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23/06/14

Indaco e porpora: i due colori della vita.




In fondo tutto ma proprio tutto non è altro che passaggio dall'indaco al porpora, e viceversa.

Alla saggezza appartiene l'indaco. Il cui nome deriva proprio dalle Indie. Affondano le radici dell'essere umano, la sua comparsa sulla terra. Indaco è il colore dei Tuareg, che vivono nel deserto e prima del deserto e dopo il deserto, e non hanno casa perché la loro casa è la rotondità del mondo intero. Quindi il Sé stesso

Al dolore e al sangue appartiene il porpora.   Ogni molecola del nostro corpo si fa parente del porpora. Ogni cosa di noi è porpora, ogni inizio e ogni fine dell'umano terrestre nasce e muore nel porpora. 



Ogni simbolo si esprime nell'indaco.
Ogni vita si esprime nel porpora.

Ogni vita aspira all'indaco.
Ogni simbolo si incarna nel porpora.

Il nostro proveniente mondo è indaco, il nostro oggi è porpora. Il nostro tornare è indaco. Il nostro lasciare è porpora.  Dopo ogni porpora c'è un indaco, dopo ogni indaco un porpora.  Indaco e porpora, come sapienti oscuri immateriali dioscuri tengono in bilico ogni destino umano. 



Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

03/05/14

"E' impossibile tacere su una morte" - Elias Canetti.


250.000 foto ed effetti personali allestiti nel centro della memoria di Fukushima (foto di Toru Hanai).


E' impossibile tacere su una morte.  Vorremmo una muta del lamento, e poiché non esiste cerchiamo di metterla insieme con le lettere che mandiamo in paesi lontani.

Ma il nostro dolore per il morto è così grande e violento che non scriviamo soltanto a quelli che l'hanno conosciuto: impegniamo ad onorarne la memoria anche tutti quelli che non conosciamo.  Ad essi presentiamo il morto a posteriori, ad essi comunichiamo il meglio che di lui si possa dire; diciamo esplicitamente cosa lui significhi per noi ed esercitiamo una sorta di pressione: guai se anche per loro non significa molto. 

In cuor nostro facciamo dipendere dalla loro reazione alla notizia di questa morte la possibilità che continui la nostra amicizia per loro. 

Li mettiamo alla prova, li osserviamo con diffidenza, misuriamo sulla bilancia ogni parola della loro reazione, e se il peso risulta troppo scarso li cacciamo senza pietà: non potranno più far parte della nostra cerchia. 


Elias Canetti, La rapidità dello spirito, appunti da Hampstead 1954-1971, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, 1994, pag.182.

25/01/14

Nessuna meraviglia viene a risvegliare il tuo sonno.




Fonte di saggezza popolare ripete che si invecchia quando si smette di innamorarsi. Cioè, non si riesce più. Soltanto ampliando lo sguardo, si dovrebbe ammettere che si invecchia, e cioè ci si avvicina, preparandosi, alla morte, quando si smette di meravigliarsi. 
Nulla è infatti più vicino alla meraviglia dell'innamoramento, che della meraviglia è solo una delle manifestazioni. 

L'albero rinnova i colori, si piega sotto il peso della pazienza, non smette di credersi legato indissolubilmente alla terra, anche quando muoiono le radici e il legno vecchio si disperde nell'apparente niente che è la dissoluzione degli atomi, degli amminoacidi, delle diverse variazioni chimiche chiamate 'albero'. 

Così noi, dovremmo essere capaci di rinnovare i colori. Farci nuovi per il riposo degli uccelli, splendenti per le piogge di giugno, nudi per la paura di gennaio, tenui per l'alba nuova d'autunno, intrepidi per l'ultima primavera che verrà a visitarci. 

Lo sguardo è quello che siamo capaci di essere. 

Quando tutto è fermo, senti una madida coperta senza vita che avvolge il tuo corpo. Da sotto, uno scheletro insensibile riesce ancora a sentire.  Ma nessuna meraviglia viene a risvegliare il tuo sonno. 

Vivi da morto, come un morto.  E il vecchio adagio direbbe che sei morto anche se vivi, cioè non sopravvivi, anche se sembra che è quello che fai. 

La meraviglia scardina come un arpeggio le ossa del tuo scheletro.  Quando non vuoi, viene a ricordarti che sei stato vivo, e lo sei, e lo sarai.  Dipende, come in ogni cosa creata dall'universo,  dalla vibrazione.  Sei nato da quella, tornerai ad essere quella, dipendi da quello .  Il silenzio, senza di quella, è vuoto. Come non è mai il silenzio. 




Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

16/12/13

Non perdersi più.






Quasi nessuno riesce ad imparare la lezione da quel che vive, la lezione di quel che vive. 

Lo si capisce e lo disimpara subito, perché la vita ci chiama altrove a indossare altri panni che non sono i nostri. Li hai trovati e hai pensato che fossero buoni per proseguire. 

Invece nessun indumento ti può proteggere. 

Il freddo e il sonno, l'essere qui e il perché. La disinformazione che hai ricevuto, le istruzioni sbagliate che ti hanno dato e non portano da nessuna parte. 

Perduto, accenderai un fuoco.  Ma non basta, e sussulti come un demonio nella notte per darti respiro, per cercare una via d'uscita, ma la via d'uscita non c'è. 

La vita è legame fatto di niente, fortissimo più della morte.   Ma da solo non riesci a far nulla e l'orgoglio non aiuta e non basta. 
Torni indietro, dirimi un senso, ti svegli nella notte e ricominci all'alba come un uccello sopravvissuto all'inverno. Non trovi requie.

Arriva il giorno dell'abbandono. Come carta invecchiata si sfalda il muro che hai costruito con tanta pazienza intorno a te stesso.  In un minuto sei fuori e ti senti perduto, di nuovo.

Solo che stavolta il mondo si è rischiarato, ha smesso perfino di piovere e avverti l'odore dell'erba che non vedi. 

Hai voglia di distenderti, osservi le nubi in transito e sono bianche. 

Hai imparato: è talmente difficile trovare, che quando si è trovato non si deve perdere.  Se sei riuscito a dare amore, tieni stretto il tuo incontro.  Portalo per il resto della tua vita, non distrarti non fare come tutti, non crederti inutile, non spargere altra inutilità. Coltiva l'albero finché esso non ti sopravviva. E l'albero che hai piantato e che ti è sopravvissuto sarai tu stesso, che l'hai piantato e che gli hai concesso, con cura, di sopravviverti. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

02/11/13

Nel giorno dei morti, la morte secondo Einstein.





Nel giorno dei morti  risuonano queste parole di Albert Einstein.

L'essere umano è parte di quel tutto che chiamiamo universo.   Egli sperimenta se stesso come separato dal resto: un tipo di illusione ottica della coscienza.

A queste si aggiungono quelle del fisico Erwin Schroedinger:

Per quanto possa sembrare inconcepibile al senso comune, voi, e tutti gli altri senzienti, costituite un tutto indivisibile. 

Questi pensieri sono suggellati in un due versi del poeta Yves Bonnefoy:

Non c'è deserto più se tutto è in noi
Non c'è più morte. 





(Citazioni tratte da La morte si sconta vivendo, di M.Guzzi, in Sarà così lasciare la vita ? a cura di Livia Crozzoli Aite, Paoline 2001.).

13/04/13

Si nasce soli, si vive insieme, si muore soli. .. O no ?






Il pensiero contemporaneo - quel che ne rimane, spappolato in mille apps, in mille rivoli, in mille frammenti - sembra non volerci convincere altro che di questo: Si nasce soli, si vive insieme, si muore soli.

E' la nostra condizione umana, viene asserito. 

Ma è proprio così? Nasciamo soli ? Se nascere soli vuol dire che nel trapasso dalla non-vita alla vita, cioè nel momento del parto siamo soli (l'avventura è da soli), non è propriamente vero. Anzi: non è vero in senso assoluto.   Quando un bambino nasce, non nasce solo. Nasce propriamente dal corpo stesso della madre. Vive dapprima una vita segreta nel corpo della madre e quando viene al mondo lo fa attraverso la partecipazione stessa del corpo della madre. 

Viviamo insieme ?  Indubitabilmente sì.  Sembra che per nessuno sia possibile vivere completamente solo. L'uomo è un animale sociale, anzi l'animale sociale per eccellenza. Ciò che gli ha permesso di dominare il pianeta è esattamente questo.  Per quanto siano esistiti uomini che hanno scelto la solitudine o l'eremitaggio, nessun uomo ha vissuto mai la sua intera vita isolato, da solo. Solo nella socialità, nei rapporti umani, nella parentela, nella cura, nell'amore, nella generosità, nell'amicizia, ma anche nella guerra e nell'antagonismo, l'uomo ha realizzato la sua indole, la sua missione su questa terra. 

Moriamo soli ? Se per questo si intende che ogni uomo è chiamato a compiere in prima persona il trapasso dalla vita senza poterlo condividere con altri, non c'è dubbio che ciò è profondamente vero. 

La morte sembra essere l'elemento connaturale di ogni vivente. (Anche se oggi sappiamo che esistono forme di vita quasi eterne, nella profondità dei ghiacci antartici o nelle viscere degli oceani o della terra, che esistono immutate nella loro costituzione da milioni e milioni di anni).

Ma cosa è la morte ? E cosa ne sappiamo esattamente ?  Ogni cosa in natura - e nelle grandi leggi della fisica e dell'astrofisica moderne - ci insegna che nulla sparisce definitivamente - o si annichilisce, nel linguaggio della fisica - ma tutto si trasforma.  In qualcos'altro.  Siamo abituati a pensare in forma di individuazione, di forma. Ma nella vita universale l'energia, i moti, e soprattutto le relazioni tra oggetti sono molto più importanti degli oggetti stessi. 

E' la relazione, il rapporto, che determina tutto. 

Pensiamoci. 

Pensiamoci anche quando l'istinto - se non altro verbale - ci suggerisce che dopo una nascita da soli - almeno nella individualità del trapasso alla vita - e dopo una vita insieme e una morte da soli, si potrebbe concludere la sequenza affermando che si ri-nasce insieme.  

Fabrizio Falconi


06/02/13

"Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita."


 

In Un Mondo di Marionette (titolo originale: Aus dem Leben der Marionetten, 1979-80 )  - uno dei film dell'esilio tedesco (per motivi banalmente fiscali) - Ingmar Bergman perfezionò il suo lungo decennale lavoro di scavo sull'umano. 

In un film considerato minore della sua lunga e gloriosa filmografia, Bergman espose con piglio da entomologo ciò che pensa del dramma umano. 

Il dramma umano, sempre in bilico tra due diverse pulsioni: amore/condivisione - morte/separazione. 

Bergman, con la sua formazione interamente protestante, considerava il male della creazione realtà presente e non evitabile. 

Nella vicenda della follia di Peter e del suo amore frustrato e frustrante con Katharina c'è tutto quello di incompiuto che rende ogni vita umana un possibile abisso. 

Peter non sa e non può - e non vuole - sottrarsi al suo destino. 

Peter, come molti, decide di sublimare la propria vita interiore attraverso il più radicale e distruttivo dei gesti esteriori - l'omicidio (gratuito) di una prostituta.

Nella scena del sogno, però, raccontato nella lettera che invia all'analista,  Peter vive - anche se soltanto nella sua vita interiore, che però è importante quanto quella esteriore - la rappresentazione completa del proprio dramma personale (e collettivo, umano) che si realizza nella frase:   Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita.

E' quella totale accettazione - senza volontà, senza ego, senza sovrastrutture - della semplice verità della vita, che Peter, da sveglio, nel crogiolo della sua vita reale, complicata, inutilmente sovrastrutturata, egoistica, volontaristica, non riesce e non può in nessun modo né pronunciare, né sentire. 

Fabrizio Falconi 

27/01/13

Jung parla della morte





Traggo questa meritoria traduzione di questa intervista - fatta da C.G.Jung poco tempo prima di morire - da 
Il Blog di Andrea Gentile. E' una riflessione molto interessante sulla morte, che chi vuole può ascoltare direttamente sul sito soprastante e chi preferisce, può leggere qui sotto.

Intervistatore: Ricordo che una volta dicesti che la morte, a livello psicologico, è importante tanto quanto la nascita……. ma la morte è una fine?

Jung: Se la morte è una fine non si sa con certezza, perchè sappiamo che ci sono queste particolari facoltà psichiche che non sono interamente confinate in uno spazio e in un tempo; possiamo avere sogni o visioni….  e tu esisti e probabilmente sei sempre esistito. Questi fatti dimostrano che la psiche in parte non è dipendente da questi confini, e quindi se la psiche non è sotto l’obbligo di vivere solamente in uno spazio ed in un tempo (e di certo non lo è), allora è ammesso che praticamente c’è una continuazione della vita e quindi una sorta di esistenza oltre il tempo e lo spazio.

Tu credi che la morte sia una fine?

Jung: Bene, io non posso dire credo…. credere è una cosa difficle per me, io non credo, devo avere delle ipotesi, ma se lo so, non ho bisogno di crederci... quando ci sono sufficienti motivi per una certa ipotesi, io devo accettarla, potrei dire che dobbiamo riconoscere quantomeno la possibilità della sua esistenza.

Int. : (Qui c'è una domanda sulla morte come fine certa e su che visione dovrebbero avere gli anziani rispetto alla morte)

Jung: Io ho trattato molti pazienti anziani ed è molto interessante vedere come l’inconscio agisce sulla concezione della morte come apparentemente definitiva… Io penso che è meglio per le persone anziane guardare avanti al giorno successivo, come se ci fossero secoli ancora da vivere e solo così vivrà correttamente,….. se al contrario sarà spaventato e guarderà indietro si pietrificherà, si irrigidirà e morirà prima del suo tempo. Ma se guarderà avanti guardando fiducioso nella grande avventura della vita che ha davanti, allora vivrà…. e questo è il vero significato al quale tende l’inconscio. Dato che è abbastanza ovvio che moriremo tutti e questo è il triste finale di tutto….. [ anche qui c'è un passaggio che non ho ben compreso dato il suo inglese]…. Io non so perchè abbiamo bisogno di un’anima, ma preferiamo avere anche un’anima, perché in questo modo ti senti meglio, e così quando pensi in una certa maniera ti potrai considerevolmente sentire meglio….. e penso che se pensi attraverso le linee della natura, pensi correttamente!

05/01/13

Franco Battiato: "Non si muore, ci si trasforma". Intervista Video.


 


E' il passaggio di una intervista a Franco Battiato (nella occasione dell'uscita del suo ultimo album Apriti Sesamo), realizzata dal mensile XL di Repubblica, nel quale l'artista parla della morte, di come si sta preparando a quello che definisce un passaggio, una trasformazione. 


link del video: 
Esclusiva XL. Franco Battiato. L'idea della morte - Il testamento from videodrome-XL on Vimeo.

14/12/12

La saggezza di Tancredi.




C'era un vecchio, al paese, che non aveva fatto altro, nella sua vita che riparare e vendere scarpe. 

Si chiamava Tancredi.  E il mio ricordo gli assegna un cappello di paglia per l'estate con larghe tese e di feltro d'inverno che sfoggiava immancabilmente mentre sedeva lunghe ore, quando era ormai vecchio e lavorava poco, fuori dal negozio sul Corso. 

Guardava la gente passare.  Scambiava parole, sorrideva ai bambini, si sgranchiva, tornava a sedersi. Controllava che nel negozio tutto andasse bene. 

E' morto in pace, è morto amato. 

Io amo a mia volta queste persone che sono state e sono capaci di realizzare vite semplici, dedicandosi ad una sola cosa, alla cura di una cosa, che diventa il senso compiuto di una vita. 

E' questo che dovrebbe essere il compito di ogni uomo: fare ciascuno il proprio - senza nuocere agli altri, senza realizzare il male - compiere la propria opera.

Tutti sappiamo che ogni cosa umana, raffrontata all'eterno e alla bizzarria della nostra esperienza terrestre mortale, appare - se appena guardata con obiettività - inutile, insensata o folle. 

Ma la rotondità di una vita spesa per un fine, coltivando il proprio talento - qualunque esso sia -  è quello che spezza anche le ruote dell'eterno, mette insieme nascita e morte, intelligenza e sentimento, prolungamento, inizio e fine, destino e origine. 


Fabrizio Falconi



02/11/12

2 novembre: Nabokov e la Morte.



La vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la morte non potrebbe esserne una anche più grande. 

Vladimir Vladimirovič Nabokov  (Pietroburgo 23 aprile 1899 - Montreux, 2 luglio 1977)

26/03/12

La morte secondo Carl Gustav Jung (Liber Novus / Libro Rosso)



La lettura del Libro Rosso di Carl Gustav Jung è come addentrarsi in una miniera ricolma di gemme.   In questa pagina, che riporto a beneficio dei lettori di questo blog, una delle più potenti meditazioni - a mio avviso - sul significato e sul mistero della morte e del morire,  e della relazione della morte e del morire con la nostra vita. 

Per vederci chiaro ci è necessario il rigore della morte. La vita vuole vivere e morire, iniziare e morire. Non sei obbligato a vivere in eterno, ma puoi anche morire, perché c'è in te la volontà per tutte e due. Vita e morte devono bilanciarsi nella tua esistenza (*).

Gli uomini odierni hanno bisogno di un'ampia porzione di morte, perché in loro vivono troppe cose ingiuste, e troppe cose giuste muoiono in loro.  Giusto è chi mantiene l'equilibrio, sbagliato ciò che lo turba.  Ma una volta che l'equilibrio sia raggiunto allora è sbagliato ciò che mantiene l'equilibrio, e giusto ciò che lo turba.  Equilibrio è vita e morte allo stesso tempo.    Per la completezza della vita ci vuole un equilibrio con la morte.  Se accetto la morte, il mio albero rinverdisce, perché il morire esalta la vita.   Quando mi sprofondo nella morte che abbraccia il mondo intero, allora sbocciano i miei germogli.   Quanto la nostra vita ha bisogno della morte ! 

Proverai la gioia delle piccole cose solo se avrai accettato la morte.  Se invece ti guardi intorno avidamente in cerca di tutto ciò che potresti ancora vivere, allora nulla sarà mai grande abbastanza per il tuo piacere, le piccole cose che costantemente ti circondano non ti daranno più gioia.  Contemplo perciò la morte, perché essa mi insegna a vivere.

Se accogli in te la morte, essa è come una notte di brina e un presagio di sgomento, ma è una notte di brina che scende su un vigneto ricolmo di dolci grappoli. Presto sarai felice della tua ricchezza.  La morte fa maturare.  C'è bisogno della morte per poter raccogliere i frutti.  Senza la morte la vita non avrebbe senso, perché ciò che dura a lungo torna a eliminarsi da solo e nega il proprio significato.  Per esistere e godere della tua esistenza ti è necessaria la morte, e questa limitazione ti consente di portare a compimento la tua esistenza. 

(*)  nel manoscritto posteriore Jung prosegue questa frase così: "L'arte del vivere ciò che è giusto e lasciar morire ciò che è ingiusto."  Nel 1933 scrive: "La vita è un fluire di energia. Ma ogni processo energetico è irreversibile per principio e quindi diretto in modo univoco verso una meta: e tale meta è uno stato di riposo (...)  Nella seconda metà dell'esistenza rimane vive soltanto chi, con la vita, vuole morire.  Perché ciò che accade nell'ora segreta del mezzogiorno della vita è l'inversione della parabola, è la nascita della morte (...) "Non voler vivere" e "non voler morire" sono la stessa cosa.  Divenire e passare appartengono alla stessa curva"  (Anima e Morte, 1934, pp. 436-37)


Liber Novus/Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2009, pag. 274.

09/03/12

Che cosa ci lascia una madre - di Massimo Gramellini.


Questa lettera, e la risposta che segue - di Massimo Gramellini - comparve nella rubrica 'Cuori allo Specchio', del settimanale de La Stampa 'Lo Specchio', molti anni fa. 

L'ho finalmente ritrovata, e voglio riportarla qui per voi, amici. 

Questa lettera è un po' atipica in quanto non parla di amori persi, di tradimenti o di quant'altro può accadere nella vita di un individuo nel momento in cui si trova a relazionare col sesso opposto.  Questa lettera parla di un rapporto particolare, di un rapporto finito prematuramente in una stanza di un ospedale, parla di mia madre.     Ho 39 anni, sono sposato(felicemente) e avevo una mamma stupenda di soli 20 anni più vecchia di me. Una neoplasia mammaria me l'ha portata via e da allora la mia vita è diventata un  film in bianco e nero.     Da lei ho imparato ad amare i Rolling Stones (un po' meno i Beatles), Lucio Battisti e il mio prossimo.  Mia madre mi ha insegnato a stare bene in mezzo alla gente, a portare rispetto per i più deboli e a imparare a non soffrire per la sordità e la cecità del mondo nei confronti di noi romantici.  Ho lavorato tutta la vita in fabbrica, ho amato profondamente mio padre, ho curato mio nonno e già malata terminale di cancro ho assistito comunque mia nonna per due mesi, prima che lei spirasse.   Dopo  il decesso di mia nonna si è chinata su di lei e le ha sussurrato nell'orecchio: "grazie di tutto." Tre mesi dopo è mancata anche lei. Era un mattino di sole e mi ha detto all'orecchio con un filo di voce: " non mollare mai, sei in gamba, ed è stato un onore per me averti come figlio."  Mentre Le sto scrivendo sto piangendo, ma ho il cuore spezzato e non riesco a riprendermi.   E' troppo dura da mandare giù. Voglio rivolgermi a Lei in questo momento di estremo dolore in modo che la sua saggezza e la sua preparazione riescano in parte a colmare questo enorme vuoto.   
Gabriele

Non sono né saggio né preparato, Gabriele. però sono orfano anch'io. Dall'età di nove anni. E lettere come la sua hanno ancora il potere di turbarmi, persino in un'epoca che ha trasformato le emozioni in un genere televisivo, in una marmellata indistinta e insapore che ci ha reso tutti inappetenti. 

Dieci anni fa, e ne avevo già 30, non parlavo volentieri di mia madre con nessuno, nemmeno con me stesso.  E dieci anni prima, a 20, negavo inconsciamente che fosse morta, nascondendone le foto in un cassetto. Se ora riesco addirittura a scriverne in un giornale è perché ho accettato il mio dolore e ho perdonato tutti.    Lei per essersene andata così presto e Dio per essersela presa:  a 43 anni, dopo una vita che non fu purtroppo diversa da quella di Sua mamma. 

La mia era orfana di padre e durante la guerra, all'età in cui oggi le adolescenti raccontano a Cuori allo Specchio i primi raffreddori sentimentali, lavorava in fabbrica sotto le bombe per aiutare mia nonna a mantenere quattro fratellini più piccoli.
Era bionda, sbadata, emotiva, buffa come me.  Era altruista e disponibile con tutti, un termosifone sempre acceso a temperatura costante, come io vorrei essere e non sono.
Se fosse sopravvissuta al tumore che la portò via durante le vacanze di Natale, proprio come Sua madre, io oggi sarei probabilmente un avvocato (era la sua previsione: "con quella parlantina!") perché il giornalista era un mestiere troppo aleatorio per un'apprensiva come lei e forse non ce l'avrei fatta a darle un simile dolore.

La invidio, Gabriele, per non aver pronunciato nella Sua lettera, la più ovvia delle recriminazioni: come mai una donna così buona se n'è andata così giovane ?
Certo non ha lasciato nel nido un pulcino spaurito, ma un adulto al quale aveva fatto in tempo ad insegnare ad amare il prossimo, Battisti e i Rolling Stones: l'essenziale insomma.  

Però morire a 59 anni, quando si ha il cuore grande di Sua madre, resta un'ingiustizia inconcepibile. 
Ci salva solo la consapevolezza che questa vita abbia un senso e che il suo senso sia: allenarsi.
Col sorriso sulle labbra, se si può. Ma la vera goduria non può che essere altrove. Lo chiami paradiso o come le pare. Noi siamo qui per prepararci.  Ma non ci troviamo tutti allo stesso livello. Alcuni sono più avanti col programma e gli serve meno tempo per prendere il "tagliando" e spiccare il volo.   Chi è già angelo da giovane non ha bisogno di diventare anziano.  Non sempre, almeno, perché altrimenti si dovrebbe concludere che solo i cattivi invecchiano e non è vero. 

Meglio metterla così: ognuno ha un suo progetto da compiere in questa vita, e le nostre madri hanno esaurito il loro più rapidamente di altri. Perché era più breve, o perché erano più brave.  

Rimaniamo noi figli, con un carico di ricordi che nel Suo caso, per fortuna, è superiore ai rimpianti.  

Mi è stato detto che l'ultimo gesto che mia madre compì, la notte in cui perse definitivamente conoscenza, fu di venire nella mia stanza a rimboccarmi le coperte. 

La Sua le ha sussurrato all'orecchio quelle parole meravigliose. 
Ricordiamocele così, nell'atto di amarci e benedirci per l'ultima volta.
E cerchiamo di esserne degni, Gabriele.  Senza retorica. E senza paura.

Massimo Gramellini


28/02/12

Paola Capriolo su Rainer Maria Rilke, il doppio regno della vita e della morte.


Oggi, sul Corriere della Sera un bellissimo articolo di Paola Capriolo su Rilke. La Capriolo è ormai da parecchi anni, l'autore che forse più, in Italia, ha studiato e compreso la grandezza del genio delle Elegie Duinesi. Vi propongo il testo.

In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l'essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt'altro che accattivante. 

Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l'amore, il lutto, l'emozione di fronte a un paesaggio... mentre l'«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l'arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell'uomo. 

Chi è dunque l'uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba, ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell'aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po' eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente. Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell' Ottava elegia , diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell'atteggiamento di chi parte e «... sull'ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s'arresta, si volge indietro, indugia -».

 In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d'occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo... Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall'orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l'animale, che è di casa nell'aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l'avvenire, là vede il tutto e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l'anima possedeva in sé a propria insaputa. 

Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l'errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno se vanno tra vivi o tra morti». 

 Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l'una nell'altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno». Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l'aspetto della negazione. 


15/12/11

George Steiner: sulle "questioni ultime" in 2000 anni non abbiamo fatto un solo passo avanti, nella conoscenza.



Quando leggo quasi ogni giorno sui giornali delle grandi scoperte della scienza che sembra spieghino tutto della nostra vita biologica (il dominio della genetica) mi tornano in mente le parole di George Steiner, il grande scrittore e saggista francese, che qualche tempo fa ammoniva sugli scarsi risultati raggiunti, complessivamente, dalla storia umana, riguardo alle cosiddette 'questioni ultime': chi siamo, da dove veniamo, se c'è un motivo per cui siamo qui, cosa è la morte. E' molto interessante rileggerle. 

Ma resta un fatto schiacciante: ..Rispetto a Parmenide o a Platone, noi non ci siamo avvicinati di un centimetro a una qualsiasi soluzione verificabile dell'enigma della natura - o dello scopo, se ce n'è uno - della nostra esistenza in questo universo probabilmente multiplo, alla determinazione della definitività o meno della morte e alla possibile presenza o assenza di Dio. 

Potremmo anche essercene allontanati. I tentativi di "pensare fino in fondo" questi problemi ... hanno prodotto la nostra storia religiosa, filosofica, letteraria, artistica e scientifica. 

Questi tentativi hanno impegnato i migliori intelletti e le migliori sensibilità creative del genere umano - un Platone, un sant'Agostino, un Dante, uno Spinoza, un Galileo, un Marx, un Nietzsche o un Freud. Hanno generato sistemi teologici e metafisici affascinanti per la loro sottigliezza e suggestivi per la loro forza propositiva. In ultima analisi, comunque, non andiamo da nessuna parte. 

Per quanto riguarda il loro risultato concreto, la danza aborigena intorno al totem e la summa di Tommaso, il voodoo e Plotino sulle emanazioni, mettono in atto, comunicano miti che condividono analogie più che accidentali. Non producono alcuna prova. 

A dire il vero la storia degli sforzi che si sono succeduti per provare l'immortalità e l'esistenza di Dio costituiscono una cronaca imbarazzante della condizione umana. Nessuna confutazione è assiomaticamente possibile. 

La verificabilità, la falsificabilità delle scienze, il loro progresso trionfante costituiscono il prestigio e il crescente dominio che esercitano nella nostra cultura, ma la scienza non può dare nessuna risposta alle questioni quintessenziali che ossessionano lo spirito umano. Wittgenstein lo ha sottolineato con insistenza: La scienza può soltanto negarne la legittimità. 

Tuttavia siamo creati in modo tale che indaghiamo comunque, e potremmo trovare molto più persuasiva la congettura di Sant'Agostino che quella della teoria delle stringhe. La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l'uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. 

Ma lo lascia straniero a sè stesso e all'enormità del mondo. 

In effetti, Steiner, mi sembra, non ha torto: la capacità cognitiva del mondo, delle grandi questioni legate all'esistenza - al di fuori di un'ottica di fede - non ha fatto un solo passo avanti, in millenni di storia. Le domande sono sempre le stesse, ma le risposte sono sempre un mistero.

19/11/11

La bella terribilità della vita.



La vita è terribile, lo si pensa spesso - vivendo.
Sembra terribile vivere, affrontando ogni volta ostacoli che si frappongono alla nostra felicità, dolori, miserie umane, sofferenza. E la morte che pesa come un macigno su ogni destino, su ogni speranza, su ogni finitudine.

E' la morte a stabilire un confine e a porre un sigillo terribile ad ogni apparente ricerca di senso.

E' terribile, diciamo, la vita.

Eppure - vivendo, si scopre sempre un senso di bellezza in questa 'terribilità'. C'è una verità profonda nell'affermare - e prima ancora nel sentire - che la vita può essere, ed è, bellissima anche (inspiegabilmente) nell'essere terribile.

E' un mistero, ed è anche il segreto della vita umana, di ogni vita umana.



01/11/11

La dignità dei morti (e dei vivi).



Ho spesso riflettuto sulla “dignità” dei morti. I morti sono “dignitosi” perché sono meritevoli quasi sempre – a meno che la loro vita non sia stata particolarmente ignominiosa – del rispetto nell’opinione comune.

Il rispetto deriva soprattutto dal fatto che un morto non ha più voce.

L’ultima parola è quella del suo epitaffio sulla gelida lapide. Poi, nessun diritto di parola – secondo le convenzioni dei viventi – è più concesso a un morto.

Anche se dovremmo tutti ricordarci che i morti continuano a parlare, eccome, dopo la loro morte, in forme e modi spesso incontrollabili (ed è per questo che spesso anche la sepoltura di un corpo, l’identificazione e la presenza di una tomba fa così paura o diventa ingombrante, come insegna la storia passata e recente).

Ma la dignità è riconosciuta primariamente proprio in virtù di questo silenzio in-contestabile che cala sulla vita di un uomo, e questo silenzio è dignitoso, perché non ammette più ragioni o repliche. E’ silenzio, appunto, e basta.

Ma perché la dignità deve essere tirata in ballo anche per i sopravvissuti ? Perché di qualcuno che vive un lutto si dice o si giudica che sia “dignitoso” ? Esiste un modo “dignitoso” di affrontare la morte di una madre, di un padre, di un figlio, di una moglie o un marito ?

Chi ha stabilito un “codice deontologico” del lutto ?

Chi ha stabilito – soprattutto oggi, che le lacrime e il dolore devono essere banditi possibilmente da ogni consesso socialmente utile - che una persona che trattiene il pianto o non mostri sofferenza sia più dignitosa di qualcuno che si abbandona alla lacerazione o alla disperazione ? 

Davvero non possiamo fare a meno, anche in ‘rigor mortis’ di enunciare il nostro freddo giudizio, ad uso e consumo di una sofferenza che turba o disturba e che vogliamo mantenere ad una distanza di controllo ?

I morti sono dignitosi e non hanno bisogno di lacrime.

I vivi però, i sopravvissuti in specie, hanno bisogno anche di lacrime per attraversare il grande lago, misterioso, della separazione dagli affetti umani.

Ci sarà tempo poi, forse, in questa o in un’altra vita di partecipare e vivere un nuovo dolore, una nuova sofferenza e forse una via nuova per ritrovare quei perduti affetti.


F. Falconi

26/10/11

La morte secondo Steve Jobs. Una riflessione.




Mi ha molto colpito leggere nei giorni scorsi l'intervista realizzata dal Corriere a Walter Isaacson, l'autore della corposa biografia di Steve Jobs conclusa pochi giorni prima della sua morte, e data alle stampe a tempo di record. Mi hanno particolarmente colpito i passaggi nei quali Jobs parla a cuore aperto della morte e dell'oltremorte, dei suoi dubbi e delle sue speranze.

Riporto i passaggi salienti. 

«E' fifty-fifty" mi diceva. "Cinquanta e cinquanta. A volte credo che Dio esista. A volte no. Vorrei credere nella vita ultraterrena. Ma ho il timore che alla fine ci sia solo un tasto on-off. Un clic, la luce se ne va. E tu non ci sei più. Per questo non mi è mai piaciuto mettere tasti di accensione sui prodotti della Apple"». i tormenti di Steve Jobs, il suo interrogarsi sull'aldilà. 

È la prima intervista concessa a un giornale italiano dopo aver consegnato all'editore (in Italia Mondadori) la sua biografia del fondatore della Apple. 

Abbiamo già letto molte anticipazioni del suo libro, ma poco del temperamento irascibile di Jobs, i tratti duri del suo carattere. Quanto a Dio, l'aveva evocato parlando di musica. Lui, che aveva riempito il suo iPod coi brani di Bob Dylan, i Beatles, Joan Baez, i Rolling Stones e Yo-Yo Ma, una volta disse al violoncellista franco-cinese: «Le tue esecuzioni sono la migliore prova dell'esistenza di Dio perché non credo che un essere umano da solo possa fare tutto questo». 

«Con me Steve cominciò a parlare di Dio man mano che prendevamo confidenza e che la malattia riguadagnava terreno. Non era paura, si interrogava: "Voglio credere nella vita ultraterrena" mi diceva, "perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più". Poi, però, veniva assalito dal dubbio che alla fine della vita ci sia solo un "off switch"». 

Credo che sia difficile, molto difficile trovare una migliore esposizione, in poche righe - S.Jobs era del resto un uomo di intelligenza superiore - dell'impasse nel quale si dibatte e si ritrova l'uomo contemporaneo, di fronte ai cosiddetti ultimi: la morte, la vita dopo la morte, il senso della vita, il nulla o Dio.

Decaduto il principio di fede, persi per strada i cammini iniziatici, disintegrati i dogmi di qualunque tipo, l'uomo occidentale si trova sempre più in bilico tra speranza (cuore) e disperazione (ragione).  Tra voglia di affidarsi ad una speranza ultraterrena (Dio) e paura/terrore di un nulla profondo, tra annichilimento e permanenza di ciò che sei stato.

Il tasto on-off al quale si riferisce Jobs è quanto mai simbolico ed in effetti solo ora mi spiego perché le sue meravigliose diavolerie elettroniche non prevedano un tasto di spegnimento, ma solo un eterno stand-by. 

Il tasto dell'i-pod switcha e... basterà sfiorare nuovamente l'apparecchio perché la musica desiderata, la storia meravigliosa, torni a srotolarsi nuovamente dal punto in cui era stata interrotta.  Riporto qui un estratto dal libretto di istruzioni apple:

Spegnere iPod 
Non esiste un vero e proprio tasto Stop (spegnimento) per iPod. iPod può essere messo in pausa e dopo qualche minuto di inattività si spegne da solo, entrando in una fase denominata Sleep, seguita dalla fase Deep Sleep (dopo 36 ore di inattività). 


Metafora migliore, nessun mistico sarebbe riuscito a trovarla.

E forse non è un caso che a realizzarla sia stato il 'padrone dei sogni tecnologici', proprio lui.



10/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 9. SEMPLICITA'


Dovrò essere consapevole che nessun senso può essere trovato nel caos, a meno che io non elegga il caos a senso.

Chi lo ha fatto, però, ha procurato quasi sempre a se stesso e alla comunità nella quale vive, disastri. 

Per capire cosa la vita pretende da me, dovrò sempre ricordarmi di cosa ero io, quando sono venuto al mondo: un essere vivente, prodotto di una vita biologia estremamente complessa (ma del tutto ORGANIZZATA - senza organizzazione e ordine, nessuna vita biologica è possibile) bisognosa però di molto poco: attenzione e cura, amore, nutrimento, serenità, possibilità di evoluzione.

Non potrò dunque mai trovare senso alla mia vita, riempiendola a dismisura di cose perlopiù inutili. Non potrò mai pensare di individuare un 'ordine' se io per primo concederò alla mia vita di essere del tutto caotica, stipata fino all'inverosimile di  cose inutili.

Sarò e sono consapevole che questo oggi è sempre più difficile. Sarò e sono consapevole che riempire la propria vita a dismisura, proclamare incessantemente che "non si ha tempo", che "non si ha tempo per nulla e quindi a maggior ragione anche per farsi domande su se stessi e sulla vita" è la più diffusa forma di auto-difesa contemporanea. 

Si ha paura del vuoto, di quello che si presume a-priori di essere un vuoto - la mancanza di senso - e  si colma  la vita di stupidaggini, dettagli e diversivi fino all'inverosimile nella speranza che non si abbia il tempo e il modo di interrogarsi mai, e dunque di spaventarsi di fronte a quel vuoto. Ci si illude di protrarre questo sentimento fino all'estremo limite della morte, e di morire quindi inconsapevoli di tutto, ma "senza soffrire", come bambini spaventati.

Questa vita non fa per me.

Mi ricorderò sempre che soltanto fermandomi, interrompendo il flusso ininterrotto delle cose complicate (non complesse) che tutti e tutto mi impongono, io potrò scoprire qualcosa. Dovrò fare quindi spazio nella mia vita, pur nelle incombenze di tutti i giorni, lasciare sempre questo spazio vitale, essenziale.

Solo dal silenzio e dalla quiete sorgono le vere domande. E solo nel silenzio e nella quiete è possibile ascoltare qualcosa. Ascoltare quella voce - flebile o forte - che la potenza della vita riversa (riverserebbe) dentro ognuno di noi.

Come lasciò scritto il profeta: Non sarete confusi per sempre.

Fabrizio Falconi

in testa: immagine da Monika e il desiderio di Ingmar Bergman 

28/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 1



LE PAROLE DELLA SOGLIA

Vorrei parlare delle parole che girano intorno alla morte.
Intendo dire delle parole che vengono pronunciate in circostanze di morte, e che vengono scritte, ripetute, trasmesse in circostanze di morte.

Una volta veniva attribuita grande importanza alle parole pronunciate in punto di morte, nel deliquio della morte – e queste erano spesso interpretate come buono o cattivo segno per l’anima del morituro nel suo passaggio all’altra vita – ma anche alle parole che i sopravvissuti pronunciavano per la morte di una persona.
La parola Epitaffio già dall’etimologia ci spiega il suo senso: ‘sopra’ e ‘tomba’: parole pronunciate sopra una tomba.
L’epitaffio è l’equivalente greco di quella che i romani chiamavano oratio funebris , e solo in epoche relativamente recenti è stato riferito alla scritta, cioè alla iscrizione posta sopra le lapidi.

Originariamente l’epitaffio era il discorso che veniva pronunciato ‘a caldo’ , in rigor mortis , sul corpo appena toccato dalla morte.

Era quindi, per forza di cose, un discorso grave, ispirato, pronunciato da chi conosceva bene il morto, da chi poteva tesserne le lodi e onorarne il ricordo. Tutto ciò non solo per una scarna esigenza celebrativa. Il discorso in memoriam aveva un compito importante, quello di scandire le immagini della persona che non c’è più, di imprimerle nella memoria di chi resta, di chi gli sopravvive.

In mancanza di una immagine reale da poter trasmettere, l’orazione funebre era la ‘fotografia’ di colui che scompariva per sempre, il suo ricordo per le generazioni future, tramandato oralmente. E le parole divenivano dunque ricordo, si facevano carne ancora viva.

L’epitaffio è anche divenuto con il tempo una ‘formula’. Una formula che in qualche modo si pretendeva – e si pretende – possa racchiudere l’anima, lo spirito della persona che non c’è più.

Questa ‘formula’ è divenuta la stessa iscrizione posta sulla tomba, sulla lapide e molto spesso l’epitaffio era proprio una sintesi dell’orazione funebre pronunciata dopo la morte.

L’iscrizione funebre è divenuta subito però qualcosa di fondamentale, non di ‘ornamentale’ rispetto al luogo della morte: simbolo, segnale della presenza di uno spirito ‘ che parla ‘ e che continua a parlare a chi cammina, e a chi, camminando dimostra di essere vivo, e nel suo camminare ‘passa’ di fronte al luogo della morte.

In epoca romana le iscrizioni funebri hanno raggiunto vertici inarrivabili di creatività e questa tradizione, sebbene ridimensionata è giunta fino ai giorni nostri, una caratteristica che differenzia i nostri cimiteri di oggi rispetto a quelli ad esempio anglosassoni che si limitano generalmente a riportare solo il nome e le date di nascita e di morte.

Fabrizio Falconi  © riproduzione riservata

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