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20/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine)




Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine) 

   Nell’ultimo film di quella che è stata chiamata la trilogia teologica, Il silenzio, uscito nel 1962, Bergman sembrò sfidare il pubblico e la critica in maniera ancora più estrema con una storia – quella del viaggio allucinato di due sorelle, Anna e Ester che attraversano un paese ostile, pieno di strane figure, in cui tutti parlano una lingua incomprensibile – che incappò anche nelle ire della censura, per scene di trasgressione molto esplicite, per l’epoca. L’intento del regista era, stavolta, quello di mostrare – si potrebbe dire nietzschianamente – gli effetti della espulsione di Dio dalle vite degli uomini.  Entrambe le sorelle – che rappresentano l’una l’aspetto materialistico/edonistico dell’esistenza e l’altra quello puramente intellettuale/razionale – non raggiungono nessun barlume di senso, nelle loro vite disperate.  E la morte di una delle due Ester, la coglie con l’ultima parola scritta su una lettera per il nipote adolescente: ‘anima’.   Lo spirituale – rappresentato anche dalla musica di Bach che compare in diversi punti del film -  è l’unica possibilità di uscire dalla prigione che rinchiude l’uomo nella sua gabbia di disperazione.

   “L’uomo  mutilato dei suoi valori spirituali” scrisse un critico italiano subito dopo l’uscita del film nel nostro paese, “si abbrutisce in una solitudine che è il suo inferno. Bergman è troppo intriso di cristianesimo per condividere la persuasione di un Camus che soltanto l’ateismo può generare una carità autentica… Il silenzio proclama la tesi opposta. L’assenza dei valori spirituali mura l’uomo nel suo egoismo.” (11)  Ovvero, “ quando Dio tace, il mondo diventa un inferno.” (12)
    
   E a Bach, alla impressione forte di quell’oltre rappresentato dal sublime della musica, che indica la possibilità di una via allo spirituale, Bergman torna più volte e nelle ultime pagine della sua autobiografia.  Lo fa, in questo caso, rievocando una scena della sua infanzia:  Una domenica di dicembre ascoltai l’Oratorio di Natale di Bach alla chiesa di Hedvig  Eleonora (dove il padre di Bergman teneva i suoi sermoni, NdA).  Era di pomeriggio, la neve era caduta per tutto il giorno, silenziosa e senza vento. Ora apparve il sole.  Ero seduto nella cantoria di sinistra, proprio sotto la volta.  La mobile luce del sole, scintillante come oro, si rifletteva sulle finestre della Canonica di fronte alla chiesa e formava figure all’interno della volta.  Il corale si diffuse pieno di speranza nella chiesa che s’immergeva nell’oscurità: la devozione di Bach allevia il tormento della nostra incredulità.. Le trombe levano al Redentore grida di giubilo in re maggiore. Una dolce penombra grigioazzurra riempie la chiesa d’una calma improvvisa, d’una calma fuori dal tempo…
   I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia. (13)
    
  La musica era per Bergman, come il cinema, una specie di occhio su un altro mondo.  Il cinema, in più permetteva l’approfondimento dell’analisi. Nessun’altra arte come il cinema, diceva il regista (14) arriva a cogliere lo spazio crepuscolare nascosto nel profondo della nostra anima.
   
   Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi monacale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
    “Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni (15) il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
    Nel 1995 era morta la sua ultima amatissima moglie, Ingrid Von Rosen, di dodici anni più giovane di lui.  Bergman ne fu sconvolto.  Tornarono i fantasmi della depressione, di cui non si era mai del tutto liberato, e che vent’anni prima, nel 1977 – all’indomani di uno scandalo fiscale nel quale era stato coinvolto – lo avevano portato al ricovero per tre mesi in un istituto psichiatrico di Stoccolma.  Del resto, come ha scritto Goffredo Fofi, Bergman, epigono del cinema ‘religioso’, preoccupato di interrogarsi sulle inquietudini esistenziali dell’uomo e sul suo bisogno di trascendenza, pagò lo scotto dell’assiduità con queste inquietudini a un caro prezzo personale.  (16)
    
     Ma ancora una volta, il cinema – la sua arte – gli venne in soccorso. Tornò ancora una volta dietro la macchina da presa, e in Verità e affanni  ambientò la sua ultima storia per il cinema, proprio in un ospedale psichiatrico.
   L’arte come sublimazione di inquietudini e aspirazioni spirituali trovò dunque probabilmente in Ingmar Bergman - il suo migliore interprete.  

     Ed è probabile, che alla fine della sua vita, una serenità consapevole lo abbia accolto. 
    
    "La morte lo ha raggiunto serenamente” ha detto la figlia Eva, annunciando al mondo la scomparsa del padre. Il marito di Eva, lo scrittore Henning Mankell ha riferito in quella occasione le parole di Bergman nel suo ultimo colloquio con il suocero: “Ho 89 anni, e vorrei tanto festeggiare i 90 con la famiglia. Ma tutti i miei amici se ne sono già andati, e così sono pronto…” 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

11.  Luigi Bini, Ingmar Bergman, Op. cit. p.41
12. Giacinto Ciaccio, Il silenzio, Rivista del Cinematografo, n.5 1964, pag. 219 e ss.
13.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. pag. 252.
14.  La citazione è riportata da Lietta Tornabuoni, in La cinepresa nell’anima, La Stampa, 31 luglio 2007.
15. Lietta Tornabuoni, art. cit.
16. Goffredo Fofi nell’articolo in questione – La crisi della modernità riletta attraverso le pagine di Kierkagaard, Avvenire, 21 luglio 2007 -  aggiunge: “Ma anche se molti suoi film possono sembrarci meno riusciti di altri, quale coerenza e quale così evidente e così commovente sincerità in questa ricerca !”

19/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./)



Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (3./) 

   In questo senso la parabola di questo grande regista è forse raccontata in un modo che più esemplare non si potrebbe nella trilogia che Bergman dedicò espressamente al problema religioso, e che comprende tre capolavori, Come in uno specchio (1960), Luci d’Inverno (1961) e Il silenzio (1962).  
  Il regista, già famoso,  voleva realizzare con il primo un’opera “completamente nuova”, un’opera da camera per il cinema, e voleva ambientarlo su un’isola del mare del nord. Fu in quell’occasione che qualcuno gli suggerì la brulla isola di Faro,  nel mar Baltico, che con i suoi paesaggi estremi affascinò a tal punto Bergman da indurlo a stabilirvi la sua residenza, alla fine del film. Forse anche la suggestione di questo paesaggio spinse il regista a rendere il suo cinema ancora più essenziale rispetto ai film precedenti, ancora più nudo, radicale, in un crescente “ascetismo visivo”, come lo definì il padre gesuita Luigi Bini (7).  

  Già il titolo del film – Come in uno specchio – fu scelto da Bergman dal testo della Prima Lettera ai Corinzi, quando Paolo scrive: Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia (7).  Sull’isola il regista rappresenta le vicende dello scrittore David che  trascorre le vacanze estive in compagnia del figlio Minus, della figlia Kårin - recentemente dimessa da una clinica psichiatrica - e del marito di Kårin, Martin. Ognuno di loro costituisce per gli altri una sorta di specchio, nel quale si riflettono le angosce e la difficoltà di comunicare di ciascuno. Nel confronto tra Karin, che crede di vedere Dio nella sua follia – è celebre l’angoscioso sogno in cui Dio si manifesta sotto forma di ragno – e David, che è un peccatore che ha sbagliato tutto nella sua vita, ma è disposto a con-vertire la sua anima, si gioca la dicotomia nel quale ogni uomo si dibatte quando si pone alla ricerca di Dio.  Cercare Dio come fa Karin, e come fanno in molti, non serve a niente, se non a vedere – come in uno specchio – le proprie deformità e le proprie distorsioni, che nulla aggiungono alla propria solitudine come condizione esistenziale.
   
   La ricerca sensata è invece quella di David – che ha perso e sbagliato tutto, ma che è disposto a mettersi in gioco, fino in fondo. E quando il figlio  gli chiede, angosciato: “Dio? Dammi una prova di Dio. Non puoi,”  il padre, David, risponde: “ Sì che posso. Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore… Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio o se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza.  E’ come essere graziati in punto di morte.”
      
   Il figlio, Minus, dimostra di aver capito, e risponde pensando alla sorella pazza: “Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo davvero.”
   
   Il secondo film della trilogia, Luci d’inverno, nacque invece, l’anno seguente, dopo che Bergman era rimasto profondamente colpito dal Diario di un curato di campagna, che Robert Bresson aveva tratto da Bernanos, rielaborando una vecchia idea sulla quale il regista rimuginava da anni e che prendeva lo spunto dalla scena di un uomo che entrato d’inverno, in una piccola chiesa di campagna, chiude la porta si avvicina all’altare e dice al Cristo: “ Resterò qui fino a quando non mi parlerai.”  

    
    Quel che ne venne fuori fu il film forse più drammatico, riguardo ai temi esistenziali, di quelli diretti da Bergman, un film che inizia e finisce con una funzione religiosa, e che mostra il dibattersi del pastore protestante Tomas Ericsson, solo di fronte ai dilemmi della fede, incapace di convertirsi realmente e di trovare risposte in Dio.  Luci d’inverno, che termina in sostanza con un nulla di fatto, fu all’epoca usato, allo stesso modo da coloro che ci vedevano una proclamazione di ateismo e da altri che all’opposto, lo leggevano come una confessione di fede, seppure drammatica e dubitativa.   Lo stesso Bergman non aiutò a decifrare il significato del suo film in un modo o nell’altro: pare che alla fine del manoscritto con la sceneggiatura di Luci d’inverno egli avesse apposto, di suo pugno, le parole Soli Deo Gloria (9).  

    Ma se davvero questo stesse ad indicare la ritrovata fede del pastore Tomas, è tutto da dimostrare.    Quel che è certo è che anche in questo film, Bergman si dichiara convinto che la fede in Dio non la si trova comodamente arroccati nelle formule liturgiche e nei dogmi, ma semmai essa “fiorisce nelle anime che hanno ormai conosciuto la disperazione più nera.”   (10) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

7.  Luigi Bini, Ingmar Bergman da “Come in uno specchio” a “Sinfonia d’Autunno”, Milano, Edizioni Letture, 1980, pag.13.
8.  Lettera ai Corinzi, 13, 12.
9. Questo particolare fu rivelato da Jorn Donner ne Il volto del diavolo, articolo su Cineforum del 1966, e confermato da Vilgot Sjoman, amico e portavoce del regista, intervistato dai Cahiers du Cinema, nel numero 165, del 1965, pag. 54.
10.  Così Guglielmo Biraghi, Luci d’inverno, Il Messaggero, 18 aprile 1963.

17/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./)


autore sconosciuto, Ingmar Bergman fotografato sul divano di casa, 1960.  


Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./) 

Per un uomo del Nord, i conti con la solitudine si fanno in fretta.  Non è un caso se il tema della solitudine impregni la cultura scandinava dai suoi primordi. Bergman,  uomo del Nord, lo è stato fino in fondo, come Kierkegaard, August Strindberg e Carl Theodor Dreyer .  Un destino segnato già dal fatto di nascere nella colta Uppsala – patria di Celsius e di Linneo, ma anche di Dag Hammarskjold – e di nascervi da un padre severo pastore luterano (Erik Bergman) e da una madre ambigua e temuta (Karin Akerblom, discendente di una famiglia benestante olandese), in una famiglia costruita – secondo il racconto stesso che ne ha fatto il regista nei suoi film e nella sua autobiografia (1) -  su principi rigidi e oppressivi.  Un clima di freddezza, nel quale sin da piccolo Bergman fu chiamato a sperimentare la solitudine e le difficoltà di comunicazione tra le coscienze degli uomini, che furono due tra i temi dominanti della sua filmografia.
       La solitudine di un uomo consapevole del suo stato è assoluta, disse una volta (2), ma il desiderio di una intesa con gli altri non cessa mai di alimentare una grande speranza. C’è sempre, nella giornata di un uomo, un’ora o un minuto o appena un momento in cui si viene a trovare a contatto con il prossimo. L’arte è un mezzo meraviglioso e forse unico di creare questo magico contatto, di avvicinare gli uomini. 

C’è molto di Bergman, in questa frase.  La solitudine, che pure fu una costante della sua vita - fino agli ultimi anni di totale eremitaggio nell’isola di Faro, immersa nella calma glaciale del Mar Baltico, dove il regista è morto nel 2007 – non gli impedì di ricercare a tutti i costi, e con ogni mezzo che il suo genio gli mise a disposizione,  una forma di comunicazione alta e personale – quasi a cuore aperto -  con ogni uomo che si ponesse di fronte ad un suo nuovo film.

I temi prediletti di Bergman, della sua opera,  la difficoltà della coppia, le insufficienze dell’amore, la morte, la presenza o l’assenza di Dio, il nostro posto nel mondo, sono già tutti scritti nella biografia del grande regista.  Nato  il 14 luglio del 1918,  a pochi mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, con la madre ammalata di febbre spagnola, al piccolo Ingmar fu subito impartita l’estrema unzione, perché si riteneva improbabile potesse sopravvivere. “Morirà di denutrizione” decretò il medico.  Invece il bambino sopravvisse, sufficientemente temprato anche per cavarsela negli anni seguenti, quando in famiglia dovette affrontare l’irritabilità paterna – il padre, valente predicatore luterano si spostava nelle chiese di paese, fino a far carriera e divenire addirittura cappellano della Corte Reale – le ansie della madre, e le punizioni che venivano inflitte a lui, al fratello maggiore e alla sorella minore, dalla cuoca Alma, che sadicamente lo rinchiudeva in un oscuro ripostiglio dove viveva “un mostriciattolo che si nutriva mangiando le dita dei bambini cattivi”.   

L’atmosfera familiare vissuta in quegli anni era fu resa in modo magistrale in quel grande affresco che è Fanny & Alexander, il suo film testamento realizzato nel 1982 e vincitore di premi in tutto il mondo – compreso l’Oscar  -  nel quale Bergman descrisse minuziosamente l’ambiente della grande casa di Uppsala, i volti e le presenze dell’infanzia, e in particolar modo il devastante rapporto con la figura paterna, sdoppiata nella immagine mefistofelica del vescovo Vergerus (che nel film è il secondo marito della madre) e in quella di Oscar Ekdahl, il padre buono  e umano che Bergman avrebbe voluto avere.

      
L’infanzia fu per Bergman una esperienza totalizzante. Tutto il suo mondo di adulto è edificato nei o sui primi anni di vita.  Ed è normale, per un artista, ritornarvi continuamente.  In realtà, scrive il regista nella sua autobiografia, io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà. (3)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1. L’autobiografia di Ingmar Bergman, Lanterna Magica, è pubblicata in Italia da Garzanti, prima edizione ottobre 1987, Milano.
2. La frase attribuita a Bergman è riportata nell’articolo L’arte, unico antidoto alla nostra solitudine,  firmato da Massimo di Forti per il Messaggero, 31 luglio 2007.
3.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. 

27/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (3./)

      


Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (3)


E’ questo un primo orientamento importante,  sul quale Hammarskjold ritorna quando in una pagina del 1952 citando nuovamente Joseph Conrad e i personaggi del suo Lord Jim, scrive: Al limite dell’inaudito. L’inaudito; forse solo l’ultimo incontro di Lord Jim con Doramin, quando egli è giunto all’assoluto coraggio, e all’assoluta umiltà, in assoluta lealtà verso se stesso.  Con vivi sensi di colpa, ma cosciente a un tempo di aver assolto il debito, per quanto possibile in questa vita, attraverso quanto ha fatto per coloro che ora chiedono la sua vita.   Tranquillo e felice. Come quando si vaga solitari in riva al mare. (4)
    Assoluto coraggio dunque, assoluta umiltà, assoluta lealtà verso se stesso.  Sono queste le condizioni per consentirsi di giungere con animo tranquillo e felice all’appuntamento con la morte.  Hammarskjold ci pensa da sempre.  Lo scrive eloquentemente nel 1955 – e mancano soltanto sei anni alla fine della sua vita: Un tempo la morte faceva sempre parte della compagnia. Ora è la mia vicina di tavola: me la devo fare amica. In questa “riscoperta” intuitiva divenuta il filo di Arianna della mia vita – passo per passo, giorno dopo giorno – ora la fine è divenuta altrettanto palpabile quanto il dovere che mi spetta per domani. (5)
    E il dovere per Hammarskjold è mettere le ali ad un organismo internazionale – le Nazioni Unite – ancora giovane, sprovvisto di poteri e fragile, in un mondo diviso in grandi blocchi contrapposti.  E’ proprio durante il doppio mandato di Hammarskjold che per la prima volta nella storia dell’ONU – il 10 dicembre del 1954 -  viene votata una risoluzione per conferire un mandato diretto al Segretario Generale per gestire una crisi internazionale.  (6)
      Sarà un crescendo di impegni e fatiche per Dag, che passano attraverso l’invasione sovietica dell’Ungheria e la crisi di Suez (1956), la creazione, per iniziativa del Segretario Generale della prima forza armata di peace keeping delle Nazioni Unite, e  la riconferma con il secondo mandato nel 1958 (ctrl.), fino all’ultima crisi, quella congolese, che costerà la vita ad Hammarskjold, apertasi nel luglio 1960 e culminata nelle richieste di dimissioni arrivate direttamente da Nikita Chruscev.  (7)
     Rimarrò al mio posto per quanto resta del mio mandato come un servitore dell’Organizzazione - risponde orgogliosamente al presidente sovietico Hammarskjold, in un celebre discorso tenuto all’Assemblea Generale, il 3 ottobre del 1960 -  nell’interesse di tutte le altre nazioni, fin quando esse vorranno che io faccia così.  (8)  
     E’ nell’attraversamento di queste dure prove che si esprime, in parallelo, il peculiare misticismo di Hammarskjold.  La sua ricerca di Dio diventa il cammino in controluce di una carriera, di una vita, perennemente esposta alla luce dei riflettori del mondo Già da bambino, Hammarskjold ha fatto l’abitudine al silenzio, alla meditazione. Sa che questo e soltanto questo può salvarlo, in definitiva, dall’assordante chiasso del mondo.  Viene da terre fredde, ha trascorso lunghi anni, bambino, al seguito del padre, prima capo del governo, poi governatore di Uppsala, in una grande e bellissima casa da cui si domina la città.  La sua famiglia di provenienze nobili, è conosciuta e ammirata in tutta la Svezia. Il padre è intimo amico dell’arcivescovo Nathan Soderblom, grande teologo
svedese, uno dei fondatori del movimento ecumenico moderno, e vincitore a sua volta del premio Nobel per la Pace nel 1930. Dag cresce in questo clima, e non è difficile immaginarlo come una sorta di Alexander, il protagonista del celebre film di Ingmar Bergman (9), ambientato proprio a Uppsala.  Riceve i rudimenti della fede luterana, sviluppa un carattere timido, introverso, la passione per l’arte, la letteratura, la musica. Non si sposerà mai, non metterà su famiglia, forse anche  obbedendo a quel pre-sentimento di avere di fronte a sé una vita breve.
      La solitudine interiore, l’isolamento, sempre e comunque, anche nonostante una vita convulsa, diventano l’habitat necessario per una ricerca che non si interrompe mai, per il dialogo più difficile con un Interlocutore presente, ma  silenzioso.
      Basti pensare che alla quiete Dag Hammarskjold edificherà un vero e proprio monumento: la stanza per la meditazione fu infatti fortemente voluta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne seguì personalmente ogni fase, dalla progettazione (al centro della stanza un raggio di luce proveniente dall’alto colpisce la nuda superficie di una pietra), all’arredamento, fino all’inaugurazione, nel 1957, occasione per la quale Hammarskjold scrisse un testo, intitolato Una stanza di quiete, che ancora oggi compare nel depliant distribuito alle migliaia di persone che ogni anno visitano il Palazzo delle Nazioni Unite di New York.  Nelle intenzioni questo doveva essere un luogo “le cui porte possano essere aperte agli spazi infiniti del pensiero e della preghiera. “  Hammarskjold fu uno dei primi statisti a rendersi conto che uno dei maggiori rischi per l’uomo politico è quello di distaccarsi dalla realtà e da se stesso.  Di non avere tempo per stare solo e riflettere.  Una esigenza simile è stata sottolineata ed espressa recentemente da Barack Obama, prima della sua elezione, in un incontro a Londra con l’allora primo ministro inglese Tony Blair.  La quiete come presupposto ultimo per cercare se stessi,  per rimanere un “humus aperto, umido nel fertile buio dove cade la pioggia e cresce il grano.”
      E’ questo del resto, anche il senso di ogni ricerca mistica, che per Hammarskjold non è mai fuga dal mondo.       
       “L’esperienza mistica”.  Sempre qui e ora… in quella libertà che è tutt’uno con il distacco, in quel silenzio che nasce dalla quiete. Ma questa libertà è una libertà nell’azione, questa quiete è quiete tra gli uomini. Il mistero è perenne realtà per chi è libero da se stesso nel mondo, è realtà in una tranquilla maturità nell’attenzione ricettiva e acconsenziente. 
      Nel nostro tempo la via della santità passa necessariamente attraverso l’azione.
      Bisogna dare tutto per tutto.  (10)   (-segue 3./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

4. Op. cit. pag.97
5. Op. cit. pag.125
6. Si tratta della vicenda degli aviatori americani dipendenti dalle forze ONU in Corea, fatti prigionieri e condannati poi dalla Cina per spionaggio, che verranno rilasciati il 1. agosto dell’anno seguente – 1955 – grazie proprio alla paziente opera di Hammarskjold che visita diverse volte Pechino, ricavando dal governo cinese ripetuti rifiuti fino alla improvvisa liberazione, esattamente due giorni dopo il cinquantesimo compleanno di Dag Hammarskjold (29 luglio 1955).
7. Il 30 giugno 1960, a solo un anno e mezzo dai primi violenti scontri con Bruxelles, il Congo divenne stato indipendente. Iniziò un lungo e sanguinoso periodo di lotte tra fazioni e guerra civile, culminante con la presa del potere da parte del colonnello Mobuto, dopo l’arresto e la condanna a morte nel gennaio del 1961 di Patrice Lumumba, colui che era stato uno degli artefici principali della liberazione e della lotta per la indipendenza dal Belgio.
8. Cit. tratta da Foote, Wilder, ed., Servant of Peace: A Selection of the Speeches and Statements of Dag Hammarskjöld, Secretary-General of the United Nations 1953-1961. New York, Harper & Row, 1962. 
9. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander), film del 1982 di Ingmar Bergman, con Pernilla Allwin e Bertil Guve, vincitore di 4 premi Oscar. In Italia è edito su dvd dalla Sanpaolo Audiovisivi. 
10. Op. cit. pag. 139.

06/02/13

"Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita."


 

In Un Mondo di Marionette (titolo originale: Aus dem Leben der Marionetten, 1979-80 )  - uno dei film dell'esilio tedesco (per motivi banalmente fiscali) - Ingmar Bergman perfezionò il suo lungo decennale lavoro di scavo sull'umano. 

In un film considerato minore della sua lunga e gloriosa filmografia, Bergman espose con piglio da entomologo ciò che pensa del dramma umano. 

Il dramma umano, sempre in bilico tra due diverse pulsioni: amore/condivisione - morte/separazione. 

Bergman, con la sua formazione interamente protestante, considerava il male della creazione realtà presente e non evitabile. 

Nella vicenda della follia di Peter e del suo amore frustrato e frustrante con Katharina c'è tutto quello di incompiuto che rende ogni vita umana un possibile abisso. 

Peter non sa e non può - e non vuole - sottrarsi al suo destino. 

Peter, come molti, decide di sublimare la propria vita interiore attraverso il più radicale e distruttivo dei gesti esteriori - l'omicidio (gratuito) di una prostituta.

Nella scena del sogno, però, raccontato nella lettera che invia all'analista,  Peter vive - anche se soltanto nella sua vita interiore, che però è importante quanto quella esteriore - la rappresentazione completa del proprio dramma personale (e collettivo, umano) che si realizza nella frase:   Se tu sei la mia morte, sii la benvenuta, o morte. Se tu sei la mia vita, sii la benvenuta, o vita.

E' quella totale accettazione - senza volontà, senza ego, senza sovrastrutture - della semplice verità della vita, che Peter, da sveglio, nel crogiolo della sua vita reale, complicata, inutilmente sovrastrutturata, egoistica, volontaristica, non riesce e non può in nessun modo né pronunciare, né sentire. 

Fabrizio Falconi 

05/11/12

Bergman, il maestro raccontato.






«Durante la mia adolescenza Bergman è stato fondamentale. Leggere i suoi libri di memorie, vedere i suoi film e poi scoprire la sua meravigliosa vita teatrale mi hanno dato il coraggio di addentrarmi nei mondi più intricati del mio subconscio, senza per questo temerli o averne paura».

Scrive così Francesca Picozza, autrice romana ed esperta di drammaturgia nordica (ma anche attrice di prosa e di cinema), nella nota personale del volume che ha pubblicato con Sovera Edizioni. Titolo, Ingmar Bergman - Il maestro raccontato, ovvero una biografia contraddistinta dall'approccio personale, emotivo e individuale che la anima. Un libro «che vuole essere una testimonianza, un documento sul grande apporto artistico che Bergman ha donato non solo al teatro svedese ma al teatro in generale», scrive Picozza, precisando che «sebbene la sua fama in Italia sia maggiormente legata alla produzione cinematografica, la carriera di Bergman comprende più di un centinaio di allestimenti teatrali, una quarantina di radiodrammi e quindici produzioni televisive».

Nato ad Uppsala il 14 luglio del 1918 (e scomparso il 30 luglio di cinque anni fa), Bergman viene raccontato - nei tratti intimi, familiari e artistici - dai suoi attori e collaboratori più stretti, che lui ha amato e riconosciuto sempre come la sua unica vera famiglia. Il maestro raccontato consente di accedere alla sfera più personale del grande regista tramite un dialogo aperto “cuore a cuore” con ciascun lettore.

Il testo è arricchito da un’ampia documentazione riguardante le prove e gli allestimenti di numerose messinscene di Bergman, da fotografi del teatro e cinema svedese come Beata Bergström e Bengt Wanselius

Scrive Picozza: «Bergman è stato la presenza determinante seppur silenziosa che, sul set o durante le prove, ha dato l'opportunità all'attore di trasformare l'impossibile in possibile, creando personaggi indimenticabili».


17/07/12

"La prova di Dio" secondo Bergman ("Come in uno specchio").



Spendiamo tante parole inutili per definire Dio, o per definire la sua assenza. Forse, tra le meno inutili che siano state spese, ci sono queste, meravigliose, scritte da Ingmar Bergman per il suo film, “Come in uno specchio” (1960), il cui stesso titolo è tratto da un versetto della Lettera ai Corinzi (13,12:Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia).

Sull’isola il regista rappresenta le vicende dello scrittore David che trascorre le vacanze estive in compagnia del figlio Minus, della figlia Kårin – recentemente dimessa da una clinica psichiatrica – e del marito di Kårin, Martin. Ognuno di loro costituisce per gli altri una sorta di specchio, nel quale si riflettono le angosce e la difficoltà di comunicare di ciascuno.

Nel confronto tra Karin, che crede di vedere Dio nella sua follia – è celebre l’angoscioso sogno in cui Dio si manifesta sotto forma di ragno – e David, che è un peccatore che ha sbagliato tutto nella sua vita, ma è disposto a con-vertire la sua anima, si gioca la dicotomia nella quale ogni uomo si dibatte quando si pone alla ricerca di Dio.

Cercare Dio come fa Karin, e come fanno in molti, non serve a niente, se non a vedere – come in uno specchio – le proprie deformità e le proprie distorsioni, che nulla aggiungono alla propria solitudine come condizione esistenziale.

Invece David – che ha perso e sbagliato tutto è disposto a mettersi in gioco, fino in fondo.

E quando il figlio gli chiede, angosciato: "Dio? Dammi una prova di Dio. Non puoi,” il padre, David, risponde: “ Sì che posso. Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore… Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio oppure se l’amore sia Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. E’ come essere graziati in punto di morte.”

Il figlio, Minus, dimostra di aver capito, e risponde guardando la sorella pazza: “Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l’amiamo davvero.”

Fabrizio Falconi

Post originale pubblicato ne La poesia e lo spirito, 20 gennaio 2010.