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30/03/16

"Pastorale americana" di Philip Roth (RECENSIONE).



Ho letto Pastorale Americana, uno degli ultimi Roth che mi mancava da leggere, negli stessi giorni in cui a Roma è accaduto un brutale fatto di cronaca, l'omicidio a sangue freddo - per sapere cosa si prova - di un ragazzo, da parte di altri due, apparentemente tipi normali, provenienti da ottimi genitori e ottimi padri, i quali hanno pensato bene subito dopo l'efferato crimine, a cadavere ancora caldo, di andare in tv in prima serata (o scrivere sul proprio blog personale) a difendere questi figli e rivendicarne la bontà, la probità, l'innocenza. 

C'era dunque parecchio da meditare, mentre si scorrevano le pagine (423) di questo grande romanzo americano, nel quale Roth descrive la discesa agli inferi di Seymour Levov, detto Lo Svedese, aitante e perfetto americano (ebreo figlio di figlio di immigrati dall'est europeo), con perfetta moglie (Miss New Jersey) al fianco, che scopre nell'unica figlia Merry, una pluriomicida, bombarola contestatrice in fuga da tutto, ritrovandola più avanti nella storia in miseria, finita in una sorta di comune giainiana, sempre più disperata e sola, e del tutto immune ai richiami dell'affetto familiare. 

La catastrofe descritta da Roth è perfetta, e si dipana principalmente intorno all'argomento della rimozione dell'ombra.  Seymour è in buona fede, crede "ai valori", al modello di vita americano, crede nelle cose giuste, e la vita gli ha sempre dato ragione premiandolo con riconoscimenti e onori (nello sport, nell'amore, nel lavoro).  Ma questa perfezione è sterile, la famiglia perfetta - si sa - genera mostri (come è il caso anche delle famiglie romane di cui sopra, a quanto pare) e il piccolo mostro Merry - insieme ai suoi compagni d'avventura prima fra tutte la perfida Ruth - sa il fatto suo: sa come distruggere l'icona perfetta dalla quale proviene, sa come minarne ogni certezza, ogni convincimento, ogni sicurezza, ogni appiglio, ogni immagine ideale a dosi di deflagrante realtà. 

Roth tiene in pugno il lettore e lo spreme fino alla fine, essendo qui la sua scrittura al culmine di una abilità non fine a se stessa. 

Semmai, anzi, la scrittura risente anche troppo dell'obiettivo che sta a cuore a Roth. La sua voce parteggia fin troppo apertamente per qualcuno dei personaggi, come Ruth, la messaggera incaricata di scaricare addosso a Seymour il suo completo fallimento, o come Jerry il fratello cinico dello Svedese.

A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.

Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale,  mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.

Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.

Fabrizio Falconi

Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997 

19/01/16

E' morto il grande Michel Tournier.




A 91 anni e' morto, lontano dai riflettori di Parigi, Michel Tournier, considerato uno dei più grandi scrittori francesi del secolo scorso, più volte citato come candidato al Nobel per la letteratura.

Arrivato tardi alla scrittura - aveva 42 anni alla pubblicazione del suo primo romanzo - Tournier ha scritto per adulti e adolescenti, riuscendo a mescolare mito e storia.

Per Gallimard, pubblicò a meta' anni Sessanta "Venerdi' o il limbo del Pacifico", ispirato al Robinson Crusoe di Daniel Defoe.

Nel 1970 ottiene - unico scrittore francese nella storia - il premio Goncourt all'unanimità della giuria, per "Il re degli Ontani", che vendera' in 4 milioni di copie.

"Venerdi' o la vita selvaggia", versione semplificata della sua prima opera, vendette 7 milioni di copie e fu tradotta in 40 lingue, diventando un classico per ragazzi letto ancora oggi in tutte le scuole.


fonte ANSA


02/01/16

Torna "Moby Dick" in una nuova traduzione, da Einaudi.




Cosi' come il classico capitano Achab al cinema resta quello grandioso di Gregory Peck con quella sua barba quacchera nel film di John Huston di 60 anni fa, diverso dal capitano Pollard appena approdato sugli schermi in 'Heart of the sea' di Ron Howard, che di Moby Dick ricostruisce le origini storiche partendo dall'omonimo libro diNathaniel Philbrick (Elliot, pp. 314 - 17,50 euro). 

Evidentemente la metafora della nave Pequod, col suo destino segnato e a bordo uomini di fedi e culture profondamente diverse, protagonisti nel bene e nel male, trascinati dalla pazzia lucida del captano Achab, in cerca di vendetta contro la balena bianca che gli porto' via una gamba, in un'epopea tragica e' anche una fra le opere piu' forti, intense, incisive e poetiche della letteratura moderna. 

Questo di Herman Melville e' del resto un romanzo in cui, sullo sfondo, e' sempre la Bibbia, con il senso calvinista di un Dio tremendo, e il narratore di tutta la storia si chiama Ismael ("l'uomo che si sa dotato di una superiorita' non riconosciuta dal mondo: il primogenito di Abramo, un bastardo cacciato nel deserto, fra altri reietti, dove impara a sopravvivere esule per antonomasia", Elemire Zolla), anzi il libro inizia proprio con questi che dice: "Chiamatemi Ismael". 

Moby Dick e' una grandiosa narrazione mitologica e metafisica che racconta, attraverso epiche avventure di mare, la vita come caccia e combattimento, l'eterna lotta dell'uomo contro il male, il suo bisogno e dovere di non tirarsi indietro, pur sapendo che la sconfitta sara' inevitabile.

Moby Dick e' una gigantesca balena dalla "testa bianca, dalla fronte rugosa e dalla mandibola storta", che vive nei Mari del Sud coperta dagli arpioni dei cacciatori e di cui tutti i balenieri temono la malvagita' eccezionale e la malizia. 

In quel "muro bianco" Achab vede il simbolo del male e delle cieche e brutali forze della natura. Per cercare di cacciarla e ucciderla ingaggia un gruppo di uomini, tra cui vi sono gli ufficiali Starbuck, Stubb e Flask, i ramponieri Tashtego e Deggu, e salpa dall'isola di Nantucket, nel Massachussets, a bordo della baleniera Pequod, oltre al marinaio Ismael, divenuto amico inseparabile del ramponiere polinesiano, ricoperto di tatuaggi, Queequeg. 

La forza di queste pagine sta anche nell'essere quasi un trattato sulla caccia alle balene, con un Prologo composto di tante citazioni da ogni tipo di letteratura sul tema, dalla Bibbia a Milton, da Darwin a Rabelais, dai viaggi di Cook a canzoni popolari. Pagine di descrizioni, digressioni e riflessioni, che non distraggono ma anzi aiutano a dar spessore ai personaggi, alla vicenda principale avventurosa e, assieme, rappresentano quella maniacalita' del dettaglio che risulta alla fine coinvolgente e rinforza la metafora generale, quella che ha fatto di questo libro un classico. 

Lo stile di Melville e' potente, ha un suo senso di implacabilita' anche quando trova momenti di tenerezza e comprensione per le debolezze umane, acquista ritmo nei momenti cruciali, prende un andamento quasi da monologo teatrale in tante riflessioni, del capitano come dei suoi ufficiali. 

Il romanzo lo pubblico' nel 1851, dieci anni dopo il suo imbarco proprio su una baleniera, la Acushnet, e aver scritto altri libri di argomento marino, acquisendo esperienza e documentazione, leggendo di tutto, da Shakespeare (innanzi tutto 'Re Lear') al Coleridge della 'Ballata del vecchio marinaio' sino a Nathaniel Hawthorne, cui Moby Dick e' dedicato con "la mia ammirazione per il suo genio". 


Fonte Paolo Petroni per ANSA

26/10/15

'Le correzioni' di Jonathan Franzen (Recensione).



E' sempre difficile recensire un libro che ha avuto così grande successo. Come è capitato a Le Correzioni (The Corrections, 2002), con il quale Jonathan Franzen ha vinto il National Book Award e che gli ha assicurato la notorietà internazionale. 

Il romanzo è stato pubblicato in Italia da Einaudi nell'ottima traduzione di Silvia Pareschi (ma con una copertina incredibilmente fuorviante: l'infanzia in questo libro non ha alcuna rilevanza, gli unici personaggi bambini, i figli di Gary, non entrano mai a pieno titolo nella narrazione).

Si tratta di un romanzo compiuto e felice, sebbene di contenuto molto duro e lucido.  Franzen affronta il preferito tema della famiglia (tornerà anche nel romanzo seguente, Libertà) e della sua apparente disgregazione e inaspettata sopravvivenza. 

La famiglia di Franzen è composta da due anziani genitori, la materna e fragile Enid e il roccioso Alfred, alle prese con l'avanzamento letale del Parkinson e con il disfacimento fisico e psichico. 

I tre figli della coppia sono - nell'ordine in cui il romanzo ce li presenta, in parti apparentemente distinte - Chip, insegnante licenziato e sceneggiatore fallito, il più irregolare dei tre, sempre attratto dalle donne e da una improbabile affermazione personale; Gary, il più regolare, sposato con la bella Caroline e padre di tre figli;  e Denise l'unica femmina, provetta cuoca e dilaniata dal una sessualità confusa (divisa tra l'attrazione per gli uomini e per le donne). 

Come sempre in Franzen, l'architettura del romanzo è prodigiosa.  In parti solo formalmente separate, si intrecciano le storie reciproche dei figli e dei genitori, con continui flash back e flash forward che danno al racconto una incontenibile forza fluida. 

Franzen ha il pregio di non assumersi mai il ruolo di giudice morale di quanto racconta.  Le sue considerazioni di narratore sono lievi, ironiche e non entrano mai nel merito dei destini individuali. 

L'orizzonte è confuso. Quel che resta della famiglia americana (e occidentale) è un grumo di sentimenti contrastanti: odio feroce, irrequietezza e forza del vincolo, che prevale o sembra prevalere su ogni istanza individuale dei protagonisti. 

Con la pazienza di un entomologo, Franzen dispone il catalogo delle personalità - e delle ferite che stanno alla base di queste - e risale al vizio ante-litteram del matrimonio generante (quello tra Enid e Alfred) fondato su un gigantesco equivoco: Enid ama il corpo di Alfred e vorrebbe essere riamata per quello che è; ma Alfred è un ostinato, che continua a ripetere il suo no alla vita, fino all'ultimo istante.

Questo no di Alfred pesa come un macigno anche sulle cronistorie dei figli, sui loro destini irrisolti. Anche e specie in quello di Gary, che sembra quello meglio sistemato e che invece è il più frustrato di tutti (e il più insopportabile nella sua presunzione di sapere sempre cosa è meglio e di poter dare ordini agli altri). 

Franzen racconta questi personaggi con enorme com-passione. Indugia a volte troppo, si esercita qui e là nell'auto-compiacimento di chi sa di disporre di tutti i mezzi narrativi. Ma in fondo non bara mai. E' cosciente e responsabile, lascia i personaggi agire, li osserva li perdona e li ama, come avveniva nella lezione del più grande dei narratori, Tolstoj. 

Il grande piacere della lettura - pur nel livello quasi straziante delle disperazioni personali - è forse dovuto proprio a questo. E non decade mai, fino al punto finale (che spetta, come sempre, alla morte). 

Fabrizio Falconi 
(C) - 2015 riproduzione riservata.


10/09/15

Orhan Pamuk: "La foto del bimbo più forte di appelli dei Premio Nobel."



intervista di Alessandra Magliaro per ANSA

Il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk alla Mostra del cinema di Venezia per la prima mondiale, nelle Giornate degli Autori del film di Grant Gee Innocence of Memories, che evoca il titolo di unodei suo romanzi piu' noti, Il museo dell'innocenza (Einaudi), non e' voluto mancare alla proiezione dell'opera che sara' distribuita in Italia da Nexo Digital. 


C'e' ancora un ruolo che gli intellettuali possono svolgere rispetto a quello che accade in Europa con l'ondata biblica di rifugiati di guerra? 

"Non bisogna esagerare con il ruolo degli intellettuali. Pubblicare la foto del povero bambino Aylan e' stato centinaia di volte più' forte di tanti nostri appelli. Scegliendo di mostrare quell'immagine si e' riusciti a provocare un vero cambiamento. Anche in Turchia come in altri paesi si e' discusso se fosse da mettere in prima pagina o no, ma io sono stato d'accordo e felice che sia stato fatto anche nel mio paese. Questo non significa che l'impegno degli intellettuali non abbia piu' senso: possiamo criticare, non restare passivi, ma la nostra azione nel mondo dominato dalle immagini e' decisamente inferiore a quello che aveva un tempo". 

La Turchia, non solo geograficamente, e' stata centrale nei cambiamenti del corso della storia, pensa che lo sia ancora oggi? 

"Istanbul e la Turchia sono da sempre crocevia di movimenti demografici, non solo dall'Asia verso l'Europa ma anche dalla Russia verso il sud e dai Balcani verso l'Europa. Abbiamo avuto due milioni di migranti in Turchia, mentre l'Europa ne voleva accogliere duemila. Ora sono felice che anche la Germania abbia deciso di aprire le porte". 

Istanbul, dove e' nato nel '52, e' il centro di tutto. Pamuk e' lo scrittore di Istanbul come Dickens lo era di Londra e' stato detto. Cosa rappresenta per lei? 

"Ci sono nato, cresciuto, ci vivo, da sempre cerco di vedere il mondo attraverso questa citta' che negli anni si e' sviluppata immensamente. Sono le mie fondamenta, la mia famiglia, il mio corpo, ma non l'ho mai immaginata e descritta sotto una lente romantica, sdolcinata o glamour, ne ho viste tutte le contraddizioni". 

Nel 2012 ha finalmente realizzato il sogno di aprire a Istanbul il Museo dell'Innocenza, che accoglie tutti gli oggetti descritti nel libro, gli oggetti di un amore innocente come quello sbocciato fra i due protagonisti del romanzo, perche' renderli reali, concreti

"Sono gli oggetti a dare la definizione di memoria, come quando nella tasca di una giacca trovi due biglietti di un film che hai visto anni prima, immediatamente ricordi quei momenti. Gli oggetti risvegliano la memoria. Noi siamo memoria e non esiste la possibilita' di felicita' e sopravvivenza senza la memoria. Ricordare ci rende intelligenti"

Innocence of Memories, il film di Grant Gee, che relazione ha con lei e la sua opera letteraria? 

"Il film non e' la versione cinematografica del romanzo, e' la storia del museo del romanzo Il museo dell'Innocenza. I principali protagonisti di quella storia, Kemal e Fusun che vivono un amore contrastato nella Turchia degli anni '70, sono ampliati e poi c'e' la citta', il mio lavoro, in una narrazione che e' poetica, un lungo unico ponte tra immaginazione e realta'".

Dopo questo documentario e' cambiato il suo rapporto con la narrazione e con il cinema? 

"E' una delle mie più grandi gioie poter andare al cinema. Uscire da un bel film immediatamente da' felicita', e' un grande potere che ha il cinema. Da ragazzo ero un assiduo frequentatore della Cineteca di Istanbul, ora un po' meno. Dopo aver partecipato alla realizzazione di questo film e aver visto il processo creativo che c'e' dietro, quasi quasi mi e' venuta voglia di fare un film. Del resto in passato le ambizioni cinematografiche erano frustrate dal costo di realizzazione, oggi con lo sviluppo tecnologico puoi fare un piccolo film con uno smartphone. Quei piccoli video sono come il diario segreto che avevamo da ragazzi". 

Tra i libri piu' attesi del 2015 c'e' il suo nuovo romanzo, sette anni dopo Il Museo dell'Innocenza. Di cosa si tratta?

 "A strangeness in my mind. In Italia a fine novembre lo pubblichera' Einaudi come tutti i miei libri, non so ancora con quale titolo. E' un romanzo d'amore che ha come sfondo i cambiamenti sociali della Turchia. Si parte dalle lettere d'amore che un venditore ambulante scrive, tra il 1969 ed il 2012, alla ragazza di cui si e' innamorato". 



27/07/15

E' morto Sebastiano Vassalli.


Con Sebastiano Vassalli, nato a Genova il 24 ottobre 1941 e morto oggi a Casale Monferrato dopo una malattia tenuta riservata, scompare uno dei nostri scrittori più interessanti che con la propria opera, in gran parte basata su indagini storiche, non ha fatto che indagare la natura e il carattere del nostro paese e degli italiani, cui ha dedicato nel 2007 anche 12 storie esemplari e molto critiche, raccolte col titolo 'L'italiano'. 

Romanziere storico, ma alieno dal colore e dalla ricostruzione d'ambiente romanzesca fine a se stessa, il suo indagare, studiare e raccontare il passato, partendo dalle invasioni barbariche per arrivare a Medioevo e Controriforma e proseguendo sino ai nostri giorni con la Grande guerra, il fascismo e i caldi anni '70, era un soffermarsi su momenti simbolici e esplicativi del formarsi di un paese e dei suoi abitanti, cercando di spiegarne umanità, psicologia, cultura e risvolti storico-sociali, come uno scoprire radici che sono ancora quelle che ci fanno essere quel che siamo oggi. 

Due sono i titoli piu' fortunati, che esemplificano la sua ricerca, "La notte della cometa" del 1984, omaggio e ricostruzione della vita del suo "padre folle" il poeta puro Dino Campana, uomo di passioni e tormenti, libero e perseguitato da vicende sfortunate, e il romanzo "La chimera" che, vincendo nel 1990 lo Strega, ne fa uno scrittore popolare con l'avvincente storia e lo sfaccettato ritratto psicologico di una ragazza cresciuta nel Seicento sotto il Monte Rosa, che per la sua straordinaria bellezza attira gli interessi e, vista come strega ammaliatrice, la persecuzione del clero controriformista inquisitorio dell'epoca

Aveva appena terminato un nuovo romanzo, Io, Partenope, in uscita il 12 settembre. 

Candidato quest'anno al Nobel per la letteratura dall'Universita' di Goteborg e insignito del premio Campiello alla carriera, che avrebbe dovuto ritirare a settembre, Sebastiano Vassalli, nato a Genova 73 anni fa e che si diceva abbandonato dalla famiglia, crebbe presso delle zie a Novara e in quella zona e' rimasto poi a lavorare e vivere sino a oggi. 

Laureatosi a Milano con Cesare Musatti e su una tesi su arte e psicanalisi, aderi' giovane al Gruppo '63 e scrisse romanzi sperimentali e trasgressivi come "Narcisso" e "Tempo di massacro" fino a quando, nel 1983 pubblico' "Arkadia", spietata analisi critica dei gruppi d'avanguardia di cui aveva fatto parte. 

Era l'epoca in cui stava lavorando su Dino Campana ("La notte della cometa" uscirà l'anno dopo) e si avvicina a un altro modo di intendere l'artista e la letteratura che racconta con scrittura partecipe e facendone qualcosa di avventuroso e fascinoso. 

Nel 1987 pubblica "L'oro del mondo" racconto autobiografico tenero e sarcastico attraverso cui racconta il momento fondante della nostra democrazia, quello tragico dell'uscita dal fascismo e della Resistenza raccontata da chi non l'ha vissuta in prima persona e dominata, ieri come oggi, dal malcostume e dal trasformismo. 

E' in questo romanzo che il bimbo chiede a uno zio perché si viva: "Per la nostra memoria: e per che altro? - spiego' - Per quelle poche pagliuzze di felicita' che rimangono in fondo alla memoria, come l'oro sul fondo della ba'tea", che e' per Vassalli quasi una dichiarazione di poetica. 

Seguiranno cosi' i romanzi storici, storie sempre anche complesse e umanamente avvincenti, da "La chimera" a "Marco e Mattio" (un caso psichiatrico tra le Dolomiti a fine '700 e inzio '800), da "Il cigno" (sullo scandalo del Banco di Sicilia a fine '800) a "Stella avvelenata" (viaggio di un chierico da Casale Monferrato a Parigi nel Quattrocento), sino a "Le due chiese" del 2010 (ritratto di un paese di montagna nell'Italia tra la Grande guerra e i nostri giorni) e "Terre selvagge" del 2014 (sulle invasioni di Cimbri e Teutoni nella pianura padana). 

Einaudi, Interlinea e Rizzoli sono stati i suoi editori. 

 Grande narratore di storie appassionanti, Vassalli fu anche poeta e soprattutto saggista e pronto a intervenire (dalle pagine spesso del Corriere della sera di cui era collaboratore) sulla nostra realta' e le distorsioni del mondo culturale, visti da lontano, dal suo luogo di vita ritirata che gli permetteva uno sguardo non compromesso, lucido e libero, al di fuori di ogni mondanita' e esibizione letteraria (ultimamente aveva criticato la candidatura allo Strega della Ferrante).

Cosi' si potrebbero citare molti altri suoi titoli, anche non di narrativa, tra i quali vanno comunque ricordati "Sangue e suolo" frutto di un'inchiesta in Alto Adige nel 1984, i cui temi ha ripreso ora nell'ultimo libro pubblicato, "Il confine", in cui rivede anche positivamente l'evoluzione di quella situazione critica tra le due etnie italiana e austriaca.

11/05/15

Paul Celan e Gisèle, un amore tormentato.




A prima vista le lettere che si scambiarono Paul Celan e la moglie, la pittrice francese Gisèle Lestrange, durante quasi vent' anni, dal 1951 al 1970, riflettono la storia di una unione solida, apparentemente senza incrinature, cementata da un' intesa sentimentale e artistica che sembra indistruttibile. 

Lui è uno dei maggiori poeti in lingua tedesca del Novecento che elegge la Francia sua patria adottiva e che attinge forza e ispirazione dalla compagna della sua vita; lei è una parigina di famiglia aristocratica, rigidamente cattolica, e un' artista dotata e sensibile che con le sue opere grafiche influenza non poco la produzione poetica del marito - la raccolta Fiato di cristallo non sarebbe pensabile senza le incisioni astratte che Gisèle crea negli anni Sessanta e da cui Paul trae ispirazione. 

Straordinario è il sentimento intenso e profondo che li lega fino alla morte. 

Poesie e incisioni vanno a braccetto in mostre dedicate alla produzione dei coniugi Celan, in volumi di versi illustrati dalle creazioni astratte di Gisèle. In effetti la parola poetica di Paul Celan, che negli anni diventa sempre più essenziale, magnetica, indelebile, dà l' impressione di essere incisa su una lastra di rame. 

Da noi Einaudi ha pubblicato l' intera raccolta delle poesie di Celan, che vanno dal 1948 al 1969, con il titolo Sotto il tiro di presagi (pagg. 500, euro 18,59). 

Ma mano a mano che si va avanti nella lettura di questo prezioso carteggio pubblicato in Germania dalla Suhrkamp e contemporaneamente in Francia da Seuil (Paul Celan - Gisèle Celan Lestrange: Briefwechsel, in 2 volumi a cura di B. Badiou), cresce l' apprensione per i protagonisti di questa storia d' amore solo apparentemente felice. 

Non solo perché conosciamo in precedenza la tragica fine del poeta, morto suicida nell' aprile del 1970 ad appena 50 anni, ma perché l' accuratissima cronologia che accompagna le lettere e documenta giorno per giorno la vita di Celan, rivela puntualmente i drammatici retroscena di un legame tormentato e tormentoso che solo la forza morale di Gisèle riesce in parte a salvare. 

Dietro a queste scene da un matrimonio c' è sempre la tragedia dei genitori di Paul deportati e morti a Auschwitz che il poeta non può e non vuole dimenticare, c' è la tragedia di un ebreo sopravvissuto che vuole combattere, armato solo della sua parola poetica, l' oblio e l' indifferenza dei suoi connazionali

C' è la fragilità di un' anima di artista che l' amore della moglie e del figlio Eric non può sanare. 

Amare una donna bella e coraggiosa, scrivere poesie che fanno sognare e meditare è una terapia che nei primi tempi funziona, che al poeta ebreo originario di Cernowitz e approdato a Parigi nel 1948 dopo Bucarest e Vienna, dà l' illusione di una vita «normale», appiana il suo eterno contrasto con la realtà. 

Nel dicembre 1952 Paul sposa la bella Gisèle; nello stesso mese esce Papavero e memoria, la prima raccolta di poesie di Celan: poesie d' amore, poesie dolenti in ricordo della madre uccisa da un colpo di pistola alla nuca, poesie che diventeranno celebri come Todesfuge (Fuga di morte). 

Segue, nel ' 55, l' uscita del volume Di soglia in soglia con una bellissima dedica del poeta alla moglie, alla sua «anima vivente». 

Ma la malattia nervosa che porterà Celan alla depressione e in seguito ad una serie di crisi gravissime e ad un tentato suicidio (nel gennaio 1967 tenta di suicidarsi ficcandosi un coltello nel petto ed è salvato solo all' ultimo momento dalla moglie), è latente sin dai primi tempi della sua relazione con Gisèle, sin da quando le scrive lettere appassionate. 

«Ti scrivo per dirTi che mi accompagni ovunque io vada, che tu sei questo mondo, Tu sola, e che il mondo è diventato più grande attraverso di Te, che ha trovato attraverso di Te una nuova dimensione», le scrive il 28 gennaio 1952. 

Ma in quello stesso anno il viaggio in Germania dove tiene una serie di letture dei suoi versi nelle principali città tedesche, gli causa un' angoscia indicibile

Per lui, che in Francia è assolutamente sconosciuto come poeta e che deve tenere i contatti con gli editori e il pubblico tedesco, questi viaggi sono una necessità professionale, ma ogni volta gli procurano un disagio, un malessere che gli è impossibile superare: in realtà la Germania del dopoguerra, protesa nello sforzo della ricostruzione materiale e morale Paul la sente irrimediabilmente estranea, addirittura ostile, nonostante i numerosi riconoscimenti che gli verranno conferiti

Le sue tappe nelle città tedesche sono un calvario, come testimoniano le lettere a Gisèle, sua unica confidente.

Il 31 maggio del 1952 Paul le racconta la sua lettura tenuta a Niendorf di fronte ai membri dell' autorevole Gruppo 47 dove era stato invitato su consiglio di Ingeborg Bachmann. 

La serata si rivela disastrosa per il poeta il cui modo di leggere viene deriso, viene definito «patetico».

Decisamente un feeling con la sua patria linguistica, con la terra degli assassini dei suoi genitori, Paul non lo proverà mai; si sente a casa solo a Parigi, a fianco della sua adorata Gisèle. 

Ma una tempesta rompe anche il precario equilibrio della sua vita parigina, lo fa sentire uno straniero in Francia, perseguitato da un' accusa insensata di plagio dietro alla quale egli vede un antisemitismo che inesorabilmente riaffiora, che lo vuole distruggere.

 E' «l' affare Goll» che lo tormenterà fino agli ultimi giorni. La vedova del poeta Yvan Goll inizia una campagna diffamatoria senza precedenti contro Celan che ha tradotto le opere del marito e che, secondo le sue accuse, ha copiato da lui metafore e immagini poetiche.

 E' una prova terribile per il poeta che dal '65 comincia a dare segni di squilibrio, che deve sottoporsi a massicce cure psichiatriche e che, due anni dopo, deve separarsi dalla moglie, su desiderio della stessa Gisèle: la convivenza diventa impossibile nonostante l' affetto che ancora la lega a Paul. 

Nella sua ultima lettera del 20 marzo 1970, Gisèle, questa donna straordinariamente forte e dolce al tempo stesso, ringrazia Paul per i tulipani rossi e la poesia Ci sarà qualcosa, più tardi, accompagnata dalla traduzione francese, che lui le ha mandato per il suo compleanno. 

Lei ha appena compiuto 43 anni. Lui, appena un mese più tardi, dopo un ultimo viaggio in Germania, mette fine alla sua vita buttandosi nella Senna. 

«L' ondeggiante parola / la possiede / il buio», aveva scritto in una delle poesie della raccolta Luce coatta.

30/03/15

Pamuk in Italia: "All'utopia preferisco la memoria."




Nobel Pamuk: "all'utopia preferisco la memoria". 

L'Autore agli Eventi letterari Monte Verita a Ascona (di Paolo Petroni) (ANSA) 

Si pensa al sociale e alla politica, da Tommaso Moro a Marx, quando si parla di utopia, "ma io, pur avendo avuto problemi di tipo politico, posso dirmi una persona felice, sono un ottimista che all'utopia preferisce la memoria", ha dichiarato Orhan Pamuk, aprendo gli Eventi letterari Monte Verita' (ad Ascona, in Svizzera), dedicati appunto al tema Utopia e memoria, con una conversazione con Joachim Sartorius (direttore artistico della manifestazione con Irene Bignardi e Paolo Mauri). 

Per il premio Nobel turco "l'umanita' ha prodotto 100 tonnellate di memoria a fronte di 100 grammi di utopia" e il suo intervento sui "Ricordi: la piu' potente arma della fantasia" ha spaziato da Darwin, "per sopravvivere bisogna avere memoria per ricordarsi dove trovare cibo e acqua, dove si nascondono i pericoli", a Proust con i suoi personaggi con la loro memoria involontaria; "il narratore mangia una petite madeleine e, senza rendersi conto, ricorda", messi a contrasto con i personaggi dei suoi romanzi che, secondo le parole dello stesso Pamuk, "hanno a che fare con una memoria volontaria, alla ricerca della vita perduta"

L'esempio che porta e' quello del romanzo 'Il museo dell'innocenza' (Ed Italiana, Einaudi2009), divenuto poi un vero e proprio museo a Istanbul, con gli oggetti citati nel libro accolti in apposite teche e trasformati in alcuni casi in opere d'arte. 

Ma il momento clou dell'intervento di Pamuk e' stato la lettura di un capitolo di questo romanzo, che lo stesso autore ha fatto, su richiesta del pubblico che aveva la traduzione in mano, nella lingua originale, il turco, riuscendo a comunicare comunque, al di la' delle parole, quel pathos e quelle emozioni del romanzo che solo gli autori sanno vivere e trasmettere proprio attraverso la scrittura. 

Gli Eventi letterari Monte Verita' sono andati in scena con incontri, letture e dibattiti sul tema 'Utopia e memoria', trattato dagli autori italiani Paolo Giordano e Paolo Di Stefano, dallo scrittore svizzero Thomas Hurlimann, dall'autrice Tere'zia Mora, dallo scrittore francese vincitore del premio Goncourt Jerome Ferrari, nonchè dall'autore e regista belga Jean-Philippe Toussaint. 

A questo si e' aggiunto per la prima volta al festival uno spazio per la danza, che, grazie a Rudolf von Laban e alle sue allieve, fu la forma d'arte piu' ricca di sviluppi tra quelle praticate dalla comunita' di utopisti al Monte Verita' ai primi del Novecento. A esibirsi la coreografa e ballerina Sasha Waltz, in scena insieme col batterista Robyn Schulkowsky al Teatro San Materno. 

Anche quest'anno, in occasione del festival, e' stato consegnato il Premio Enrico Filippini (giornalista culturale, editor e traduttore (1934- 1988), con cui si intende onorare le persone che lavorano dietro le quinte delle case editrici e dei giornali.

Dopo Bernard Comment (2013) e Klaus Wagenbach (2014), nel 2015 questo riconoscimento e' stato attribuito alla traduttrice e operatrice culturale italiana Renata Colorni, traduttrice storica di Sigmund Freud e di Thomas Mann e editor dei Meridiani Mondadori. 

La laudatio della vincitrice e' stata tenuta dallo scrittore Claudio Magris. 

25/03/15

"Memorie di una ragazza perbene", di Simone de Beauvoir - L'eloquenza della testimonianza.



Ci sono libri che ti girano intorno per una vita, e scelgono loro il momento e il punto in cui presentarsi. Per me è stato così con Memorie di una ragazza perbene, che mi aveva sfiorato a lungo senza incontrarmi mai.

La Beauvoir si dedicò alla sua biografia - una vita lunga e piena - a partire dal 1958, e  Memorie di una ragazza perbene ne rappresenta la prima parte, pubblicata nel 1958 cui faranno seguito altre tre parti, L'età forte (1960), La forza delle cose (1963), A conti fatti (1972).

È un'opera, come è noto, fondamentale perché perché offre, insieme alla storia personale della scrittrice e della sua famiglia, la testimonianza in presa diretta sull'atmosfera e sul dibattito culturale svoltosi in Francia dagli anni trenta fino alla fine degli anni Sessanta.

Memorie d’una ragazza perbene si apre come un manifesto (e il suo incipit è uno dei più noti della narrativa contemporanea: «Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul Boulevard Raspail».

Retrospettivamente, Simone de Beauvoir che all'epoca ha cinquant’anni, ripercorre con minuzia i suoi primi vent’anni di vita: un romanzo di formazione femminile, in cui si assiste gradualmente alla nascita - o meglio alla identificazione - di un carattere.

Sono memorabili le pagine nelle quali Simone descrive la sua prima infanzia, un mondo apparentemente dorato - quello dell'alta borghesia parigina - rassicurato dal ruolo assegnatole nel mondo, quello della brava bambina, a cui è richiesto non tanto di scoprire il mondo, ma di viverlo nei confini assegnati.

Si stagliano le due figure, quella del padre, individualista e dalla morale caduca, e quello della madre, che incarna il rigore della vita spirituale.

Simone trascorre i primi anni tra il conforto rassicurante della fede che le è stata insegnata e l’amore per la lettura.

Ma ben presto la disillusione del caro mondo infantile,  che non è proprio quel che appare, lascia il posto alla curiosità divorante, alle inquietudini, e ai turbamenti dell'adolescenza.

E' di questo periodo il rapporto sempre più intenso con Zazà, la prima, vera amica, la rottura con Dio e la religione (che apparentemente resteranno immutabili fino alla morte) e la autoconsegna alla missione artistica.

L'amore per il cugino Jacques - contrastato e ambiguo - il rifiuto dell'idea del matrimonio, la decisione di iscriversi alla Sorbona, dove entra in contatto con i più grandi intellettuali dell'epoca: da Simone Weil a Merleau-Ponty (suoi compagni di corso), Raymond Aron, Paul Nizan e ovviamente Sartre, nel quale Simone trova un sodale, un complice più che un amante e un compagno, un vero alter-ego maschile.

Un cammino di emancipazione, contro tutto e contro tutti, verso la libertà intellettuale e la liberazione dai luoghi circoscritti in cui il femminile all'epoca è recluso. 

E' una testimonianza, quella di Simone, che resta agli atti del Novecento. E in qualche modo precede il valore strettamente letterario dell'opera. Che pure è importante. Personalmente ho trovato e trovo la prosa della Beauvoir (e la sua poesia) molto più eloquente per il lettore di oggi (e più alta più compiuta), di quella dello stesso Sartre (che oggi mi appare molto più datato). Insomma, un libro che sa ancora parlare - anche quando il mondo appare del tutto trasfigurato da quei tempi lontani nel quale tutto sembrava da scoprire, tutto sembrava da cambiare.

Fabrizio Falconi


19/02/15

"Il pappagallo di Flaubert", di Julian Barnes. Un grande romanzo (recensione).




Aveva già pubblicato due romanzi, racconta lo stesso Barnes, prima di questo, ma erano stati un mezzo fallimento, "avevano venduto sì e no un migliaio di copie in edizione rilegata, raggiungendo a stento il traguardo del tascabile." 

Poi è arrivato questo, e per lo scrittore inglese si sono aperte le porte di un successo internazionale, nato dal door to door, dal passaparola.

Cosa ha fatto del Pappagallo di Flaubert  un successo ? Cosa ha fatto di questo strano romanzo un libro notevole, diverso da tutti gli altri ? 

Memoir, saggio, romanzo, biografia, Il Pappagallo di Flaubert appartiene ad un genere indefinibile. Anzi non è un libro di genere, per l'appunto. 

Con il pretesto di raccontare Gustave Flaubert, l'immenso scrittore di Bovary, di raccontare la sua storia, le sue fissazioni, il suo trauma, il suo rifiuto d'amare per paura di soffrire, il suo cuore barricato, il suo apparente cinismo che velava una vulnerabilità perfino eccessiva, le sue malattie, le sue amicizie, i suoi viaggi, il suo erotismo esuberante, le sue amanti, gli amori falliti, le amicizie, le avventure estemporanee omosessuali, Barnes ci racconta se stesso e la sua visione del mondo, attraverso l'alter ego del medico Braithwaite, maniaco studioso di Flaubert ai limiti del feticismo, ossessionato dall'idea di rintracciare il vero pappagallo impagliato usato dallo scrittore francese come modello per quello vero al centro della narrazione di Un coeur simple.

Gustave Flaubert

Barnes ha dunque utilizzato tutto il materiale raccolto su Flaubert utilizzandolo in un perfetto congegno narrativo, destinato a tutti anche chi non ha mai amato o letto il grande classico francese.

Perché è un libro sulla vita, più che sulla letteratura.

Flaubert, che passò tutta la vita a difendersi dagli eccessi emotivi, ha descritto nei suoi romanzi il cuore umano con la precisione che forse nessun altro è riuscito ad avere,  le debolezze, le cadute, i miasmi che si agitano dentro ogni cuore umano. E la forza di sopravvivenza, la disperazione capace di sublimarsi in arte.  

Si scoprono meraviglie linguistiche di Flaubert, aforismi grandiosi (nella virtuosistica traduzione di Susanna Basso), ma la gara è tra quello che leggiamo proveniente direttamente dal genio di Rouen (il mio cuore è intatto, ma i miei sentimenti sono affilatissimi da un lato e smussati dall'altro, come un vecchio coltello molato troppe volte che è pieno di tacche e rischia di spezzarsi ) e quella che è farina del sacco di Barnes (E poi lo saprete anche voi, non è che davvero cerchiamo e scegliamo, non credete ? Siamo scelti piuttosto; veniamo eletti dall'amore attraverso un voto inappellabile, a scrutinio segreto). 

Il pregio più grande di questo libro è anzi proprio questo: quello che ad un certo punto le due voci del romanzo si con-fondono, diventando quasi una, rendendo quasi impossibile dividere l'una e l'altra. Barnes sembra acquisire i resti (oltre che le reliquie materiali) del suo mèntore. La sua narrazione si fa pura luce, pura chirurgia, come era quella del grande Maestro.


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015


Julian Barnes 

20/01/15

'A sud del confine, a ovest del sole', di Murakami Haruki - (Recensione)

Ci sono tutti gli ingredienti che hanno fatto la fortuna di Murakami Haruki in A sud del confine, a ovest del sole, uno dei suoi primi romanzi, scritto nel 1992, dopo il grande successo di Norvegian Wood: lo stile piano, quasi elementare, le frasi brevi, i protagonisti maschili e femminili tagliati con tratti immediatamente riconoscibili, il gusto cool per la musica jazz, l'iniziazione della maturità, i perturbamenti, le scene di sesso descritte con chiurgica precisione e occhio strizzato al porno, le donne misteriose (bambole inquiete depositarie di misteri), quella vaga incertezza di direzione così post-post moderna, che affascina il lettore di oggi. 

Murakami qui descrive la storia di Hajime, un uomo come tanti, figlio unico che si sente gemellato con la bella e menomata Shimamoto, suo coetanea.  Un breve innamoramento a dodici anni, le prime condivisioni insieme - l'ascolto dei dischi in vinile a casa di lei - poi la perdita di vista, Hajime che si fidanza all'università con Izumi, le prime vere esperienze, il lavoro come gestore (fortunato) di locali,  il matrimonio con Yukiko, la due bambine, una famiglia come tante, finché l'ombra di Shimamoto - guarita dalla sua menomazione alla gamba - torna a farsi viva, inaspettatamente e a risvegliare l'ombra interiore di Hajime.

Risucchiato dal mistero di quella donna, alla quale l'anima è rimasta sempre legata, Hajime arriva fino alla soglia del precipizio e oltre: mette in discussione tutta la sua vita, distrugge il suo legame, si perde e (forse?) si ritrova in un finale aperto che lascia spazio ad ogni possibile soluzione. 

La storia d'amore, che è protagonista di questo romanzo, è sufficientemente stravolgente: per Hajime  e per il lettore.  La consapevolezza di essere portati fuori da sé, di essere agiti dall'amore, cioè da una forza trascendente che non si può controllare e che non vuole essere capita, ma vuole essere soltanto ciò che è, è la parte più convincente del libro, il cui laborioso titolo si riferisce all'insieme dei titoli di due famosi standard jazz. 

La perdizione di Hajime è in quello strettissimo confine tra morte e amore, tra amore romantico e perdizione, che è stata definitivamente indagata dal celebre L'amore e l'occidente di Denis de Rougemont

In questo senso la storia di Murakami aggiunge poco. Ma coltiva il dono della leggibilità e della possibile identificazione di ciascuno nel sentimento interdetto di Hajime che vive e si guarda vivere, come accade ad ognuno di noi, in un punto cruciale della vita. 

Fabrizio Falconi




13/11/14

Una intervista a Tony Harrison, in visita in Italia. Uno dei maggiori poeti viventi.





Una intervista di Alessandro Zaccuri a Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.


Mentre parla Tony Harrison continua a muovere le dita, accompagnando spesso il gesto con una smorfia come di fatica. «Perché la poesia – ripete – è uno sforzo, una lotta per dare forma alla complessità. La poesia è… è questo». E le dita riprendono ad agitarsi. Non se la prende se gli si fa notare che il movimento ricorda quello di un fornaio intento a impastare. 

«È naturale – commenta –, mio padre era un fornaio e io non me ne sono mai dimenticato». Considerato uno dei maggiori poeti inglesi viventi, Harrison è in Italia per il premio alla carriera assegnatogli dal Festival internazionale di Poesia civile Città di Vercelli (www.poesiacivile.com), che ha avuto la sua anteprima ieri all’Università Cattolica di Milano, dove è stato presentato il volume che raccoglie alcune sue composizioni inedite appositamente realizzato, come da tradizione, dalla casa editrice Interlinea (Afrodite del Mar Nero e altre nuove poesie, a cura di Giovanni Greco, testo inglese a fronte, pagine 94, euro 12). 

Nato nel 1936 a Leeds, nello Yorkshire, Harrison è del resto già noto al lettore italiano grazie alle raccolte pubblicate nel tempo da Einaudi, tra cui spicca il poemetto V. I suoi versi possono a volte colpire per durezza, ma la sua conversazione è straordinariamente cordiale.

«La poesia ha sempre una dimensione civile – sottolinea –, anche quando si occupa di vicende personali. Ho scritto spesso della mia famiglia, dei miei genitori, delle mie origini proletarie e anche della malattia di mio figlio. Sono realtà comuni a tutti, drammi che tutti possono condividere. Ecco perché, per me, è così importante usare un linguaggio diretto, che anche mio padre potrebbe comprendere».

Le sue poesie, però, sono anche molto elaborate dal punto di vista metrico. 

"Non potrebbe essere altrimenti: tanto più è drammatica la materia, tanto più le parole devono lottare per farsi strada. È uno dei motivi per cui, ancora oggi, non riesco a comporre se non usando carta e penna. So di poeti che scrivono direttamente al computer, ma io non ne sarei mai capace. C’è una fisicità nel gesto di scrivere, qualcosa di intimamente legato al battito stesso del cuore umano».

Come è avvenuto il suo incontro con la letteratura? 
«In concreto all’università, che noi figli della classe operaia abbiamo iniziato a frequentare grazie al cosiddetto Education Act degli anni Cinquanta. Ma più in profondità devo ammettere che si tratta di un mistero anche per me. I miei, in casa, erano persone di poche parole. Dei miei zii, poi, uno era balbuziente, l’altro sordomuto. Articolare un discorso mi è sempre parso un’impresa. Nel momento in cui ho avuto accesso alla letteratura, mi sono reso conto che questa articolazione era possibile e che, al suo massimo livello, coincideva con la poesia. È così che sono diventato poeta. Ho voluto che fosse la mia professione, non qualcosa a cui mi dedicavo nel tempo libero: finché è stato necessario, mi sono qualificato 'poeta' perfino sul passaporto».

Una intervista di Alessandro Zaccuri Tony Harrison, pubblicata oggi su Avvenire.

08/11/14

Murakami Haruki, l'Incolore e il mio Rosso cadmio (di Antonello Viola).



Nell'ultimo romanzo di Murakami Haruki, L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, c'è un ottimo congegno narrativo: nella città di Nagoya abitano cinque ragazzi, tre maschi e due femmine, che tra i sedici e i vent'anni vivono la piú perfetta e pura delle amicizie.

Almeno fino al secondo anno di università, quando uno di loro, Tazaki Tsukuru, riceve una telefonata dagli altri: non deve piú cercarli. Da quel giorno, senza nessuna spiegazione, non li vedrà mai piú: non ci saranno mai piú ore e ore passate a parlare di tutto e a confidarsi ogni cosa, mai piú pomeriggi ad ascoltare la splendida Shiro suonare Liszt, mai piú Tsukuru avrà qualcuno di cui potersi fidare.

Il dolore è cosí lacerante che nel cuore del ragazzo si spalanca un abisso che solo il desiderio di morire è in grado di colmare.

Questi ragazzi, ai tempi della loro bellissima, travolgente amicizia, sfiorita, appassita senza motivo, avevano preso l'usanza di chiamarsi ognuno con il nome di un colore: Rosso, Blu, Bianco, Nero.

Solo Tazaki non ha colore.  Ed è perciò chiamato dagli amici, Incolore.

A Murakami interessa entrare nella radice di questo cuore umano abbandonato e desideroso di doloroso riscatto (si inizia a vivere solo quando si comincia a morire un po', è la morale non certo freschissima del libro).

Ma è interessante questo spunto del colore come elemento del cuore umano.

Ciascuno, suggerisce Murakami nasce con addosso (o meglio, dentro: in quella che Murakami se vi credesse, chiamerebbe anima) un colore.

Questo mi fa venire in mente la capacità quasi ultra-percettiva che hanno alcuni artisti di sentire il colore assoluto, nel riconoscerlo nel cuore di una persona, di un essere umano. Il catalogo è ovviamente infinito.

Nel mio caso, io sarei chiamato (o vorrei chiamarmi o chiamerei la mia anima se vi credessi come vi credo) Rosso.  Ma una certa qualità molto particolare di rosso, che ho riconosciuto in tanti anni solo in questo quadro:



E' un'opera di Antonello Viola. E la prima volta che l'ho vista l'ho riconosciuta. O forse, meglio dire, lei ha riconosciuto me.

Fabrizio Falconi

Cadmium Red Deep è un'opera di Antonello Viola (2008- Premio Terna 01).

09/10/14

Premio Nobel per la Letteratura 2014 a Patrick Modiano. VIDEO.



Molti oggi sentendo l'annuncio di Patrick Modiano come Premio Nobel per la letteratura 2014 hanno insistito sulla bizzarria dell'Accademia svedese, che da un po' di anni a questa parte si diverte a spiazzare il pubblico dei lettori forti e meno forti, con i quali evidentemente non è in sintonia.  

Anche Modiano è in Italia un quasi perfetto sconosciuto, anche se le Edizioni Einaudi pubblicano dal 2005 quasi regolarmente ogni sua nuova uscita (si immagina con poco successo di vendite.. prima di oggi).

In Francia Modiano è un autore molto conosciuto, da sue opere sono stati tratti parecchi film.  Per i lettori italiani questo qui sotto è un piccolo ritratto-video in due minuti.



Mentre QUI potete trovare una bella intervista a Modiano realizzata da Bernard Pivot, all'uscita del suo romanzo Le petit Bijou, tradotto in italiano soltanto come Bijou ed edito, come gli altri da Einaudi.

Al prossimo Nobel.

05/09/14

'Livelli di vita' di Julian Barnes - (Recensione).




Dopo Il senso di una fine, molti lettori italiani si erano avvicinati al libro seguente di Julian Barnes, pubblicato nel 2013. 

I pareri che ho sentito e ho letto erano quasi tutti nella stessa direzione: trattandosi di un libro originale, strutturato in tre parti molto distinte - la prima dedicata ai pionieri del volo aerostatico del secolo scorso, la seconda all'amore (non duraturo) tra l'avventuriero inglese Fred Burnaby e l'attrice Sarah Bernhardt, e l'ultima che invece si concentra sul lutto dell'autore (Julian Barnes ha perso la moglie Pat Kavanagh nel 2008) -  ho constatato che quasi tutti avevano liquidato come leggere e tutto sommato irrilevanti le prime due parti del libro, elogiando invece la terza.  

Mi sento, come spesso accade, fuori dal coro. 

La prima parte - quella nella quella si descrive l'utopia umana dell'elevazione, della dimensione verticale, per noi terrestri, condannati al piano orizzontale - e la seconda, quella del bizzarro e sotto molti aspetti struggente amore del buffo colonnello Burnaby per la divina Bernhardt, sono le due parti che mi sono piaciute di più.

La terza, quella dove si descrive il dolore straziante per il lutto della moglie (l'agente Pat Kavanagh, conosciuta nel 1978 e diventata la moglie di Barnes per trent'anni, dal 1979 alla morte nel 2008), non mi ha convinto. 

Barnes - come umanamente si può condannarlo per questo ? - non riesce a trasformare in materia letteraria il dolore devastante della perdita di una persona con cui si è condivisa buona parte della vita. 
Il suo grido di dolore rimane sempre auto-riferito, l'elaborazione del lutto è assente: si resta infatti prigionieri delle due fasi del lutto, quella della non accettazione e quella della ribellione. 

Barnes descrive con esattezza ciò che prova ogni animo umano nei primi tempi di una perdita.  Il sentimento di invidia cieca per chi non è toccato, per chi è immune, l'indifferenza o il silenzio o l'imbarazzo delle persone amiche, l'inconsolabilità delle formule di rito, i ricordi che spariscono e riappaiono quando sono più dolorosi, la sensazione di vuoto, gli istinti suicidi.

Ma, un altro libro di un altro grande scrittore inglese, C.S.Lewis - Diario di un dolore, un libretto di poche decine di pagine, pubblicato in Italia da Adelphi - è molto più intensamente lucido (e anche più spietato) nell'attraversamento del lutto per la persona amata.

Barnes, in questa parte, cede all'autoindulgenza, al vittimismo, all'ebbrezza della dispersione nichilista, affermativa e totalitaria.   Non c'è mai nessuno sforzo di guardare oltre,  di capire cosa lascia veramente un lutto, dopo il trauma spaventoso dell'inizio, cosa davvero interroga in noi anche se Barnes racconta non solo i primi mesi ma i primi quattro anni senza Pat. 

L'unica sentenza di Barnes è che l'universo fa il suo mestiere. Molto in linea con il pensiero contemporaneo, ma poco poetico. Posto che è soltanto la poesia che riesce - di solito - a farci fare un salto in avanti, di consapevolezza.

L'aridità di questa terza parte è invece rovesciata dalle due - brevi - parti di Livelli di vita, che sono davvero poetiche. 

Qui, anche se Barnes alla fine tenta un volo carpiato che metta insieme le tre cose, è la poesia a superare l'insormontabile. 

Le vite ridicole, coraggiose, scialate e indomite di questi uomini e di queste donne di fine '800, raccontano di una terra - gli uomini la chiamano Utopia - dove i sogni e le pretese umane sono quel che sono: misteri indecifrabili. Ed è solo lo staccarsi da terra a conferire uno sguardo e un senso - Wittgenstein diceva che il senso, se c'è, si trova solo fuori del mondo - alle banali peripezie di esseri bipedi dotati di passione e di vita. 

In queste due parti si sogna. Si sogna a bordo dei fatiscenti aerostati, si sogna nel doloroso rifiuto di Sarah, essere femminile imprendibile e nelle notti insonni del povero Burnaby che s'era illuso, si sogna la vita per quel che è, per quel che doveva essere e per quel che potrebbe e forse sarà, in una dimensione che non è la nostra.

Fabrizio Falconi. 



  Nella foto Pat Kavanagh e Julian Barnes nel 1978, l'anno prima di sposarsi.

13/07/14

La poesia della domenica - Tre frammenti d'amore di Anacreonte.





Omaggio

Amore molle, rigoglio di mitre fiorite: mi piace
fargli canzoni.
Chi domina gli dei
è lui, chi doma gli uomini
è lui.



Il mite

Voglio fare all'amore
con te.
Hai così vaga l'anima.


I dadi

Amore gioca: le follie, le risse
i suoi dadi.



Anacreonte;  tratto da Saffo-Alceo-Anacreonte, Liriche e frammenti, Traduzione di Filippo Maria Pontani, Einaudi, 1965. 

06/06/14

Fragilità - una ricchezza umana.




Siamo abituati a valutare la fragilità umana come una debolezza. 

E in effetti lo è.  La fragilità umana è quel che ci rende continuamente vulnerabili.

La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e noncuranti, scrive Eugenio Borgna nel suo ultimo saggio dedicato proprio a questo tema.

Eppure, sotto la crosta sottile della vulnerabilità, l'esser fragili manifesta - umanamente - la più vasta ricchezza emotiva, come l'oceano che si spalanca al di sotto della cortina dei ghiacci. 

La fragilità è anche ciò a cui dobbiamo le nostre scoperte interiori, le nostre crisi - che sono occasioni di conoscenza e di scelta - le nostre elevazioni, la nostra consapevolezza, in definitiva la nostra crescita. 

Fare tesoro della fragilità. Non attenersi semplicemente a nasconderla per la comprensibile paura di essere feriti. 

La fragilità - con tutto ciò che essa comporta: silenzio, sofferenza interiore, meditazione, parole, sincerità, affidamento, abbandono - è la nostra qualità forse più umana. 

E solo quando impariamo a non nasconderla, a non seppellirla in un recesso interiore, impariamo davvero ad essere umani. 

Fabrizio Falconi 





Manana ya 
la sangre no estar 
al caer la lluvia 
se la llevara 
acero y piel 
combinacion tan crudele 
pero algo en nuestras mentes quedara

Un acto asi terminara 
con una vida y nada mas 
Nada se logra con violencia 
ni sé lograra 
Aquellos que han nacido 
en mundo asi 
no olviden su Fragilidad

Lloras tu 
y lloro yo
y el cielo Tambin 
y el Cielo Tambin 
Lloras t 
y lloro yo 
que Fragilidad 
que Fragilidad ...



Sting - Fragilidad 

06/05/14

Disputa sul tradimento. Un bell'articolo di Federica Manzon su La Lettura del Corriere della Sera.



Le relazioni pericolose (Dangerous Liaisons) diretto da Stephen Frears nel 1988

Il tradimento è uno sfogo maschile opportuno, addirittura essenziale a preservare la famiglia. Così pensa Martin Hart, il protagonista di True Detective, l’ultima serie tv culto della Hbo. Martin tradisce la moglie con ammirevole costanza, con donne più giovani, donne che lo legano al divano con le manette, che gli fanno ogni genere di proposta al telefono: «Il lavoro ti assorbe tanto» dice, «bisogna decomprimere, prima di tornare a casa. Alla fine lo fai per il bene di tua moglie e dei tuoi figli». Il tradimento, dunque, è eminentemente prerogativa degli uomini? Certo, pensa il maschio eterosessuale della profonda Louisiana. Certo, dicono i critici di Dominique Strauss-Kahn, sulla cui condotta fedifraga l’ex moglie Anne Sinclair aveva solo qualche sospetto. Certo, dicono le femmine intervistate da Daniel Bergner nel suo ultimo libro Che cosa vogliono le donne (Einaudi Stile libero). 

Naturalmente, mentono. L’esperimento che le ha smentite è semplice: alle volontarie vengono fatte ascoltare delle audio-cassette pornografiche con protagonisti amanti di lunga data, sconosciuti, donne. Tutte dichiarano di preferire il rapporto tradizionale, peccato che gli impulsi nervosi inviati agli strumenti evidenzino il contrario. Le donne sono attratte dalla relazione traditrice, lo sono rapidamente e più liberamente di quanto osino dichiarare. Mettendo mano ai più seri studi scientifici, Bergner scardina ogni falso mito: dalle scimmie alle manager newyorkesi, le donne desiderano il tradimento, lo ricercano, lo praticano, senza che questo debba per forza minare le basi della vita di coppia, senza che questo le renda delle pessime madri. 

Ma se il tradimento, anche quello senza sospiri e senza romanticismi, è diventato unisex, identici sono rimasti i suoi riti. Ancora nel cuore della notte ci giriamo sul fianco per rispondere a un sms. Al mattino, ci precipitiamo a cancellare i messaggi di Facebook. Guardiamo l’iPhone vibrare nella tasca della giacca: scusa ero in una riunione importante. E sempre ci addormentiamo immaginando le sue gambe nude e i suoi occhi che sorridevano troppo, e daremmo qualsiasi cosa per un’ora di irragionevole spensieratezza: Elsa Morante che al telefono acconsente alle richieste di Luchino Visconti, mentre accanto a lei Moravia dorme. È questo il tradimento che rende così immorali? Oppure immorale è il desiderio segreto degli amanti che il marito o la moglie muoiano, perché abbandonarli significherebbe procurare loro un’infelicità e non vogliamo, neppure se la vita insieme ci tormenta e basterebbe appena un po’ di coraggio. O piuttosto immorale è la pretesa d’eternità che ogni promessa d’amore si porta dietro? Quel «per sempre» che giura su un futuro impossibile e suona sinistro tra le paure della nostra infanzia — le gemelle di Shining, il pagliaccio di IT.


26/04/14

Lessico dei poeti 7 - 'Stanchezza'.


Peter Handke

Sembra quasi un controsenso, che una parola come questa possa far parte del lessicodei poeti, anime per definizione inquiete, sempre tese verso l’indicibile. 

Eppure ci sono tanti modi di intendere la stanchezza, un sentimento con il quale si ha molto a che fare nella vita di tutti i giorni. Uno dei modi possibili è quello descritto da Peter Handke, nel bellissimo Saggio sulla stanchezza ( Garzanti, 1991 ). 

Qui lo scrittore austriaco racconta di cosa gli accadde dopo un interminabile e scomodo viaggio dall’Alaska a New York. 

Giunto in albergo, dopo una notte insonne, e pieno solo di stanchezza, rinunciò a coricarsi. Scese in strada,  soltanto per assistere alla solita confusione di passanti e traffico che si svolgeva di fronte ai suoi occhi di fronte ai cancelli del Central Park. 

E qui, ecco il miracolo, ecco la sorpresa: l’angoscia si trasforma in pura stanchezza, la stanchezza in bellezza. Fino a sera inoltrata – scrive Handke – non feci più altro se non stare seduto e guardare; era come se intanto non avessi neanche bisogno di respirare. Dalla stanchezza venne tolto come per miracolo l’Io solipsistico, eterna causa di irrequietezza: niente altro più che occhi liberati.

Una stanchezza come risanamento, dunque, come riconciliazione con se stessi. Come accettazione di un destino umano, in fondo. Contro la stanchezza, infatti, solitamente non facciamo altro che combattere, rifiutandola, cercando disperatamente qualcosa che ci occupi, che ci distragga. 

Questa stessa stanchezza, contemplativa e sublime, si ritrova spesso nei versi dei poeti. Luciano Erba, milanese, ha scritto nella raccolta L’ippopotamo (Einaudi, 1989 ) diverse poesie nelle quali riecheggia questo mood. Lo stesso animale, l’ippopotamo, è quanto di più perfettamente rispondente all’immagine della stanchezza, eternamente immerso nei suoi bagni di fango.

E’ un giorno di bianchi pennacchi
di fumo stampato sul cielo
da un vento che porta la neve
e arrossa le mani dei preti
è un prato un po’ fuori città
tra cose in uso e in disuso
tra case senza balconi
e un margine di ferrovia
vi asciugano molte lenzuola
con panni di vari colori 
dal viola a lievissimi rosa 
vi corre accanto il mio treno 
annoto: bucato sui fili
più altri segnali femminili.

E’ la poesia intitolata Viaggiatori, e tutto il dolce mistero è in quella parola al penultimo verso: annoto
La stanchezza del vivere non permette di fare altro: annotare. Ma è già molto. 
Significa sottrarre le cose, gli eventi, anche quelli apparentemente insignificanti, all’oblio. E questo rende consapevoli, rende felici.

Qui le altre voci del Lessico dei Poeti: 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.