17/10/13

Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (1./)




2. (Dieci grandi anime) - Andrej Tarkovskij (1) 

Per una di quelle circostanze che decidono i destini degli uomini – in questo caso l’essere nato in un periodo storico di feroci opposizioni e blocchi contrapposti – il corpo del grande Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi autori della storia del cinema, riposa lontano dal suo paese, il paese dove è nato e dove hanno vissuto i suoi predecessori.  La tomba di Tarkovskij non è infatti a Zavraz’e, il piccolo villaggio sulle rive del Volga dove il regista nacque il 4 aprile del 1932  e nemmeno in nessun’altro cimitero della sconfinata Russia, ma al cimitero ortodosso di Saint-Géneviève-des-Bois, nei pressi di Parigi.

Se Tarkovskij fu seppellito in Francia e non nel suo paese, fu dovuto alla decisione della moglie Larisa, che rifiutò l’offerta da parte delle autorità sovietiche di far rimpatriare il corpo del grande regista perché fosse sepolto a Mosca.  La decisione era del tutto conseguente a una estenuante guerra, cominciata molti anni prima, con le autorità sovietiche che – da sempre, dall’inizio, da L’infanzia di Ivan, girato nel 1962 – avevano mal sopportato i contenuti dei film di Tarkovskij, l’ermetismo e il forte simbolismo delle immagini, e soprattutto i riconoscimenti tributati all’estero ad un autore considerato genialmente innovativo.   Il conflitto con le autorità di controllo dello spettacolo sale, pellicola dopo pellicola, fino alla decisione di Tarkovskij, inevitabile, di usufruire nel luglio del 1979 di un permesso di espatrio, per raggiungere l’Italia e lavorare finalmente liberamente ad un nuovo progetto.  Decisione, alla quale il regime sovietico darà una risposta durissima, impedendo alla moglie del regista Larisa, e al figlio Andrej – che all’epoca ha solo nove anni – di raggiungere Tarkovskij.  I tre – marito da una parte, moglie e figlio dall’altra – resteranno separati per sette lunghi anni,  fino a pochi mesi prima della morte del regista, avvenuta appunto nel dicembre del 1986 a Parigi.

Una testimonianza irripetibile di questi anni, ma anche di quello che accade prima, nella mente e nell’anima del regista, costretto a fare i conti con una realtà limitante – che diventerà poi soffocante – è contenuta nei diari che Tarkovskij inizia a scrivere il 30 aprile del 1970, a trentotto anni, quando è già un regista affermato che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia con L’infanzia di Ivan nel 1963  e stupito il mondo con Andrei Rublev  terminato nel 1966 ma presentato al Festival di Cannes soltanto tre anni dopo nel 1969, e distribuito in patria addirittura cinque anni dopo, nel 1971.

Nel 1970, quando comincia a scrivere i suoi Diari, Tarkovskij è già un uomo disilluso.  Il potere sovietico lo boicotta. I suoi progetti vengono quasi sempre bocciati, osteggiati,  boicottati.   Il regista è isolato dall’invidia dei colleghi, dalla ottusità della burocrazia,  dall’arroganza dei dirigenti statali.  Rivive su di sé la stessa amara frustrazione del padre Arsenij, grande poeta insignito dell’Ordine della Stella Rossa, la più alta onorificenza sovietica, per il suo eroismo durante la guerra contro i nazisti, che si vede rifiutare la pubblicazione del primo volume, nel 1946, con la motivazione che i versi tanto più sono talentuosi, tanto più “sono nocivi e pericolosi.”

E’ forse anche per sublimare questa frustrazione, e non soccombervi, che Andrej comincia dunque a stilare questi diari, che copriranno un arco di vita di sedici anni.  Si tratta di sette quaderni autografi, scritti in lingua russa, rilegati dallo stesso autore, che contengono anche schizzi e disegni, ma che soprattutto rappresentano una importantissima testimonianza del processo creativo, dei tormenti, delle crisi e della vita spirituale del grande regista. (1) 

(segue -1./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

1.      I Diari di Andrej Tarkovskij sono stati pubblicati finalmente in forma completa nella accurata e meritevole edizione italiana con il titolo di Diari – Martirologio (1970-1986),  da Edizioni della Meridiana di Firenze,2002,  curati dal figlio del grande regista, Andrej A. Tarkovskij, tradotti da Norman Mozzato, sfruttando la imponente documentazione custodita dall’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij che ha sede a Firenze, e con la collaborazione della Sovrintendenza Archivistica per la Toscana e dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.  Le citazioni contenute nel testo, tratte dai Diari di Tarkovskij, fanno riferimento a questa edizione. 

16/10/13

Intervista al premio Nobel 2013 Alice Munro - di Irene Bignardi.





Dopo La vista da Castle Rock aveva giu­rato che non avrebbe scritto più. E il suo edi­tore ita­liano, per con­so­larci di non poter più con­tare sull’atteso perio­dico appun­ta­mento con i bel­lis­simi rac­conti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrit­trici di que­sti due secoli, ha pen­sato bene di pub­bli­care una intensa, fre­schis­sima rac­colta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, tra­du­zione sem­pre impec­ca­bile di Susanna Basso).ù
Rac­conti acuti, dolo­rosi, su gente vera e nor­male, su fram­menti di vita impec­ca­bil­mente ricreati. Ma, dice ora mali­ziosa e rilas­sata la bella signora con i capelli bian­chi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E per­ché ha men­tito, signora? «Pen­savo che fosse una buona idea. Pen­savo che la gente mi potesse essere grata per que­sto». E Alice Munro, cana­dese, anni set­tan­ta­sette por­tati con gra­zia estrema («ma se mi penso mi penso a qua­ranta, quando sei ancora capace di eser­ci­tare un’attra­zione ses­suale e hai tempo davanti a te»), autrice di un cor­pus rela­ti­va­mente pic­colo e molto accla­mato di opere, sor­ride, beve vino bianco e ricorda. 

«Sono nata nel 1931, durante la depres­sione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disa­strosa. Non era­vamo dispe­ra­ta­mente poveri. Era­vamo men­tal­mente poveri. Col­ti­va­vamo il nostro cibo, le nostre ver­dure. E nostro padre alle­vava volpi argen­tate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le foto­gra­fie di Elea­nor Roo­se­velt aveva sem­pre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diven­tare ricco con que­sta atti­vità, ma non ha avuto mai abba­stanza soldi per inve­stire, e non ci è riu­scito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pel­licce è pas­sato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavo­rare in una fab­brica, in una fon­de­ria. Mia madre si è amma­lata molto gra­ve­mente di Par­kin­son ed è vis­suta per quasi vent’anni in que­sta condi­zione dispe­rata. E io, io ero la figlia più grande. E imma­gino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rima­sta a casa, con mia madre e mio fra­tello e mia sorella più pic­coli. Invece ho vinto una borsa di stu­dio e me ne sono andata. All’ uni­ver­sità. Per la verità non avevo abba­stanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quat­tro. Dovevo tro­vare qual­che forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non basta­vano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era spo­sarmi». 

Scherza? Spo­sarsi per soprav­vi­vere? 
«No, ero anche inna­mo­rata. Sa, ai ragazzi della mia città non pia­cevo affatto, per­ché ero così strana, una che leg­geva sem­pre. Ma è suc­cesso che all’ uni­ver­sità ho incon­trato un ragazzo capace di accet­tare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non pote­vano sop­por­tare che le loro donne si impe­gnas­sero seria­mente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era feli­cis­simo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto per­ché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bam­bina Sheila, poi una seconda bam­bina Cathe­rine, che è morta subito, poi una terza, Jean­nie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vive­vamo a Van­couver, nei sob­bor­ghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle pic­cole rivi­ste e una radio che pro­muoveva la let­te­ra­tura nazio­nale. Ho comin­ciato a ven­dere qual­che rac­conto, ad essere cono­sciuta nei giri che si occu­pa­vano di let­te­ra­tura…»

La leg­genda di Alice Munro vuole che per le short sto­ries si sia ispi­rata alla Sire­netta di Ander­sen e per i romanzi a Cime tem­pe­stose. 
«Non ose­rei mai di scri­vere sul modello di Cime tem­pe­stose, è un libro unico. Ma è vero che La sire­netta ha avuto un influsso molto pro­fondo su di me. Si è con­dan­nata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tra­ge­dia. In genere si pensa che una scrit­trice donna debba scri­vere come Jane Austen. E Jane Austen è bra­vis­sima. Ma per qual­cuna della mia classe sociale non è inte­res­sante come le Bronte. Io non sono mai stata inte­res­sata alla società ben edu­cata. Volevo che la gente avesse dei destini tra­gici e grandi emo­zioni. Quando i bam­bini erano pic­coli ho letto come una dispe­rata, tutto, ma non sono mai stata influen­zata dai clas­sici del ven­te­simo secolo come Proust, Mann, la let­te­ra­tura nobile, sa, per­ché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scri­vere sono Flan­nery O’ Con­nor, Car­son McCul­lers, Eudora Welthy, scrit­trici che rac­con­tano le pic­cole città, la povera gente. Il mio ter­ri­to­rio. Per­ché non solo ho avuto la for­tuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità»

Ci sono state anche altre influenze. 
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come came­riera, presso una fami­glia, durante le vacanze su un lago. Era­vamo in un posto molto iso­lato. Il padrone di casa mi ha dato da leg­gere le Sette sto­rie goti­che di Karen Bli­xen. E le ho amate mol­tis­simo, anche se poi più tardi ho pen­sato che non mi pia­ceva il suo punto di vista - quello di un’ ari­sto­cra­tica, e non solo, una che pen­sava che all’ ari­sto­cra­zia vanno riser­vati trat­ta­menti spe­ciali. Quando leggo una scrit­trice così penso sem­pre che nei suoi rac­conti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche gra­zie a lei se ho sco­perto la bel­lezza della forma rac­conto - senza tut­ta­via mai cer­care di imi­tare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la paro­dia del bello stile»

Ma lei fa dello stile: la lin­gua che usa è ricca, pre­cisa, a volte per­sino pre­ziosa nella scelta les­si­cale. «E’ un fatto cana­dese. La lin­gua è rima­sta pro­tetta in una cap­sula che non è tanto cam­biata»

Dif­fi­cile, per una donna, scri­vere nel suo paese? 
«Non dif­fi­cile, quasi impos­si­bile. Ero una gio­vane moglie e madre. Gli uomini non mi pren­de­vano sul serio. Be’, vera­mente, alcuni sì. Per esem­pio Robert Wea­ver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Diri­geva una rivi­sta, e non ha mai smesso di inco­rag­giarmi. Ma quando andavo agli incon­tri con gli altri scrit­tori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sop­por­ta­vano»

Per­ché era troppo bella? 
«Non mi sono mai con­si­de­rata bella. No. Per­ché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o orna­menti. Nes­suno mi pren­deva sul serio come scrit­trice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai mar­gini. Scri­vevo sulle cose sba­gliate, non scri­vevo di guerra, di poli­tica - ed era ancora l’ epoca Heming­way»

Ed è uno stu­pendo con­trap­passo che lei oggi sia il nome più grande della let­te­ra­tura cana­dese. «Sì. Una stu­penda ven­detta». Per­ché si è eser­ci­tata soprat­tutto la forma della short story? 
«Per via del mio lavoro da casa­linga. Non ho mai avuto un anno in cui lavo­rare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sem­pre inter­rotto. Non potevo nem­meno lon­ta­na­mente pen­sare a un romanzo»

Cin­que rac­conti di Le lune di Giove sono in prima per­sona. Siamo auto­riz­zati a pen­sare che sono molto per­so­nali? 
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto auto­bio­gra­fico: cose che ho vis­suto, per­ché non puoi scri­vere d’ amore senza aver avuto una certa quan­tità di espe­rienze d’ amore. O di sof­fe­renza»

O, come in L’inci­dente, dell’ azione del caso, del suo potere di scon­vol­gere e ridi­se­gnare le vite. «Non ho mai avuto un’ espe­rienza del genere, ma era impor­tante scri­vere quella sto­ria. E se in pas­sato ho capi­ta­liz­zato sulla mia vita, ora mi guardo mag­gior­mente in giro. Per esem­pio, sto lavo­rando adesso su una vec­chia signora che ho visto andare a farsi tin­gere i capelli di viola e di blu, ma che non ha nean­che un filo di trucco. Mi sono chie­sta: che cosa sta cer­cando, che cosa vuol pro­vare? E la mia fan­ta­sia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le sto­rie della comu­nità in cui vivo. Da qual­che anno sono tor­nata a vivere con il mio secondo marito in una pic­cola città, a trenta miglia da quella in cui sono cre­sciuta. Non scrivo diret­ta­mente sulla vita dei miei co­cittadini, ma mi incu­rio­si­sce come la orga­niz­zano - e la vita è sem­pre molto dif­fi­cile, è dif­fi­cile attra­ver­sarla ed essere felici»

Accet­te­rebbe la defi­ni­zione di pie­tas per il suo modo di guar­dare ai per­so­naggi dei suoi rac­conti? 
«O di com­pren­sione. O di capa­cità di per­do­nare i torti degli altri. Sì, se è pie­tas sapermi iden­ti­fi­care nella con­di­zione degli altri, nei loro com­por­ta­menti. Non scrivo così per­ché io sia par­ti­co­lar­mente buona. Ma per­ché posso imma­gi­nare che io stessa, in certe con­di­zioni, potrei com­por­tarmi in maniera diso­no­re­vole». 

Lei è molto amata e letta, ma i suoi rac­conti non sono certo con­so­la­tori o tran­quil­liz­zanti, sca­vano, fanno sof­frire. 
«Credo che la gente legga le mie sto­rie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Per­ché non cerco lo happy ending, per­ché scrivo per un momento di choc, di stu­pore, di rive­la­zione - ciò che rende la vita appas­sio­nante per me. E se rie­sco a susci­tare negli altri que­sto effetto, è mera­vi­glioso. Lo so, parlo di cose dif­fi­cili, di sof­fe­renza, di come si soprav­vive alla sof­fe­renza». Di Le lune di Giove, il rac­conto che dà il titolo alla rac­colta e che ha al cen­tro la figura di suo padre, col­pi­sce il suo rap­porto con la vec­chiaia. «Non ho mai avuto paura della vec­chiaia, ma ora, a set­tan­ta­sette anni, sento che il tempo si sta chiu­dendo. E ho un po’ paura delle cose che pos­sono suc­ce­dere. Di quello che ho visto suc­ce­dere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in pas­sato a come uso il tempo che mi è con­cesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sor­ride - per scri­vere». 

Intervista di Irene Bignardi,  Repubblica 5 marzo 2005

15/10/13

"Pasolini e Roma" - Una grande esposizione alla Cinematheque francese di Parigi.




Pasolini e Roma, un legame inscindibile e un rapporto di scambio tra il regista, sceneggiatore, poeta e scrittore, nato a Bologna il 5 marzo 1922, uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX/o secolo, ma anche il piu' "scandaloso e controverso", e la capitale italiana (dove si e' trasferito dal 1950 fino alla morte nel 1975). E' il tema dell'ampia e ricca esposizione che si apre domani alla Cinematheque francaise di Parigi (fino al 26 gennaio) organizzata in collaborazione con il Centro de cultura contemporanea di Barcellona (dove e' stata in cartellone fino al 15 settembre), il Palazzo delle esposizioni di Roma (in cui fara' tappa dal 3 marzo all'8 giugno 2014) e il Martin-Gropius-Bau di Berlino (in mostra dall'11 settembre 2014 al 5 gennaio 2015). Gli archivi di Bologna e Firenze e l'Istituto Luce, con il contributo della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, custode dell'eredita' letteraria del maestro, hanno messo a disposizione lettere autografe, sceneggiature, foto, film, documenti inediti, libri, locandine, dipinti, disegni e oggetti personali e intimi. 

Il percorso espositivo di 'Pasolini-Roma' e' cronologico e la voce di Pasolini accompagna il visitatore attraverso le varie sezioni che sono anche i luoghi della capitale che il maestro frequentava.

"La mostra - dice il direttore della Cineteca, Serge Toubiana - cerca di rendere conto dell'importanza e della complessita' dell'uomo attorno a un tema preciso, Roma vista attraverso lo sguardo Pasolini: i film, le amicizie, i suoi lavori come l'incarico di professore in un liceo di Ciampino, le case in cui ha abitato. Pasolini si e' impregnato di questa citta' per ridipingerla a suo modo".

Si parte con il suo arrivo in "una casa di poveri" nella periferia di Roma dal Friuli, quindi l'appartamento in via Fonteiana 86, nel quartiere di Monteverde, dove porta a compimento il suo primo romanzo 'Ragazzi di vita', quello in via Giacinto Carini 45, dove visse dal 1959 al 1993, nello stesso palazzo di Bernardo Bertolucci, il quale e' diventato poi il suo assistente, e poi l'ultima residenza in Via Eufrate e la trattoria di Ostia dove ha cenato prima di essere assassinato. Nel mezzo vari flash back: Piazza del popolo e il bar Rosati dove era solito incontrare gli amici, Elsa Morante, Alberto Moravia e Laura Betti, la collaborazione con Fellini sul set de 'Le notti di Cabiria'. Ma anche le frequentazioni con Ungaretti e Calvino, i viaggi a New York, Parigi e in Africa, la relazione professionale e di profonda amicizia con Ninetto Davoli (presente all'inaugurazione della mostra che lo ricorda con grande affetto e fierezza), le sue 33 denunce e l'accanimento della giustizia nei suoi confronti, tra l'altro, per vilipendio alla religione con il film 'La ricotta', per una presunta tentata rapina ai danni dell'addetto a un distributore di benzina, per censurare 'Accattone' e per le parolacce in 'Mamma Roma'. Ci sono anche estratti e sceneggiature di film (in programma nella sala della Cinematheque fino al 2 dicembre) da 'Accattone' (1961), a 'Il vangelo secondo Matteo' e 'Comizi d'amore' (1964), 'Uccellacci e uccellini' (1966), 'Teorema' (1968), 'Medea' (1969), 'Salo' e le centoventi giornate di sodoma' (1975). Tra le novita' della mostra un percorso virtuale sulla Roma di Pasolini disponibile sul web. Oltre a spettacoli, letture, giornate di studi. Persino due stazioni della metropolitana parigina dedicate a Pasolini.

"Questa esposizione non e' assolutamente commemorativa, Pasolini non deve diventare un monumento - spiega il curatore francese, Alain Bergala -: Pasolini non e' morto, il suo pensiero non e' morto". "Nel XX/o secolo gli artisti che hanno meglio interpretato o incarnato Roma non erano romani, salvo due eccezioni, Roberto Rossellini e Alberto Moravia - ricorda anche Gianni Borgna -. Pasolini, bolognese e friulano, fa cadere il velo che nascondeva la Roma di periferia. Nei suoi romanzi e film mostra un'altra Roma, a tal punto che si puo' dire che c'e' una Roma prima e dopo Pasolini".


14/10/13

Bauman a Milano: La felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli.




"Devo deludervi, non sono un guru", ha esordito Zygmunt Bauman, aprendo il suo intervento milanese a Meet The Media Guru: "non vi dirò come condurre la vostra vita". La conferenza di Bauman, uno dei maggiori pensatori viventi, ha toccato molti aspetti centrali della nostra condizione di esseri umani, a cominciare dal rapporto con la vita digitale. Secondo il sociologo, la nostra esistenza ha conosciuto, con la rivoluzione digitale, l'impatto con una divisione, quella tra online e offline, che ci ha imposto di vivere allo stesso tempo in due differenti dimensioni. In questo contesto, i bambini incontrano Internet ormai già a 4 anni e crescono senza nemmeno poter immaginare che la connessione al Web possa non esserci, tanto il nostro rapporto con la vita online è diventato stretto. La Rete, per Bauman, è parte del progresso, ma porta con sé anche un numero di "perdite collaterali". L'automatizzazione del lavoro, ad esempio, causa diminuzione di posti di lavoro "umani" sia nell'industria pesante che nel lavoro intellettuale, ha puntualizzato Bauman: "i server stanno immagazzinando la nostra conoscenza e la nostra capacità di memorizzare sta scomparendo".

Per esemplificare questa dicotomia tra guadagno e perdita dovuta al progresso, Bauman ha citato Mark Zuckerberg e l'incredibile successo di Facebook: il social network ha intercettato la nostra paura di non essere visti ed essere soli e ha fondato il suo successo sull'allontanamento di questa paura: "il fondamento delle relazioni online è la soddisfazione", ha specificato Bauman, "e le relazioni diventano estremamente fragili". Facebook ci dà un "gadget" che ci fa credere di poter incontrare 500 amici in un giorno stesso, "io non sono riuscito a farne altrettanti in 80 anni di vita", ha scherzato Bauman. "Il problema con Facebook e gli altri social network è che promettono esattamente quello che il progresso promette: rendere la nostra vita più semplice". Questo meccanismo si presenta anche nella gestione delle relazioni umane e sentimentali. Per Bauman, i social media servono, ad esempio, a rendere semplice la conclusione della relazione con un'altra persona, superando le dinamiche del mondo "offline". Ma siamo davvero felici di questa possibilità? Per Bauman la risposta è no: "la felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli".

La Rete, però, nella visione di Bauman porta con sé anche vantaggi, come la disponibilità quasi infinita di conoscenza: "con un click, Google ci presenta due milioni di risposte, un numero che non potremmo consultare nemmeno in tutta la nostra vita". Anche questo aspetto, però, ha un prezzo: l'impazienza e la perdita della capacità di conservare conoscenza "dentro di noi". Sono i server a conservare il nostro sapere, noi possiamo solo consultarlo e questo "avrà un effetto negativo sulla nostra creatività".

Per Zygmunt Bauman, Internet ci fa vivere "senza rischi", consentendoci di relazionarci solo con persone che la pensano come noi e condividono il nostro punto di vista: "le persone diventano così nostri specchi", ha spiegato Bauman; in caso contrario, "clicchiamo il tasto 'delete' e passiamo a un altro sito". Ma come uscire da questa condizione? Per l'autore della "vita liquida" una risposta è piuttosto ovvia: "parlando gli uni con gli altri e dimostrando interesse nel dialogo" per mantenere vivo l'interesse nei confronti di chi la pensa in modo diverso, evitando opinioni preconcette. La seconda soluzione è "essere aperti", dando inizio a un dialogo tenendo viva la possibilità che le nostre opinioni possano essere sbagliate. La terza possibilità è la cooperazione: "il dialogo non deve servire a far prevalere il nostro ego", ha spiegato Bauman, "perché nel dialogo con il diverso non devono esserci né vincitori, né vinti". Queste "arti" sono messe a repentaglio da Internet, nella visione di Bauman. Allo stato delle cose, riscoprire queste capacità di dialogo nei confronti del diverso è una questione "di vita o di morte" per il nostro futuro perché, ha chiosato Bauman, "Il futuro non esiste, il futuro va creato".

11/10/13

Bauman su Lampedusa: "la modernità produce persone superflue. Viviamo in un'epoca in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere."




“Qualsiasi cosa tenti di fare il premier Enrico Letta, o l’Europa, gli arrivi dall’Africa non finiranno”. Per Zygmunt Bauman, a Milano per la rassegna Meet The Media Guru, niente riuscirà a fermare chi è “in cerca di pane e acqua potabile”: né i governi, né tragedie del mare come quella di Lampedusa.

Durante la conferenza stampa di presentazione dell’incontro pubblico, il sociologo e filosofo polacco, 91 anni, ha spiegato che gli sbarchi non si fermeranno, perché “le migrazioni sono inseparabili dalla modernità. Infatti una caratteristica della modernità è la produzione di “persone superflue”: individui tagliati fuori dal processo produttivo che perdono la propria fonte di sussistenza. Il progresso economico consiste nel produrre la stessa quantità di cose che producevamo ieri con una minore quantità di lavoro e a un costo più basso. Chi rimane tagliato fuori diventa una persona superflua. E alle persone superflue, non resta che andarsene, cercando un altrove dove ricostruirsi una vita”.

Per Bauman poi “le economie europee hanno bisogno d’immigrati, perché senza di loro non potremmo vivere. Se nel Regno Unito gli irregolari venissero identificati e deportati, la maggior parte degli ospedali e degli alberghi collasserebbe, e credo che si possa dire lo stesso per l’economia italiana”.

Il sociologo ha ricordato che “per alcuni demografi la popolazione dell’Unione Europea diminuirà da 400 milioni di persone a 240 nei prossimi cinquant’anni: un numero troppo basso per mantenere i nostri standard di vita, il nostro benessere”. “In base ad alcuni calcoli - ha detto Bauman - nei prossimi 20 o 30 anni sarà necessario accogliere in Europa circa 30 milioni di migranti”.

Un fenomeno che gli stati nazionali, inadeguati di fronte alle sfide della contemporaneità, hanno pochi strumenti per arginare o regolare. Per il teorico della società liquida “i popoli non credono più che i partiti e i parlamenti nazionali siano ancora in grado di assolvere le funzioni per cui sono nati, e non solo perché in alcuni casi i politici sono corrotti o incapaci, ma perché per queste istituzioni è strutturalmente impossibile realizzare quello che promettono agli elettori”.

E per spiegare cita Antonio Gramsci: “Viviamo in un interregno, un’epoca in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere: le regole e le leggi del passato sono scomparse, ma le nuove leggi non sono ancora state inventate. La sovranità degli stati nazionali è ormai in buona misura una finzione. Il potere è la capacità di fare, la politica è decidere che cosa fare. La globalizzazione ha fatto evaporare il potere degli stati nazionali verso poteri sovranazionali liberi dal controllo della politica. Se un governo provasse a realizzare ciò che davvero vogliono i suoi elettori, invece di ciò che esige la finanza, i mercati lo punirebbero con durezza”.


10/10/13

Simone Weil - Le illuminazioni. (10 citazioni da meditare)




Non si finisce mai di esplorare l'universo di Simone Weil, il suo grande lascito spirituale e umano. Marco Cicala, in questo articolo pubblicato sul Venerdì di Repubblica ha ricostruito la sua vicenda alla luce delle memorie pubblicate dalla nipote, Sylvie Weil, la figlia del fratello André (1906-1998).  E' un pezzo molto interessante, che ci offre anche l'occasione di proporre dieci piccole perle dai diari di Simone, utili per la riflessione, da lasciar decantare e parlare, come avviene per ogni passo della sua grande opera. 



La compassione senza umiltà non è mai pura.
*
Il lavoro è per noi l'unica via che porta dal sogno alla realtà.
*
La collettività è più forte dell'individuo in tutto, tranne che per un aspetto: il pensiero.
*
Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare, instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile. L'umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità.
*
L'eternità si trova al termine di un tempo infinito. Il dolore, la fatica, la fame danno al tempo il colore dell'infinito. 
*
La forza del tempo strappa l'anima; e attraverso lo stretto; e attraverso lo strappo entra in essa l'eternità.
*
Ogni essere è un grido silenzioso che chiede di essere letto in maniera diversa. 
*
Accettare di essere anonimi, di essere materia umana. Rinunciare al prestigio, alla considerazione.
*
La creazione è un movimento che va dall'alto verso il basso. In questo senso il lavoro è una imitazione della creazione (come dell'incarnazione e dell'eucaristia).
*
Io desidero, io supplico che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi, interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché esso guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità.


Citazioni tratte da S.Weil, L'avventura di uno sguardo puro, Città Nuova 2001. 


09/10/13

Le navi (Tu manchi da questa camera) - di Mariangela Gualtieri.





Tu manchi da questa camera e le cose non chiamano,
oggi. Ho deciso che il tempo non passi. In tuo onore.
Che non passi di qui e si fermi di sotto - dove gli uomini
chiacchierano seduti barbaramente. Amore mio.



Mariangela Gualtieri, Le navi, da Senza polvere e senza peso, Einaudi 2006.

08/10/13

Stamattina, il fosso - di Fabrizio Falconi.







Stamattina, il fosso.


Stamattina
sono passato sotto un albero
le sue fronde cadenti
mi hanno carezzato i capelli,
- un tocco morbido e duro
allo stesso tempo.

Non me ne ero accorto:
quando, molto tempo dopo,
mi sono guardato allo specchio
ho scoperto
di avere tra i capelli
minuscoli frammenti
di foglie, rami
e polvere di terra
come una ghirlanda bruna
mi adornava la testa.

E ho pensato:
sarà così quando sarò morto,
gli alberi e la terra
sfioreranno la mia testa
se ne impadroniranno
dolcemente
con terribile silenzio
mi copriranno
nello stesso modo
- tocco morbido e duro
allo stesso tempo.

Ma poi un coro vittorioso
e perduto, come di bimbi afflitti
- per tutto quel non vissuto,
la vita gettata al vento del rischio –
ho sentito sussurrarmi
un poema nuovo:

“ E’ già ora così.
Non correre, non andare
non oltre.
E’ qui, ora il tuo fosso
da aprire, da svellere
e vivere,  bonificare
e nutrire nel fondo del fondo
di tutte le ere che lo hanno generato.

Tu sei l’odore di salvia
l’umidore del mattino, la luce
che fa il giro nuovo 
nei segreti dell'ombra."



Fabrizio Falconi -  tratto da M.C. Biggio (a cura di) - Luci da "Il Fosso" – Ventiquattro segni terrestri per Laudomia Bonanni (nel centenario della nascita). Poesie di Anedda, Biggio, Bre, Buffoni, Calandrone, Cavalera, Falconi, Giancarli, Gualtieri, Kinsella, Loi, Loreto, Mariani, Marzaioli, Merini, Pecora, Pizzi, Precht, Sica, Spaziani, Stewart, Tocci, Valesio. In copertina un olio di A. Arrivabene. Pp. 63, La Vita Felice, Milano 2008.

07/10/13

Nessun pensiero comprende l'amore - di Fabrizio Falconi




nessun pensiero comprende l'amore
nessun accenno, nessun rumore
conosce l'ardore, nessun sentimento
nessuna passione
l'amore si sconta nelle ore insonni
nel vento muto che agita il dolore
nello spazio sospeso o l'intervallo
di una parola mai data
nell'inciampo e in quello
che non riesce perché non sappiamo essere
il momento soltanto
la corsa di un animale o il suo riposo
tenerezze ostili, corpi e frammenti
cerchiamo l'uno e siamo
miseramente molteplici.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


06/10/13

Il Museo Hendrik Christian Andersen a Roma, un piccolo gioiello sconosciuto.




A Roma, anche in una città come Roma, esistono gioielli sconociuti. 

Uno di questi è il il Museo Hendrik Christian Andersen, in Via Pasquale Stanislao Mancini, al numero 20, a pochi metri da Piazza del Popolo. Che oltretutto è - incomprensibilmente - gratuito. 

Una bellissima palazzina Liberty conserva le opere dello scultore e pittore Hendrik Christian Andersen. 

Nato a Bergen in Norvegia nel 1872 da povera famiglia e naturalizzato americano essendo emigrato ancora bambino negli Stati Uniti, a Newport (Rhode Island), il giovane Andersen intraprese il viaggio di formazione in Europa nel 1894 e, dopo Parigi, si stabilì definitivamente a Roma dove visse per oltre quarant'anni. 

Alla sua morte, il 19 dicembre 1940, lasciò in eredità allo Stato italiano il suo studio-abitazione di via Mancini e quanto in essa contenuto: opere, arredi, carte d'archivio, materiale fotografico, libri. 

Ma solo dopo la morte nel 1978 di Lucia Andersen (adottata nel 1919 dalla madre dell'artista e quindi usufruttuaria del lascito), alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna è stata affidata la tutela delle raccolte e dell'edificio. 

La collezione delle opere (oltre duecento sculture di grandi, medie e piccole dimensioni in gesso e bronzo; oltre duecento dipinti; oltre trecento opere grafiche) si segnala per la sua eccezionalità essendo quasi interamente incentrata attorno all'idea utopistica, che ossessionò per tutta la vita Andersen, di una grande "Città mondiale", destinata ad essere la sede internazionale di un perenne laboratorio di idee nel campo delle arti, delle scienze, della filosofia, della religione, della cultura fisica. 

A tale progetto e alla sua diffusione Andersen aveva dedicato nel 1913 insieme all'architetto francese Ernest Hébrard un ponderoso volume (Creation of a World Centre of Communication; consultabile presso il Museo) che, partendo dalle concezioni urbanistiche delle antiche civiltà, doveva indicare l'approdo alla nuova e moderna "Città".

I due grandi atelier al piano terra- la Galleria, sala di rappresentanza ove l’artista mostrava ai visitatori le opere finite, e lo Studio, vero e proprio atelier per l’ideazione delle opere e la modellazione delle forme- accolgono le monumentali statue, i busti-ritratto e i disegni-progetto per il “Centro mondiale di comunicazione”. 

L’appartamento al primo piano, un tempo abitazione dell’artista, costituisce oggi uno spazio espositivo sia per le raccolte permanenti - dipinti, disegni, sculture di piccola dimensione- sia per mostre temporanee dedicate ai rapporti tra l’Italia e gli artisti stranieri dell’Ottocento e del Novecento. 

L’edificio chiamato Villa Helene (dal nome della mamma) viene lasciato in eredità da Hendrik Christian Andersen allo Stato italiano nel 1940, anno della sua morte. 

Corredano il museo splendide foto d'epoca, che ritraggono Andersen con personalità influenti dell'epoca come Tagore e Umberto Nobile.  

Tra le amicizie v'era poi quella, durata molti anni (consistente molto probabilmente in una vera e propria relazione). 

Penso a te nella dorata aria romana, scrive Henry James a Andersen il 2 gennaio del 1912, sto sospeso con te sopra la tua indicibile terrazza sul Tevere- siedo con te in quelle nobili sale.

E un'altra lettera del 2 febbraio del 1902, scritta all'indomani della morte del fratello di Hendrik, rende bene il contenuto del sentimento che James provava per l'amico, molto più giovane di lui:

Il fatto che non posso aiutarti, vederti, parlarti, toccarti, tenerti stretto a lungo o fare nulla per tranquillizzarti e farti sentire la mia profonda partecipazione - questo mi tormenta, carissimo ragazzo, mi fa dolere per te e per me stesso; mi fa stridere i denti e gemere contro l'amarezza di queste cose [...] Un solo pensiero che mi solleva un poco - mi auguro che tu possa pensare all'idea o anche solo alla possibilità. Sono in città per qualche settimana, ma tornerò a Rye il 1 aprile, e prima o poi ti vorrei vedere là, e stringerti e lasciarti posare su di me come fratello e amante, sostenerti, lentamente confortarti o almeno toglierti l'amarezza del dolore - questo io cerco di immaginare, come fosse pensabile, fattibile, non totalmente fuori questione. 



04/10/13

La vita armonica. (perché debbo vivere armonicamente ?)






Perché bisognerebbe vivere armonicamente ?  Anche ammesso che ciascuno sappia cosa significhi questo - cosa significhi scegliere tra una vita armonica, dove le cose e i gesti e i pensieri seguano il ritmo coerente di un ordine intrinseco,  e una vita caotica, dove ci si limiti a vivere come un legno alla deriva, sospinto dagli umori del vento - perché bisognerebbe scegliere la prima opzione ?

L'obiezione mossa da alcuni (dai tempi di Schopenhauer e prima ancora, e sempre più spesso) è: perché si dovrebbe scegliere l'uno - cercare faticosamente di vivere in armonia - invece dell'altro, abbandonarsi alla inerzia delle cose, visto che il fine della vita è lo stesso, ovvero la morte e la dispersione di tutto?

La risposta, molto banalmente, è nel dover essere.

E' così che è. Perché l'universo si è formato e sviluppato, secondo un ordine perfetto, invece di non nascere e di sbrindellarsi in un immane caos ?  Perché la vita ha ordinato il suo filo nel corso di miliardi di anni, per raggiungere uno scopo obbedendo ad un ordine inaudito di sequenze, anziché non nascere e rimanere poltiglia, cosa inespressa ?

Il dover essere del mondo è il suo essere.

Il dover essere è una legge (per quanto misteriosa) del mondo.

Noi siamo mondo.

E a quanto pare, nessuno può esimerci dal desiderio di una ricerca di vita armonica, perché - a quanto pare - l'armonia nasce solo da un'ordine (o al massimo da un armonico disordine).


Fabrizio Falconi


03/10/13

I guai del "tempo psicologico", l'incapacità di vivere il presente - Eckhart Tolle.





Vorrei che fossimo capaci di meditare profondamente su questa breve riflessione di Eckhart Tolle:

Ogni negatività è causata da un accumulo di tempo psicologico e dalla negazione del presente. Disagio, ansia, tensione, stress, preoccupazione (tutte forme di paura) sono causati da un eccesso di futuro e da un'insufficienza di presente. Senso di colpa, rimorso,risentimento, rancore, tristezza, amarezza e ogni forma di mancato perdono sono causati da un eccesso di passato e da una insufficienza di presente. In definitiva vi è un solo problema: la mente legata al tempo.

Mi sembra che raramente si sia espresso con più chiarezza quel che genera la nostra s-connessione dal mondo. L'incapacità di vivere il presente, o meglio di viverlo soltanto in modo epidermico, superficiale (il contrario dell'epicureismo classico) divenuto paradigma contemporaneo, è il veleno che lentamente svuota e sta svuotando di significato la vita. 

Il tempo psicologico - una pura proiezione - inficia il nostro contatto diretto con il mondo e con il centro di noi stessi che siamo (anche il mondo): quell'essere piantati qui e ora, che abbiamo dimenticato, a scapito di un nevrotico rincorrere un tempo soltanto mentale.

Siamo capaci di vivere ? Di vivere, ora ? 


Fabrizio Falconi


in testa, Helmut Newton, Big nude, 1975. 

30/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (5./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (5)


Le ultime pagine del 1961, prima della morte, sono straordinarie.
      Il giorno del giovedì santo (30 marzo), Hammarskjold davvero profeticamente, scrive:
    
     La morte si avvicina
     Tutta la volontà di un uomo Quantum Satis ?
     Egli è Deus Caritatis.
 
     Ragionavo per intendere questo,
     ma era troppo complicato per me:
    finché non sono entrato nel santuario di Dio. (14)

     Le prime tre righe di questo scritto sono tratte dal dramma di Ibsen, Brand.  E davvero l’invocazione del  pastore ibseniano che grida a Dio, devono apparire ad Hammarskjold, in quei giorni di terribile solitudine, un pre-sentimento fortissimo.   Poche settimane dopo, il 21 maggio, il giorno di Pentecoste, scrive quel brano di diario destinato a diventare un piccolo classico della spiritualità, brano nel quale, in poche righe, in scarne parole, è contenuto il significato di una vita intera e di una ricerca. Una traccia di cammino,  testamento esemplare da consegnare ai posteri:
   
      Io non so chi - o che cosa - abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno - o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l'esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d'Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l'impegno nella vita è l'oltraggio, e che l'umiliazione più profonda costituisce l'esaltazione massima che all'uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto. Proseguendo il cammino imparai, passo dopo passo, parola per parola, che dietro a ogni detto dell’eroe dei Vangeli, vi è un essere umano e l’esperienza di un uomo.  Anche dietro la preghiera che il calice gli fosse allontanato e dietro la promessa di vuotarlo.  Anche dietro ogni parola sulla croce.  (15)

      La consapevolezza che nulla può essere tolto.  Una pienezza nuova e sconosciuta e finalmente raggiunta. Nella umanità divina, nella sottomissione del Figlio, nel compimento di un , egli trova la risposta tanto agognata.  La domanda è stata posta nel modo giusto, la risposta è arrivata prima di comprendere pienamente la domanda, sulla base di una fiducia totale, di una sottomissione senza pretese, nella certezza di essere nel giusto.  Il 2 agosto del 1961, 40 giorni prima dell’incidente scrive:

Onnipotente…
Perdona
il mio dubbio,
la mia ira,
il mio orgoglio.
Piegami
con la tua grazia.
Innalzami
con il tuo rigore.

     Nel Getsemani personale di Hammarskjold l’ora è giunta.    E’ un nuovo paese,  scrive nell’ultima pagina del suo diario, il 24 agosto, in una realtà diversa da quella del giorno ? Oppure ho vissuto io lì, prima del giorno ? …. Eppure è lo stesso paese. E comincio a riconoscere la mappa e i punti cardinali. 
     I contorni del nuovo paese  sono forse quelli di una nuova Gerusalemme.  O almeno così piace immaginare, quando si giunge al termine della lettura delle fitte pagine di Markings, il Diario di Hammarskjold.   Il sacrificio, come tutto lasciava presagire, si compì.
     Riguardo la sua morte oggi sappiamo che si trattò, con ogni probabilità di un omicidio, voluto dalla compagnia franco-belga Unione Miniere,  una eliminazione motivata dall'opposizione dell'allora segretario generale dell'Onu alla secessione di una regione, goloso obiettivo di una delle società minerarie più potenti del pianeta. Scrive Luciano Canfora: “E ora, dopo quarant’anni, nelle pagine molto interne dei giornali, leggiamo quello che abbiamo sempre saputo: che l’Unione Miniere condannò a morte (per "incidente aereo") anche Hammarskjold, il segretario generale dellOnu, colpevole di opporsi alla secessione del Katanga, preda avita dellUnione Miniere”.  (16)
       Quel viaggio doveva servire al Segretario Generale per raggiungere il villaggio di Ndola, al confine tra Katanga e Rhodesia del Nord ed incontrare i secessionisti, convincerli a intavolare subito una trattativa di pace. 
       All’aeroporto di Leopoldville, prima di salire sulla scaletta dell’aereo, per l’ultimo volo fatale, Hammarskjold aveva confidato all’amico Sture Linner di aver appena intrapreso una propria personale traduzione dell’opera capitale di Martin Buber, l’Io e il Tu.
       Per l’uomo che aveva fatto della sua vita – al prezzo di una personale solitudine e di una devozione estrema - un inno alle possibilità della relazione, di ogni relazione, umana e divina, davvero non poteva esserci un testo programmaticamente più scelto di questo.

       “Lo scopo della relazione”  scrive Buber in una delle pagine più intense di quel libro, “è la sua stessa essenza, ovvero il contatto con il Tu; poiché attraverso il contatto ogni Tu coglie un  alito del Tu, cioè della vita eterna.” (17)     (5-FINE) 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

14. Op. cit. pag. 224 
15. Op.cit. pag.225 
16. Luciano Canfora, “Critica della retorica democratica”, Laterza, 2002. 
17. Martin Buber, Io e Tu, in Principio Dialogico, Comunità Milano, 1958, pag. 57.

29/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (4./)



Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (4)


Il coraggio non manca, dunque, a quest’uomo che sembra davvero aver posto un obiettivo ambizioso, davanti a sé: quello della santità, dell’avvicinarsi quantomeno alla santità, nella certezza di aver fatto tutto quel che si poteva, di aver dato tutto quel che si aveva.
      Un coraggio che da solo, servirebbe comunque a poco. E’ soltanto nell’accettazione, nel piegarsi ad una volontà superiore, e semmai proprio nello sforzo continuo di identificare questa volontà – cosa vuoi tu da me ? – che il cammino può proseguire, e giungere fino al termine.  In questo, il percorso di Hammarskjold ricorda da vicino quello di un altro gigante del Novecento, Dietrich Bonhoeffer.  Scrive nel suo quaderno Dag:

     Dinnanzi a te, padre
        In rettitudine e umiltà
     Con te, fratello,
        In fedeltà e coraggio !
     In te, spirito
        In quiete.

   Tuo, perché la volontà è il mio destino,
votato perché il mio destino è di essere usato e
consumato secondo la tua volontà.  (11)

    Rettitudine, umiltà, fedeltà, coraggio, quiete.  Parole semplici che nella teodicea di Hammarskjold rappresentano le strade convergenti per uniformarsi alla volontà di Dio. La fede, in fondo, appare soltanto che questo:  lo scomponimento delle proprie aspettative egoistiche, lo scioglimento di se stessi, delle proprie velleità individuali, in un disegno più grande, in un servizio più grande.
    
La fede è l’unione di Dio con l’anima, scrive Hammarskjold citando San Giovanni della Croce, La fede è: dunque, non può essere afferrata, né tantomeno identificata con formule usate per parafrasare ciò che è.      …. In una notte oscura. La notte della fede tanto oscura che non si può cercare nemmeno la fede.  E’ nella notte del Getsemani che l’unione si compie, quando gli amici dormono, gli altri tramano la rovina e Dio tace.
     Essere guidati da quel che vive quando “noi” più non viviamo come parti in causa o “saccenti”. Saper ascoltare e vedere ciò che dentro di noi è nel buio. E nel silenzio. (12)
     
      Negli ultimi tre anni, dal 1958 alla fine, il linguaggio nei Diari di Hammarskjold si fa sempre più rarefatto, sempre più diluito, quasi in obbedienza a questa legge del silenzio che sembra avvicinarlo sempre di più a Dio.  Aforismi e considerazioni, riflessioni e meditazioni sul proprio mestiere, sugli incontri e le circostanze, lasciano il posto ormai a veri e propri piccoli componimenti poetici, fatti di rapide terzine, di versi brevi tagliati, densi di immagini delicate e forti, di impressioni e combattuti sentimenti difficili da esprimere,  di considerazioni che appaiono davvero ultime, in cui si avverte spesso il peso di un destino:

Il cammino degli altri
ha soste
al sole
dove si incontrano.
Ma questo è  il tuo cammino,
ed è proprio ora,
ora, che non puoi tradire. (13)
      
      Ma davvero questo cammino particolare è anche un duro privilegio. Mi desti forse questa solitudine senza scampo affinché più facilmente io potessi darti tutto ? Scrive nel giorno del suo cinquantatreesimo compleanno. 

      Il Tu a cui si rivolge in modo sempre più accurato negli ultimi tempi della sua vita Hammarskjold, non è più così silenzioso. Una risposta arriva, è una risposta confermativa, ma – è la scoperta più radicale – una risposta che dipende molto (anzi, che dipende tutto) dalla domanda.    (-segue 4./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata


11. Op.cit. pag. 141
12. Op. cit. pag. 114 
13. Op. cit. pag.233

27/09/13

Dieci grandi anime - 1. Dag Hammarskjold (3./)

      


Dieci grandi anime. 1. Dag Hammarskjold (3)


E’ questo un primo orientamento importante,  sul quale Hammarskjold ritorna quando in una pagina del 1952 citando nuovamente Joseph Conrad e i personaggi del suo Lord Jim, scrive: Al limite dell’inaudito. L’inaudito; forse solo l’ultimo incontro di Lord Jim con Doramin, quando egli è giunto all’assoluto coraggio, e all’assoluta umiltà, in assoluta lealtà verso se stesso.  Con vivi sensi di colpa, ma cosciente a un tempo di aver assolto il debito, per quanto possibile in questa vita, attraverso quanto ha fatto per coloro che ora chiedono la sua vita.   Tranquillo e felice. Come quando si vaga solitari in riva al mare. (4)
    Assoluto coraggio dunque, assoluta umiltà, assoluta lealtà verso se stesso.  Sono queste le condizioni per consentirsi di giungere con animo tranquillo e felice all’appuntamento con la morte.  Hammarskjold ci pensa da sempre.  Lo scrive eloquentemente nel 1955 – e mancano soltanto sei anni alla fine della sua vita: Un tempo la morte faceva sempre parte della compagnia. Ora è la mia vicina di tavola: me la devo fare amica. In questa “riscoperta” intuitiva divenuta il filo di Arianna della mia vita – passo per passo, giorno dopo giorno – ora la fine è divenuta altrettanto palpabile quanto il dovere che mi spetta per domani. (5)
    E il dovere per Hammarskjold è mettere le ali ad un organismo internazionale – le Nazioni Unite – ancora giovane, sprovvisto di poteri e fragile, in un mondo diviso in grandi blocchi contrapposti.  E’ proprio durante il doppio mandato di Hammarskjold che per la prima volta nella storia dell’ONU – il 10 dicembre del 1954 -  viene votata una risoluzione per conferire un mandato diretto al Segretario Generale per gestire una crisi internazionale.  (6)
      Sarà un crescendo di impegni e fatiche per Dag, che passano attraverso l’invasione sovietica dell’Ungheria e la crisi di Suez (1956), la creazione, per iniziativa del Segretario Generale della prima forza armata di peace keeping delle Nazioni Unite, e  la riconferma con il secondo mandato nel 1958 (ctrl.), fino all’ultima crisi, quella congolese, che costerà la vita ad Hammarskjold, apertasi nel luglio 1960 e culminata nelle richieste di dimissioni arrivate direttamente da Nikita Chruscev.  (7)
     Rimarrò al mio posto per quanto resta del mio mandato come un servitore dell’Organizzazione - risponde orgogliosamente al presidente sovietico Hammarskjold, in un celebre discorso tenuto all’Assemblea Generale, il 3 ottobre del 1960 -  nell’interesse di tutte le altre nazioni, fin quando esse vorranno che io faccia così.  (8)  
     E’ nell’attraversamento di queste dure prove che si esprime, in parallelo, il peculiare misticismo di Hammarskjold.  La sua ricerca di Dio diventa il cammino in controluce di una carriera, di una vita, perennemente esposta alla luce dei riflettori del mondo Già da bambino, Hammarskjold ha fatto l’abitudine al silenzio, alla meditazione. Sa che questo e soltanto questo può salvarlo, in definitiva, dall’assordante chiasso del mondo.  Viene da terre fredde, ha trascorso lunghi anni, bambino, al seguito del padre, prima capo del governo, poi governatore di Uppsala, in una grande e bellissima casa da cui si domina la città.  La sua famiglia di provenienze nobili, è conosciuta e ammirata in tutta la Svezia. Il padre è intimo amico dell’arcivescovo Nathan Soderblom, grande teologo
svedese, uno dei fondatori del movimento ecumenico moderno, e vincitore a sua volta del premio Nobel per la Pace nel 1930. Dag cresce in questo clima, e non è difficile immaginarlo come una sorta di Alexander, il protagonista del celebre film di Ingmar Bergman (9), ambientato proprio a Uppsala.  Riceve i rudimenti della fede luterana, sviluppa un carattere timido, introverso, la passione per l’arte, la letteratura, la musica. Non si sposerà mai, non metterà su famiglia, forse anche  obbedendo a quel pre-sentimento di avere di fronte a sé una vita breve.
      La solitudine interiore, l’isolamento, sempre e comunque, anche nonostante una vita convulsa, diventano l’habitat necessario per una ricerca che non si interrompe mai, per il dialogo più difficile con un Interlocutore presente, ma  silenzioso.
      Basti pensare che alla quiete Dag Hammarskjold edificherà un vero e proprio monumento: la stanza per la meditazione fu infatti fortemente voluta dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, che ne seguì personalmente ogni fase, dalla progettazione (al centro della stanza un raggio di luce proveniente dall’alto colpisce la nuda superficie di una pietra), all’arredamento, fino all’inaugurazione, nel 1957, occasione per la quale Hammarskjold scrisse un testo, intitolato Una stanza di quiete, che ancora oggi compare nel depliant distribuito alle migliaia di persone che ogni anno visitano il Palazzo delle Nazioni Unite di New York.  Nelle intenzioni questo doveva essere un luogo “le cui porte possano essere aperte agli spazi infiniti del pensiero e della preghiera. “  Hammarskjold fu uno dei primi statisti a rendersi conto che uno dei maggiori rischi per l’uomo politico è quello di distaccarsi dalla realtà e da se stesso.  Di non avere tempo per stare solo e riflettere.  Una esigenza simile è stata sottolineata ed espressa recentemente da Barack Obama, prima della sua elezione, in un incontro a Londra con l’allora primo ministro inglese Tony Blair.  La quiete come presupposto ultimo per cercare se stessi,  per rimanere un “humus aperto, umido nel fertile buio dove cade la pioggia e cresce il grano.”
      E’ questo del resto, anche il senso di ogni ricerca mistica, che per Hammarskjold non è mai fuga dal mondo.       
       “L’esperienza mistica”.  Sempre qui e ora… in quella libertà che è tutt’uno con il distacco, in quel silenzio che nasce dalla quiete. Ma questa libertà è una libertà nell’azione, questa quiete è quiete tra gli uomini. Il mistero è perenne realtà per chi è libero da se stesso nel mondo, è realtà in una tranquilla maturità nell’attenzione ricettiva e acconsenziente. 
      Nel nostro tempo la via della santità passa necessariamente attraverso l’azione.
      Bisogna dare tutto per tutto.  (10)   (-segue 3./).

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

4. Op. cit. pag.97
5. Op. cit. pag.125
6. Si tratta della vicenda degli aviatori americani dipendenti dalle forze ONU in Corea, fatti prigionieri e condannati poi dalla Cina per spionaggio, che verranno rilasciati il 1. agosto dell’anno seguente – 1955 – grazie proprio alla paziente opera di Hammarskjold che visita diverse volte Pechino, ricavando dal governo cinese ripetuti rifiuti fino alla improvvisa liberazione, esattamente due giorni dopo il cinquantesimo compleanno di Dag Hammarskjold (29 luglio 1955).
7. Il 30 giugno 1960, a solo un anno e mezzo dai primi violenti scontri con Bruxelles, il Congo divenne stato indipendente. Iniziò un lungo e sanguinoso periodo di lotte tra fazioni e guerra civile, culminante con la presa del potere da parte del colonnello Mobuto, dopo l’arresto e la condanna a morte nel gennaio del 1961 di Patrice Lumumba, colui che era stato uno degli artefici principali della liberazione e della lotta per la indipendenza dal Belgio.
8. Cit. tratta da Foote, Wilder, ed., Servant of Peace: A Selection of the Speeches and Statements of Dag Hammarskjöld, Secretary-General of the United Nations 1953-1961. New York, Harper & Row, 1962. 
9. Fanny e Alexander (Fanny och Alexander), film del 1982 di Ingmar Bergman, con Pernilla Allwin e Bertil Guve, vincitore di 4 premi Oscar. In Italia è edito su dvd dalla Sanpaolo Audiovisivi. 
10. Op. cit. pag. 139.