19/05/20

Libro del Giorno: "Foreste" di Robert Pogue Harrison


Un saggio meraviglioso, pubblicato da Robert P. Harrison nel 1992 e divenuto in breve un classico, dove ecologia, letteratura, filosofia, antropologia e destino umano si fondono mirabilmente.
Riporto qui sotto la recensione/intervista di Enrico Regazzoni per Repubblica: 


"L' ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l' accademie". E' Vico, con la sua Scienza nuova, a far da epigrafe al libro dello studioso americano Robert Pogue Harrison: quel Foreste che è appena apparso da Garzanti (pagg. 273) e che, con una tempestività perfino imbarazzante, fa coincidere il lavoro silenzioso della riflessione storica con gli echi assordanti della cronaca. 

Mentre a Rio de Janeiro i politici promettono pietà per il patrimonio forestale, Foreste ci ricorda che quel patrimonio è anche e soprattutto culturale, che alle radici dei boschi è saldamente ancorato tutto il pensiero dell' Occidente, in un rapporto complesso, fitto di negazioni e riconoscimenti, ma certo così profondo da non poter essere impunemente violato. 

Nato a Smirne trentott' anni fa, da padre americano e madre italiana (che ha fra l' altro una sede a Firenze), Harrison insegna letteratura italiana alla Stanford University e ha una vaga somiglianza fisica con Sam Shepard. 

Fa una certa impressione dissertare con lui delle zone d' ombra che le foreste hanno creato e protetto nel nostro immaginario: non foss' altro perché i docenti anglosassoni ci hanno abituato a una saggistica più attenta alle risposte che alle domande.

Mentre lui - mal celando trascorsi heideggeriani - si è aperto fra i rovi un percorso tutto suo, in un viaggio imperfetto, appassionato, solitario. 

Un viaggio iniziato per caso, sette anni fa, quando le foreste in rovina erano ben lontane dai nostri incubi e dalle prime pagine dei giornali. 

"Tutto è accaduto in modo involontario", spiega con modestia. "Volevo approfondire il ruolo del bosco nella letteratura medievale, e lentamente ho scoperto questo ruolo nella letteratura d' ogni tempo. E mi sono stupito che nessuno, prima di me, se ne fosse occupato"

Come mai ha scelto Vico per nume tutelare? In fondo Vico guarda alle foreste come qualcosa in cui occorre aprirsi un varco, per potersi insediare e piantare l' albero genealogico. 
"Certo, ma proprio per questo Vico mi ha fornito l' idea di un rapporto antagonistico, e non di beneficenza fra l' uomo e la foresta. E poi La scienza nuova è un trattato che si avventura nell' immaginario più primitivo dell' Occidente e cerca di trovare le origini metaforiche del pensiero e della conoscenza poetica. Da qui, ho pensato di fare una storia poetica e non empirica del nostro immaginario". 

Ecco, partiamo dalla parola "primitivo". Il libro esordisce con l' affermazione che la foresta è "prima" di tutto. 

"E' vero, e lo è in senso letterale. Il mondo occidentale è all'origine fitto di boschi, e ogni insediamento umano nasce da un disboscamento. I limiti dell' insediamento restano però affidati al bosco, che circonda la civiltà e le conferisce topograficamente il ruolo di centro". 

Lei scrive che questo confine fra città e foresta viene perfettamente sceneggiato dalla tragedia classica. In che senso? 

"Prima del cristianesimo, e quindi del monoteismo, la tragedia è uno scontro fra diverse leggi, ciascuna con una sua legittimità. Non è il male contro il bene: la natura ha una sua legge, del tutto legittima, e la città ne ha un' altra, altrettanto legittima. Nella mia lettura Dioniso, che è il dio della foresta, esce dal bosco per imporre alla città la legge più antica, che è la sua. E la legge più antica prevale su quella più recente". 

Con la latinità questo antagonismo sembra placarsi. Le Metamorfosi di Ovidio teorizzano un' osmosi fra legge umana e legge naturale, un processo di trasformazione che le accomuna. 

"In Ovidio c' è un materialismo che livella la natura delle cose. Ma io mi domando se ciò non nasconda anche la nostalgia per una natura già perduta. In Virgilio, senz' altro, c' è il rimpianto per una civiltà agricola che è stata spazzata via dalla città. Ma anche nella latinità, l' idea di foresta resta almeno doppia. Romolo, il fondatore della città, è una creatura boschiva per eccellenza. Allattato da una lupa, fa nascere Roma in una radura e i primi romani li chiama "i rifugiati della foresta. Chi decide di diventare romano deve insediarsi nella radura e accettare il confine della foresta, oltre il quale è la res nullius. Quindi la foresta è un' origine continuamente fuggita e ritrovata, in un rapporto molto ambiguo". 

Questo rapporto diventerà più chiaro nell' età medievale. 

"Ma la doppiezza resterà. Allegoricamente, la foresta medievale è la selva oscura di Dante, il luogo del peccato, dell' alienazione da Dio. Ma proprio Dante, alla fine del suo viaggio, si ritroverà in un giardino terrestre, la selva antica che è la stessa selva di prima, ma più umanizzata, liberata dagli animali selvaggi. Prima di Dante, nei romanzi cavallereschi la foresta è invece il luogo dello sconosciuto, del pericolo: il cavaliere deve affrontarla per liberare la città dalla minaccia". 

Ma Robin Hood vive nella foresta... 

"E infatti è un fuorilegge, anche se rappresenta una legge più vera di quella di corte. Con lui, avviene un capovolgimento dei punti di vista che trasforma la foresta nel luogo del comico, dell' ironia. Ma i racconti di Robin Hood hanno comunque un lieto fine, in cui il fuorilegge è perdonato e riaccolto nella città". 

E Boccaccio? C' è una foresta boccaccesca? 

"Certo. Da par suo, Boccaccio vedrà nella foresta il regno del desiderio, il luogo dove tutto può venir sottratto senza tener conto della volontà del soggetto. Nella terza novella della quinta giornata del Decamerone, ci sono due ragazzi che vogliono sposarsi, Pietro e Agnolella. Spinti dal desiderio, fuggono nel bosco. Entrano vergini nella foresta, e quando ne escono non lo sono più, pur non avendo fatto l' amore". 

E quand' è che il bosco diventa l' albergo della follia? 

"Fin dall' inizio. Fin da Gilgamesh, se vogliamo, che è la più antica opera letteraria della storia. Ma soprattutto con l' Ivano di Chrétien de Troyes, con l' Orlando... La foresta come luogo di follia è un tema tipicamente medievale: nel bosco la mente è buia, non raggiunta dalla luce divina. Per Descartes sarà qualcosa di analogo, la foresta come fuga dalla ragione, come ambito supremo della confusione dove il metodo non può aver presa".
Cerchiamo di riassumere. Ci sono come due strade del pensiero: una si fonda sull' antagonismo, l' altra sulla nostalgia. La prima collega Socrate a Descartes, la seconda Virgilio a... 

"A Shakespeare, ai romantici. Di Shakespeare è la prima domanda ecologica della storia. ' Chi può costringer la foresta a prestar servizio come soldato arruolato?' , si chiede Macbeth, il nemico della legge naturale. La foresta che muove contro Macbeth è la vendetta della natura. Shakespeare ci avvisa che se distruggiamo la natura compiamo un' autodistruzione". 

18/05/20

Libro del Giorno: "Anima" di Natsume Sōseki



Poco conosciuto e poco ristampato in Italia, Natsume Sōseki (pseudonimo di Kinnosuke Natsume) è un autore interessantissimo e moderno, sia per stile che per filosofia e contenuti. 

Il cuore delle cose, talvolta tradotto (e in Italia tradotto magnificamente da SE) come Anima  è uno dei suoi romanzi più famosi, pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1914.

Sōseki è interessante anche per la sua vicenda umana: nato a Edo nel 1867 studiò all'Università Imperiale di Tokyo, diventa insegnante, poi vince una borsa di studio e si trasferisce a Londra nel 1900.  L'esperienza a Londra, che gli permette di avvicinarsi a concetti propri della cultura occidentale e a comprendere diversi aspetti di quella inglese, coincide con uno dei periodi più difficili della sua vita: a causa della solitudine, soffrirà di esaurimento nervoso e problemi psicofisici

Torna il Giappone nel 1903, e scrive la sua prima opera di narrativa, Io sono un gatto, che ha un successo immediato. Seguiranno altre fortunate opere, il cui successo non risolve i problemi nervosi dello scrittore: di crisi in crisi muore nel 1916 a soli 49 anni. 

Anima è per certi versi la sua opera capitale e la più autobiografica: il romanzo è diviso in tre sezioni dal titolo "Il maestro e io", "I miei genitori e io" e "Il maestro e il suo testamento morale".

Le prime due sezioni sono narrate in prima persona dall'allievo (del quale, analogamente al maestro, non si conosce il nome), mentre l'ultima sezione è narrata in prima persona dal maestro, in quanto è costituita dal suo testamento morale.

Il romanzo narra del rapporto tra un giovane studente e un maestro, conosciuto fortuitamente a Kamakura, il quale vive in una condizione di totale isolamento dal mondo nella sua residenza a Tōkyō. 

Nonostante l'iniziale distacco del maestro, lo studente piano piano riesce ad avvicinarsi a questa figura enigmatica, che non ama parlare molto di sé e che nelle frequenti discussioni con il ragazzo lascia intendere di aver trascorso un passato drammatico, senza però approfondirne i particolari.

Il maestro vive a Tōkyō in condizioni modeste, in compagnia della moglie e di una domestica.

Durante le sue visite, il ragazzo ha modo di conoscere anche la moglie del maestro, molto devota al marito, la quale però non crede di suscitare in lui un analogo sentimento, per il pessimismo del maestro nei confronti del genere umano.

Sono numerose questioni che rimangono aperte (tra cui di chi sia la tomba che il maestro va spesso a visitare e cosa sia successo in passato per giustificare un atteggiamento simile) quando il giovane studente deve ritornare al paese natale perché il padre è in gravi condizioni di salute.

Quando si trova lì riceve una lettera dal maestro che l'allievo legge in treno, precipitandosi a tornare dal maestro che forse è in pericolo: il lungo testamento morale che il maestro ha scritto infatti, contiene il racconto del suo passato, dando risposta ai molti dubbi seminati nella prima parte.

Di sorpresa in sorpresa si giunge senza poter interrompere la lettura, alla fine del racconto.

Stilisticamente impeccabile, decisivo nei temi che affronta. Quello che oggi si definirebbe un "romanzo psicologico", che svela gli intralci dell'anima, la battaglia contro le proprie scelte morali, le tentazioni, le debolezze, le fragilità, il confronto con il mistero della morte.

Natsume Soseki 
Anima 
Traduzione di N. Spadavecchia 
Editore: SE Collana: Testi e documenti 
Anno edizione: 2015 
Pagine: 224 
EAN: 9788867231775

15/05/20

Genova ricorda Edoardo Sanguineti a 10 anni dalla morte


A dieci anni dalla morte di Edoardo Sanguineti, che ricorre lunedi' prossimo 18 maggio, Universita' di Genova, Fondazione Palazzo Ducale e Teatro Nazionale di Genova ricordano la poliedrica figura del grande poeta, drammaturgo, italianista e "librettista" genovese con la rassegna instreaming "Edoardo Sanguineti 2010-2020", ciclo online di letture brevi, recital, video documentali e testimonianze curate da artisti, studiosi ed amici.

Il ciclo in omaggio a Sanguineti proseguira' fino al 10 giugno con brevi testimonianze, pillole video, in linea col multiforme universo intellettuale frequentato da Sanguineti. 

Le trasmissioni in streaming sono in programma il lunedi', il mercoledi' e il venerdi', ogni settimana; si possono seguire in contemporanea sui canali socialdell'Universita' di Genova, di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e del Teatro Nazionale di Genova, sul sito di Ett e sul canale Facebook che Banca Carige dedica all'arte e alla cultura. 

Il programma prevede, dunque, oggi, venerdi' 15 maggio Tullio Solenghi ("Genova per me"), lunedi' 18 maggio, Lella Costa ("Ballata della guerra"), mercoledi' 20 maggio, Davide Livermore ("Ballata delle donne"). 

Tra gli altri appuntamenti, lunedi' 25 maggio Raffaele Mellace ("Sanguineti e la musica"), mercoledi' 27 maggio, Gianna Schelotto ("Sonetti per il nipotino Luca"), venerdi' 29 maggio, Luca Bizzarri ("Erotosonetto e Ballate"), mercoledi' 3 giugno, Margherita Rubino ("Sanguineti e i Greci"), mercoledi' 10 giugno Federico Sanguineti ("Mio padre e una poesia"). 

14/05/20

I "Consigli ai Medici" ritrovati di Camus prima di scrivere "La Peste" - oggi in un libretto omaggio nelle librerie Giunti



"Voi, medici della peste, dovete fortificarvi contro l'idea della morte e conciliarvi con essa, prima di entrare nel regno preparatole dalla peste. Se trionferete qui, trionferete ovunque e vi vedranno tutti sorridere in mezzo al terrore. La conclusione e' che vi occorre una filosofia"

E' uno dei consigli, pratici e spirituali, che si leggono nella "Esortazione ai medici della peste" pubblicata nell'aprile del 1947 nei Cahiers de la Ple'iade, quasi sicuramente scritta dal premio Nobel per la letteratura Albert Camus nel 1941 e vista come una delle pagine preparatorie e poi non messe nel suo romanzo "La peste", uscito proprio nel 1947 e che in questi mesi molti hanno riletto o scoperto, tanto che è tornato questa settimana nella classifica dei libri più venduti, perchè sembra racconti la nostra esperienza e parli di noi, invece di averne immaginata una 70 anni fa

Mai pubblicata in Italia, questa "Esortazione", ora tradotta da Yasmina Melaouah e proposta da Bompiani d'intesa con la Succession Albert Camus, suona, con le sue citazioni di Tucidide e del suo racconto della peste di Atene, profetica e profonda quanto il romanzo

Suggerisce ai medici una serie di norme oggi ingenue e inquietanti mutuate dal trattamento di contagi passati ( dall'uso dell'aceto, erbe aromatiche, all'uso di un camice di tela cerata) e li sprona a non aver paura ma ad assumere appunto una linea di condotta elaborata con filosofia che aiuti a saper avere una misura, a diventare padroni di se stessi, a respingere la stanchezza, a mantenere una serenita' d'animo nonostante tutto, aggiungendo: "Non vi e' nulla di meglio, a questo scopo, che consumare vino in quantita' apprezzabili, per alleviare un poco l'espressione affranta che vi verra' dalla citta' in preda alla peste". 

 Sono una decina di pagine, in omaggio ai lettori delle librerie Giunti al Punto e in ebook gratis sul sito Bompiani www.bompiani.it, che ammoniscono anche noi: "dovete diventare padroni di voi stessi. E, per esempio, saper fare rispettare la legge che avrete scelto, come quella del blocco e della quarantena. Uno storiografo provenzale narra che un tempo, quando uno di coloro che erano sottoposti alla quarantena scappava, gli veniva fracassata la testa. Non e' questo che auspicate. Ma non dimenticate con cio' l'interesse generale. Non venite meno a tali regole per tutto il tempo in cui saranno utili, quand'anche il cuore vi inducesse a cio'. Vi e' chiesto di dimenticare un poco quel che siete senza tuttavia dimenticare mai quel che dovete a voi stessi. È questa la regola di una serena dignita'". 

Le notazioni sono tante, da quelle pratiche come "non guardate mai il malato in faccia, per non essere nella direzione del suo alito", a quelle piu' morali: 

"Non dovete mai e poi mai abituarvi a vedere gli uomini morire come mosche, come accade oggi nelle nostre strade, e com'e' sempre accaduto da quando ad Atene la peste ha preso il suo nome. Non smettete di essere atterriti dai volti neri di cui parla Tucidide ... e continuate a rivoltarvi contro la terribile confusione in cui coloro che negano le cure agli altri muoiono nella solitudine mentre coloro che si prodigano muoiono ammucchiati gli uni sugli altri"

Camus quindi, ricordando ai medici che "Vi e' chiesto di dimenticare un poco quel che siete senza tuttavia dimenticare mai quel che dovete a voi stessi. È questa la regola di una serena dignita'", conclude con la sua visione delle cose: "Resta il fatto che nulla di tutto cio' e' semplice. Nonostante le maschere e i sacchetti, l'aceto e la tela cerata, nonostante la tranquillita' del vostro coraggio e il vostro saldo sforzo verra' il giorno in cui non sopporterete piu' questa citta' di agonizzanti, questa folla che gira a vuoto per strade roventi e polverose, queste grida, questo allarme senza futuro. Verra' il giorno in cui vorrete gridare il vostro orrore di fronte alla paura e al dolore di tutti. Quel giorno non avro' piu' rimedi da consigliarvi, se non la compassione che e' la sorella dell'ignoranza". 

Paolo Petroni per ANSA

12/05/20

Oggi 125 anni dalla nascita di Jiddu Krishnamurti, uno dei più importanti pensatori del Novecento.




Si celebrano oggi i 125 anni dalla nascita di Krishamurti. Riporto qui di seguito la voce completa del Dizionario Filosofico Treccani. Per approfondire clicca qui. 

Krishnamurti, Jiddu Filosofo indiano (Madanapalli, Madras, 1895 - Ojai, California, 1986). 

Adolescente, fu ‘scoperto’ dal teosofo C.W. Leadbeater (1909) e nel 1910 condotto in Europa e adottato dalla presidentessa della Società teosofica, Annie Besant, che lo aveva riconosciuto come il futuro ‘maestro universale’ (allo stesso modo di Mosè, Buddha, Zoroastro, Gesù e Maometto). 

Besant fondò intorno a lui l’Ordine della stella d’oriente, in cui presto si riunirono oltre centomila persone. 

Tuttavia K., divenuto adulto, respinse il ruolo che gli era stato affidato e sciolse (1929) l’Ordine. 

L’invito etico a essere autonomamente responsabili nei confronti di sé stessi che caratterizza il suo pensiero attirò nuovi aspiranti discepoli, ma K. rifiutò sempre il ruolo di maestro e predilesse lo stile della conversazione a quello della lezione.

Evitò perciò di formalizzare un suo ‘insegnamento’: le sue parole dovevano solo servire come specchio perché le persone potessero osservarsi ed, eventualmente, cambiare. 

Fondò varie scuole ispirate dal principio che i pregiudizi sociali non dovessero condizionare le menti dei bambini e finalizzate non soltanto all’acquisizione di conoscenze, ma soprattutto al «risveglio dell’intelligenza». 

Si prodigò molto per il dialogo fra religione e scienza (cfr. la conversazione con il fisico D. Bohm raccolta in The ending of time, London 1985; trad. it. Dove il tempo finisce).

Non esiste, secondo K., un unico metodo che valga per tutti, nessuno può perciò evadere dai propri problemi affidandosi a un maestro o a un’istituzione («la verità è una terra senza sentieri», disse nel discorso di scioglimento dell’Ordine). 

Allo stesso modo tentare di migliorare la società è aggirare il problema, poiché non è questa a determinare l’uomo bensì il contrario. 

Per evitare di portare confusione e quindi dolore nel rapporto con il prossimo è invece centrale la conoscenza di sé, che può e deve essere realizzata immediatamente: «Capire me stesso non è questione di tempo; posso capirmi in questo esatto momento» (The first and last freedom, 1954; trad. it. La prima ed ultima libertà).

11/05/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 65. "2001: Odissea nello Spazio" ("2001: A space Odyssey") di Stanley Kubrick, 1968


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 65. "2001: Odissea nello Spazio" ("2001: A Space Odyssey") di Stanley Kubrick, 1968


A pochi registi, in questa lista iniziata ormai diversi mesi fa, toccherà l'onore di avere più di un film nell'elenco dei 100 che abbiamo scelto. 

Uno di questi è senza dubbio Stanley Kubrick, di cui abbiamo inserito già l'altro capolavoro, Barry Lyndon, nell'elenco, al numero ordinale 2 (ma ricordiamo che l'elenco non segue un ordine di merito).

Per Kubrick però la cosa è quasi scontata, visto che si tratta di uno dei registi più importanti della storia del cinema, e che ciascuno dei film che ci ha lasciato, è un'opera capitale. 

Scelgo comunque come secondo titolo, 2001 Odissea nello Spazio, il suo masterpiece del 1968 (!), che ormai viene pressoché unanimemente considerato uno dei film più importanti nella storia del cinema e figura sempre nei primissimi posti - o al primo posto - delle liste compilate dagli specialisti del settore e/o dai semplici spettatori.

Un film che incredibilmente non è ancora invecchiato - nonostante sia stato realizzato nel 1968, ovvero più di 50 anni e sia un film decisamente giocato sui termini della tecnologia e della ricerca scientifica, spaziale.  Anche se, come sanno tutti quelli che l'hanno visto almeno una volta, i contenuti tecnologici o scientifici (o fanta-scientifici) sono al servizio di quelli filosofici (o mistici) che riguardano l'essenza stessa dell'essere umano e la sua misteriosa presenza di essere senziente, nel cosmo. 

Basti pensare che uscito per l'ennesima volta nelle sale italiane, in occasione del cinquantenario, 2001 Odissea nello spazio ha fatto registrare al botteghino un risultato clamoroso, con il primo incasso,  davanti a film di freschissima produzione come "Solo: A Star Wars Story" di Ron Howard e "Deadpool 2" di David Leitch.  

Su questo film sono stati scritti montagne di articoli, saggi e libri. 
Dunque in questa sede ci limitiamo a riepilogarne qualcuno dei mille motivi di interesse che riguardano anche il modo in cui fu realizzato: 

Dopo tre mesi di isolamento totale nella sua casa-laboratorio di Abbots Mead, in aperta campagna non lontano da Londra, Stanley Kubrick presenta al pubblico e alla critica il suo lavoro piu' ambizioso, 2001: Odissea nello spazio tratto da un soggetto del guru della fantascienza Arthur C. Clarke

E' un progetto rivoluzionario e un film che entra di prepotenza nella storia del cinema: oggi si può anche leggerlo come un'icona di quell'utopia esistenziale che innerva la stagione dei grandi cambiamenti e dei fermenti che, dall'America all'Europa, segnano il fatidico anno 1968

Fin dalla concezione il film di Kubrick è una novita' assoluta: alla ricerca di un soggetto di fantascienza per continuare il suo viaggio artistico nei generi piu' popolari dell'immaginario visivo, il regista contatta Arthur C. Clarke e i due condividono a tal punto l'idea di partenza da far correre in parallelo il romanzo e la sceneggiatura. Kubrick si fa assistere dalla Nasa e da un pool di scienziati per mostrare un futuro tanto lontano quanto possibile in cui l'incontro-scontro tra l'uomo e l'intelligenza artificiale (il computer Hal 9000) abbia valenza di riflessione etica e teoretica.

"Fin dagli anni '50 - commento' George Lucas - la scienza ha prevalso sulla fantasia e il romanzesco e' stato piu' o meno abbandonato, man mano che i viaggi nello spazio e la tecnica venivano in primo piano. In questo filone, il capolavoro e' 2001: Odissea nello spazio, uno dei miei film preferiti, in cui tutto e' scientificamente esatto e immaginato partendo dal possibile. E' veramente l'apice della fantascienza"

E ancora oggi molti scienziati sostengono che se i programmi nello spazio di Usa e Urss avessero mantenuto il ritmo previsto da Kubrick, buona parte delle ipotesi rese realistiche nel film si sarebbero effettivamente realizzate nello stesso tempo. Con un salto temporale che ancora oggi lascia senza fiato, l'inizio di 2001: Odissea nello spazio trasporta l'uomo dall'alba della preistoria al futuro usando una metafora di offesa e conquista (l'osso scagliato verso il cielo) come simbolo di una violenza ancestrale che si trasforma in astronave e quindi in uno sguardo verso la possibile evoluzione della razza umana. 

"Ognuno e' libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico del film - ha dichiarato Kubrick -. Io ho cercato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio". 

Per questo il racconto e' diviso in quattro parti. 

Nella prima, all'alba della storia, una tribu' di ominidi tocca la conoscenza grazie al contatto con un misterioso monolite nero venuto dallo spazio. 

Nella seconda, ambientata sulla Luna nel 1999, viene rinvenuto un analogo monolite che fara' da porta verso il futuro per gli astronauti di Discovery One. 

La terza parte, ambientata 18 mesi dopo, vede la squadra spaziale guidata dal comandante Bowman e dal computer Hal 9000 in viaggio verso Giove sulle tracce del segnale radio emesso dal misterioso monolite. 

Nell'epilogo Bowman, rimasto ormai solo a bordo dell'astronave in vista di Giove, incontra di nuovo il monolite che fluttua nello spazio profondo e, grazie a questo, viene trascinato oltre il tempo fino a una misteriosa camera da letto dove si vede vecchio e morente per poi tornare neonato, feto cosmico evoluto da essere umano in una forma superiore. 

Nonostante le mille interpretazioni date al cuore filosofico del film, 2001: Odissea nello spazio rimane prima di tutto un'esperienza visiva e auditiva (e per questo emozionale) che non invecchia come si capisce bene dai mille ritorni della pellicola (rinata a nuova vita anche grazie alle tecnologie digitali) e dal suo sempreverde successo

Costato 12 milioni di dollari di 50 anni fa, il film ha più che centuplicato i suoi incassi attraverso le generazioni e continua ad affascinare e sedurre gli spettatori, generando anche molte leggende

La piu' celebre e' quella per la quale, entrato in rapporto con la Nasa, Kubrick avrebbe poi barattato l'uso di alcune tecnologie futuribili (lenti e cineprese di avanzata concezione) in cambio di una ripresa in studio dell'allunaggio del 1969: garanzia per la Nasa ove qualcosa fosse andato male durante la documentazione di quello storico successo nella corsa spaziale.

(per questo breve riassunto, notizie tratte da Askanews e  Giorgio Gosetti per  ANSA



10/05/20

Poesia della Domenica: "Il vestito bianco" (A mia madre) di Fabrizio Falconi




Il vestito bianco



Nella baraonda azzurra, nel caos
nel tossico disordine di voci, nell'apparente
rincorrersi dei sensi e delle direzioni
lungo il mare, il versante spezzato
piega la schiena, non fa valicare
e squaderna il vuoto
quantistico, pieno di colmi e di possibilità.
In questa galleria appesa
c'è un vestito bianco ricamato sul davanti
come un fiore pallido nella notte appena
cominciata, illuminato dai fari
tu l'hai tagliato
forse
con le mani, con il fiato che avevi
ventenne accanto all'uomo irruente
l'uomo ammalato di vita
che ti aveva insegnato lo spazio della creazione.
Io, dopo molti e molti anni
vedevo lo stesso abito,
forse era soltanto una delle
molte possibilità
nelle quali il tempo
s'era ripiegato:
forse c'eri tu davanti
alla grande finestra azzurra
inclinata sull'abisso
della notte, io camminavo avanti e indietro
tu mi guardavi.



7 dicembre 2014


Tratta da: Fabrizio Falconi, Nessun Pensiero Conosce l'Amore, Interno Poesia, 2018

09/05/20

Goffredo Parise e Roma: un rapporto, un sentimento, un racconto - Da "Le Rovine e l'Ombra" di Fabrizio Falconi



Goffredo Parise era giunto a Roma i primi giorni di marzo del 1960. All’amico Comisso una settimana prima aveva scritto: Tra una settimana parto per Roma dove resterò quasi stabilmente data l’impossibilità per me di stare ancora a Milano. Le ragioni sono molte (…) Mi annoio atrocemente, e non della dolce noia del Veneto (…) ma di una noia acre e inutile, impiegatizia e tramviaria, da grandi magazzini asettici. Insomma mi sento come un aquilone sotto la pioggia (…) basta con questo libeccio che soffoca i voli. (23)

E’ la noia la grande nemica che già pedina questo trentenne inquieto, venuto dalla provincia veneta. Eppure Milano è la città che ha regalato a lui, figlio di una ragazza madre,  amicizie importanti, un lavoro di prestigio (lavora alla Garzanti) e il grandissimo successo a soli 25 anni con Il prete bello.

Parise però ha bisogno di altro. E sembra trovarlo: nel Corriere della Sera, in un articolo del ’72 ricorda: Quando a trent’anni sono sceso a Roma, è stata la liberazione. Ho incontrato l’Italia.  E a Comisso scrive: Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la mia fantasia… Vivo insomma intensamente ancora i giovani anni che mi restano, nel modo che mi è congeniale, nell’estro e nel disordine dell’avidità, nel sogno e nell’avventura…

In effetti a Roma Parise trova una ben calda accoglienza: Montale, Piovene, Moravia diventano amici, nel 1964 va a vivere in Via della Camilluccia, vicino di casa a Gadda, comincia a scrivere per il cinema e firma sceneggiature per Bolognini, Fellini, Tonino Cervi.  Conosce anche Marco Ferreri, e si innamora artisticamente del suo folle genio creativo. Scrive per lui il copione de L’ape regina, uno dei più censurati e controversi della filmografia di Ferreri.

Finché l’irrequietezza non lo ferma, spingendolo a mettersi in viaggio per i famosi reportage da mezzo mondo, è Roma la casa di Parise. Prima di far ritorno nel Veneto, dove compra una casa a Salgareda, un piccolo borgo sul Piave, nei primi anni ’70.

Roma resta comunque per lo scrittore Parise, sempre un punto di riferimento. Il punto di ritorno dai suoi viaggi, l’approdo solare e d’ombra, il luogo della eterna fantasia, del sogno che si rinnova.

E quando tra il 1971 e il 1981 pubblica i suoi Sillabari, Parise scrive un racconto proprio su Roma, uno degli ultimi, lasciando incompiuta la sua opera, com’è noto, alla lettera S.

Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z, scrive nella celebre Avvertenza al testo del gennaio 1982, Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore. (24)

La prima cosa che scopriamo allora è che per Parise Roma è un sentimento. Come Amicizia, Dolcezza, Fame, Ozio, Povertà o Simpatia, che sono altri titoli del Sillabario.

Il racconto – uno dei più misteriosi del libro – inizia in modo bruciante con un viaggiatore, un uomo che si sentiva straniero senza però esserlo, che una domenica d’inverno, al crepuscolo, arriva con un rapido, dal nord, alla stazione di Roma. (25)

Già dai finestrini la città gli appare col suo inconfondibile aspetto, le enormi case innestate sui colli rognosi di rifiuti e untume e le pietre dell’Arco di Porta Maggiore da cui sorgono ciuffi d’erba e alberelli.
Il viaggiatore, appena sceso dal treno, riconosce anzi, sente, la mortale presenza dei secoli e della storia, come sempre quando arriva.

La città delle rovine dunque lo accoglie con un canto di morte. Il cielo però, color violetta e la luce limpida della tramontana, colorano subito la scena di presenze vive: donne africane vestite di bianco, soldati, uomini delle più diverse razze che si muovono nel crepuscolo, il colore delle cose che varia sempre più verso l’ombra.

L’uomo sale su un taxi ed attraversa la città stranamente deserta, senza traffico, come non l’aveva vista mai.
Giunto a casa, entra e lascia la borsa ma subito esce di nuovo spinto dalla luce. Prende a passeggiare sul lungotevere, viene avvicinato da un giovane africano – con occhi dalla cornea bianchissima -  che vuole vendergli una coperta. Ed è curiosa questa Roma che sembra già popolata solo di stranieri, di africani in particolare. Molto tempo prima del dovuto, Parise già è così che la vede.  

L’uomo prosegue a piedi fino al Circo Massimo, mentre non pare sera a causa della luce.  E’ un crepuscolo di quelli che regala a Roma, che sembra non trascolorare mai definitivamente nell’ombra, che permane a lungo in una condizione di incertezza sospesa, tra ombra e luce.

Al Circo Massimo, l’uomo si imbatte in un travestito – anche questo di colore – che con una parrucca bionda in testa sbuca fuori da un cespuglio muovendosi con gesti di danza e aprendo e chiudendo la grande bocca rossa.

Giunto alla Passeggiata Archeologica e poi alle Terme di Caracalla il viaggiatore si sente in uno stato d’animo molto strano, sentendosi ancora più straniero di quanto lo fosse in modo leggero e trepidante, camminando molto piano, attratto dal terreno intorno ai muri e alle rovine. Si sente anche dentro una specie di narcosi, mentre la luce viola è ancora nel cielo e spunta una prima stella al di là delle mura romane.

Prende a rovistare tra i ciuffi di erba polverosa, i kleenex, i rifiuti, le bottiglie di birra, dai quali affiorano frammenti di pietra bianchissima, quasi porosa, certamente molto antica.

Ed è qui che accade qualcosa di veramente inaspettato e terribile.

Il racconto, che era proseguito fin qui in una sorta di allucinato resoconto di quieta e inquieta contemplazione, prende una piega completamente diversa: il viaggiatore si ritrova all’imboccatura di un anfratto, proprio tra quelle antiche mura.  Sulle prime pensa alla nicchia di guardia delle Terme. E pronuncia tra sé il nome tepidarium ricavandone un senso di totale rilassatezza. Ma ecco che dopo essersi acceso una sigaretta, scorge una figura muoversi nella luce viola. E’ una donna molto grassa e anziana, accucciata e con le calze arrotolate. Vicino a lei c’è un giovane etiope, alto con gran capelli crespi, molto simile al venditore di coperte incontrato poco prima sul Lungotevere.

E prima che l’uomo se ne renda conto, ancora avvolto dalla passività della luce viola nel cielo notturno, viene colpito da un fendente di coltello, sferrato dall’etiope. Arrivano altri colpi, nel ventre, nel petto, nel collo e l’uomo quasi senza sentire dolore, zampilla sangue a fiotti abbondanti e regolari come in chiaro ma anche oscuro accordo con il cuore.

E’ la frase con cui si chiude il racconto, e anch’essa sembra tagliente come una rasoiata. 

L’assurdità della scena e di questa fine – cosa facevano i due nell’oscurità ? La donna con l’aria da portinaia romana e l’etiope ? Un rapporto sessuale ? O un qualche diverso affare ?  E perché l’etiope reagisce con tale violenza ? Per un semplice furto ? O perché l’uomo ha involontariamente scoperto – o sta per scoprire – un segreto ? – è come un nero sipario che cala apparentemente senza scopo, senza alcuna finalità.

Eppure anche questa fine ha qualcosa di catartico. L’uomo muore quasi senza sentire dolore, il suo essere sembra come  ingoiato dentro il teatro di quella città notturna, dalla luce viola, dalle sue rovine. E nel ventre di una rovina egli trova la fine, quella fine che forse è cercata, forse è auspicata, sembrando quasi una liberazione: l’abbandono all’effimero destino, alla sua apparente insensatezza.

Ma la chiave (anche) di questa morte è nella sua innocenza. 

Una parola decisiva per Parise, che in quegli anni scrisse a proposito di com’era sorta in lui l’idea di scrivere i Sillabari: Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo:l’erba è verde. 
Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel "l’erba è verde", l’essenzialità della vita e anche della poesia...
Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. 
Ecco la ragione intima del sillabario. (26)

Roma è dunque un sentimento, le rovine sono sentimento e anche la morte è sentimento. Quella morte interiore che Parise ha attraversato così tante volte nel corso della vita, rinascendo ogni volta dalle proprie rovine. 

Le guerre che visitò come inviato, i posti più strani del mondo che incontrò, non modificarono niente in lui, al punto di invidiare chi era rimasto, a scrivere, fermo nella sua stanza.

Nel suo eremo di Ponte di Piave, dove si rinchiude per vivere gli ultimi anni della sua vita, Parise trova forse un senso alla sua eterna inquietudine.  Non ci sono più rovine intorno. Ma solo la melodia della natura, dei ruscelli e delle campane.

E in lui si incarna forse quella morte vagheggiata nel racconto scritto per i Sillabari.  Una morte soltanto fisica, che è compimento di quanto fatto, e punto interrogativo per un altrove sconosciuto.  Nel racconto Famiglia, nei Sillabari, aveva scritto quello che è sembrato il suo perfetto epitaffio:
...godette per un po' le "gioie della vita", incontrò, vide e amò molti occhi, pelli, le calme e le intelligenze pratiche di altre famiglie, poi cessò di godere le "gioie della vita" e di lui non si ebbero più notizie se non per sentito dire.

23. Questa citazione e quelle che seguono sono rese pubbliche dalla Casa di Cultura Goffredo Parise, Ponte di Piave (TV).

24. Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi, Milano 2004.
25. Tutte le citazioni sono tratte dal racconto Roma, in G. Parise, Sillabari, Op.cit. pag. 327 e ss.
26. da Il Gazzettino, 31 ottobre 1972, in F. Sala, “Il Sillabario dei sentimenti”
27. Famiglia, in Sillabari, op. cit. p. 137.


Tratto da Fabrizio Falconi, Le rovine e l'ombra, Castelvecchi, Roma, 2017

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08/05/20

Meraviglia al Pantheon: Da una buca nel selciato della piazza riemerge il vecchio pavimento imperiale




Il Pantheon continua a rivelare antiche meraviglie rimaste nascoste: le indagini archeologiche seguite all'apertura di una buca in Piazza della Rotonda hanno riportato alla luce l'antica pavimentazione (della piazza) di epoca imperiale.

Le sette lastre di travertino, che si trovano a una quota di circa 2,30 / 2,70 metri sotto il piano stradale con dimensioni di circa 80 per 90 centimetri per uno spessore di 30 centimetri, sono state ritrovate una prima volta negli anni '90 del secolo scorso in occasione della costruzione di una galleria di sottoservizi, e lo scavo venne rilevato e documentato

"Dopo oltre vent'anni dal loro primo rinvenimento -spiega Daniela Porro, Soprintendente Speciale di Roma- riemergono intatte le lastre della pavimentazione antica della piazza antistante al Pantheon, protette da uno strato di pozzolana fine. Una dimostrazione inequivocabile di quanto sia importante la tutela archeologica, non solo una occasione di conoscenza, ma fondamentale per la conservazione delle testimonianze della nostra storia, un patrimonio inestimabile in particolare in una citta' come Roma". 

In epoca imperiale la piazza era molto piu' grande della attuale e si apriva di fronte al Pantheon, il tempio dedicato a tutti gli dei fatto costruire da Agrippa tra il 27 e il 25 avanti Cristo. 

L'area e' stata interamente ristrutturata nel II secolo dopo Cristo dall'imperatore Adriano, e anche la piazza venne rialzata e nuovamente pavimentata. 

Le quote cui si trovano le lastre, oggi rimesse in luce, appaiono pertinenti alla fase adrianea del complesso

Il cantiere in un primo momento in capo al I Municipio, consegnato poi ad Acea continuera' nei prossimi giorni per il ripristino idrico e con ulteriori indagini archeologiche della Soprintendenza Speciale di Roma in collaborazione con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.



07/05/20

Libro del Giorno: "La maschera di Dimitrios" di Eric Ambler



Eric Clifford Ambler, nato a Londra nel 1909 e morto sempre a Londra nel 1998, è stato un geniale  scrittore e sceneggiatore britannico, autore di alcune fra le più famose spy story della letteratura gialla. Tentò la fortuna anche a Hollywood, dopo la seconda guerra mondiale, in cui servì nella truppe inglesi per sei anni occupandosi di riprese sui luoghi di battaglia. 

Ma visto che l'esperienza americana non fu esaltante, tornò in Europa nel 1958 a scrivere romanzi, sempre di ambientazione spionistica o thriller, genere di cui fu il nobilitatore insieme a Graham Greene e William Somerset Maugham.

La maschera di Dimitrios è uno dei suo gialli migliori, dalla trama intricata e ricca di suspence

L'azione ha inizio a Istanbul, intorno alla metà degli anni Trenta. Nel corso di un ricevimento Charles Latimer, giallista inglese di successo, viene avvicinato dal più imprevedibile degli ammiratori, il colonnello Haki – alto ufficiale dei servizi segreti e scrittore di suspense alle prime armi. La trama che il colonnello sottopone a Latimer, e che vorrebbe che quest’ultimo sviluppasse in proprio, è rozza, fiacca, artificiosa.

Ma poi Haki allude alla vicenda «scombinata, non artistica», priva di «moventi occulti» di Dimitrios Makropoulos, il più grande criminale europeo di quegli anni, coinvolto in ogni delitto compreso fra il traffico di eroina e l’assassinio politico.

E così, da alcuni indizi contraddittori disseminati in una conversazione apparentemente casuale, ha inizio l’inquietante «esperimento investigativo» di Latimer, che inseguirà le tracce di Dimitrios fra le rive dell’Egeo, i quartieri turchi di Sofia e i boulevard di Parigi, trasformandosi via via da elegante, distaccato scrutatore di fatti in protagonista di un romanzo a tinte forti.

Perfetta fusione di suspense e atmosfera, sottile analisi del funzionamento di ogni investigazione – letteraria o poliziesca che sia –, questo libro, per molti il primo a essere evocato quando si parla di Ambler, è anche lo straordinario documento di un’epoca in cui la civiltà e la mente dell’uomo europeo non potevano non vedersi riflesse in uno specchio oscuro, inafferrabile e sinistro: i Balcani.

La maschera di Dimitrios è stato pubblicato per la prima volta nel 1939.


Eric Ambler
La maschera di Dimitrios
Traduzione di Franco Salvatorelli
Adelphi, 2000
pag. 9.30 euro

05/05/20

Pentagono rilascia tre video su incontri in volo con presunti Ufo





Il Pentagono ha rilasciato ufficialmente tre video girati da piloti della Marina degli Stati Uniti che mostrano incontri in volo con quelli che sembrano essere degli Ufo. 

Uno di questi video - tutti in bianco e nero - risale a novembre 2004; gli altri due sono stati girati a gennaio 2015. 

Dell'esistenza di queste immagini aveva parlato in passato il New York Times. 

Il dipartimento della Difesa Usa ha reso noto, in un comunicato, di avere preso la decisione di pubblicare i video "per dissipare eventuali idee pubbliche sbagliate sulla veridicita' o meno delle immagini diffuse o sul fatto che ce ne fossero altre"

Il fenomeno aereo osservato nei video rimane qualificato come 'non identificato'", ha aggiunto il Pentagono.

Su uno di questi video e' possibile vedere un oggetto di forma allungata muoversi rapidamente: lo stesso oggetto, pochi secondi dopo essere stato individuato da uno dei sensori a bordo dell'aereo della Marina statunitense, scompare alla sinistra con un'accelerazione improvvisa. 

In un altro video, invece, e' possibile vedere un oggetto sopra le nuvole

Il pilota statunitense si chiede se sia un drone: "C'e' un'intera scia. Sta andando contro il vento! Un vento da ovest di 120 nodi!", afferma il suo compagno di volo. "Guarda questa cosa!", prosegue il suo interlocutore, mentre l'oggetto in questione comincia a girare.

Un pilota della Marina statunitense ora in congedo, David Fravor, che ha incontrato uno di questi Ufo nel 2004, ha detto alla Cnn nel 2017 che l'oggetto in questione si muoveva in maniera irregolare. "Mentre mi avvicinavo a lui accelero' rapidamente verso sud e scomparve in meno di due secondi", ha raccontato. Fu "come una pallina da ping pong che rimbalza su un muro", aveva aggiunto. 

Da parte sua, Harry Reid, ex senatore del Nevada, Stato in cui si trovano le installazioni segrete della Zona 51 dell'Aeronautica americana, in un tweet si e' detto "contento del fatto che il Pentagono stia finalmente trasmettendo queste immagini", pur deplorando che cio' "scalfisce soltanto la superficie della ricerca e delle documentazioni disponibili". 

"Gli Stati Uniti devono dare uno sguardo serio e scientifico a questo e a tutte le potenziali implicazioni per la sicurezza nazionale. Il popolo americano merita di essere informato", ha proseguito. Nel dicembre 2017, ricorda oggi l'Afp, il dipartimento alla Difesa Usa aveva ammesso di avere finanziato fino al 2012, data ufficiale del suo completamento, un programma segreto di diversi milioni di dollari per indagare sugli avvistamenti di Ufo.

Fonte Afp - Askanews

04/05/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 64."Into the Wild-Nelle terre selvagge" ("Into the Wild"), di Sean Penn, 2007


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 64."Into the Wild-Nelle terre selvagge" ("Into the Wild"), di Sean Penn, 2007

Into the Wild, con l'inutilissima aggiunta italiana nel titolo di "Nelle terre selvagge" - nell'originale solo Into the Wild - è il bellissimo film diretto da Sean Penn - che due anni prima aveva realizzato l'ottimo La Promessa dall'omonimo romanzo di Friedrich Durrenmatt -  uscito nel 2007.

Come è noto, il film è un adattamento dal libro omonimo (Into The Wild, in italiano:Nelle terre estreme), scritto da Jon Krakauer nel 1996 e che racconta la vera storia di Christopher McCandless, anche conosciuto con il soprannome di Alex Supertramp. 

Come si racconta nel film, Christopher McCandless era uno studente americano brillante, appena laureato e con un futuro brillante.

Rifiutando i principi della società moderna, dopo una cena in un ristorante con i suoi genitori, per celebrare il suo diploma, Christopher però decide di andare sulla strada, senza avvisare la sua famiglia.

Rinuncia così al sogno americano preparato per lui, brucia i documenti, invia tutti i suoi risparmi all'organizzazione no-profit Oxfam e parte in macchina per gli Stati Uniti meridionali. 

Scopre l'Arizona, il Grand Canyon, la California arrangiandosi con i lavori più strani attraverso Dakota o Colorado per finanziare il resto del suo viaggio.

Arrivato in Messico, decide di tornare indietro e raggiungere l'Alaska.

Fa tutto il possibile per arrivarci e alla fine raggiunge Fairbanks facendo l'autostop.

Scopre le montagne innevate e si rifugia in un autobus abbandonato. Rimarrà lì per cento giorni. Più di tre mesi di solitudine, dedicato alla comprensione interiore della natura e degli esseri umani.

Scopre in Alaska la felicità sempre cercata, una pace spirituale e una sorta di paradiso puro e salutare.

Dopo due anni di viaggio, decide che è ora di tornare a casa. Ma è bloccato dal fiume ed è costretto a
rimanere sull'autobus, in attesa che l'acqua del fiume scenda.

Esistono poche differenze tra due piante boreali della famiglia delle Fabaceae: Hedysarum mackenzei, che è tossica, e Hedysarum alpinum, la cui radice gonfia è commestibile.

Affamato, si basa sulla sua guida botanica Tanaina Plantflore 2 che interpreta erroneamente e si avvelena accidentalmente mangiando semi di Hedysarum mackenzii.

Nel frattempo, capisce che la solitudine non è l'ideale dell'uomo.

Chris è un giovane amato da tutti, anzi, tutte le persone incontrate durante il viaggio prenderanno da lui amore o amicizia.

Ma, accecato dal suo ostinato sogno dell'Alaska, Christopher non percepisce la felicità che l'amore dell'altro può portare.

Ne prende coscienza leggendo le righe di un'opera di Tolstoj che descrive la perfetta felicità in una micro-società rurale.

Poco prima della sua morte, Christopher McCandless ha scritto con una penna su una pagina di un libro "La felicità è reale solo se condivisa ".

Il film termina con una fotografia di autoritratto di Christopher McCandless scattata poco prima di morire. Un testo esplicativo menziona che i cacciatori lo hanno trovato due settimane dopo la sua morte.


Un film bellissimo e crudo, che analizza a fondo la poesia della natura e il mistero del carattere umano: un'opera che inaugura anche un pensiero ecologico nuovo, in cui la natura e l'uomo non sono sullo stesso piano, perché l'essere umano non ne è semplicemente una parte: oltre a questo, l'uomo è anche dotato di logos, cioè di pensiero e linguaggio.  L'essere umano ha dunque bisogno di entrare-in-dialogo con altri esseri umani, ma anche con la natura che lo circonda e che egli ha per secoli devastato e distrutto concependola come mezzo e non come fine. 

Into The Wild ha vinto moltissimi premi in tutto il mondo ed è ormai diventato un classico, un film amato da diverse generazioni. 

Into The Wild - Nelle Terre Selvagge
(Into The Wild)
di Sean Penn
Usa, 2007
Durata: 148 minuti
con Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian H. Dierker.