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23/10/14

I numeri come archetipi e l'Anima. 2. I "numeri amici" (Conferenza Riva del Garda, L'arte di Essere, 19 ottobre 2014)

2. I NUMERI AMICI

Da sempre, uno degli argomenti a favore della tesi che i numeri siano stati scoperti e siano scoperti in continuazione è quando si scopre per l’appunto – e così è stato sin dalla notte dei secoli – una qualche proprietà che riguarda i numeri, che li lega in modi apparentemente misteriosi,  per noi umani abituati, per forma mentis a fare caso, a constatare a sottolineare, a farci interrogare da quelle che noi percepiamo come coincidenze.
Noi  tendiamo a pensare cioè  sempre che dietro ogni coincidenza, ci sia un segnale o un simbolo che ci interroga, da interpretare.
Cosa interroga questo mistero ? Interroga la nostra interiorità profonda,  quella che nel tempo abbiamo indifferente chiamato in diversi modi, come spiega James Hillman ne Il codice dell’anima: istinto, anima, carattere, predisposizione, destino.
Destino:  da sempre i numeri hanno parlato all’uomo anche dal punto di vista del destino. Sempre, in ogni civiltà, dai numeri sono state tratte conseguenze significative, per il mondo collettivo (pensiamo ai Maya) e per quello individuale.
Un esempio non molto conosciuto di questa interpretazione psicologica e simbolica dei numeri deriva dai cosiddetti numeri amici. I quali hanno proprietà molto particolari che inducono un certo stupore anche nel principiante.
Vediamo:
Due numeri sono definiti amici dalla matematica, se ciascuno è uguale alla somma dei divisori dell'altro. Sembra difficile, ma tutti possono comprenderlo subito. 


Tutto nasce da un aneddoto, che non si sa se sia vero:  Qualcuno chiese un giorno a Pitagora se avesse un amico. Lui rispose "Ne ho due".   E nominò i numeri amici 284 e 220. 
Questi due numeri sono infatti amici perché i numeri interi per cui 220 può essere diviso senza resto (1,2,4,5,10,11,20,22,44,55 e 110) danno la somma di 284; mentre i numeri interi per cui 284 può essere diviso senza resto (1,2,4,71 e 142) danno la somma di 220. 





E’ una proprietà molto singolare.
Può essere solo un caso. Ma può essere anche un indizio, come lo sono stati molti apparenti ‘casi’, nella storia della matematica.
I numeri amici, cioè, possono essere solo un altro appassionante paragrafo della matematica, o avere qualche impiego utile. Per ora, nessuno lo sa. 
"Non è affatto un'impresa facile trovare tutte le coppie possibili di numeri amici," scrisse Wolfgang Pauli (2), uno dei più grandi scienziati del XXo secolo che ritroveremo più avanti accompagnato da Carl Gustav Jung,  affascinato dall'enigma, negli anni '50.
Difatti solo poche centinaia di numeri amici furono note fino alla metà del Novecento. Con l'aiuto dei computer ad alta velocità siamo oggi arrivati alla decina di milioni di numeri amici conosciuti. 
Ed è comunque affascinante pensare a come si sia arrivati alla scoperta di questa coppia, da parte di un genio come Pitagora: bisogna figurarsi, come è stato in gran parte della storia della scienza, una grande quantità di duro lavoro, culminato in un'ultima, geniale intuizione.

Erma di Pitagora

La coppia di numeri amici 284 e 220 è comunque nota da molto tempo. E da sempre ha colpito l’immaginazione degli uomini. I quali sono stati portati ad immaginare straordinarie proprietà che dovevano essere per forza associate ad una proprietà così singolare.
Nel Libro della Genesi, Giacobbe dà 220 capre a Esaù perché il numero, in quanto preso da una coppia di numeri amici, testimonia l'affetto di Giacobbe per Esaù. (3)
Nel Medioevo talismani con incisi quei numeri erano portati dagli innamorati a significare il reciproco attaccamento.
Cultori arabi della numerologia citano l'usanza di scrivere 220 sulla buccia di un frutto e 284 su quella di un altro, poi cibarsi di uno dei due e offrire l'altro all'amante: una sorta di afrodisiaco matematico. 

7184 e 1210 sono altri due numeri amici

I numeri amici, in definitiva, con la loro perfezione simmetrica rappresentano un altro argomento a favore di chi ritiene che i numeri siano indubbiamente degli archetipi, qualcosa cioè che appartiene ad una realtà  simbolica profonda,  preesistente e prescindente dalla intelligenza individuale umana. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata (2/ segue) 

note:  

2. Arthur J. Miller, L'equazione dell'Anima, Rizzoli, 2009.
3. Gen. 32: 13-16. 

08/09/14

Freud e Jung adulteri - due diversi modi di tradire.



Si potrebbe dire, alla Woody Allen: dimmi come tradisci e ti dirò chi sei.

E' abbastanza curioso scoprire le differenze tra i due grandi padri della psicoanalisi, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, che furono entrambi, nelle loro vite, adulteri conclamati, ma in modi molto diversi. 

Come è noto Carl Gustav Jung sposò nel 1903, all'età di ventotto anni  Emma Rauschenbach, la figlia di un ricco industriale di Schaffusa.
Grazie a lei risolse definitivamente i suoi problemi finanziari e da lei ebbe, nel corso di dieci anni, ben cinque figli, Agathe, Anna, Franz, Marianne e Emma.
Nella sua autobiografia Jung parla poco di questa compagna, divenuta a sua volta psicoterapeuta junghiana. Il matrimonio durò tutta la vita (fino alla morte di lei), anche se Emma tollerò l'infedeltà coniugale del marito oltre ogni aspettativa.

Jung infatti già nel 1909 iniziò la celebre relazione con la paziente Sabina Spielrein che, invaghita di lui, pretende un figlio e tenta di rovinargli la reputazione.

Jung, intimamente coinvolto, non riesce ad interrompere la relazione. Fino al 1910, quando conosce Toni Wolff, poco più che ventenne, che rimane in analisi per circa tre anni.  E' ipersensibile, intelligente, amante della poesia, non bella ma estremamente femminile. Jung non le resiste e nel 1911 la relazione diventa totalizzante. Emma ne soffre molto, anche perché Jung pretende di coinvolgerla nella vita familiare e in quella professionale, rifiutando al contempo l'idea del divorzio.
La relazione con Toni dura per oltre quarant'anni,  in un singolarissimo rapporto triangolare (non fu mai messo in discussione il matrimonio con Emma, ma Jung, sempre più dilaniato interiormente, porterà il suo disastro interiore nel materiale magmatico che formerà il Libro Rosso).

Toni, fra l'altro, sarà l'unica autorizzata a trascorrere con lui i fine settimana nella Torre di Bollingen, il rifugio lontano da tutto, senza luce né acqua che Jung si era fatto costruire sul lago di Zurigo.


Del tutto diverso il tradimento di Freud. Il padre della psicoanalisi era sposato dal 1886 con Martha Bernays.

Anche questo matrimonio, però, non fu felice.  O almeno, non completamente.  Era stato lo stesso Jung, maliziosamente, molti anni dopo la celebre rottura tra i due, ad avanzare il sospetto che Freud fosse stato infedele alla moglie, e in un modo davvero piuttosto scabroso.

Negli ultimi anni, la notizia ha trovato conferme sicure proprio da parte di uno dei più grandi studiosi di Sigmund Freud, Franz Maciejewski, il quale è riuscito a dimostrare il rapporto con la cognata, Minna Bernays, sorella nubile della moglie di Freud che viveva sotto lo stesso tetto con la coppia.

Maciejewski infatti è riuscito a trovare in un albergo delle Alpi Svizzere la firma di Freud.  La prova difficilmente oppugnabile dell' adulterio sta scritta a chiare lettere nell' elenco dei clienti di un albergo delle Alpi svizzere, lo Schweizerhaus di Maloja.

Qui Freud e la cognata, che stavano trascorrendo insieme una vacanza di due settimane, occuparono una camera matrimoniale il 13 agosto 1898, presentandosi come una coppia sposata. E lui si registrò con la donna come «il dottor Sigmund Freud e signora».

Quindi, il giorno stesso, inviò alla moglie, che sapeva del viaggio, una cartolina in cui si soffermava sulla bellezza del paesaggio, ma definiva modesto l' albergo.

Invece lo Schweizerhaus era e resta un hotel di lusso: evidentemente Freud non voleva insospettire la consorte.

In queste due diverse modalità di tradimento, c'è molto della diversa anima di Jung e Freud.

Jung portò l'adulterio, anzi i due adulteri, in superficie, alla luce del giorno, e cercò un difficilissimo - e doloroso - compromesso in vivendi.  Freud preferì la clandestinità.   Jung fu attratto da pazienti giovani, turbate e conturbanti. Freud preferì la cognata, che forse rappresentava un doppio della moglie.

E in queste differenti modalità c'è forse anche il segno di una diversissima interpretazione della libido, il meccanismo del desiderio umano, che mentre per Freud si identificava completamente con l'impulso sessuale, per Jung è la forza vitale psichica, di cui l'energia sessuale è soltanto un aspetto.


Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


12/07/14

Il mistero del numero 137, Pauli, Jung e la matematica che è in noi (e fuori di noi).



In questi giorni sto leggendo un bel saggio di Arthur J. Miller, professore emerito di storia e filosofia della scienza presso l'University  College di Londra: L'equazione dell'anima, pubblicato da Rizzoli nel 2009, che descrive e racconta l'ossessione per un numero nella vita di due geni, Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli.

Negli anni '30, ad appena trent'anni, Pauli è uno dei teorici più brillanti della nascente fisica quantistica.  Eppure ogni notte si ritrova a vagare nei quartieri a luci rosse in preda all'alcol e alla depressione.
Wolfgang Pauli

Ed è proprio la sua doppia vita ad indurlo a rivolgersi a Carl Gustav Jung, il discepolo eretico di Freud, divenuto in quegli anni un punto di riferimento della ricerca psichica mondiale.

Carl Gustav Jung

L'incontro tra questi due geni, tra ragione e misticismo, diviene una potente alleanza tra due giovani scienze, la psicoanalisi e la meccanica quantistica, all'insegna di quello che appare come un numero magico: il 137. 

Un numero che da un lato descrive con grande precisione il dna della luce e dall'altro è la somma dei valori numerici dei caratteri ebraici che compongono la parola Kabbalah (Cabala). 

L'ossessione che accompagna Pauli fino al letto di morte, diventa anche un terreno di indagine parallela per Jung e per le sue ricerche sulla essenza e sul Sè.

La suggestione è quella di trovare un numero alla base dell'universo, un numero primordiale, un numero da cui tutto dipende e dà conto di tutto.

E' un vecchio sogno umano, inseguito da astronomi, scienziati, alchimisti, mistici, filosofi, matematici.

Più andiamo avanti con le nostre conoscenze, più ci appare evidente che il mondo e l'universo che ci contengono si fondano su principi matematici.  E la matematica è anche alla base della nostra vita biologica. Tutto sembra ridursi a questo: anche la nostra mente sembra essere predisposta per leggere secondo criteri matematici. Ma da dove deriva tutto questo, e perché esiste ?

Ecco un brano di una intervista rilasciata poco tempo fa da Giandomenico Boffi, ordinario di algebra all'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT) e considerato uno dei migliori matematici italiani. 

Che la matematica sia pura creazione della mente è un fatto largamente condiviso. 
Desta perciò meraviglia l'eccezionale efficacia che questa scienza ha dimostrato nel consentire da un lato l'interpretazione della realtà e dall'altra l'intervento concreto, anche tecnologico, su di essa. 
La matematica è una delle poche cose universali che noi sperimentiamo, e già questo è sorprendente. 
Lo è ancora di più il fatto che l'universo risponde in qualche modo alle nostre sollecitazioni basate sugli strumenti matematici. 
Da questa attività creativa dell'uomo emerge quasi un potere predittivo nei confronti della realtà, che è alquanto sconcertante. 
Nella misura in cui non si è ancora riusciti a giustificare l'indubbia consonanza verificabile tra una creazione della nostra mente, la matematica, e una realtà data a prescindere da noi, diventa legittimo ipotizzare l'esistenza di un Ente superiore intelligente che si pone alla radice tanto della realtà che ci circonda, quanto della nostra stessa mente. 
Il dato fondamentale è che esiste in qualche modo una sintonia tra la mente e la realtà esterna alla mente, sintonia che si spiega bene con l'esistenza di qualcosa che sta sopra e unifica.

Fabrizio Falconi

13/05/14

Jung: La nevrosi collettiva.





Più l'uomo è civile, ossia più è consapevole e complicato, meno sa seguire l'istinto;  le sue complesse condizioni di vita e l'influenza dell'ambiente son così forti da soverchiare l'esile voce della natura. 

Allora opinioni e convinzioni, teorie e tendenze collettive si fanno avanti in sua vece e danno il loro appoggio a tutte le aberrazioni della coscienza. 

Igiene e prosperità non bastano perché l'uomo sia sano; altrimenti gli uomini più ricchi e più illuminati starebbero meglio degli altri.

Per quanto riguarda le nevrosi, le cose non stanno così, al contrario. 

La perdita delle radici e l'abbandono della tradizione nevrotizzano le masse e le predispongono all'isteria collettiva.  E questa  richiede una terapia collettiva consistente nella privazione della libertà personale e del terrore. 

Là dove predomina il materialismo razionalistico, gli Stati tendono a diventare non più prigioni, ma manicomi.


Carl Gustav Jung, da Aion, Ricerche sul simbolismo del Sé, Bollati Boringhieri, 1982, citazioni tratte da pag. 20 e da pag.170.  

12/04/14

Jung: "la luce nasce sempre dalle tenebre." Chi non sopporta la discesa nell'oscuro e nel brutto non creerà mai la luminosa bellezza.





Carl Gustav Jung spiegò nel 1942 il suo interesse, che si faceva sempre più insistente, sull'attraversamento delle cosiddette ombre dell'inconscio, i territori più oscuri della personalità individuale. 

Attirando l'attenzione sugli aspetti oscuri dei sottopiani psichici, non agisco per pessimismo; desidero, al contrario, far comprendere che, malgrado il suo aspetto pauroso, l'incosciente esercita un fascino potente, non solo sulle nature morbose, ma anche sugli spiriti sani e positivi.

Alla base dell'anima c'è la natura, e la natura ha in sé la vita creatrice.

E' vero che la natura distrugge ciò che essa ha creato, ma distrugge per costruire nuovamente. 

I valori che il relativismo distrugge nel mondo visibile ci vengono restituiti dall'anima. Dapprima non vediamo che la discesa in tutto ciò che vi è di oscuro e di brutto;

ma colui che non sopporta tale spettacolo, non creerà mai la luminosa bellezza.  

La luce nasce sempre dalle tenebre notturne, né mai la timorosa aspirazione umana è riuscita aggrappandosi al sole a trattenerlo nel cielo. 


Carl Gustav Jung, Il problema dell'inconscio nella psicologia moderna, pref. di G. Jervis, traduz. di A.Vita e G.Bollea, Einaudi, Torino, 1942. 

18/06/13

La leggenda di Jung antisemita.



Siccome si torna a discutere ancora oggi di un presunto antisemitismo di Carl Gustav Jung (mi è capitato anche di recente di leggere nel libro di memorie Prima di andarsene Saul Bellow una definizione di Jung come "antisemita pazzo" ), pubblico questo articolo definitivo di Paolo Ferliga sul sito di Claudio Risé che ricostruisce punto per punto la vicenda e chiarisce una volta per tutte la questione.  

Capita ancora oggi di leggere che Carl Gustav Jung (psichiatra e psicologo svizzero vissuto tra il 1875 e il 1961, fondatore della Psicologia Analitica), sarebbe stato antisemita e nei primi anni Trenta avrebbe addirittura simpatizzato per il nazismo. 

 Queste accuse, particolarmente pesanti nei confronti di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla cura della psiche, sono del tutto infondate, smentite dagli scritti, dai comportamenti e dai numerosi pazienti e collaboratori ebrei di Jung. 

Per quanto riguarda gli scritti l’accusa si riferisce ad alcuni articoli degli anni 1933/34 in cui Jung parla di psicologia semitica o ebraica e di psicologia ariana o germanica. (1) L’uso di questa terminologia sarebbe una prova del razzismo intrinseco al pensiero di Jung. Per chi conosca il dibattito interno al movimento psicoanalitico l’uso di tali termini però non sorprende. Lo stesso Freud infatti riconosce più volte una differenza tra “anima ebraica” e “anima ariana”. Nel 1908, ad esempio, parla della sua “parentela razziale” con l’ebreo Abraham e di come “i nostri compagni ariani” siano indispensabili per sottrarre la psicoanalisi alla morsa dell’antisemitismo. (2) 

Nel ‘26 inoltre scrive che, pur non essendo credente, si sente attratto in modo irresistibile dall’ebraismo e dagli ebrei, mosso da “molte oscure potenze del sentimento” e dalla “familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica”. (3) Anche Freud riconosce quindi una specificità psichica connessa all’appartenenza “razziale”. Il termine razza, in quegli anni, non ha ancora assunto quell’alone semantico negativo e terribile che gli verrà conferito dal nazismo. Mentre Freud però non affronta questo problema a livello teorico, Jung si propone di indagare le “oscure potenze del sentimento” che spingono il singolo a sentirsi attratto dall’appartenenza al proprio popolo ed alla sua tradizione e di verificare se esista una “medesima costruzione psichica” correlata alle differenze etniche tra gli uomini.

In questa indagine Jung scopre che la psiche di una persona non è condizionata soltanto dalla sua storia individuale e familiare, ma anche dalla storia collettiva, dall’appartenenza ad una comunità e dalla relazione con la terra in cui la comunità vive.

Nell’inconscio collettivo infatti si depositano i miti, i simboli, le tradizioni di un popolo. Per questa ragione Jung parla anche di un carattere etnico della psiche e quindi di una differenza tra psiche ebraica e psiche germanica. Proprio la scoperta dell’inconscio collettivo e degli archetipi, che ne costituiscono la struttura, permette a Jung di intuire già nel 1918 il potenziale distruttivo dell’anima germanica. Nello scritto Sull’inconscio sostiene infatti che con il venir meno dell’autorità del cristianesimo “la bestia bionda …minaccerà di erompere con effetti devastanti”. (4)

Jung pensa però che l’inconscio dei tedeschi contenga non solo un elemento anticristiano e barbarico potenzialmente distruttivo, ma anche il suo opposto, un’energia in grado di promuovere un rinnovamento culturale e spirituale. Questa convinzione continuerà ad operare in Jung fino al 1933/34, quando ancora si illude che la terra di Goethe, di Beethoven e di Hegel, “uno dei paesi civilizzati più evoluti del mondo” (5), non si consegnerà mani e piedi alla barbarie nazista

I dubbi che Jung condivideva con molti intellettuali della sua epoca lo porteranno così a sottovalutare, in quegli anni, gli “effetti devastanti” del nazismo da lui stesso lucidamente previsti nel 1918. Forse per questa sottovalutazione Jung non si rende conto che i concetti di psicologia ebraica e germanica, negli anni in cui il nazismo utilizza il concetto di “razza ebraica” per giustificare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, si prestano a pesanti fraintendimenti e strumentalizzazioni. Di qui le accuse di antisemitismo e addirittura di simpatia per il nazismo di cui abbiamo parlato all’inizio. 

Jung risponderà a queste accuse in modo organico in tre scritti: Dopo la catastrofe, Commenti sulla storia contemporanea (1945) e Contributi ai “Saggi di storia contemporanea” (1946), (6) in cui presenta gli sviluppi del suo pensiero e un’analisi del nazismo come psicosi di massa. Ma già nel 1936 il saggio Wotan (7) suona come critica spietata del nazismo, analisi precisa e forse non ancora sufficientemente compresa delle sue cause profonde. 

Paolo Ferliga 
Docente di Filosofia Psicologo analista 

14/05/13

Cambiare rimanendo fedeli a se stessi.





Nella vita siamo sempre mossi da un doppio istinto: quello di muoverci, di cambiare, di sperimentare, di attraversare la vita; e quello di conservare, di allontanarci, di perderci . 

Non facciamo altro, in definitiva, nelle nostre esistenze, che oscillare tra questi due sentimenti opposti.

Il cambiamento ci attira ma è anche ciò che più ci spaventa. 

Qualcosa dentro di noi ci dice che senza cambiamento la vita non è nemmeno degna di essere vissuta, ma qualcos'altro dentro di noi resiste e ci invita a non farci trascinare passivamente dalla forza del cambiamento.

Se appena ci pensiamo, ci rendiamo conto che il cambiamento è inevitabile: come scrive Krishnamurti, anzi l'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento. 

Sappiamo però anche che c'è qualcosa - un pre-dato - che siamo noi e che non vuole perdere mai del tutto la propria natura. E' ciò che è stato chiamato in diversi modi nella storia umana, e che per migliore approssimazione è stato definito anima. Il nucleo, il centro originario di noi stessi. 

In psicologia, anzi, lo ha teorizzato C.G.Jung, ci si realizza pienamente soltanto non allontanandosi mai del tutto dal centro di se stessi.  Rimanendovi in qualche modo fedele. La pienezza vera esiste soltanto nel , dice Jung.  L'esperienza ci insegna, vivendo, che nessuna pienezza ci può derivare dai beni materiali, e nemmeno dalle relazioni in quanto tali, se il nostro non è pienamente coinvolto. 

Come vivere dunque, tra queste due opposte spinte ?

E' un difficile equilibrio.  Ma è il senso stesso dell'esistenza. 

Il cambiamento non può essere rifiutato.  Chi rifiuta il cambiamento, in definitiva non vive. 

E non ottiene nemmeno risultati, perché come scrive Neale Donald Walsh, quello che tu resisti in realtà persiste quello che invece tu accetti scompare.

Se tu opponi cioè una resistenza al cambiamento, quella realtà resisterà e anche la tua opposizione persisterà, paralizzandoti.  Ciò invece che mette paura e spaventa, se accettato - ovvero vissuto pienamente - scompare, non è più un pericolo. 

Ma ogni cambiamento - per essere vero cambiamento - deve essere fedele alla tua natura interiore.  Per avere coscienza di questa fedeltà, bisogna prima di tutto conoscersi. Sapere chi si è veramente. E' l'operazione che si deve fare costantemente nella vita. Ascoltarsi, conoscersi, attraversare le proprie zone d'ombra e le paure, conoscere cosa hanno da dirci, e solo così accettare il cambiamento che la vita ogni giorno ci chiede, per essere degni di vivere.

Fabrizio Falconi

13/01/13

La perdita delle radici, l'abbandono della tradizione e il manicomio contemporaneo. - C.G.Jung.





Il mondo ci appare impazzito. 

Nessuno sembra aver più in mente punti di riferimento e l'impressione generale è quello di una deriva complessiva - almeno in Occidente - dentro la quale nessuno sembra in grado di orientarsi. 

Ma a cosa si deve tutto ciò. 

Una delle risposte forse più convincenti la fornisce, in poche righe, Carl Gustav Jung, in uno dei suoi grandiosi saggi, Aion. 

Leggiamo.

L'attuale tendenza a distruggere, a rendere inconscia ogni tradizione, può tuttavia interrompere per centinaia di anni il normale processo di evoluzione e sostituirlo con un intervallo barbarico. 

Là dove ha predominato l'utopia marxista, questo è già avvenuto, scrive Jung, ma, aggiunge, anche una formazione prevalentemente tecnico-scientifica, tipica per esempio degli Stati Uniti, può provocare una regressione spirituale e quindi un notevole incremento della dissociazione psichica. 

Igiene e prosperità non bastano perché l'uomo sia sano; altrimenti gli uomini più ricchi e più illuminati starebbero meglio degli altri.  Invece, per quanto riguarda le nevrosi, le cose non stanno affatto così, ma al contrario. 

La perdita delle radici e l'abbandono della tradizione nevrotizzano le masse e le predispongono all'isteria collettiva.  E questa richiede una terapia collettiva consistente nella privazione della libertà personale e del terrore.   

Là dove predomina il materialismo razionalistico (invece), gli Stati tendono a diventare non più prigioni, ma manicomi. 

Ed è quello, ahimè, che stiamo sperimentando, credo. 

Tratto da Carl Gustav Jung, Aion, traduz e cura di Lisa Baruffi, Bollati Boringhieri, 1982, pag.170. 




15/08/12

Carl Gustav Jung: folgoranti citazioni dal Liber Novus (Libro Rosso).



La lettura del Liber Novus - Libro Rosso di Carl Gustav Jung, stampato con merito anche in Italia in una pregevole e preziosa edizione da Bollati Boringhieri è fonte di continua meraviglia.  E' un libro ricchissimo in cui si trovano molte e importanti risposte a quello che spesso si cerca senza comprenderlo e senza nemmeno saperlo. Ho raccolto qui alcune di queste (illuminanti) citazioni. 

Purtroppo, come tutto ciò che è sano e durevole, la verità si tiene più sulla via di mezzo che noi a torto detestiamo. 
(C.G.Jung, Liber Novus, pag.292)

Se il pensiero porta a ciò che è inconcepibile, allora è tempo di tornare alla vita semplice. Quello che non risolve il pensiero, lo risolve invece la vita. 
(cit. pag. 293)

Con il cristianesimo non siamo arrivati alla fine semplicemente mettendolo da parte. Mi sembra che di esso resti più di quanto possiamo vedere. Abbiamo combattuto il Cristo, l'abbiamo destituito e ci siamo sentiti vincitori. Ma lui è rimasto in noi e ci ha soggiogato. Tu puoi abbandonare Cristo, ma lui non ti abbandonerà. Il tuo volerti liberare di lui è un illusione. Cristo è la Via. Tu puoi compiere certamente delle deviazioni, ma poi non sei più sulla Via. La via di Cristo finisce sulla croce. Perciò siamo crocefissi con lui in noi stessi. Insieme a lui attendiamo la nostra resurrezione fino alla morte. Con Cristo chi è in vita non sperimenta risurrezione alcuna, se non dopo la morte.
(cit. pag. 293).

Tuttavia chiunque faccia della distruzione il proprio scopo perirà per autodistruzione.
(cit. pag. 296)



Siamo una razza accecata. Viviamo solo in superficie, solo nell'oggi e pensiamo solo al domani. Trattiamo brutalmente il passato, perché non ci prendiamo cura dei morti. Vogliamo fare soltanto lavori che assicurino un successo visibile. Soprattutto vogliamo essere pagati. Non v'è dubbio che le necessità della vita ci hanno costretto a preferire frutti tangibili. Ma chi soffre di più di coloro che si sono smarriti alla superficie del mondo ?
(cit. pag.298)

Una ragnatela di parole è l'inferno per chi vi resta impigliato. Sii cauto con le parole, sceglile bene, prendi parole sicure, parole prive di appigli. Non tesserne una all'altra, affinché non ne nasca una ragnatela, perché tu saresti il primo a restarvi impigliato. La parola è quel vi è di più futile e di più potente. Nella parola confluiscono il vuoto e il pieno.
(cit. pag. 299)

A chi viene dal mare l'affaccendarsi degli uomini appare come una follia. Ma gli uomini lo guardano come se il pazzo fosse lui.
(cit. pag. 299)

La parte in te più vile è la fonte della grazia.
(cit. pag.299)

Non ti accorgi che l'Altro è anche dentro di te. Pensi invece che venga in qualche modo da fuori e ritieni di scorgerlo anche nelle opinioni e azioni del tuo prossimo che ti ripugnano. Lì lo combatti, essendo del tutto accecato. Chi invece accetta l'Altro che gli viene incontro, perché è presente anche in lui, non lotta più, ma guarda dentro di sé e tace.
(cit. pag. 297).

A chi può procedere malgrado gli enigmi, si apre una via. Sottomettiti agli enigmi e a ciò che è assolutamente incomprensibile. Ci sono ponti da capogiro, sospesi su abissi di perenne profondità. Ma tu segui gli enigmi. (cit. pag.308).

Ma quante cose devono accadere a un uomo prima che egli si renda conto che il successo esteriore visibile, che si può toccare con mano, è una via sbagliata ! Quali sofferenze devono colpire gli uomini prima che essi rinuncino a saziare sul prossimo la loro brama di potere e a volere che tocchi sempre all'Altro ! Quanto sangue deve ancora scorrere prima che agli uomini si aprano gli occhi per vedere la propria personale via e il proprio nemico, finché non si rendano conto di quali siano i loro veri successi ! Tu devi poter vivere con te stesso, non a spese del tuo vicino. L'animale del gregge non è il parassita di suo fratello né il suo tormentatore. O uomo hai persino dimenticato che anche tu sei un animale. Ma credi ancora che si stia meglio là dove tu non ci sei. Guai a te, se anche il tuo vicino la pensa allo stesso modo. Ma puoi essere sicuro che lo fa. Qualcuno deve pur cominciare a non esser più infantile.
(cit. pag. 310)  

Che il tuo desiderio trovi soddisfazione in te stesso. Che la tua brama ti consumi, così essa si stancherà e si acquieterà e tu farai un buon sonno e considererai un bene il sole di ogni giorno. Se invece divorerai altri e altre cose rispetto a te, la tua brama rimarrà perennemente insoddisfatta, perché essa vuole di più, vuole ciò che vi è di più prelibato, vuole te. 
(cit. pag. 310/11)

E un altro comprende ciò che fai tu ? Da dove ti viene il diritto di avere opinioni sugli altri o di agire su di loro ? Tu hai trascurato te stesso, il tuo giardino è pieno di erbacce, e tu vuoi insegnare al tuo vicino l'ordine e fargli notare i suoi difetti ! Perché hai da tacere sugli altri ? Perché ci sarebbe molto da dire sui tuoi propri demoni. 
(cit. pag. 343).

26/03/12

La morte secondo Carl Gustav Jung (Liber Novus / Libro Rosso)



La lettura del Libro Rosso di Carl Gustav Jung è come addentrarsi in una miniera ricolma di gemme.   In questa pagina, che riporto a beneficio dei lettori di questo blog, una delle più potenti meditazioni - a mio avviso - sul significato e sul mistero della morte e del morire,  e della relazione della morte e del morire con la nostra vita. 

Per vederci chiaro ci è necessario il rigore della morte. La vita vuole vivere e morire, iniziare e morire. Non sei obbligato a vivere in eterno, ma puoi anche morire, perché c'è in te la volontà per tutte e due. Vita e morte devono bilanciarsi nella tua esistenza (*).

Gli uomini odierni hanno bisogno di un'ampia porzione di morte, perché in loro vivono troppe cose ingiuste, e troppe cose giuste muoiono in loro.  Giusto è chi mantiene l'equilibrio, sbagliato ciò che lo turba.  Ma una volta che l'equilibrio sia raggiunto allora è sbagliato ciò che mantiene l'equilibrio, e giusto ciò che lo turba.  Equilibrio è vita e morte allo stesso tempo.    Per la completezza della vita ci vuole un equilibrio con la morte.  Se accetto la morte, il mio albero rinverdisce, perché il morire esalta la vita.   Quando mi sprofondo nella morte che abbraccia il mondo intero, allora sbocciano i miei germogli.   Quanto la nostra vita ha bisogno della morte ! 

Proverai la gioia delle piccole cose solo se avrai accettato la morte.  Se invece ti guardi intorno avidamente in cerca di tutto ciò che potresti ancora vivere, allora nulla sarà mai grande abbastanza per il tuo piacere, le piccole cose che costantemente ti circondano non ti daranno più gioia.  Contemplo perciò la morte, perché essa mi insegna a vivere.

Se accogli in te la morte, essa è come una notte di brina e un presagio di sgomento, ma è una notte di brina che scende su un vigneto ricolmo di dolci grappoli. Presto sarai felice della tua ricchezza.  La morte fa maturare.  C'è bisogno della morte per poter raccogliere i frutti.  Senza la morte la vita non avrebbe senso, perché ciò che dura a lungo torna a eliminarsi da solo e nega il proprio significato.  Per esistere e godere della tua esistenza ti è necessaria la morte, e questa limitazione ti consente di portare a compimento la tua esistenza. 

(*)  nel manoscritto posteriore Jung prosegue questa frase così: "L'arte del vivere ciò che è giusto e lasciar morire ciò che è ingiusto."  Nel 1933 scrive: "La vita è un fluire di energia. Ma ogni processo energetico è irreversibile per principio e quindi diretto in modo univoco verso una meta: e tale meta è uno stato di riposo (...)  Nella seconda metà dell'esistenza rimane vive soltanto chi, con la vita, vuole morire.  Perché ciò che accade nell'ora segreta del mezzogiorno della vita è l'inversione della parabola, è la nascita della morte (...) "Non voler vivere" e "non voler morire" sono la stessa cosa.  Divenire e passare appartengono alla stessa curva"  (Anima e Morte, 1934, pp. 436-37)


Liber Novus/Libro Rosso, Bollati Boringhieri, 2009, pag. 274.

07/11/11

Pensare e Sentire - Il Libro Rosso di C.G.Jung



Ogni tanto capita di leggere qualcosa che balugina nella mente, appena letto, e resta, e si ferma e si sedimenta. Il significato, apparentemente oscuro, si fa via via più chiaro. Diventa a poco a poco illuminante. Coglie nel segno ciò che stai cercando, forse senza saperlo. A me è successo nel mezzo del cap.IX del Libro Rosso di Jung, rimasto per molti anni inedito ed ora divenuto una miniera per coloro che vogliono misurarsi con la profondità della conoscenza.   Ecco cosa scrive in questo passo Jung.

Chi preferisce pensare piuttosto che sentire fa marcire nell'oscurità il proprio sentire. Non matura, ma nel marciume produce dei getti malaticci che non arrivano alla luce.   Chi preferisce sentire piuttosto che pensare lascia il suo pensiero nell'oscurità dov'esso appende le sue reti ad angoli lerci, tele vuote con cui cattura zanzare e falene.


.. Perciò essi furono l'uno per l'altra veleno e morte.  


Il pensatore accolga in sé il suo piacere, colui che sente accolga il proprio pensiero. Questo porterà a trovare la via. 

E' forse proprio questo il punto nel quale ci troviamo. Una nuova congiunzione di pienezza, che renda finalmente libere le nostre - provate - anime. Per ricominciare a sentire e a pensare veramente.

13/10/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 12. SACRIFICIO.



Per ripartire, dopo la caduta di senso che rischia di travolgere ogni cosa, dovrò ricordarmi di una parola che è stata cancellata dagli anni e dalla frenetica illusione di un eterno presente: sacrificio.


Cosa è che 'fa sacra'  (sàcer fàcere) la mia vita ? Cosa può renderla sacra, e cioè in definitiva degna di essere vissuta ?

Certamente nessuna delle cose mondane, nessuna delle cose che il mondo mi offre in soprannumero, mi offre senza nemmeno chiedermi un volgare contrassegno, nessuna di queste cose può e potrà rendermi migliore, potrà arricchirmi di nulla.

Sin da bambino ho imparato che OGNI crescita è legata ad un sacrificio.

Non c'è nessuna crescita se non si è disposti a perdere qualcosa di sé: senza sacrificio, si resta eterni bambini, si rinuncia alla vita.

E io non voglio rinunciare alla vita. Questa vita delittuosamente appesantita dalla mancanza di un orizzonte futuro. Questa vita stesa a stendere sotto il peso di un eterno presente che ritorna e che non aggiunge e che non toglie.

Cosa potrò mai diventare, se non offrirò me stesso, se non lo lascerò andare via, in dono o a pegno, se non lo farò fruttare per una buona causa umana, se non sarò capace di trasformarmi, di rendermi maturo come fa un frutto quando si stacca dall'albero ?

Qualunque sia il cammino, la mia anima deve compierlo e sa che deve compierlo. Fare il proprio, dare il meglio, e guardare oltre.  Da quanto saprò essere generoso, si misurerà la riconoscenza dell'avere.  E se anche non avrò avuto, non avrò vissuto indegnamente o inutilmente.

C'è uno spirito antico che vive dentro di me.  Una lunga storia di cui io sono simbolo e frammento.  Che io sono, anche se non lo so.

Come scrisse C.G. Jung:

ma lo spirito del profondo disse: 
"Nessuno può o deve impedire il sacrificio. Il sacrificio non è distruzione, il sacrificio è la pietra miliare di ciò che verrà. Non avete forse avuto i conventi ? Non sono forse andati a migliaia nel deserto ? dovete dunque portare i conventi dentro di voi. Il deserto è in voi. il deserto vi chiama e vi attira e, se pure foste legati col ferro al mondo di questo tempo, il richiamo del deserto spezzerà ogni catena. in verità, io vi preparo alla solitudine." quindi il mio lato umano tacque. ma al mio lato spirituale accadde qualcosa che devo chiamare grazia.


(foto di Henri Cartier-Bresson)







24/02/11

La "divina bellezza" di C.G.Jung, sulle note di Kjetil Bjornstad.



E' una sorta di testamento spirituale, quello scritto da Carl Gustav Jung nell'ultima pagina di 'Ricordi, sogni, riflessioni', pubblicata nel 1961 E' sempre meraviglioso rileggere queste parole.

Sono stupito, deluso, compiaciuto di me; sono afflitto, depresso, entusiasta. Sono tutte queste cose insieme, e non so tirare le somme. Sono incapace di stabilire un valore o un non-valore definitivo; non ho un giudizio da dare su me stesso e la mia vita. Non vi è nulla di cui mi senta veramente sicuro. Non ho convinzioni definitive, proprio di nulla. So solo che sono venuto al mondo e che esisto, e mi sembra di esservi stato trasportato. Esisto sul fondamento di qualche cosa che non conosco. Ma, nonostante tutte le incertezze, sento una solidità alla base dell'esistenza e una continuità nel mio modo di essere.

Il mondo nel quale siamo nati è brutale e crudele, e al tempo stesso di una divina bellezza. Dipende dal nostro temperamento credere che cosa prevalga: il significato, o l'assenza di significato. Se la mancanza di significato fosse assolutamente prevalente, a uno stadio superiore di sviluppo la vita dovrebbe perdere sempre di più il suo significato; ma non è questo - almeno così mi sembra - il caso. Probabilmente, come in tutti i problemi metafisici, tutte e due le cose sono vere: la vita è - o ha - significato, e assenza di significato. Io nutro l'ardente speranza che il significato possa prevalere e vincere la battaglia.

Quando Lao Tse dice: "Tutti sono chiari, io solo sono offuscato", esprime ciò che io provo ora, nella mia vecchiaia avanzata. Lao Tse è l'esempio di un uomo di una superiore intelligenza, che ha visto e provato il valore e la mancanza di valore, e che alla fine della sua vita desidera tornare nel suo proprio essere, nell'eterno inconoscibile significato. L'archetipo dell'uomo vecchio che ha visto abbastanza è sempre vero. Questo tipo appare a qualsiasi livello di intelligenza, e i suoi tratti sono sempre gli stessi, sia egli un vecchio contadino o un grande filosofo come Lao Tse. Così è la vecchiaia, dunque limitazione. Eppure vi sono tante cose che riempiono la mia vita: le piante, gli animali, le nuvole, il giorno e la notte, e l'eterno nell'uomo. Quanto più mi sono sentito incerto su di me stesso, tanto più si è sviluppato in me un senso di affinità con tutte le cose. Mi sembra, infatti, che quell'alienazione che per tanto tempo mi ha diviso dal mondo si sia trasferita nel mio mondo interiore, e mi abbia rivelato una insospettata estraneità con me stesso.»