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12/10/18

Parla la figlia di Ezra Pound, mentre esce un nuovo libro: "Ho cercato di scrivere Paradiso".



In un castelletto sulla vallata di Merano in Alto Adige c'e' un pezzo dell'eredita' di un grande poeta americano, Ezra Pound

E' qui a Brunnenberg che vive la figlia Mary de Rachewiltz, e il castello e' anche museo, pieno di cimeli dei decenni che Pound passo' in Italia. Poetessa, saggista, traduttrice in italiano di Pound e altri poeti, Mary e' figlia della violinista Olga Rudge. 

Figlia illegittima, perche' Pound era sposato a un'altra donna. 

La sua e' una storia affascinante fra misteri e memorie. 

"Mia madre - spiega - voleva un figlio da mio padre; lui non ne voleva. Lei c`e' riuscita, solo che e' nata una figlia, e per lei e' stato un tale shock che non mi ha voluta". 

La bambina viene affidata a una balia tirolese, con cui vivra' fino ai dieci anni. Fino allora stato e' proprio Pound a occuparsene di piu', scrivendole, tenendo i contatti con la balia

"Lui veniva a Gais a trovarmi, ci sono tante foto" spiega Mary. "Io con mio padre mi divertivo, con mia madre no. Mio padre era divertente". 

Ora, sull'autore dei celebri Cantos e' uscito per Mondadori unlibro di Alessandro Rivali, "Ho cercato di scrivere Paradiso". Spiega l'autore: "Il libro penso possa essere una sorta di biografia intima di Pound; tutto merito di Mary che mi ha regalato tante confidenze, che credo per la prima volta vengano portate in Italia al grande pubblico"
https://www.librimondadori.it/libri/ho-cercato-di-scrivere-paradiso-alessandro-rivali/

In Italia il ricordo di Ezra Pound e' legato al fascismo; Pound apprezzava Mussolini, tenne discorsi dall'Eiar fascista, dopo la guerra fu incarcerato e passo' tredici anni in manicomio in America come traditore della patria. Ma Pound era un poeta, e di politica, dice la figlia, si interessava quasi per paradosso. Aveva altro da fare: leggere, scrivere, studiare. 

Se il grosso del suo archivio e' alla Yale University, qui in Alto Adige ci sono ancora tutti i suoi libri fittamente annotati. Mary de Rachewiltz ha anche portato in tribunale Casa Pound, per chiedere che non potessero usare il nome del padre. Ma ha perso. Oggi, dice, le dispiace solo "per i ragazzi in buona fede che credono di capire Pound attraverso la nostalgia del fascismo italiano. E questo e' completamente errato." 

E se Mary de Rachewiltz ha dedicato molti anni al padre e alle sue opere, non ha dubbi sulla propria competenza, ne' sente di aver vissuto all'ombra. "Almeno in casa mia ha sempre comandato la donna - dice. - A cominciare dalla mia balia, e da mia madre, e mia nonna... e qui credo che anche io ho avuto abbastanza da dire". 

15/07/18

La Poesia della Domenica - "I Quattro Quartetti (Burt Norton) di T.S.Eliot.

25/03/18

La poesia della domenica: "La poesia che non ho scritto prima" di Raymond Carver.



La poesia che non ho scritto prima
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.


(Traduzione di Riccardo Duranti)



The Poem I Didn’t Write

Here is the poem I was going to write
earlier, but didn’t
because I heard you stirring.
I was thinking again
about that first morning in Zurich.
How we woke up before sunrise.
Disoriented for a minute. But going
out onto the balcony that looked down
over the river, and the old part of the city.
And simply standing there, speechless.
Nude. Watching the sky lighten.
So thrilled and happy. As if
we’d been put there
just at that moment.

Raymond Carver

da “All Of Us: The Collected Poems”, New York: Alfred A.Knopf, 1998

04/02/18

Poesia della Domenica: "Se tu venissi in autunno", di Emily Dickinson.


(511)


Se tu venissi in autunno,
Io scaccerei l’estate,
Un po’ con un sorriso ed un po’ con dispetto,
Come scaccia una mosca la massaia .

Se fra un anno potessi rivederti,
Farei dei mesi altrettanti gomitoli,
Da riporre in cassetti separati,
Per timore che i numeri si fondano.

Fosse l’attesa soltanto di secoli,
Li conterei sulla mano,
Sottraendo fin quando le dita mi cadessero
Nella Terra di Van Diemen.

Fossi certa che dopo questa vita
La tua e la mia venissero,
Io questa getterei come una buccia
E prenderei l’eternità.

Ora ignoro l’ampiezza
Del tempo che intercorre a separarci,
E mi tortura come un’ape fantasma
Che non vuole mostrare il pungiglione.

Emily Dickinson

IF you were coming in the fall,
I ’d brush the summer by
With half a smile and half a spurn,
 As housewives do a fly.

If I could see you in a year, 
I ’d wind the months in balls,
And put them each in separate drawers,
Until their time befalls.

If only centuries delayed,
I ’d count them on my hand, 
Subtracting till my fingers dropped
Into Van Diemen’s land.

If certain, when this life was out,
That yours and mine should be,
I ’d toss it yonder like a rind, 
And taste eternity.

But now, all ignorant of the length
Of time’s uncertain wing,
It goads me, like the goblin bee,
That will not state its sting.

08/01/18

Libro del Giorno: "Per amica silentia Lunae" di William Butler Yeats.



E' un libro stranissimo, che ancora oggi affascina e inquieta. Scritto in pieno Primo conflitto mondiale, nel 1917, Per amica silentia lunae è una delle opere più misteriose del grande William Butler Yeats, qui impreziosita da una bellissima edizione SE, curata da Gino Scatasta, cui è fatta precedere il prologo con la lettera scritta a Maurice, ovvero Iseult Gonne, la figlia di Maud Gonne, uno dei grandi amori di Yeats; la lunga poesia Ego Dominus Tuus, scritta nel 1915; e a cui viene fatta seguire oltre alla postfazione, una minuziosa cronologia della vita di Yeats e, dulcis in fundo, una appendice iconografica con molte preziose foto del poeta che vanno dal 1896 agli ultimi anni di vita. 

Il 1917 - l'anno in cui scrive Per amica silentia lunae - è un anno molto importante nella vita di Yeats: dopo le cinque proposte di matrimonio fatte nel corso degli anni a Maud Gonne, l'amore di una vita, il poeta, dopo aver chiesto alla madre il permesso di corteggiare la bellissima figlia, Iseult, le propone a sua volta di sposarlo. Ma la ragazza rifiuta (pochi anni dopo sposerà Francis Stuart, dichiarando che non aveva mai preso sul serio la proposta di Yeats).  Il poeta allora, il 20 ottobre di quell'anno sposerà George Hyde-Lees che gli darà due figli e che poco dopo le nozze, pensando che Yeats sia ancora innamorato di Iseult, per distrarlo inizia a fare esperimenti di scrittura automatica. 

E' dunque il periodo più intenso degli interessi esoterici di Yeats, che già fa parte (dal 1890) della Golden Dawn, un ramo della organizzazione esoterica chiamata Stella mattutina. 

Per amica silentia lunae è una divagazione su due temi molto cari a Yeats: la maschera e la visione.

E lo fa in due intense sezioni chiamate Anima Hominis e Anima Mundi

Nella prima, Yeats considera i rapporti dell'uomo con il suo destino, con il suo Daimon: desiderio e sconfitta sono i compagni del poeta-eroe chiamato ad amare il mondo fino alla fine. Un lento cammino iniziatico che conduce allo scoprimento di ciò che dalla maschera (e quindi dalla illusione) è celato. 

Nella seconda, Yeats dà voce ai morti, ai poeti morti, fonte di ispirazione per i vivi. Morti e vivi sono calati nell'Anima Mundi,uno scrigno di tesori formato dalle opere dei grandi predecessori, un crogiolo soprannaturale, pullulante di richiami e di voci che si incarnano e infondono il cammino dei vivi. Un grande stagno, scrive Yeats, o un vasto giardino dove i nostri pensieri e le nostre immagini crescono nel modo a esse destinato come grandi piante acquatiche o si diramano nell'aria spandendo tutt'attorno il loro profumo. 

La prosa poetica di Yeats è abbagliante e oscura. Ogni frase rimanda a altro. Questi monologhi procedono senza nessuna logica o coerenza apparente. Sono appunto illuminazioni, sguardi, pensieri incarnati nella sofferenza, nell'impotenza, nella gioia estatica degli attimi concessi ai viti, nel loro continuo interrogarsi sul da dove venga la voce che essi ascoltano dentro se stessi e nel cielo. 

Fabrizio Falconi 





06/01/18

Il Daimon e la Donna, una pagina di William Butler Yeats.



Riporto una bellissima pagina - misteriosa e da meditare - di William Butler Yeats tratta da Per amica Silentia Lunae (1917), libro composto da due sezioni, 'Anima Hominis' e 'Anima Mundi'.

Credo che tutti gli uomini devoti abbiano la certezza che negli eventi della vita ci sia una mano diversa dalla nostra e che, come qualcuno afferma in Wilhelm Meister, ciò che avviene per caso è destino; e credo sia stato Eraclito a dire che il Daimon è il nostro destino

Se penso alla vita come a una lotta contro il Daimon, che vorrebbe sempre che ci dedicassimo all'opera più difficile tra quelle non impossibili, comprendo il motivo della inimicizia profonda fra l'uomo e il proprio destino e perché l'uomo ama solo il proprio destino. 

In un poema anglosassone c'è un uomo chiamato Doom-eager, "avido di destino", uno nome che vorrebbe racchiudere in sé tutto l'eroismo possibile. 

Sono certo che il Daimon ci libera e ci inganna, che sia stato lui a tessere quella rete di stelle per poi scrollarsela via dalle spalle. 

E allora la mia immaginazione va dal Daimon all'amata, e intuisco una analogia che sfugge all'intelletto. Penso agli antichi greci che invitavano a cercare le stelle primarie, che governano sia l'inimicizia che l'amore, fra quelle che stanno per tramontare nella settima casa, direbbero gli astrologi; e che forse "l'amore sessuale", che "è fondato sull'odio spirituale", è un immagine del conflitto che esiste tra uomo e Daimon; e mi chiedo perfino se non ci sia una comunione segreta, un mormorio nel buio fra il Daimon e l'amata. 

Penso al fatto che spesso le donne innamorate diventano più superstiziose e sono convinte di portare fortuna agli uomini che amano; e penso ancora a quella antica storia irlandese dei tre giovani che andarono a Slieve-na-mon, nella casa degli dèi, per chiedere protezione durante la battaglia.  "Dovete prima sposarvi", disse loro un dio "perché la buona o la mala sorte dell'uomo derivano da una donna". 

Al tramonto a volte tiro di scherma per una mezz'ora, e quando poi sono a letto, con gli occhi chiusi, vedo un fioretto ondeggiare davanti a me, il suo bottone sul mio viso. Sempre, nelle profondità della mente, qualsiasi cosa ci portino le nostre azioni, dovunque ci trascinino le nostre rêveries, sempre incontriamo la Volontà dell'altro. 

traduz. Gino Scatasta, SE 2009 

27/08/17

Poesia della Domenica - "La Ruota" di W. B. Yeats.





LA RUOTA

Invochiamo d’inverno la primavera,
A primavera l’estate,
E quando lussureggianti le siepi mandano suoni
Proclamiamo l’inverno la più bella stagione;
E dopo non c’è nulla che valga,
Perché la primavera tarda ancora ....
Né sappiamo che a turbarci il sangue
È solo il suo desiderio della tomba.

THE WHEEL

Through winter-time we call on spring,
And through the spring on summer call,
And when abounding hedges ring
Declare that winter’s best of all;
And after that there’s nothing good
Because the spring-time has not come -
Nor know that what disturbs our blood
Is but its longing for the tomb.

(1921)


William Butler Yeats: Tredici poesie scelte e tradotte da Gabriele Baldini in Studi irlandesi. A Journal of Irish Studies, n. 2 (2012), pp. 177-189 http://www.fupress.com/bsfm-sijis

08/12/16

Una delle più grandi poesie d'amore di sempre - "Quando sarai vecchia" di William Butler Yeats.



E' una delle più grandi poesie d'amore di sempre.  

in questo video la lettura di "Quando tu sarai vecchia" di William Butler Yeats (1865-1939). 

questo il testo: 


Quando tu sarai vecchia
e grigia e sonnolenta,
Col capo tentennante accanto al fuoco,
prenditi questo libro,
E lentamente leggilo,
e sogna del tenero sguardo
Che gli occhi tuoi ebbero un tempo,
e delle loro ombre
Profonde; quanti furono a amare i tuoi attimi
Di grazia felice, e quanti amarono,
con falso o vero amore,
La tua bellezza; ma uno
solo amò l'anima peregrina
Che era in te, e il dolore
del tuo volto che muta.
Curva di fronte ai ceppi risplendenti mormora,
Con lieve tristezza,
come Amore fuggì, come percorse
Passando, i monti che
ci stanno alti sul capo,
E nascose il suo viso
fra un nuvolo di stelle.


William Butler Yeats (1865-1939)



20/11/16

La poesia della domenica - "Sotto un abietto salice" di W.H.Auden




Sotto un abietto salice

Sotto un abietto salice
non ti affliggere più, innamorato:
segua al pensiero rapida azione.
A che serve pensare?
La tua incessante prostrazione
mostra quanto sei freddo;
alzati, su, e ripiega
la tua mappa di desolazione.

I rintocchi che scorrono sui prati
da quella fosca guglia
suonan per queste ombre senza amore
che all'amore non servono.
Ciò che è vivo può amare: perché ancora
piegarsi alla sconfitta
con le braccia incrociate?
Attacca e vincerai.

Stormi di anatre in volo sul tuo capo
e sanno dove andare,
freddi ruscelli in corsa ai tuoi piedi
e vanno verso l'oceano.
Cupa e opaca è la tua costernazione:
cammina, dunque, vieni,
non più così tarpato
in preda alla tua soddisfazione.


Underneath an Abject Willow

Underneath an abject willow,
Lover, sulk no more:
Act from thought should quickly follow.
What is thinking for?
Your unique and moping station
Proves you cold;
Stand up and fold
Your map of desolation.

Bells that toll across the meadows
From the sombre spire
Toll for these unloving shadows
Love does not require.
All that lives may love; why longer
Bow to loss
With arms across?
Strike and you shall conquer.

Geese in flocks above you flying.
Their direction know,
Icy brooks beneath you flowing,
To their ocean go.
Dark and dull is your distraction:
Walk then, come,
No longer numb
Into your satisfaction.


traduzione di Gilberto Forti

tratto da W.H.Auden 
La verità, vi prego, sull'amore
Adelphi, 1994.

31/03/15

Nail Chiodo - Luigi Attardi : La sua "Lettera d'addio" pubblicata da Empiria. Il ricordo romano.



Luigi Attardi (conosciuto con lo pseudonimo di  Nail Chiodo) era (ed è) un amico poeta ed è morto in Svizzera pochi mesi fa, a 62 anni, il 31 ottobre 2014, dopo aver scoperto nella primavera 2014 di avere una malattia terminale. 

Laureato in Filosofia a Yale Nel 1974, Attardi negli ultimi anni si era dedicato esclusivamente alla scrittura di versi in lingua inglese e alla sua agenzia professionale di Traduzione Internazionale Lyrical Traduzioni. 

Il Suo addio alla vita è stato particolarmente toccante. Prima di partire per la Svizzera, senza che nessuno ne avesse notizia, ha scritto una Lettera d'addio in versi (Rambling Poem-Finale Poem), spedita per posta a poeti, amici e conoscenti. 

Gli amici l'hanno ricevuta senza rendersi conto, nella maggior parte dei casi, che Luigi aveva già deciso di non esserci più. 

Ieri, presso le Edizioni Empiria - la  Libreria  di  via Baccina 79 a Roma, si sono ritrovati gli amici di una vita: Carlo Bordini, Justin Bradshaw, Francesco Dalessandro, Frédéric Dévé, Marco Fabiano, Giuseppe Gandini in occasione della pubblicazione - proprio per Empiria - della Poesia finale di Attardi. La pubblico qui nella versione in Italiano e in Inglese.


Poesia errabonda
in forma di lettera d’addio 
a parenti, amici e conoscenti
 
Non bisogna stupirsi, osservò Ludwig, 
quando qualcuno che non ha la chiave
 
per entrare nel testo di un autore
 
non ha nemmeno i mezzi per capire
 
ciò che quello vorrebbe preservare
 
da un’attenzione importuna e indiscreta.
 
La metrica può invogliare alla lettura
 
o scoraggiare: chi non ne è convinto
 
non potrà penetrare questi versi.
 
La
 privacy permessa dalle regole formali, 
che impedisce un esame maldisposto,
 
è un vantaggio e un’opportunità
 
per la poesia di raggiungere lo scopo.
Prendete per esempio questo testo: 
grazie a rime ed a ritmi un po’ incerti,
 
poche sillabe appena e perderà interesse
 
per esteti irriducibili e per inveterati
 
prosafondai. Il suo valore dipende
 
dall’effetto che avrà, non sulla gente
 
tarda a capire, ma sulla ristretta
 
minoranza convinta che c’è sempre
 
qualcosa d’importante e nuovo da imparare,
 
qualcosa che scopriamo solo grazie
 
al divagare dei pensieri e una poesia
 
errabonda dal principio alla fine
 
è il miglior modo per cominciare a farlo.
Io mi sono ammalato ed incontrerò presto 
il mio creatore. Grazie al loro metro
 
rilassato, confido che i miei versi
 
parlino con franchezza in piena libertà,
 
senza avere timore che chi ascolta
 
non sia
 affatto d’accordo con il loro 
spirito, e affido alla carta riflessioni
 
che spero interessanti e utili per chi
 
presterà loro il tempo e l’attenzione –
 
«… e intanto cercherò di non stonare».
«Cari parenti, amici e conoscenti», 
così comincia questa che è una lettera
 
di addio a chi ricordo e di me si ricorda:
 
una poesia che svela i miei pensieri
 
e sentimenti in merito alla mia dipartita;
 
e che – seppur di dubbia qualità
 
poetica – soddisfi qualche curiosità.
«Vi scrivo in piedi, una postura nuova 
che è meno dolorosa per me che star seduto.
 
Ma non voglio addentrarmi nell’eziologia
 
della mia malattia, basti sapere che
 
colpisce le ossa, è in fase terminale
 
e si addice a un poeta che da tempo
 
ha iniziato a studiare i vari aspetti
 
che dal principio può assumere il dolore.
«Tranne un attacco di encefalite acuta 
(tra i più strazianti mezzi di tortura
 
naturali, come avere una vite ficcata
 
nel cranio) avuto da bambino e per fortuna
 
prontamente curato dai dottori,
 
non ricordo altri dolori nei sessantadue
 
anni di una vita generosa.
 
Gran parte dei tormenti patiti fino a cinque
 
mesi fa erano di natura spirituale.
 
Più o meno tutti quelli nati da conflitti
 
interiori li ho trattati e trascritti.
 
E qui è bene finire la mia triste lezione
 
con quello che i recenti avvenimenti
 
m’hanno insegnato sull’intensità
 
che può raggiungere il dolore.
Una gran sofferenza fisica riesce sempre 
a spazzar via tutte le preoccupazioni
 
che di solito riempiono la giornata d’un uomo:
 
se niente lo distrae, ha l’unico pensiero
 
di trovare un sollievo o di morire presto.
 
Tutti i modi di uccidersi una volta
 
impraticabili, sembrano all’improvviso
 
fattibili; le difficoltà tecniche, sparite
 
o liquidate con un’alzata di spalle.
 
Senza oppiacei, io ora non sarei
 
qui ancora in piedi a scrivervi una lunga
 
lettera di commiato.
Col loro aiuto posso 
ancora aspirare alla virtù, a un’ideale “mens sana
 
in corpore moribundo”, all’uso migliore
 
del tempo che mi resta. Ma la tregua
 
con la morte, ben si sa, non può durare a lungo:
 
ne approfitto per trattare questioni personali:
 
di stile, gusto, valori che ne sono alla base.
 
Se aggiungere a un già lungo percorso
 
qualche altro passo è quello che gradite,
 
perfetto. Io preferisco prendere
 
in mano il mio destino e accorciare
 
questa vita e così chiudere il cerchio.
 
Naturalmente, vivo da solo e non ho figli.
«Mi scuso in anticipo della sorpresa 
che il mio suicidio potrà provocare:
 
per me è
 d’oblige, ho provato a spiegarlo. 
Credo più interessante
 come mi accingo a farlo – 
non da solo, ma con l’aiuto di altri.
 
L’Incarico affidato alla poesia
 
mi stimola, ma rendere giustizia
 
alla squadra in questione non è facile.
 
Va da sé che farò tutto il mio meglio.
«Aiutandomi a morire, hanno probabilmente 
salvato la mia vita da una sopravvivenza
 
indecorosa lasciata in mano a estranei –
 
e infine dall’usare un coltello su me
 
stesso, pasticciando miseramente!
 
Da tutto questo nasce il loro impegno
 
per una morte dignitosa. È difficile
 
non apprezzarlo, sapendo di che si tratta.
 
Non serve essere in punto di morte
 
per sapere come operano e dove
 
e perché, e sostenere la loro associazione
 
per la salute dell’ultimo momento.
 
Andate al loro sito www.dignitas.ch
 
riflettendo sul futuro, e su quel che potrebbe
 
riservarvi. Il rispetto delle volontà
 
del paziente e la riservatezza che offrono
 
meritano appoggio anche quando la morte
 
non sembra ancora dietro l’angolo.
«Ma ora basta parlare della morte! 
Ho paura che i parenti mi rinneghino,
 
gli amici mi disconoscano e i conoscenti
 
sogghignino quando pensano a me!
 
Da cosa sto partendo, e non come o per dove 
– col cuore e con la mente – sto partendo
 
è il vero nodo di questa lettera. Non dico
 
dal mondo là fuori, quel grande casino,
 
ma da tutti coloro che mi stanno a cuore.
 
M’è impossibile scrivere ad ognuno,
 
ché sono troppi e avrei troppo da dire.
 
Dovranno bastare i contatti quotidiani
 
che abbiamo avuto, le cose condivise.
«Questa lettera d’addio con rime occasionali 
io spero che compensi in qualche modo
 
il fatto che, accadendo tutto in fretta,
 
io non riesca a incontrare un’ultima volta
 
neanche quelli di voi più a portata di mano.
 
Confido che crediate al dispiacere
 
che provo non potendo più guardarvi
 
negli occhi e controllandomi per quanto
 
possibile non cedere a singhiozzi o sospiri;
 
ma, soprattutto, senza poter scambiare
 
una cordiale stretta di mano, come
 
nelle scene raffigurate sui bassorilievi
 
delle antiche stele funerarie greche.
«Ho iniziato dicendo che vi scrivevo in piedi, 
una postura che in effetti mi resta
 
più comoda di altre giusto mentre
 
m’avvicino alla fine delle mie divagazioni.
 
Tutte le mie poesie prima di questa
 
le ho scritte da disteso. Una signora
 
austriaca ha suggerito che dovendo
 
farmi una statua sarebbe più fedele
 
al suo soggetto se lo mostrasse a letto.
 
Lei l’ha detto – benedetta sia l’anima gentile! –
 
con ironia, però è una buona idea
 
e, francamente, se fosse un umorista
 
scultore a realizzarla, non avrei obiezioni
 
che mi si celebrasse in questo modo.
«Ecco, miei cari, il tempo di partire è arrivato. 
Questa poesia errabonda sia pegno del commiato».



Traduzione di Francesco Dalessandro

01/03/15

Poesia della domenica - 'Aiutami sotto la pioggia' di Leonard Cohen.






Aiutami sotto la pioggia, aiutami nelle tenebre, aiutami al mio tavolo senza scopo.  Piegami alla pioggia, e fa' che le tenebre parlino al mio cuore. Benedetto sii tu che parli dalle tenebre, che conferisci forma alla desolazione. Tu attiri a te il cuore rovesciato sul mondo, tu fissi i confini del dolore.   La tua misericordia fai conoscere a coloro che conoscono il tuo nome, e sotto il pianto che si leva al cielo si scopre la tua capacità di guarire.  Le rovine sono segno del tuo potere; per mano tua è infranto, e ogni cosa si spacca affinché il tuo trono sia reso al cuore.  Tu hai scritto il tuo nome sul caos. Gli occhi che rotolano nelle tenebre, tu li hai fatti rientrare nel cranio.  Fa' che ogni uomo trovi riparo nella fortezza del tuo nome, e che ognuno veda il suo simile dalle torri della tua legge.  Crea nuovamente il mondo, e tienici in piedi, come hai fatto un tempo, sulle fondamenta della tua luce. 




Leonard Cohen, 2013, tratto da Il libro della misericordia, Minimum fax 2013, pag. 133 ediz. italiana a cura di G. De Cataldo e D.Abeni. 

13/11/14

Una intervista a Tony Harrison, in visita in Italia. Uno dei maggiori poeti viventi.





Una intervista di Alessandro Zaccuri a Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.


Mentre parla Tony Harrison continua a muovere le dita, accompagnando spesso il gesto con una smorfia come di fatica. «Perché la poesia – ripete – è uno sforzo, una lotta per dare forma alla complessità. La poesia è… è questo». E le dita riprendono ad agitarsi. Non se la prende se gli si fa notare che il movimento ricorda quello di un fornaio intento a impastare. 

«È naturale – commenta –, mio padre era un fornaio e io non me ne sono mai dimenticato». Considerato uno dei maggiori poeti inglesi viventi, Harrison è in Italia per il premio alla carriera assegnatogli dal Festival internazionale di Poesia civile Città di Vercelli (www.poesiacivile.com), che ha avuto la sua anteprima ieri all’Università Cattolica di Milano, dove è stato presentato il volume che raccoglie alcune sue composizioni inedite appositamente realizzato, come da tradizione, dalla casa editrice Interlinea (Afrodite del Mar Nero e altre nuove poesie, a cura di Giovanni Greco, testo inglese a fronte, pagine 94, euro 12). 

Nato nel 1936 a Leeds, nello Yorkshire, Harrison è del resto già noto al lettore italiano grazie alle raccolte pubblicate nel tempo da Einaudi, tra cui spicca il poemetto V. I suoi versi possono a volte colpire per durezza, ma la sua conversazione è straordinariamente cordiale.

«La poesia ha sempre una dimensione civile – sottolinea –, anche quando si occupa di vicende personali. Ho scritto spesso della mia famiglia, dei miei genitori, delle mie origini proletarie e anche della malattia di mio figlio. Sono realtà comuni a tutti, drammi che tutti possono condividere. Ecco perché, per me, è così importante usare un linguaggio diretto, che anche mio padre potrebbe comprendere».

Le sue poesie, però, sono anche molto elaborate dal punto di vista metrico. 

"Non potrebbe essere altrimenti: tanto più è drammatica la materia, tanto più le parole devono lottare per farsi strada. È uno dei motivi per cui, ancora oggi, non riesco a comporre se non usando carta e penna. So di poeti che scrivono direttamente al computer, ma io non ne sarei mai capace. C’è una fisicità nel gesto di scrivere, qualcosa di intimamente legato al battito stesso del cuore umano».

Come è avvenuto il suo incontro con la letteratura? 
«In concreto all’università, che noi figli della classe operaia abbiamo iniziato a frequentare grazie al cosiddetto Education Act degli anni Cinquanta. Ma più in profondità devo ammettere che si tratta di un mistero anche per me. I miei, in casa, erano persone di poche parole. Dei miei zii, poi, uno era balbuziente, l’altro sordomuto. Articolare un discorso mi è sempre parso un’impresa. Nel momento in cui ho avuto accesso alla letteratura, mi sono reso conto che questa articolazione era possibile e che, al suo massimo livello, coincideva con la poesia. È così che sono diventato poeta. Ho voluto che fosse la mia professione, non qualcosa a cui mi dedicavo nel tempo libero: finché è stato necessario, mi sono qualificato 'poeta' perfino sul passaporto».

Una intervista di Alessandro Zaccuri Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.

09/11/14

Poesia della domenica - "Roba violenta" di Luigi Attardi/Nail Chiodo.




Luigi Attardi (conosciuto anche con lo pseudonimo di Nail Chiodo) è morto in Svizzera pochi giorni fa, a 62 anni, il 31 ottobre 2014, dopo aver scoperto nella primavera scorsa una malattia terminale. 

Laureato in Filosofia a Yale nel 1974, Attardi negli ultimi anni si era dedicato esclusivamente alla scrittura di versi in lingua inglese e alla sua agenzia professionale di traduzione internazionale Lyrical
Traduzioni. 

Propongo qui una sua poesia e di seguito la sua Lettera d'addio in versi (Rambling Poem-Final Poem) a poeti, amici e conoscenti. 


Roba violenta

Quale, allora, il motivo di tanta sofferenza?
Che sono sempre in moto le nostre menti?
Difficoltà trovate quando uno comunica?
No, nonostante tutto diamo aria
al recinto che esaspera,
e nell’isolamento
troviamo sollievo:
in ogni trappola del tormento,
calma perfetta nel perfetto affanno.

(traduzione di Francesco Dalessandro)



Final Poem

Rambling Poem

being a Farewell Letter in Verse
to Relatives, Friends, and Acquaintances
One should not be surprised, as Ludwig observed,
when those who possess not the key
to a lock of one’s own creation fail to accede
to whatever, by its means, one would preserve
from indiscreet and inopportune attention.
Prosody can either entice or dissuade:
those whom it fails to persuade
cannot delve into the verses in question.
The privacy formal constraints thus afford,
the cover they provide against ill-disposed scrutiny,
is both a privilege and an opportunity
by which a poem’s point may be scored.
Take, for example, the present composition:
thanks to rhymes and rhythms of uncertain distinction
it is sure to turn off both die-hard esthetes
and inveterate prose-mongers after but a few feet.
What there may still be of value in it
will depend entirely on its potential effect,
not upon those contingents of stiff necks,
but on that exiguous minority who thinks
there are always important new things to be learned
that can only be stumbled into as it were,
since our thoughts are rambling by nature;
and that a poem that rambles on from beginning to end
may in fact be where best to first learn them.
I have become sick and will soon meet my maker.
Confident, thanks to their lackadaisical meter,
that I can proceed to speak frankly and freely
without fear of being overheard by anyone really
not in tune with the spirit of these lines,
I shall try to commit to paper considerations
hopefully of interest and use to at least some
of those who do lend an ear and their time –
“… and I’ll try not to sing out of key.”
“Dear relatives, friends, and acquaintances,”
that is how I’ll begin what I now know must be
a letter of farewell to all whom I recall
and who may remember me: a poem that bares
my thoughts and feelings about departure;
one which, though of unproven lyrical quality,
might still gratify a natural curiosity.
“I write to you from a new, standing position
I’ve adopted because less painful to me than sitting.
I won’t go into the etiology of my specific condition:
suffice it to say it is skeletal, terminal, and befitting
a poet who began his inquiry long ago,
intrigued by pain’s forms from the word go.
“Apart from a bout with acute encephalitis
(among the most excruciating of nature’s devices,
rather like a screw applied to your skull),
luckily by doctors promptly cured,
back when I was a kid, I’ve no woe to mull
over for having been by my body endured
in all of sixty-two years of a bountiful life.
Most of the agony encountered until
only five months ago has been spiritual.
More or less all that I’ve gathered from mental strife,
I’ve also managed to keep record of,
so it is meet that I should finish my treatment
of dolorous lessons with what recent events
have taught me of pain’s push come to shove.
“Very sharp physical suffering has a way
of sweeping aside the entire spectrum of worries
that normally occupy a man’s day;
without them to distract him, it hurries
his thoughts straight toward a paramount goal:
to either obtain relief or die as soon as possible.
Ways of killing oneself that once appeared
impracticable suddenly seem feasible
after all; technical hurdles are cleared,
or all too easily dismissed with a shrug.
If it weren’t for stopgap palliative drugs
I would not be here now, still standing tall,
writing a long parting letter to you all.
“With the aid of those medicines one can
again aspire to virtue, to the ideal of a mens sana
in corpore moribundo
, to putting to best use
the time one has left. But the truce
with death cannot, as we know, last forever:
what such best practice will consist in
remains an exquisitely personal matter
of style, taste, and the values they underpin.
If adding a few last points to an already long segment
is one’s cup of tea, fine. I would rather
have mine be a bit shorter at the end and bent
to form a circle, take things into my own hands.
Of course, I live alone and don’t have any children.
“I apologize in advance for any surprise
my suicide may cause: I’ve tried to explain why
it is d’oblige. More interesting to my mind
is the way I am going about it – not
all on my own, but with the help of others.
I enjoy the challenge advocacy
poses to poetry, and to do justice
to the team in question is not easy;
but, it goes without saying, I’ll do the best I can.
“By helping me to die by my own hand,
they are most probably saving my life
from the disparagement of overtime
spent at the mercy of unidentified others –
not least were I instead to use a knife
on myself and botch it up miserably!
That is where they draw their line for dignity
in death, and it is difficult not to agree
if one knows what they are talking about.
One doesn’t have to be on one’s way out
to learn why, where, and how they operate,
to support their pro-health-to-the-last,
humanitarian association: just go straight
to their website, www.dignitas.ch,
and think of your own future, what it might reserve.
The patient’s instructions and protection service
they offer is well worth subscribing to
when death seems still far from the corner.
“But enough talk of death! Lest the relatives
disown, the friends disavow, the acquaintances
sneer if ever they chance to think of me.
It is what I am departing from, not how
or where I am departing to – by my very heart
and mind – that is the real crux of this letter.
I don’t mean the larger world outside, that hootenanny,
but all whom I cherish and cannot write to
one at a time because they are too many
and there would be too much for me to say.
The personal exchanges that once made our day,
what we have already shared, will have to do.
“May this so-long epistle with occasional rhymes
also in some manner serve to make up
for the fact that, being quite rushed,
I shall fail to rendezvous one last time
even with those of you within easy reach.
But here I trust that all will believe
I do indeed regret not feasting my eyes
again upon them, not giving in to a sob or a sigh
while trying to remain as composed as I can;
but, most of all, not gently shaking their hand
as in those kindred scenes once portrayed
in bas-relief on ancient Greek funerary stelae.
“I started by telling I was in a standing
position as I wrote you, which indeed
remains more congenial than others to me
even as I near the end of these ramblings.
All my previous poetry, I wrote recumbent:
it has even been suggested by an Austrian lady
that if ever a statue were to be made of me
it would be most true to its subject
if it showed him to be lying in bed.
She said it – bless her kind soul! – sarcastically,
but the idea is a good one and, quite frankly,
were it to be done by a humorous sculptor,
I would not object to being so honored.
“My dears, the time has come to finally part.
In valediction, take this token of a rambler’s art.”