06/04/21

Wim Wenders: "Neanche la nostalgia è più quella di una volta"

 


Wim Wenders - "Neanche la nostalgia è più quella di una volta" 

di Matteo Persivale

fonte: Corriere della Sera, Venerdì 4 dicembre 2015


"Oggi, dopo la rivoluzione della tv, della pubblicità e infine del digitale," ammette Wenders, "puoi ancora avere fiducia nelle immagini. Ma le immagini hanno bisogno di un po' d'aiuto... Helmut Newton - una volta fece il mio ritratto: che uomo interessante, che uomo ossessionato! - diceva già vent'anni fa che ci sono troppe immagini intorno a noi. Aveva intravisto i primi segnali di quello che ci circonda oggi. Le immagini che si dissolvono nei loro stessi atomi."  

"Da bambino credevo che del cinema ci si potesse fidare: i western, cowboy e indiani. Da ragazzo poi, mi sembrava che nel cinema ci fossero, in modo assoluto, verità e bellezza: i film di Bergman, di Fellini... Negli anni '70 però le immagini smisero di raccontarci il 100% di una storia. Pensavo che avrei fatto l'artista. Poi capii che le immagini, le parole, la musica - quello strano triumvirato - potevano ricostruire la verità e la bellezza che andavo cercando. Sono diventato regista per capire come mai il nostro sguardo non ci racconta tutto quello che vorremmo sapere."

Wenders non si rassegna e da giovane settantenne ha "ricominciato da zero con il 3-D, la tecnologia con la quale ha raccontato in "Pina" l'arte della coreografa Pina Bausch."

Liquida Quentin Tarantino così: "Dice che smetterà di fare film quando smetteranno di produrre pellicole perché disprezza il digitale, ma è già una discussione obsoleta. A non essere obsoleta è la questione del 3-D: quando serve a rappresentare la realtà e quando serve solo per gli effetti speciali? No, neanche la nostalgia è più quella di una volta.


05/04/21

Una Pasquetta a Roma di tanti anni fa - 1944: Il Gobbo del Quarticciolo, eroe e bandito tra realtà e leggenda

 


Il quartiere Alessandrino, alla estrema periferia est di Roma, che prende il nome dall’acquedotto fatto costruire dall’imperatore Alessandro Severo,  si è sviluppato a partire da un nucleo originario conosciuto come Quarticciolo, una borgata costruita al quarto miglio della Via Prenestina, proprio lì dove sorgeva una grande tenuta agricola di proprietà della famiglia Santini, durante gli anni trenta e quaranta del Novecento, per accogliervi soprattutto gli immigrati del sud d’Italia che in quel periodo venivano a cercare lavoro a Roma e gli sfollati delle zone del centro città interessati dai vari sventramenti urbanistici che furono attuati durante il Ventennio per la realizzazione delle vie imperiali.

Il Quarticciolo fu realizzato con criteri di architettura razionalista – gli stessi utilizzati per l’edificazione delle nuove città dell’Agro pontino – con vie lineari, edifici a quadrilateri compresi in giardini, la piazza rettangolare, con la chiesa, polo di attrazione del complesso.

Questa stessa struttura si può vedere ancora oggi, nonostante i grossi cambiamenti esteriori ed un certo degrado, causato dallo sviluppo della metropoli e dalla urbanizzazione massiccia della zona.

Il Quarticciolo, negli anni della occupazione nazista, della resistenza romana e del dopoguerra, ospitò una delle figure più note e controverse della storia recente della città: quella di Giuseppe Albano, un partigiano nato in provincia di Reggio Calabria, giunto a Roma con la sua famiglia all’età di dieci anni, nel 1936, divenuto noto per tutti con il soprannome di Gobbo del Quarticciolo:  a capo di una banda di piccoli malfattori, a partire dagli anni Quaranta, Giuseppe Albano si rese protagonista di una serie di episodi e imprese che lo fecero identificare, agli occhi della popolazione di allora, come una sorta di Robin Hood, le cui finalità erano quelle in primis di combattere gli odiati invasori tedeschi e poi quella di punire gli italiani che approfittando della situazione avevano, in tempo di guerra, malversato i loro concittadini, con il mercato nero e l’usura.

Le avventure di Giuseppe Albano e della sua banda divennero così note in quegli anni che anni dopo, nel 1960, il regista Carlo Lizzani, recentemente scomparso, pensò bene di realizzarvi un film, cui prese parte, tra i vari protagonisti, anche Pier Paolo Pasolini.

Il Quarticciolo, con le sue vie nascoste, con i suoi sentieri che sbucavano nell’aperta campagna, divenne per Albano, una sorta di Quartier Generale. All’età di sedici anni cominciò a mostrare le sue doti di coraggio nelle lotte partigiane che si svolsero dopo l’8 settembre nella zona di Porta San Paolo.

Seguirono numerose azioni di sabotaggio ai danni delle truppe naziste compiute insieme ad una piccola banda, che rispondeva principalmente agli ordini di un altro partigiano, Franco Napoli, detto Felice Se Napoli era la mente, Albano era però il braccio: in breve tempo tutta Roma cominciò a parlare delle sue imprese, che rinfrancavano il popolo soggiogato dalla occupazione tedesca.  Riusciva sempre a farla franca, dopo ogni azione di sabotaggio, durante la quale veniva ucciso uno o più soldati nemici, o veniva fatta saltare in aria una garitta o un mezzo blindato.   Albano appariva e scompariva senza lasciare traccia, nonostante la sua evidente malformazione dovesse rendergli più facile l’essere identificato dai nemici.  Eppure l’efficiente polizia tedesca non riusciva a catturarlo.  I primi mesi del 1944 registrarono una vera e propria escalation di azioni della banda del Gobbo del Quarticciolo. Centocelle e Quarticciolo, le borgate dove Albano e i suoi si nascondevano, divennero zona off-limits da parte dei nazisti che avevano timore ad entrarvi per la paura di imboscate.  Fu perfino emanato un ordine di arresto che riguardava tutti i gobbi di Roma.  E lo stesso Albano fu preso, al seguito di un sanguinoso episodio accaduto il lunedì di Pasqua del 1944, quando in una osteria del Quadraro furono uccisi a sangue freddo tre soldati tedeschi.  Herbert Kappler, al comando delle truppe di occupazione, decise che si era passato il segno e fece rastrellare Quadraro e Quarticciolo.  Albano fu preso tra gli altri, ma incredibilmente riuscì a farla franca anche stavolta, e poco dopo fu liberato.

Terminata la guerra,  Albano non rinunciò al suo ruolo di vendicatore. Con l’arrivo degli alleati, il Gobbo fu assoldato dalla questura per rintracciare i responsabili delle torture di Via Tasso. Albano andò oltre il compito che gli era stato assegnato, mettendosi personalmente alla ricerca di tutti quelli che si erano resi colpevoli, negli anni dell’occupazione di usura e borsa nera. 

Per mettere fine alle scorribande del Gobbo fu organizzata una vera e propria operazione militare che riguardò il Quarticciolo. Albano riuscì in un primo momento a fuggire,  ma poco tempo dopo, il 16 gennaio del 1945, fu rintracciato e ucciso in una casa del quartiere Prati, in Via Fornovo 12, dopo uno scontro a fuoco con i carabinieri.  Albano non aveva ancora compiuto vent’anni.

Le circostanze della sua morte non furono mai chiarite del tutto: sono state ipotizzate trame più o meno oscure e soprattutto un regolamento di conti tra diverse bande di partigiani, una delle quali sarebbe stata strumentalizzata dai servizi segreti di allora, per creare destabilizzazione e favorire il ritorno della  monarchia.

Resta il fatto che dopo la morte del Gobbo, anche il resto della banda fu presto sgominato con un’altra operazione militare concentrata nel Quarticciolo, casa per casa.

Oggi, di tutto questo nel quartiere rimane ben poca cosa. Ma la fama del Gobbo del Quarticciolo è ancora ben viva nell’immaginario popolare.

04/04/21

Pasqua insolita a Roma: Parlando di Resurrezione, la visita alle incredibili cripte dei Cappuccini in Via Veneto

 


Una visita a Roma nei giorni di Pasqua, può riservare molte sorprese

Ne è un esempio la cosiddetta Chiesa dei Cappuccini in Via Veneto – il cui nome esatto è in realtà Santa Maria dell’Immacolata - celebre soprattutto per l’antico cimitero nel sotterraneo dell’edificio: la cripta,  le cui cinque cappelle sono interamente ricoperte e decorate con parti di scheletri – omeri, femori, vertebre, teschi, scapole, clavicole -  appartenenti a frati cappuccini che vissero per secoli nell’adiacente convento: più di quattromila scheletri formano una fantasmagorica e lugubre scenografia che serviva come memento mori, come ammonimento riguardo alla caducità della vita terrena.

Oggi alle cripte si accede attraverso un modernissimo e funzionale Museo dedicato alla confraternita dei Cappuccini (adiacente alla Chiesa), molto interessante, che ricostruisce la storia dell’Ordine attraverso i suoi personaggi, le curiosità, i luoghi e  gli strumenti della predicazione, sull’esempio del Santo assisiano.

Noi eravamo quello che voi siete e quello che noi siamo voi sarete, ammonisce un cartello all’entrata, piantato direttamente nella terra delle sepolture.

Ma i cappuccini professavano la loro fede nella Resurrezione e l’ultima delle Cappelle è in questo senso, liberatoria, perché si assiste, in una tela, alla raffigurazione del miracolo della resurrezione di Lazzaro. L’intera cripta è quindi un passaggio pasquale, attraverso la morte, nella sua rappresentazione più gotica,   fino alla Resurrezione. E non è un caso che questo luogo nei secoli abbia suscitato l’interesse di illustri e diversi artisti, da Nathaniel Hawthorne e Goethe, fino al Marchese De Sade, che ne rimase fortemente impressionato.
Ma se ancora oggi la Chiesa richiama molti visitatori per questa particolarità,
molti altri sono i motivi di interesse, prima di tutto quella grande tela d’altare nella prima cappella a destra firmata dal genio di Guido Reni e raffigurante San Michele Arcangelo che schiaccia con il piede la testa di Satana. 

Questo dipinto ha una storia molto particolare, che pochi conoscono.  Il bolognese Guido Reni era quel che si dice uno spirito inquieto. Ammirato e ricercatissimo nella Roma di allora, era quello che si potrebbe definire un dandy ante-litteram. Sempre elegante e azzimato, orgoglioso e curioso, si sentiva attratto dal soprannaturale, dalla magia e dall’azzardo. 

Quando nel 1635 ricevette da Antonio Barberini, che era il fratello del Papa di allora – Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini – l’incarico di realizzare una grande pala d’altare per la Chiesa dell’Ordine al quale lo stesso Antonio apparteneva, Guido Reni pensò bene di prendersi una rivincita, a modo suo, nei confronti di uno dei personaggi più influenti della Capitale, quel Giovanni Battista Pamphilj, destinato a diventare qualche anno più tardi anch’esso Papa, succedendo ad Urbano VIII con il nome di Innocenzo X.

Barberini e Pamphilj si contendevano la scena a Roma, in quel periodo. Erano le due famiglie più facoltose, le più potenti, quelle che con più numeri ambivano alla elezione del Pontefice. 

Guido Reni era dalla parte dei Barberini. Anche per motivi personali che gli avevano reso inviso Giovanni Battista Pamphilj, brillante avvocato di curia. Non si conosce bene il motivo di questa antipatia: se si trattò di un affronto personale,  di una maldicenza o  di un danno alla reputazione del pittore.  Forse per vendicarsi di qualche torto subito, Guido Reni ritrasse nella tela della Chiesa dei Cappuccini la testa del demonio schiacciata dall’Arcangelo con i lineamenti di Giovanni Battista Pamphilj: lo stesso viso allungato, la fronte stempiata e quel pizzetto che lo rendevano un ottimo soggetto per la rappresentazione del Diavolo..

Quel che è certo è che sin da quando il quadro fu esposto, la somiglianza parve a molti innegabile.  E lo stesso Giovanni Battista, all’epoca Cardinale, ne rimase scandalizzato, chiedendo anche per vie diplomatiche che si provvedesse a nasconderlo.  Ma quella Chiesa era territorio dei Barberini e nonostante le rimostranze, furono creduti i motivi di discolpa dell’artista il quale si giustificò dicendo che si era semplicemente ispirato all’immagine del Demonio che più volte aveva segnato, nel corso dei suoi incubi notturni..

Dunque il quadro non fu mai spostato. Anche se i motivi di imbarazzo crebbero ulteriormente qualche anno più tardi quando Giovanni Battista divenne addirittura Papa. 

E qualche voce maligna, nella Roma di allora, si affrettò a constatare che “anche se in quella città si era visto di tutto, dall’epoca di Romolo e poi di Nerone, non s’era mai visto un Papa assomigliare così tanto ad un Demonio!”


Fabrizio Falconi - riproduzione riservata 2021 




03/04/21

Ufo: Entro il 1 giugno il Governo degli Stati Uniti rilascerà un rapporto declassificato, molto più dettagliato dei precedenti


Il governo degli Stati Uniti prevede di rilasciare un rapporto declassificato sugli avvistamenti Ufo. E sarà molto più dettagliato rispetto a quelli passati.

Il 19 marzo l’ex direttore dell’intelligence nazionale John Ratcliffe, ha annunciato a Maria Bartiromo – conduttrice di Fox News – che «ci sono molti più avvistamenti di quelli che sono stati resi pubblici», spiegando che avrebbe voluto che le informazioni fossero declassificate e rese pubbliche prima di lasciare l’incarico, ma che non è stato possibile in quel breve lasso di tempo.

Ratcliffe spiega anche che «alcuni di questi sono stati declassificati. E quando parliamo di avvistamenti, parliamo di oggetti che sono stati visti da piloti della Marina o dell’Air Force, o che sono stati raccolti da immagini satellitari, che francamente si impegnano in azioni difficili da spiegare. Movimenti difficili da replicare, per i quali non abbiamo la tecnologia. O viaggiano a velocità che superano la barriera del suono senza un boom sonico».

I commenti del funzionario dell’intelligence arrivano quasi un anno dopo che il Pentagono ha pubblicato tre video di «fenomeni aerei non identificati», in cui le telecamere degli aerei della US Navy mostrano oggetti che si muovono a velocità inspiegabili, lasciando confusi i piloti.



In risposta ai video del Pentagono, l’ex senatore Harry Reid (D-Nev.) che ha spinto per indagini sugli avvistamenti di Ufo, ha scritto su Twitter che i video «[graffiano, ndr] solo la superficie» di ciò che è noto al governo federale. «Sono contento che il Pentagono stia finalmente rilasciando questo filmato, ma graffia solo la superficie della ricerca e dei materiali disponibili. Gli Stati Uniti devono dare uno sguardo serio e scientifico a questo e alle potenziali implicazioni per la sicurezza nazionale. Il popolo americano merita di essere informato».

Ratcliffe continua: «Quando parliamo di avvistamenti, l’altra cosa che ti dirò è che non è solo un pilota o un satellite, o una raccolta di informazioni. Di solito abbiamo più sensori che rilevano queste cose, e quindi ancora una volta alcuni di questi sono fenomeni inspiegabili, e in realtà ce ne sono molti altri che sono stati resi pubblici».

Ratcliffe ha aggiunto che gli osservatori cercano di trovare spiegazioni scientifiche per ciò che osservano, ma a volte questo va oltre quello che è tecnologicamente possibile: «Il tempo può causare disturbi visivi. A volte ci chiedevamo se i nostri avversari disponessero o meno di tecnologie un po’ più avanti di quanto pensassimo o di cui ci rendessimo conto. Ma ci sono casi in cui non abbiamo valide spiegazioni per alcune delle cose che abbiamo visto».

Durante l’intervista Bartiromo ha detto al pubblico che il Dipartimento della Difesa rilascerà il rapporto declassificato sugli Ufo entro il 1 giugno. Il finanziamento per il rapporto è stato nascosto nel disegno di legge Covid-19 per aiuti e spese governative da 2.300 miliardi di dollari, in cui esiste una disposizione che richiede alla Task Force Uap (Unidentified Aerial Phenomena) del Pentagono, di rilasciare informazioni declassificate al Comitato di intelligence del Senato sulle loro attuali informazioni relative alle minacce aeree avanzate da Ufo o da «veicoli aerei anomali».

Fonte: Masooma Haq da Epochtimes - qui l'articolo originale


31/03/21

Arriva la biografia di Philip Roth ed è subito polemica

 


"Philip Roth" di Blake Bailey, un volume che Roth aveva immaginato in qualche forma per più di 20 anni, esce il 7 aprile. 

Sempre disposto a provocare o amplificare una discussione, l'autore di "American Pastoral", "Sabbath's Theatre" e altri romanzi aveva pensato a una biografia sin da quando la sua ex moglie, l'attrice Claire Bloom, lo aveva descritto come infedele, crudele e irrazionale nel suo libro di memorie del 1996 "Leaving a Doll's House"

Roth era determinato a far emergere la sua verità, ma voleva che qualcun altro lo facesse

Ha reclutato per primo Andrew Miller, un professore di inglese e nipote del drammaturgo Arthur Miller, ma è diventato così insoddisfatto di quello che credeva fosse l'ambito ristretto di Miller che i due hanno avuto un pesante diverbio

Così, nel 2012, Roth ha puntato su Bailey, concedendogli pieno accesso ai suoi documenti, ai suoi amici e, l'ostacolo più alto, all'autore stesso. Bailey inoltre avrebbe avuto l'ultima parola.

"Philip ha capito qual era l'accordo", ha detto Bailey all'Associated Press, "e per lo più lo ha rispettato".

Nei sei anni successivi, fino alla morte di Roth nel 2018, lui e Bailey sono stati collaboratori, amici e talvolta combattenti. 

Come scrive Bailey nei ringraziamenti del libro, il loro tempo insieme è stato anche "complicato, ma raramente infelice e mai noioso". 

A un certo momento, Roth poteva scherzare o sfogliare allegramente un album di foto di vecchie amiche - ce n'erano molte - e il momento dopo poteva ribollire per i presunti crimini di Bloom. 

L'autore britannico Edmund Gosse una volta definì una biografia come "il ritratto fedele di un'anima nelle sue avventure attraverso la vita"

Il libro di Bailey è più di 800 pagine e avrebbe potuto durare centinaia di più.

Roth ha completato più di 40 libri e ha vissuto molte vite in 85 anni

Bailey assume i ruoli di critico, confessore, psicologo e persino consulente matrimoniale. 

Traccia la vita di Roth dalla sua infanzia stabile ma inibitoria della classe media a Newark, nel New Jersey, agli anni adulti di disciplina letteraria e libertà personali, e ai suoi ultimi anni di pensionamento autoimposto. 

Il "vero" Philip Roth è stato una ricerca per innumerevoli critici - e lo stesso autore - sin dal suo bestseller "Portnoy's Complaint" del 1969 ha lasciato molti lettori a credere che Roth e il suo appassionato narratore fossero la stessa cosa. 

Così era e non era. 

"Mi aspettavo battute insipide, oscenità e così via", dice Bailey del tempo passato con Roth. "Ciò che mi ha sorpreso è stata l'essenziale benevolenza dell'uomo.

Poche biografie letterarie sono state così attese. Il libro di Bailey è un punto d'incontro tra uno degli autori più tempestosi e dibattuti del mondo e uno dei suoi biografi più celebri, le cui opere su John Cheever e Richard Yates sono state presentate come modelli di prosa elegante, critica incisiva, ricerca approfondita e un disponibilità ad affrontare il peggio nei suoi sudditi senza condannarli. 

"Pensavo che Blake avesse fatto un lavoro brillante, incredibilmente completo, intelligente e amorevole con mio padre", ha detto in una recente e-mail all'Associated Press Susan Cheever, la figlia di John Cheever. "La biografia è una strada difficile, tutti gli adattamenti del contesto e del personaggio, ma ho pensato che avesse bilanciato tutto perfettamente e penso che sia un segno del genio di Philip che abbia scelto anche Blake."

La maggior parte delle prime recensioni, da Kirkus a The Atlantic, sono state positive. Claire Bowden, scrivendo su The Sunday Times, ha elogiato Bailey per aver documentato la lotta di Roth "per essere visto come un romanziere serio e non un demone del sesso, che combatte le sue ex mogli, i critici e il suo corpo fallimentare". 

David Remnick del New Yorker, che ha conosciuto Roth, ha elogiato Bailey come "industrioso, rigoroso e senza scrupoli". 

Altri erano più critici. 

Parul Seghal del New York Times ha trovato Bailey più interessato al pettegolezzo che alla letteratura e ha definito il libro "un'apologia tentacolare per il modo in cui Roth ha trattato le donne, dentro e fuori dalla pagina". 

Anche Laura Marsh di The New Republic ha trovato Bailey troppo indulgente nei confronti dei vizi di Roth, dai suoi rapporti con le donne al suo risentimento contro i critici, e ha concluso che il risultato "non è una vittoria finale della discussione, come Roth avrebbe potuto sperare". 

Bailey dice che il suo scopo era quello di seguire il motto di Roth come autore - di "far entrare il repellente" e riconoscerlo come un "essere umano complicato e disordinato". 

È probabile che il biografo saluti "Pastorale americana" quanto biasimare opere minori come "Il grande romanzo americano" e "L'umiltà". 

Nel libro di memorie di Roth "The Facts", il suo alter ego immaginario Nathan Zuckerman lo ha rimproverato definendolo "il meno completamente interpretato di tutti i tuoi protagonisti". 

Bailey non è mai stato meno che affascinato, anche quando è atterrito. Roth "non aveva un solo osso monogamo nel suo corpo", disse, poteva serbare rancore come se fossero cimeli di famiglia ed era spesso fatalmente fuorviante nel suo giudizio sulle persone.

Ma c'era un lato di Philip che era del tutto ammirevole. Aveva una vena gigante di pietà filiale verso (Saul) Bellow e (Alfred) Kazin e vari scrittori che ammirava", ha aggiunto Bailey. "Se un amico di Philip fosse stato in difficoltà, lui si sarebbe messo al telefono e avrebbe iniziato a organizzare il supporto, assicurandosi che il suo amico potesse pagare le spese mediche".

"Era un uomo adorabile in molti modi." 

I bambini raramente crescono sognando di diventare un biografo letterario, e Bailey, nativo di Oklahoma City e laureato alla Tulane University, sperava per la prima volta di scrivere narrativa.

Ha completato una manciata di romanzi, tra cui uno intitolato "Bourbon In the Bathtub", ma alla fine si è reso conto che era più a suo agio nello scrivere saggistica e nel lasciarsi fuori dalla storia. Le sue ispirazioni includono il biografo britannico Lytton Strachey, che secondo Bailey considera l'umanità "ridicola, ma anche commovente". 

Le biografie di soggetti viventi _ almeno viventi all'inizio del progetto _ hanno una storia lunga e travagliata. 

Possono andare dalle valutazioni non autorizzate di Kitty Kelly di Frank Sinatra e Nancy Reagan a innumerevoli agiografie in cui il soggetto ha l'ultima parola sul manoscritto. 

Bailey ha contattato Roth su suggerimento di James Atlas, il cui libro su Bellow è spesso citato come un avvertimento che i biografi potrebbero arrivare a non amare i loro soggetti. 

 Alla domanda se la morte di Roth lo facesse sentire più libero di scrivere a suo piacimento, Bailey ha risposto che Roth "sapeva che il peggio (su di lui) stava arrivando" nel libro, citando le feroci molestie di Roth nei confronti di un amico della figlia di Bloom e la sua relazione extraconiugale con una donna identificato come "Inga"

Bailey ha ricordato un incontro con Roth pochi mesi prima della sua morte, nell'appartamento dell'autore a Manhattan. Roth era esausto, riusciva a malapena a stare in piedi, ed era arrabbiato. 

"Continuavo a fargli domande a cui non voleva rispondere." Non è nel mio interesse rispondere a queste domande, quindi devi cambiare argomento "," Bailey ricorda di aver detto Roth. "E nel bel mezzo di questo, ha detto, 'Sai, questo è il meglio che ho sentito da settimane, tu (imprecazione)'! E scoppiò a ridere."

30/03/21

Il pozzo segreto e il "Mikwe" di Via dell'Atleta a Trastevere

 


Il pozzo segreto e il Mikwe di Via dell’Atleta.


Nel cuore di Trastevere  fu ritrovata ai primi del secolo, durante scavi occasionali, una delle più pregevoli statue dell’antichità. Il cosiddetto Apoxyómenos, l’Atleta che si deterge il sudore, fu infatti rinvenuto nel piccolo Vicolo delle palme, che proprio a causa di quel ritrovamento e a partire da allora prese poi il nome di Vicolo dell'atleta. Unitamente alla statua furono ritrovate anche le statue del Toro frammentario e il Cavallo di bronzo.

L'Atleta che si deterge il sudore è la più famosa copia romana (in marmo pentelico proveniente dall’Attica e attribuibile all'Età Claudia) di un'opera di Lisippo e ritrae un atleta che si pulisce con l'aiuto dello strigile, il raschietto in bronzo che in epoca romana serviva a cospargersi di olio o a detergere la pelle.

Questa magnifica scultura abbelliva un tempo le Terme di Agrippa in Roma, ma non è l’unico segreto custodito da questa minuscola via di Trastevere.

A Via dell’Atleta, infatti – nei sotterranei di quello che è oggi un frequentato ristorante -   si trovano i resti  di una delle più antiche sinagoghe della capitale, forse addirittura la più antica in assoluto, eccezion fatta per quella di Ostia Antica, come è confermato dalla iscrizione in ebraico rinvenuta in una loggetta di questo edificio medievale. 

Nel sottosuolo del locale si trovano le strutture ancora perfettamente integre di un Mikwe, il bagno rituale, la vasca purificatrice, atto fondante di ogni comunità ebraica, confermato anche dalla presenza dell’acqua. Al di sotto dell’edificio infatti scorre un fiume sotterraneo e un antico e profondo pozzo segreto, protetto da una robusta grata in ferro battuto, mostra l’acqua, la stessa acqua che alimentava molti secoli fa – almeno dall’epoca medievale - il Mikwe.

Come si sa, a Roma gli ebrei vivono da oltre venti secoli (la Comunità ebraica romana è la più antica d’Europa), e la prima zona nella quale si insediarono fu proprio il Trans Tiberim, il futuro Trastevere, zona di porto e di commerci.  

Il Ponte Fabricio, che collega Trastevere al quartiere Regola, dall’altra parte del fiume, era chiamato Pons Judaeorum, il ponte degli ebrei.

E la zona con il Mikwe di Via dell’Atleta era frequentata da filosofi, cabalisti, poeti, oltre che da commercianti, prima della istituzione del Ghetto, nell’XI secolo d.C., che fu realizzato invece proprio nel quartiere della Regola, sull’altra sponda del fiume, dove oggi sorge la grande Sinagoga o  Tempio Maggiore che ospita anche il prezioso archivio storico della Comunità.


Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013-2017 

29/03/21

Pasqua 2021: giovedì Riccardo Muti e Massimo Cacciari in dialogo su "Le ultime parole di Cristo"




Riccardo Muti e Massimo Cacciari dialogheranno su 'Le ultime parole di Cristo' giovedi' 1 aprile, alle 18.30, online sui canali di Cubo-Museo d'impresa del Gruppo Unipol e della Societa' editrice il Mulino. 

In un incontro tra musica e filosofia, religione e arte, a offrire la trama del dialogo sono due opere: la 'Crocifissione' di Masaccio e la partitura di Franz Joseph Haydn ispirata alle ultime parole pronunciate da Cristo sulla croce e composta per la cerimonia del Venerdi' Santo

Una conversazione che riprende i temi affrontati da Muti e Cacciari nel volume scritto a due mani 'Le sette parole di Cristo', pubblicato dal Mulino. 

Ospite d'eccezione Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte (Napoli), dove è conservata l'opera del Masaccio, che arricchirà il racconto con riprese dalle sale del Museo. 

Interverrà Vittorio Verdone, direttore Corporate Communications and Media Relations del Gruppo Unipol. 

Le profonde riflessioni culturali e filosofiche partono dalla suggestiva opera della Crocifissione di Masaccio per giungere all'idea centrale che il pensiero non scaturisce soltanto da immagini che poi si traducono in parole, ma anche dai suoni che possono divenire musica. 


28/03/21

Poesia della Domenica - "Ogni altra cosa infinita del mare" di Askol Neves

 




Ogni altra cosa infinita del mare



Nella notte avanzava un relitto
ancora con le luci accese e ancora con un nome appeso al rostro distaccato alla prua.

 

Nella lunga estate delle lune nuove,
una, smerigliata apparve a fare enormi i giochi
di lui con lei, e avevano perso il tempo,
era scivolato senza bisogno di parole e si amarono.

 

L'ancora del relitto finì tra la spuma e di notte
l'iridescente pesce volante venne a saltarci sopra
e ancora la sabbia accolse l'onda e il relitto e ogni altra cosa infinita del mare.

 

 Askol Neves 

27/03/21

Wim Wenders - "Non riuscire ad aiutare qualcuno che ami è la cosa più triste che possa accadere nella vita"



Wim Wenders - "Non riuscire ad aiutare qualcuno che ami è la cosa più triste che possa accadere nella vita" 


di Matteo Persivale


fonte: Corriere della Sera, Venerdì 4 dicembre 2015


Il regista de "Il cielo sopra Berlino" e la storia d'amore con Solveig, la trapezista del film. "Quando cadde dissi a me stesso: basta, le riprese finiscono qui. Ma lei non aveva paura di niente e mi stupì."

"Quasi tutti i miei film, a parte due o tre forse - che non sono poi così belli - sono ambientati in luogo preciso perché le storie che raccontano potevano succedere soltanto là. Ci sono registi che partono dallo stile, altri dai personaggi: io parto sempre dal posto in cui succederà l'azione."

Il cinema ha i suoi poeti e i suoi filosofi: in Wim Wenders ha trovato il suo geografo. Eppure il film più famoso del cineasta tedesco, "Il cielo sopra Berlino" (1987), racconta in bianco e nero le vite degli angeli della città che vegliano sulla città divisa dal Muro che sta per cadere, e anche se non poteva non essere ambientato a Berlino si regge non sulla città ma su uno sguardo, e su un sorriso. Il cuore di quel film batte grazie a Solveig Dommartin. trapezista di un circo piccolo e male in arnese. Un angelo, Bruno Ganz, si innamora, e per lei decide di diventare umano.

Dommartin è stata una delle donne più importanti della vita del regista - che ha avuto cinque mogli - anche se non sono mai stati sposati durante la loro lunga storia d'amore tra gli anni '80 e i primi anni '90. Lei era al suo fianco durante le riprese di "Tokyo-Ga" - di quel film curò il montaggio - e di tre film è stata musa, protagonista e di fatto coautrice: "Il cielo sopra Berlino", "Così lontano, così vicino" e "Fino alla fine del mondo".

La trapezista dal sorriso così dolce da far perdere le ali agli angeli non c'è più, scomparsa nel 2007 per un male improvviso e Wenders - gentilissimo ma altrettanto riservato - non ha mai parlato della sua morte. Ha fatto una eccezione, a sorpresa, in questa intervista con un monologo emozionante, pronunciato a fatica, con la voce molto basso e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete della sua grande stanza d'albergo milanese. Parlando piano. Con tristezza - e tenerezza - infinite. 

La storia mai raccontata

"Solveig non aveva mai paura di niente. E' la parola che la descrive meglio di tutte: era senza paura. Una volta avevamo appena cominciato le riprese di "Il cielo sopra Berlino", cadde da quel maledetto trapezio, cadde per terra in punto dove non c'erano protezioni, da sei metri di altezza. A volte vedi succedere qualcosa - un incidente d'auto per esempio - e le immagini rallentano tanto quanto i tuoi pensieri diventano veloci. Non aveva ancora toccato terra che avevo già pensato: basta è la fine del film, anche se per caso non è rimasta ferita, il film finisce qui. Niente "Cielo sopra Berlino".  Sul set restiamo tutti paralizzati: lei è ancora a terra. Corriamo tutti da lei. Ecco un medico. Qualcuno chiama un'ambulanza. Ma Solveig si alza, piano, si appoggia al braccio del suo istruttore, un ungherese, un acrobata del circo molto esperto che in tre mesi gli aveva insegnato tutto, torna sulla scaletta, sale, riprende la scena daccapo. "Devi tornare subito su, altrimenti la paura ti paralizza", mi dice l'ungherese. E lei è già lassù. Devo dare di nuovo il ciak. Ecco: era senza paura.

Non ha avuto paura neanche alla fine; eravamo rimasti sempre in contatto, anche dopo la fine della nostra storia. Sono stato con lei fino alla fine, quando nessuno poteva più aiutarla. Sono già passati..  dieci anni? (otto ndr.) . E' una delle cose più tristi che ti succedono nella vita, non poter aiutare qualcuno che ami. Una cosa terribile succede davanti ai tuoi occhi e non puoi fare niente.

Fu spaventoso vederla deteriorarsi così velocemente, lei così piena di vita. Per lei ogni giorno era una festa. Solo lei poteva convincere il pubblico che un angelo avrebbe rinunciato a volare per darle una carezza. E alla fine vedere lei, sempre piena di energia, di sorrisi, perdere tutto... 

Abbiamo fatto tre film insieme: alla fine la stampa le fece molto male, a Cannes ricevette per "Fino alla fine del mondo" delle pessime recensioni, fu trattata selvaggiamente dai critici francesi. Portai il film a Cannes in una versione sbagliata, almeno adesso qualcuno può vederlo in dvd nella versione in cui era stato pensato da me e Solveig, può vedere quanto era brava, quanto era speciale. Ma nella versione di Cannes, Solveig era troppo esposta, c'era troppo peso sulle sue spalle. E ha sofferto per quelle recensioni che le rovinarono la carriera. Non sono riuscito a proteggerla allora, e non sono riuscito a proteggerla quando si ammalò. E' un pensiero che non mi abbandonerà mai."

Il "Cielo sopra Berlino" è dedicato "a tre angeli del cinema, Yasuijr (Ozo ndr), Francois (Truffaut ndr) e Andrej (Tarkovskij ndr), tre eroi di Wenders. Non c'è bisogno di aggiungere un'altra dedica, a Solveig, non c'è bisogno di nostalgia: "Semplicemente quel film non esisterebbe nemmeno, senza di lei". 

Solveig Dommartin in "Il Cielo sopra Berlino" di Wim Wenders, 1987

26/03/21

Anniversario di Dante: Come morì esattamente l'Alighieri e cosa successe ai suoi resti mortali ?



La morte di Dante di Eugenio Moretti Larese


Giunto a Ravenna nel 1318 quando aveva 53 anni, gli ultimi 3 anni di vita di Dante Alighieri trascorsero relativamente tranquilli. Il poeta creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini. 

Per conto del signore di Ravenna Guido Novello da Polenta, svolse occasionali ambascerie politiche, come quella che lo condusse a Venezia. 

All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennate e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. 

L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio. 

Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. 

I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli. 

La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario. 

Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta. 

Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. 

Fu il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga secoli dopo, a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile. 

I resti mortali di Dante furono oggetto di diatribe tra i ravennati e i fiorentini già dopo qualche decennio la sua morte, quando l'autore della Commedia fu "riscoperto" dai suoi concittadini grazie alla propaganda operata da Boccaccio.  Se i fiorentini rivendicavano le spoglie in quanto concittadini dello scomparso (già nel 1429 il Comune richiese ai Da Polenta la restituzione dei resti), i ravennati volevano che rimanessero nel luogo dove il poeta morì, ritenendo che i fiorentini non si meritassero i resti di un uomo che avevano dispregiato in vita. 

Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze (rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII), i frati francescani tolsero le ossa dal sepolcro realizzato da Pietro Lombardi, nascondendole in un luogo segreto e rendendo poi, di fatto, il monumento del Morigia un cenotafio. 

Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove si trovavano i resti, decisero di nasconderle in una porta murata dell'attiguo oratorio del quadrarco di Braccioforte.

Le spoglie rimasero in quel luogo fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in occasione del VI centenario della nascita del poeta, scoprì casualmente sotto una porta murata una piccola cassetta di legno, recante delle iscrizioni in latino a firma di un certo frate Antonio Santi (1677) le quali riportavano che nella scatola erano contenute le ossa di Dante. 

Effettivamente, all'interno della cassetta fu ritrovato uno scheletro pressoché integro; si provvide allora a riaprire l'urna nel tempietto del Morigia, che fu trovata vuota, fatte salve tre falangi, che risultarono combaciare con i resti rinvenuti sotto la porta murata, certificandone l'effettiva autenticità. 

La salma fu ricomposta, esposta per qualche mese in un'urna di cristallo e quindi ritumulata all'interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da un cofano di piombo. 

Nel sepolcro di Dante, sotto un piccolo altare si trova la celebre epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio per volere di Guido Novello, ma incisi soltanto nel 1357 che in italiano possono essere tradotti così: 

I diritti della monarchia, gli dei superni e la palude del Flegetonte visitando cantai finché volle il destino. Poiché però l'anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sta racchiuso Dante, esule dalla patria terra, che generò Firenze, madre di poco amore.


25/03/21

Libro del Giorno: "Le quattro ragazze Wieselberger" di Fausta Cialente

 



Vincitore del Premio Strega nel 1976, questo romanzo, Le quattro ragazze Weiselberger, tornò in libreria tre anni fa meritatamente ristampato dall'editore La Tartaruga con una lunga prefazione di Melania G. Mazzucco.

E' così l'occasione di recuperare uno dei migliori romanzi del Novecento italiano, frutto del lavoro di una scrittrice italiana oggi dimenticata, tra le più originali, Fausta Cialente, nata a Cagliari nel 1898  e morta in Inghilterra a Pangbourne, Berkshire, nel 1994).

Sorella dell’attore Renato Cialente, Fausta firmò per parecchio tempo con il cognome da sposata, Terni Cialente. Nel corso della sua vita densa e avventurosa, si stabilì nel 1921 ad Alessandria d’Egitto, trasferendosi poi al Cairo nel 1940, dove svolse attività radiofonica e giornalistica in opposizione al regime fascista; tornò in Italia dopo la Liberazione nel 1947. Esordì nel 1930 con un romanzo, Natalia; cui seguirono: Pamela o la bella estate (1935); Cortile a Cleopatra (1936), Ballata levantina (1961), Un inverno freddissimo (1966).  Nell'ultimo periodo della sua vita si trasferì definitivamente in Inghilterra dove si occupò principalmente di grandi traduzioni.  E dove morì all'età di 96 anni. 

Il suo capolavoro, Le quattro ragazze Wieselberger racconta la suggestiva Trieste di fine Ottocento, vivificata dall’aria mitteleuropea e dalla bora dell’irredentismo, in cui si muovono, aggraziate e come consapevoli di un loro tragico destino, le quattro sorelle appartenenti a una “giudiziosa, benestante famiglia” della buona società: la madre è una tranquilla signora, che si divide tra la casa di città, odorosa di cera e pulito, e la grande casa di campagna, con giardino, orto e vigna; il padre è uno stimato musicista, che dirige con autorità affettuosa sia la famiglia sia l’orchestra dei “dilettanti filarmonici”, che fa le prove in casa sua. A una delle quattro ragazze può capitare di danzare, una sera, con il signor Ettore Schmitz, industriale in vernici sottomarine, non diventato il grande Italo Svevo. Narrando la loro storia, che è poi quella della sua ramificatissima e sempre un po’ imprevedibile famiglia, Fausta Cialente racconta mezzo secolo di storia italiana, in una prospettiva rivelatrice, gettando una luce nuova e inquietante su certi fautori “liberalmassoni di destra” dell’irredentismo triestino, che non solo liquidavano in termini razzisti la questione slovena, ma intendevano applicare analoghe discriminazioni nei confronti dei lavoratori, escludendoli dal governo della città, quando fosse “divenuta italiana”.


Fausta Cialente

23/03/21

Il genio e la sregolatezza di Goliarda Sapienza

Goliarda Sapienza ai tempi del suo legame con Citto Maselli

Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. 

Questo è l’incipit del romanzo L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza, nata a Catania nel 1924 da Giuseppe Sapienza e Maria Giudice (la prima donna dirigente della Camera del lavoro di Torino). E forse proprio queste frasi ci possono fare capire il tipo di persona che era Goliarda: vera, sincera e libera. Goliarda cresce in un clima di assoluta libertà. Non ha vincoli sociali. Addirittura non frequenta regolarmente la scuola perché il padre non voleva che la figlia fosse soggetta ad imposizioni fasciste. A sedici anni si iscrive all’accademia nazionale d’arte drammatica di Roma e per un periodo intraprende la carriera teatrale, distinguendosi nei ruoli delle protagoniste pirandelliane. Lavora anche per il cinema, inizialmente spinta da Alessandro Blasetti, poi si limita a piccole apparizioni come in Senso di Luchino Visconti. Sotto la regia di Blasetti nel 1946 recita in Un giorno nella vita e nel 1948 in Fabiola. Nel 1950 recita in Persiane chiuse di Comencini, nel 1951 appare in Altri tempi, nuovamente di Blasetti, mentre nel 1955 ha una parte in Ulisse e in Gli Sbandati di Francesco Maselli. Nel 1970 ha una parte in Lettera aperta ad un giornale della sera sempre di Francesco Maselli e nel 1983 recita sotto la regia di Marguerite Duras in Dialogo di Roma.

Sentimentalmente si lega al regista Citto Maselli, ma qualche anno dopo sposa il copywriter Angelo Maria Pellegrino. Poi lascia il palcoscenico e il cinema per dedicarsi alla carriera di scrittrice. Ma la sua vita è complicata. Verso la fine degli anni Sessanta finisce in carcere per un furto di oggetti in casa di amiche. E sempre dal carcere, ma anche dopo, continua a scrivere pubblicando poche opere, tranne alcune come “Le certezze del dubbio”. Ma il suo capolavoro è “L’arte della gioia”, una sorta di romanzo autobiografico in cui dalla sua penna Goliarda fece un ritratto non solo di se stessa, ma anche della società del tempo e riuscì a trattare argomenti scomodi per il periodo come la libertà sessuale, la politica, la famiglia. Per questo il libro non fu mai pubblicato e va alle stampe postumo nel 2000, riscuotendo prima indifferenza e a distanza di anni enorme successo di critica. Fra le altre sue opere citiamo “Lettera aperta”, “Il filo di mezzogiorno”, “Università di Rebibbia”, “Le certezze del dubbio” e “Destino coatto”.

Ed è proprio a causa del suo romanzo “L’arte della gioia” che Goliarda, nota negli ambienti artistici e culturali romani, attrice, scrittrice, compagna per 17 anni di Francesco Maselli, si riduce in povertà. Nella casa romana di via Denza pende lo sfratto e le viene tagliata anche la luce. E lei ruba a casa della amiche. Un furto per disperazione, lo aveva definito lo scrittore Angelo Pellegrino che ha vissuto con lei per 20 anni e che ha curato la sua opera. Nella prefazione al libro racconta che Goliarda scriveva sempre a mano per sentire l’emozione nel battito del polso, servendosi di una semplice Bic nero-china a punta sottile. “Scriveva – si legge nella prefazione – come leggeva, da lettrice, scriveva per i lettori più puri e lontani, con abbandono lucido e insieme passionale, affettuoso e sensuoso, attenta ai battiti cardiaci di un’opera, più che ai concetti e alle forme”. Goliarda scriveva in solitudine, guardando il mare, di mattina, su fogli extrastrong piegati in due perché il formato ridotto le consentiva una sua idea di misura, dove vergava le parole con una grafia abbastanza minuta, facendo ciascun rigo via via più rientrato sino a ridurlo a una o due parole, allora ricominciava daccapo con un rigo intero e veniva fuori un curioso disegno, una specie di elettrocardiogramma di parole, una scrittura molto cardiaca. E’ così che è definita da Pellegrino nella prefazione de “L’arte della gioia” la scrittura della sua compagna di vita.

Goliarda Sapienza non vedrà mai l’uscita di quel romanzo a cui aveva dedicato tutta se stessa. Pellegrino riesce a farlo pubblicare da Stampa Alternativa, nell’indifferenza totale di tutto il mondo culturale. Per uscire dall’ombra nel suo Paese d’origine, il romanzo deve prima sbarcare in Francia dove è stato tradotto e da dove è partita la popolarità di questa siciliana orgogliosa, tenace, libera e senza pregiudizi. Per mesi il suo romanzo ha dominato le classifiche dei libri più venduti e ha appassionato i critici che lo hanno paragonato a “Il gattopardo” o a “Horcynus Orca”. Nelle edicole c’è anche il romanzetto “L’università di Rebibbia”, nato dalla carcerazione seguita al furto di gioielli nella casa dell’amica romana. “L’ho fatto per rabbia – aveva raccontato all’epoca – per provocazione. Lei era molto ricca, io diventavo sempre più povera. Più diventavo povera più le davo fastidio. Magari mi invitava nei ristoranti più cari, ma mi rifiutava le centomila lire che mi servivano per il mio libro. Le ho rubato i gioielli anche per metterla alla prova, ma ero sicura che mi avrebbe denunciato”. Da questo diario-romanzo emerge la figura di una signora che parla in modo forbito, guardata con sospetto dalle compagne di cella per i suoi vestiti, ma che presto capisce che lì non ha bisogno di fingere, se è borghese, non può nasconderlo. Nella dura e fredda realtà del carcere, Goliarda scopre anche cosa vuol dire solidarietà, calore, amicizia. Tutta la sua esistenza è fuori dall’ordinario, anche per i due tentativi di suicidio, l’elettroshock subito, la cura psicanalitica.

Negli ultimi della sua vita Goliarda Sapienza insegna recitazione presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Goliarda è riuscita a dare voce all’emotività senza quel forzato distacco che caratterizza molti degli autori contemporanei. Muore a Gaeta e qui viene seppellita nel 1996, mentre fiori rossi e terra bruna cadono sul suo feretro. Tutti al suo funerale hanno pensato che presto si sarebbe ricominciato a parlare di lei. E così è stato. “Sai come sono fatta – aveva detto ad una conoscente tre giorni prima di morire – è possibile che scompaia per un po’ per poi tornare all’improvviso”. E all’improvviso è scoppiato il caso editoriale del libro a cui ha dedicato parte della sua vita e che non ha mai visto pubblicato.

Chiudiamo questo omaggio con i suoi versi:

Non sapevo che il buio 
non è nero 
Che il giorno non è bianco
Che la luce 
acceca 
E il fermarsi 
è correre 
Ancora 
di più

22/03/21

Anniversario di Dante: l'Alighieri e il primo Giubileo a Roma dell'anno 1300


Bonifacio VIII benedice la folla dal Palazzo del Laterano dopo aver inaugurato il Giubileo del 1300 in un acquerello del XVI secolo


Nel settecentesimo anno della morte di Dante (1321 -2021) non si finisce di meravigliarsi della ricchezza infinita della Divina Commedia, definita da Jorge Luis Borges, il più bel libro scritto da un essere umano

Come è noto, Dante nella Commedia descrive anche il primo Giubileo in assoluto tenuto dalla Chiesa di Roma. 

Quando si svolse ? 

Il primo Giubileo della Chiesa fu quello del 1300, proclamato da Bonifacio VIII per il perdono dei peccati concesso a tutti. 

Bonifacio riprendendo il Rito della Perdonanza che era stato istituito da Celestino V, si era ispirato a un’antica tradizione ebraica. 

Con la bolla promulgata si concedeva l’indulgenza a tutti coloro che avessero fatto visita trenta volte, se erano romani, e quindici se erano stranieri, alle basiliche di San Pietro e di San Paolo, per tutta la durata dell’anno 1300. 

Secondo la bolla questo Anno santo si sarebbe dovuto ripetere ogni cento anni

Il Giubileo ebbe effetti immediati: lo stesso Dante riferisce nel diciottesimo canto dell’Inferno, nella Commedia, che l’afflusso dei pellegrini a Roma fu enorme, al punto che divenne necessario regolamentare il senso di marcia dei pedoni sul Ponte Sant’Angelo. 

L’intervallo di tempo fu accorciato, nel 1350 da papa Clemente vi che lo portò a 50 anni. 

Urbano VI lo ridusse ulteriormente a 33 anni (prendendo a spunto l’età di Gesù), fino a Paolo II che nel Quattrocento lo stabilì definitivamente a 25 anni, esclusa la possibilità di proclamare Giubilei straordinari fuori dalle scadenze stabilite.

19/03/21

19 Marzo, Festa di San Giuseppe: riapre finalmente a Roma la meravigliosa San Giuseppe dei Falegnami al Foro Romano

 



Oggi è una giornata speciale per la Festa di San Giuseppe e per quella del papà.

Per l'occasione infatti riapre la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, nel cuore dei Fori Imperiali. Il cardinale vicario Angelo De Donatis vi celebrerà la messa alle ore 12.

Una occasione da non perdere per rivedere dopo mesi di chiusura il gioiello d'arte e di storia (che fra l'altro custodisce il Carcere Mamertino) oramai giunto quasi alla conclusione dei lavori di restauro del soffitto (in legno dorato) dopo il tragico crollo avvenuto nell'agosto del 2018.

Fonte Il messaggero



18/03/21

Forse dopo 2000 anni svelati i misteri della "Macchina di Anticitera", il primo computer al mondo

 



Dopo oltre duemila anni potrebbe essere prossimo alla soluzione il mistero del primo 'computer' analogico della storia: si tratta della macchina di Anticitera, il sofisticato calcolatore astronomico in bronzo costruito dagli antichi Greci per predire le eclissi, le fasi lunari, la posizione del Sole e dei cinque pianeti allora noti.

Il suo complesso meccanismo a ruote dentate e' stato ricostruito dai ricercatori dell'University College di Londra mettendo insieme le piu' recenti indagini scientifiche condotte sui suoi frammenti e le antiche iscrizioni incise su di essi. 

La replica 'moderna' della macchina, descritta sulla rivista Scientific Reports, verra' presto riprodotta con tecniche antiche per validarne la fattibilita'. 

La ricostruzione proposta rappresenta un notevole passo avanti nell'annosa diatriba sul funzionamento del meccanismo di Anticitera, un vero e proprio rompicapo che interroga gli studiosi fin dal giorno del suo ritrovamento, avvenuto nel 1901 in un relitto di epoca romana affondato vicino all'isola greca di Anticitera, a nord-ovest di Creta

Solo un terzo dell'antico calcolatore e' stato recuperato, per di piu' frammentato in 82 pezzi. 

I reperti, analizzati ai raggi X nel 2005, hanno rivelato migliaia di caratteri incisi, una sorta di 'manuale di istruzioni' sul funzionamento del cosmo meccanico a manovella

I ricercatori britannici guidati dal matematico Tony Freeth sono ripartiti proprio da queste descrizioni e, grazie a un antico modello matematico descritto dal filosofo greco Parmenide, sono riusciti a spiegare come la macchina riproduceva il movimento dei pianeti su cerchi concentrici, minimizzando il numero di ingranaggi in modo da compattare il meccanismo in uno spazio di appena 25 millimetri

Nonostante questo progresso, resta ancora fitto il mistero sul reale utilizzo che veniva fatto della macchina di Anticitera e sul motivo per cui i Greci, capaci di un simile esempio di ingegneria meccanica, non abbiano inventato altre tecnologie avanzate come gli orologi. 

17/03/21

Libro del Giorno: "Il silenzio" di Erling Kagge

 


Mi sembra che la nostra epoca sia, più di ogni altra cosa, l'epoca della interruzione. Tutte le nostre vite sono diventate frammentate, continuamente interrotte. Mentre siamo impegnati a fare qualcosa, siamo costantemente distratti e interrotti dalle notifiche dello smartphone, di ogni tipo, dalle telefonate, dai messaggi, dalle mail della posta elettronica, dall'aggiornamento del pc, dalle chat in continua proliferazione.  

Parlare di silenzio nella nostra epoca è dunque quanto mai opportuno e in un certo senso coraggioso.

In media, secondo uno studio, perdiamo la concentrazione ogni otto secondi: la distrazione è ormai uno stile di vita, l’intrattenimento perpetuo un’abitudine

E quando incontriamo il silenzio, lo viviamo come un’anomalia; invece di apprezzarlo, ci sentiamo a disagio. 

Erling Kagge, al contrario, del silenzio ha fatto una scelta

Grazie alla sua passione di viaggiatore estremo, nei mesi trascorsi nell’Artide, al Polo Sud o in cima all’Everest, ha imparato a fare propri gli spazi e i ritmi della natura, e a immergersi in un silenzio interiore, oltre che esteriore: un immenso tesoro e una fonte di rigenerazione che tutti possediamo a cui è però difficile attingere, immersi come siamo dal frastuono della vita quotidiana

Ma che cos’è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è piú importante che mai? 

Queste sono le tre domande che Kagge si pone, e trentatre sono le possibili risposte che offre. 

Trentatre riflessioni scaturite da esperienze, incontri e letture diverse, e tutte animate da un’unica certezza: che il silenzio sia la chiave per comprendere piú a fondo la vita.

Cercare il silenzio. Non per voltare le spalle al mondo, ma per osservarlo e capirlo. Perché il silenzio non è un vuoto inquietante ma l'ascolto dei suoni interiori che abbiamo sopito.


Il silenzio. Uno spazio dell'anima