis comunica agli amici la sua conversione al Cristianesimo, tre mesi dopo, il natale dello stesso anno, riceve la comunione.
Anche se Lewis ha smesso di cercare Dio, Dio è tornato a farsi presente.  E il modo in cui è tornato a farsi presente, sotto forma di quelle nuove suggestive amicizie culminate in interminabili conversazioni notturne, lo scrittore lo spiega nelle ultime pagine di un altro suo libro, Prima che faccia notte (9):
     Quanto a Dio, dobbiamo ricordare che l'anima è solo una cavità che egli riempie. Non è forse vero - domanda Lewis - che le vostre amicizie più durevoli sono nate nel momento in cui finalmente avete incontrato un altro essere umano che aveva almeno qualche sentore di quel qualcosa che desiderate fin dalla nascita e che cercate sempre di trovare, sotto il flusso di altri desideri e in tutti i temporanei silenzi tra le altre passioni più forti, notte e giorno, anno dopo anno, fino alla vecchiaia?... Se questa cosa dovesse finalmente manifestarsi - se mai dovesse sentirsi un'eco che non si spegnesse subito ma si espandesse nel suono stesso - voi lo sapreste. Al di là di ogni dubbio possibile direste: "Ecco finalmente quella cosa per cui sono stato creato". Non possiamo parlarne gli uni agli altri.  E’ la firma segreta di ogni anima, l'incomunicabile e implacabile bisogno”.  Quello che voi agognate vi invita a uscire da voi stessi. Questa è la legge suprema - il seme muore per vivere . L'"io" esiste perché possa abdicare; e, con questa abdicazione, esso diventa più veramente "io". (10)     
     
Questo aprirsi agli altri, questa abdicazione dell’io – con tutte le sue fatiche e resistenze -  è testimoniata come forse meglio non si potrebbe dalla vita stessa di Clive Staples Lewis. In fondo egli non cercò altro che il riflesso negli altri di quel qualcosa che desideriamo fin dalla nascita e cerchiamo sempre di trovare.  Un fine ultimo che non è possibile sperare di raggiungere senza passare dall’altro che è fuori di me, da quello che evangelicamente è il prossimo.
Lewis lo spiega in modo paradigmatico in una splendida pagina de Il cristianesimo così com’è:

     Posso ripetere “fa’ agli altri ciò che vuoi sia fatto a te” fino a rompermi le corde vocali, ma non riuscirò ad agire così finché non amerò il mio prossimo come me stesso; e non posso imparare ad amare il prossimo come me stesso se non imparo ad amare Dio; e non posso imparare ad amare Dio se non imparo ad obbedirGli.  Sicché, come vi avevo avvertito, siamo sospinti verso qualcosa di più intimo – dalle questioni sociali alle questioni religiose.  Perché la via più lunga è la più breve per arrivare in porto. (11) 


(segue -4./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

       
9.     Prima che faccia notte, che raccoglie scritti inediti di C. S. Lewis, a cura di E.Rialti, con prefazione di T.Howard,  è pubblicato in Italia da BUR, Milano, 2005.
10.     Prima che faccia notte, op.cit. pag. 127
11.      Il Cristianesimo così com’è, op. cit. pag. 118.

19/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (3)





(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (3)    

In effetti anche la ricerca di Clive Lewis riguardo la fede sembra oscillare, umanamente tra gli opposti di una fede radicalmente – e razionalmente – vissuta come vera, e i dolori di una ‘assenza’ di Dio che viene avvertita nelle notti buie del dolore.
Quel vestibolo, descritto prima, può sembrare anche un luogo molto molto oscuro.
Anni fa -  scrive in Diario di un dolore - dopo la morte di un amico, la certezza che la sua vita continuava, che anzi continuava su un piano più alto, fu per qualche tempo una sensazione nettissima.   Ho supplicato che mi venga data anche solo la centesima parte di quella assicurazione per H. (è Joy, la moglie scomparsa ndA) . Non c’è risposta.  Solo la porta sbarrata, la cortina di ferro, il vuoto, lo zero assoluto.  “Chi chiede non ottiene.” Sono stato uno sciocco a chiedere. Perché ora, anche se quella assicurazione venisse, ne diffiderei. La crederei un’autoipnosi indotta dalle mie preghiere. (6)

Ma più avanti, nello stesso testo, nel vestibolo compare una parvenza di luce, e la porta non è più così sbarrata.
Quando pongo queste domande davanti a Dio, non ricevo nessuna risposta. Ma è un “nessuna risposta” di tipo speciale.  Non è la porta sprangata.  Assomiglia piuttosto a un lungo sguardo silenzioso, e tutt’altro che indifferente. Come se Lui scuotesse il capo non in segno di rifiuto, ma per accantonare la domanda.  Come a dire “ Zitto, bimbo; tu non capisci. “ (7)

Il problema è sempre nella risposta, come si vede. Nell’elaborazione dei pensieri  anche contraddittori – è facile per ognuno che abbia vissuto il lutto di una persona cara, riconoscersi – nel flusso di sentimenti contrastanti, c’è anche spazio per una sintesi di grandiosa efficacia.
Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo? (8)
Parole che parlano – a cuore aperto – della vita vissuta da Clive Staples Lewis.

Probabilmente, a quel che egli stesso racconta nella sua autobiografia, anche Lewis era giunto ad archiviare la ‘pratica Dio’ quando, dopo aver abbandonato la fede cristiana, inizia ad insegnare Lingua e Letteratura Inglese alla prestigiosa università di Oxford (dove eserciterà per ben ventinove anni) . L’impegno accademico lo assorbe completamente.  C’è meno tempo adesso, per pensare alle questioni ultime, e forse è un bene così.  Si dedica invece con dedizione allo studio dei miti, compone poemi in versi ispirati alle leggende arcaiche e alle tradizioni nordiche.


Ma ecco che la questione ritorna. E ritorna sotto forma di una amicizia. John Ronald Reuel Tolkien, il futuro autore de Il Signore degli anelli e di Silmarillion  ha sei anni più di Lewis.  Anche Tolkien ha perso prematuramente la madre, a soli dodici anni.  Anche la famiglia di Tolkien ha radici cristiane, anche se cattoliche. Anche Tolkien ha combattuto nella Grande Guerra, in prima linea sul fronte occidentale.  E come lui, condivide un profondo interesse per la mitologia e insegna ad Oxford.  Una specie di gemello, o di fratello maggiore, per Lewis. Ed è forse proprio questa somiglianza a suscitargli una certa diffidenza. Scrive ironicamente  in Surprised of joy:  Alla mia venuta in questo mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista, e (apertamente) al mio arrivo nella facoltà di inglese di non fidarmi mai di un filologo. Tolkien era l'uno e l'altro.

(segue -3./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

       
6.     Diario di un dolore, op.cit. pag.14.
7.     Diario di un dolore, op.cit. pag.78.
8.     Diario di un dolore, op.cit. pag. 13.

18/11/13

(Dieci grandi anime) - 3. Clive Staples Lewis (2)





(Dieci grandi anime) - 3Clive Staples Lewis (2)    

Ma la prova più difficile è quella che deve affrontare nella piena maturità della sua vita, quando, dopo molta solitudine, l’incontro con Joy – la bella americana che ha conosciuto per lettera – sembra spalancargli le porte di una felicità insperata: non è così.  Pochi mesi dopo il matrimonio con rito civile, la donna comincia ad accusare sintomi di quella che viene diagnosticata, all’inizio, come una reumatite.  Ma esami più approfonditi rivelano l’esistenza di un tumore alle ossa, già piuttosto esteso. Quando viene celebrato il matrimonio religioso, nel marzo del 1957, sembra che la fine sia ormai vicina.  Invece, nell’estate seguente, Joy migliora sensibilmente. A tal punto che la coppia di sposi parte per un viaggio in Irlanda, poi, l’anno successivo  in Grecia.  Ma la malattia ben presto prende nuovamente il sopravvento.  Joy muore nel luglio del 1960.

Sarà proprio l’esperienza di questo spaventoso lutto a generare la nascita di quel capolavoro, Diario di un dolore, che Lewis scrive di getto nei mesi seguenti la morte di Joy, e che pubblica sotto pseudonimo.

Un grido, una protesta -  che non mette mai a soqquadro il cielo, ma chiede risposte, e resta inconsolabile -  percorre tutto il libro, che si legge oggi come un moderno lamento di Giobbe.
Parlatemi della verità e della religione, scrive Lewis,   e ascolterò con gioia.  Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite. (3)

Perfino l’ultimo atto della vita terrestre dello scrittore si concluderà con una specie di beffa.  Lewis infatti si ammala ai reni e al cuore, e muore pochi soltanto tre anni dopo la sua compagna, proprio nello stesso giorno – 22 novembre 1963 – in cui il fucile di Lee Harvey Oswald uccide a Dallas John Fitzgerald Kennedy.   E’ chiaro che – scosso da questa grande tragedia – il mondo si dimentica di Lewis, e anche della sua morte.

Ma, a parziale riparazione di quel momentaneo oblio, c’è da dire che mai come oggi l’opera di Lewis è letta, riscoperta e amata in tutto il mondo. Eppure, si tratta di un’opera ben variegata, e di difficile interpretazione, dove è possibile trovare di tutto, dai testi di introspezione filosofica,  alle saghe allegoriche, ai romanzi di pura fantascienza, dalle opere puramente accademiche ai libri per ragazzi.

Se c’è un filo rosso che attraversa interamente questa opera, è però sicuramente quella ricerca, quasi quella ossessione, di un oltre, di una sostanza segreta dietro l’apparenza di tutte le cose,  cui abbiamo già detto, e che Lewis stesso definiva ‘gioia’.
Un cammino che lo scrittore ha definito - nei racconti autobiografici  - lungo, faticoso  e senza un arrivo stabilito una volta per tutte.
     
Quando prova a descrivere tempi e modi di questa ricerca, Lewis, fa ricorso ad immagini molto concrete, ed è anche questo che lo rende così popolare, così immediatamente comprensibile. In quello che è il suo saggio forse più famoso -  Il cristianesimo così com’è (4) - trascrizione di una serie di conversazioni radiofoniche , così scrive:
Il cristianesimo puro e semplice proposto qui, scrive Lewis, è simile a un vestibolo in cui si aprono porte che danno in varie stanze… Il vestibolo è un luogo dove stare in attesa, un luogo da cui tentare varie porte, non un luogo in cui vivere.   Alcuni, è vero, dovranno attendere nel vestibolo per un tempo considerevole, altri sanno con certezza fin quasi dal primo momento a quale porta bussare. Io non so perché ci sia questa differenza, ma sono sicuro che Dio non fa attendere nessuno se non vede che l’attesa gli giova.

     Quando entrerete nella vostra stanza scoprirete che la lunga attesa vi ha arrecato un beneficio che non avreste avuto altrimenti. Ma dovete considerarla un’attesa, non una sistemazione definitiva.    Dovete continuare a pregare per aver luce.  (5) 

(segue -2./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

      
3.     Diario di un dolore, op. cit. pag. 31.
4.   Mere Christianity (based on radio talks of 1941-1944), è edito in Italia da Adelphi con il titolo Il cristianesimo così com’è,  Milano, 1997, traduzione di Franco Salvatorelli.
5.     Il cristianesimo così com’è, op.cit. pag. 21.