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L'incredibile, tragica morte di Percy Bysshe Shelley in Italia, poeta romantico per eccellenza
15/07/22
*Ingmar Bergman privato e pubblico. Arriva il documentario girato da Margaretha von Trotta sul grande maestro: "In Searching for Ingmar Bergman*
14/07/22
*Quando Rimbaud a 18 anni trafisse con un colpo di spada Etienne Carjat, il fotografo che lo aveva ritratto nella foto divenuta iconica.*
12/07/22
"Kinski, il mio nemico più caro" - La follia, gli aneddoti, l'ossessione psicotica del suo attore feticcio raccontato in documentario bellissimo da Werner Herzog
10/07/22
Poesia della Domenica: "Sappi attendere" di Antonio Machado
come una barca in secco - né t'inquieti il partire.
La lettera - intima - che Paul Mc Cartney scrisse a John Lennon e lesse nel 1994 per l'ingresso di John nella Rock'n Roll of Fame - Testo e video
Caro John,
Mi ricordo quando ci siamo incontrati per la prima volta, a Woolton, alla festa del paese. Era una bella giornata estiva, avevo camminato fin lì e ti ho visto sul palco. E tu stavi cantando "Come Go With Me", dai Vichinghi Dell, ma non sapevi le parole e così le inventavi. "Vieni con me al penitenziario." Non era nel testo.
Mi ricordo quando scrivevamo le nostre prime canzoni insieme. Andavamo a casa mia, a casa di mio padre, e fumavamo il Ty-Phoo the con la pipa di mio padre che conservava in un cassetto. Non ha fatto molto per noi, ma ci ha portato sulla strada.
Volevamo essere famosi.
Ricordo le visite alla casa di tua mamma. Julia era una donna molto alla mano, una donna molto bella. Aveva i capelli lunghi e rossi e suonava l'ukulele. Non avevo mai visto una donna che sapeva farlo. E mi ricordo di aver dovuto spiegarti gli accordi per la chitarra, perché avevi imparato a suonare gli accordi per l'ukulele.
E poi al tuo 21esimo compleanno hai ricevuto 100 sterline da uno dei tuoi parenti ricchi di Edimburgo, e quindi abbiamo deciso di andare in Spagna. Così abbiamo fatto l'autostop da Liverpool, fino a Parigi, e abbiamo deciso di fermarci lì, per una settimana. E alla fine ci siamo fatti fare il nostro taglio di capelli, da un tizio di nome Jurgen, che ha finito per essere il "taglio di capelli alla Beatle".
Ricordo quando ti presentai il mio amico George, il mio compagno di scuola, che tu facesti entrare nella band dopo che lui ebbe suonato "Raunchy" sull' autobus. Rimanesti colpito. E incontrammo Ringo che lavova tutta la stagione al campo Butlin - era un professionista esperto - ma la barba doveva sparire, e se la tagliò.
Più tardi abbiamo ottenuto di suonare ad un concerto al Cavern Club di Liverpool che era ufficialmente un club blues. Noi non sapevamo veramente tutti i numeri blues. Apprezzavamo molto il blues, ma non sapevamo i numeri del blues, così ci siamo presentati con un "Signore e signori, questo è un grande numero di Big Bill Broonzy chiamato" Wake Up Suzie Little " E il pubblico continuava a dire "Questo non è il blues, questo non è il blues. Questa canzone è pop." Ma abbiamo continuato a suonarla.
E poi siamo finiti in tour. Era un tizio chiamato Larry Parnes che ci ha ingaggiati per il nostro primo tour. Ricordo che cambiammo tutti i nostri nomi per quell'occasione. Cambiai il mio in Paul Ramon, George Harrison diventò Carl Harrison e, anche se la gente pensa che in realtà non cambiasti veramente il tuo nome, mi sembra di ricordare che diventasti Long John Silver per tutta la durata del tour.
Viaggiavamo su un furgoncino durante il tour, e una notte il parabrezza si ruppe. Eravamo in autostrada e stavamo tornando a Liverpool. Si congelava e quindi abbiamo dovuto metterci uno sopra l'altro nella parte posteriore del furgone creando un sorta di panino-Beatle. Abbiamo avuto modo di conoscerci. Ci siamo conosciuti così.
Siamo arrivati ad Amburgo e abbiamo incontrato personaggi del calibro di Little Richard, Gene Vincent ... Mi ricordo di Little Richard quando ci invitò al suo hotel. Stava guardando l'anello di Ringo e disse: "Amo questo anello. Ho un anello simile. Potrei darti un anello simile." Così siamo andati tutti in albergo con lui. (Non abbiamo mai avuto un anello.)
Siamo tornati con Gene Vincent nella sua camera d'albergo una volta. Era andato tutto bene finchè non si avvicinò ad un cassetto del comodino e ne tirò fuori una pistola. Dicemmo: "Ehm, dobbiamo proprio andare, Gene, dobbiamo andare ..." Uscimmo di corsa!
E poi arrivarono gli Stati Uniti - New York City - dove ci siamo incontrati con Phil Spector, le Ronettes, Supremes, i nostri eroi, le nostre eroine. E poi a Los Angeles, incontrammo Elvis Presley per una grande serata. Abbiamo visto il ragazzo sul suo territorio nazionale. Ragazzi! Era un eroe.
E poi, Ed Sullivan. Volevamo essere famosi, e lo eravamo davvero diventati. Voglio dire, immaginate di incontrare Mitzi Gaynor a Miami!
Poi, la registrazione ad Abbey Road. Ricordo ancora mentre suonavamo "Love Me Do." Tu ufficialmente cantavi "Love me do", ma perché suonavi l'armonica. Poi George Martin disse all'improvviso nel mezzo della sessione: " Può Paul cantare il verso " Love me do? " , il pezzo cruciale.
Mi ricordo mentre cantavo "Kansas City" - beh, non riuscivo a farlo, perché è difficile da cantare quella roba. Sai, urlare nella parte superiore della testa (?). Sei sceso dalla sala di controllo e mi ha portato da una parte e mi hai detto: "Ce la puoi fare, devi solo urlare, si può fare." Così, grazie. Grazie per questo. Sono riuscito a farlo.
Mi ricordo mentre scrivavamo "A Day in the Life" insieme, e l'occhiata d'intesa che ci siamo lanciati quando abbiamo scritto il verso "I'd love to torn you on". Sapevamo quello che stavamo facendo, sai. Uno sguardo furtivo.
Dopo di che c'era questa ragazza di nome Yoko. Yoko Ono. Lei si presentò a casa mia un giorno. Era il compleanno di John Cage e lei disse che voleva entrare in possesso di alcuni manoscritti di diversi autori per consegnarglieli, e ne voleva uno mio e tuo. Così ho detto: "Beh per me va bene, ma dovrai andare da John ".
E lei lo ha fatto ...
Dopo di che avevo impostato un paio di macchine di registrazione Brennell, che eravamo soliti usare, e tu sei rimasto sveglio tutta la notte e hai registrato "Two Virgins". Ma lo hai fatto da solo - non aveva niente a che fare con me.
E poi, poi c'erano le telefonate con te. La gioia per me, dopo tutta la merda di business che avevamo attraversato, era che stavamo tornando insieme e comunicavamo ancora una volta.
Così ora, anni dopo, eccoci qui. Tutte queste persone. Qui si sono riuniti per ringraziarti per tutto quello che hai significato per tutti noi.
Questa lettera viene dal cuore, dal tuo amico Paul.
John Lennon, ce l'hai fatta. Stasera sei entrato nella Rock Hall 'n' Roll of Fame.
Dio ti benedica.
Paul
I remember when we first met, at Woolton, at the village fete. It was a beautiful summer day and I walked in there and saw you on stage. And you were singing “Come Go With Me,” by the Dell Vikings, But you didn’t know the words so you made them up. “Come go with me to the penitentiary.” It’s not in the lyrics.
I remember writing our first songs together. We used to go to my house, my Dad’s home, and we used to smoke Ty-Phoo tea with the pipe my dad kept in a drawer. It didn’t do much for us but it got us on the road.
We wanted to be famous.
I remember the visits to your mum’s house. Julia was a very handsome woman, very beautiful woman. She had long, red hair and she played a ukulele. I’d never seen a woman that could do that. And I remember to having to tell you the guitar chords because you used to play the ukulele chords.
And then on your 21st birthday you got 100 pounds off one of your rich relatives up in Edinburgh, so we decided we’d go to Spain. So we hitch-hiked out of Liverpool, got as far as Paris, and decided to stop there, for a week. And eventually got our haircut, by a fellow named Jurgen, and that ended up being the “Beatle haircut.”
I remember introducing you to my mate George, my schoolmate, and getting him into the band by playing “Raunchy” on the top deck of a bus. You were impressed. And we met Ringo who’d been working the whole season at Butlin’s camp - he was a seasoned professional - but the beard had to go, and it did.
Later on we got a gig at the Cavern Club in Liverpool which was officially a blues club. We didn’t really know any blues numbers. We loved the blues but we didn’t know any blues numbers, so we had announcements like “Ladies and gentlemen, this is a great Big Bill Broonzy number called “Wake Up Little Suzie.” And they kept passing up little notes - “This is not the blues, this is not the blues. This is pop.” But we kept going.
And then we ended up touring. It was a bloke called Larry Parnes who gave us our first tour. I remember we all changed names for that tour. I changed mine to Paul Ramon, George became Carl Harrison and, although people think you didn’t really change your name, I seem to remember you were Long John Silver for the duration of that tour. (Bang goes another myth.)
We’d been on a van touring later and we’d have the kind of night where the windsceen would break. We would be on the motorway going back up to Liverpool. It was freezing so we had to lie on top of each other in the back of the van creating a Beatle sandwich. We got to know each other. These were the ways we got to know each other.
We got to Hamburg and met the likes of Little Richard, Gene Vincent…I remember Little Richard inviting us back to his hotel. He was looking at Ringo’s ring and said, “I love that ring.” He said, “I’ve got a ring like that. I could give you a ring like that.” So we all went back to the hotel with him. (We never got a ring.)
We went back with Gene Vincent to his hotel room once. It was all going fine until he reached in his bedside drawer and pulled out a gun. We’ said “Er, we’ve got to go, Gene, we’ve got to go…” We got out quick!
And then came the USA — New York City — where we met up with Phil Spector, the Ronettes, Supremes, our heroes, our heroines. And then later in L.A., we met up with Elvis Presley for one great evening. We saw the boy on his home territory. He was the first person I ever saw with a remote control on a TV. Boy! He was a hero, man.
And then later, Ed Sullivan. We’d wanted to be famous, now we were getting really famous. I mean imagine meeting Mitzi Gaynor in Miami!
Later, after that, recording at Abbey Road. I still remember doing “Love Me Do.” You officially had the vocal “love me do” but because you played the harmonica, George Martin suddenly said in the middle is the session, “Will Paul sing the line “love me do?”, the crucial line. I can still hear it to this day - you would go “Whaaa whaa,” and I’d go “loove me doo-oo.” Nerves, man.
I remember doing the vocal to “Kansas City” — well I couldn’t quite get it, because it’s hard to do that stuff. You know, screaming out the top of your head. You came down from the control room and took me to one side and said “You can do it, you’ve just got to scream, you can do it.” So, thank you. Thank you for that. I did it.
I remember writing “A Day in the Life” with you, and the little look we gave each other when we wrote the line “I’d love to turn you on.” We kinda knew what we were doing, you know. A sneaky little look.
After that there was this girl called Yoko. Yoko Ono. She showed up at my house one day. It was John Cage’s birthday and she said she wanted to get hold of manuscripts of various composers to give to him, and she wanted one from me and you. So I said,” Well it’s ok by me. but you’ll have to go to John.”
And she did…
After that I set up a couple of Brennell recording machines we used to have and you stayed up all night and recorded “Two Virgins.” But you took the cover yourselves — nothing to do with me.
And then, after that there were the phone calls to you. The joy for me after all the business shit that we’d gone through was that we were actually getting back together and communicating once again. And the joy as you told me about how you were baking bread now. And how you were playing with your little baby, Sean. That was great for me because it gave me something to hold on to.
So now, years on, here we are. All these people. Here we are, assembled, to thank you for everything that you mean to all of us.
This letter comes with love, from your friend Paul.
John Lennon, you’ve made it. Tonight you are in the Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.
God bless you.
Paul
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04/07/22
Sembra incredibile, ma al funerale di Elsa Morante, la più grande scrittrice italiana, a Roma, non ci furono più di 20 persone.
Sembra davvero incredibile il disinteresse che il nostro paese dimostrò per gli ultimi anni vissuti da uno dei suoi più grandi scrittori, Elsa Morante, che a Roma morì, il 25 novembre 1985, a settantatré anni.
Come si sa, l'ultimo romanzo di Elsa Morante fu Aracoeli, pubblicato sempre da Einaudi nel 1982, per il quale, nel 1984, ottenne il Prix Médicis, uno dei più prestigiosi premi francesi.
Poco prima della fine della stesura del romanzo, la Morante, cadendo, si era procurata una frattura al femore, che la costrinse lungamente a letto.
Ma dopo l'uscita del libro scoprì anche di essere gravemente ammalata; tentò il suicidio nel 1983, ma fu salvata in extremis dalla sua governante, Lucia Mansi.
Ricoverata in clinica, fu sottoposta a una complessa operazione chirurgica, che però non le giovò molto. Morì nel 1985 a seguito di un infarto.
Come ricorda l'editore Livio Garzanti per i funerali, alla chiesa di piazza del Popolo, qualche giorno dopo, c’erano meno di venti persone. "Ultimo, sbarcò da un’automobile Moravia (che la Morante aveva spostato nel 1941, ndr.), elegante, accompagnato dalla nuova giovanissima Carmen Llera. Un tic nervoso gli scuoteva le spalle in controcampo con la sua zoppia."
Un funerale del tutto indegno, per una scrittrice e una intellettuale quale fu la Morante, che ha lasciato un segno indelebile nel Novecento italiano.
Di quel funerale nemmeno si trovano testimonianze fotografiche in rete. Nemmeno una.
Questo invece è il corsivo che scrisse Laura Laurenzi, giornalista di Repubblica, il giorno dopo:
Piangono tutti, gli amici più cari; gli altri invece, molti altri, sembrano essere venuti soltanto per guardare. Piange Lucia, spezzata dal dolore, la vecchia governante che due anni e mezzo fa strappò Elsa al suicidio, piange e si raccomanda che le belle piante di limone e di mandarino che ornano il feretro non vadano perdute. Piange la sorella Maria, dal viso forte e sereno, piange Carlo Cecchi, l' amico più caro, con gli occhi cerchiati e un' aria smarrita. Natalia Ginzburg è immobile nel dolore, cupa e severa, sottobraccio alla figlia Alessandra, anche lei commossa. Ed è commossa, il viso rigato di lacrime, l' infermiera di Villa Margherita che ha seguito giorno per giorno la lunga agonìa e racconta di sofferenze tremende, e di urla spaventose durante la notte.
A Makarousse, il bambino libico di nove anni vicino di stanza della Morante e condannato da un cancro, l' ultimo amico profondo della scrittrice, nessuno ha avuto il coraggio di spiegare che Elsa è morta, non c' è più. "Ci domanda continuamente di lei - racconta l' infermiera -. Per ora gli abbiamo detto che è stata trasferita in un' altra clinica".
Piange, mescolata ai colleghi, anche la fororeporter Antonia Cesareo, amica anni fa della Morante ("Fu Elsa, insistendo, a convincermi che dovevo assolutamente fare un figlio"), piange e non riesce a scattare fotografie. La chiesa è quella di Santa Maria del Popolo, parrocchia della Morante, la chiesa degli splendidi Caravaggio amata da tanti scrittori e dove furono celebrati anche i funerali di Gadda.
Più che un funerale Elsa Morante avrebbe voluto una festa: lo disse in una delle sue ultime interviste. Una festa, tutti felici, e musiche di Mozart, di Bach e del primo Bob Dylan. L' hanno accontentata soltanto su Bach: "Per gli altri autori era troppo complicato, bisognava forse usare dei dischi", spiega Dacia Maraini, venuta prima degli altri per curare le musiche del rito. L' organista suona dunque la Passione secondo Matteo, come aveva espressamente chiesto la Morante, e alcuni dei Preludi Corali, per primo "Cristo giaceva nelle catene della morte".
Moravia, pallidissimo, il volto contratto, si fa strada fra una siepe di fotografi. Lui e la sua nuova compagna Carmen Lhera arrivano insieme ma entrano separati, e si fermano in fondo alla chiesa, al quart' ultimo banco, mentre tutti i parenti e gli amici più stretti, microcosmo quotidiano delle ultime sofferenze, sono accanto alla bara, nel primo banco di destra.
Soltanto due i cuscini di fiori. Uno dice "i cugini Morante", l' altro "il condominio di via dell' Oca". Una bimba depone un mazzo di margherite sulla bara. C' è anche Claudia Cardinale, un piccolo tailleur grigio, i capelli legati, senza trucco, quasi non riuscisse a togliersi di dosso il personaggio spoglio e sofferente di Ida Ramundo, la protagonista della Storia che sta interpretando sul set.
Ma Elsa Morante era religiosa? Avrebbe voluto tutto questo? "Sì, credeva in Dio - spiega la sorella -, anche se la sua religiosità non era certo chiesastica, ma tutta spirituale".
All' uscita del feretro sulla piazza un applauso, prima incerto, come imbarazzato, poi lungo e commosso, che suona come un grazie. Nella folla che riempie la chiesa e il sagrato, fra gli altri, l' anziano poeta Attilio Bertolucci ("Ci frequentammo tanto negli anni 50, fui io a presentarle Pierpaolo Pasolini"), Giorgio Bassani amico di quei tempi, Cesare Zavattini.
Nessun uomo politico, non un ministro.
Elsa Morante, per suo stesso volere, concluse le formalità burocratiche, sarà cremata.
01/07/22
Qual è la vera storia di "Lunch atop a Skyscraper" - "Pranzo su un grattacielo", l'iconica foto degli operai sospesi nel vuoto nel 1930?
Questo ritratto di 11 operai del ferro che pranzano con disinvoltura seduti precariamente su una trave d'acciaio a 850 piedi d'altezza ha catturato l'immaginazione di milioni di persone quasi subito dopo la sua pubblicazione sul New York Herald-Tribune il 2 ottobre 1932, ma tutte le informazioni che un tempo si conoscevano sui soggetti e sul fotografo sono andate perse nel tempo. Sebbene sia più comunemente nota come "Pranzo in cima a un grattacielo", l'immagine è stata chiamata con nomi diversi nel corso degli anni, tra cui "Pranzo su una trave" e "Uomini su una trave".
Anche il luogo è stato oggetto di dibattito: Alcuni pensavano che si trattasse dell'Empire State Building, mentre in realtà si tratta di una foto pubblicitaria scattata durante la costruzione del 69° piano dell'RCA Building del Rock Center - oggi conosciuto come 30 Rock - ma grazie al lavoro investigativo di due registi irlandesi, questa e altre informazioni sulla foto sono venute alla luce.
Quasi 12 anni fa, nel 2010, Seán Ó Cualáín e suo fratello Éamonn ne hanno trovato una copia sulla parete di un piccolo pub di Shanaglish, a Galway, in Irlanda. "Accanto alla foto c'era un biglietto di un certo Pat Glynn, figlio di un emigrante locale, che sosteneva che suo padre e suo zio erano sulla trave", racconta Seán. "Sapevo ben poco della foto, se non che ero cresciuto con il mito che tutti gli uomini che vi comparivano erano irlandesi. Quindi eravamo incuriositi. Quando siamo usciti dal pub, il proprietario ci ha dato il numero di Pat e da lì siamo partiti". La loro ricerca per svelare il mistero della foto si è trasformata nel pluripremiato documentario del 2012, Men at Lunch.
La loro ricerca non è stata facile. "La sorpresa più grande è stata che, nonostante il richiamo mondiale della foto, nessuno aveva cercato di scoprire chi fossero gli uomini o il fotografo prima di noi", racconta Seán. "Stavamo letteralmente partendo da zero e senza l'assistenza e l'entusiasmo dell'archivista del Rockefeller Center, Christine Roussel, ci saremmo trovati in grossi guai". Dopo aver esaminato decine di fotografie dell'archivio scattate durante la costruzione del Centro, la Roussel è riuscita a identificare due degli uomini: Joe Curtis, il terzo da destra, e Joseph Eckner, il terzo da sinistra. (Purtroppo, a causa di limiti di programmazione e di budget, i registi non sono riusciti a sapere molto di più su di loro, a parte i nomi).
Per quanto riguarda Pat Glynn, i registi hanno incontrato lui e suo cugino, Patrick O'Shaughnessy, a Boston, dove hanno confrontato le foto di famiglia con gli uomini sulla trave. Entrambi sono convinti che l'uomo all'estremità destra con in mano una bottiglia sia il padre di Pat, Sonny Glynn, mentre l'uomo all'altra estremità sia il padre di Patrick, Matty O'Shaughnessy.
"Le somiglianze fisiche sono impressionanti, ma poiché non sono rimasti documenti di lavoro della costruzione Rockefeller, è molto difficile affermare con certezza al 100% che Sonny e Matty erano sulla trave", dice Seán. Dato che più di 40.000 persone sono state assunte per aiutare a costruire il Rockefeller Center - un'opportunità economica senza precedenti per una popolazione che stava lottando contro la Grande Depressione, molti dei quali stavano affrontando discriminazioni basate anche sulla loro provenienza - è piuttosto sorprendente che non esistano registri.
Tuttavia, quello che si sa è che tra questi lavoratori non c'erano solo irlandesi-americani e immigrati irlandesi, ma anche italiani, scandinavi, europei dell'Est, tedeschi e persino operai Mohawk del Canada. (Per oltre 100 anni, i membri della tribù Mohawk hanno contribuito alla costruzione di quasi tutti i grattacieli più importanti di New York, tra cui il Rockefeller Center, l'Empire State e il Chrysler). Di conseguenza, persone di ogni provenienza, provenienti da tutto il mondo, hanno dichiarato di conoscere gli uomini della foto.
Qual è l'opinione del regista? "Credo che su quella trave ci siano Matty e Sonny", dice Seán. "I documenti di famiglia collocano entrambi a New York all'epoca della foto. Inoltre, una frase detta da Patrick O'Shaughnessy alla fine del film mi è sempre rimasta impressa: 'Non si arriva all'età che ho io adesso senza sapere chi sei e chi è tuo padre'". Si spera che un giorno tutti gli uomini vengano identificati con certezza.
Mentre sono in corso ulteriori ricerche, ora sapete che potete festeggiare gli irlandesi a terra durante la parata o dal ponte di osservazione del Top of the Rock, vicino al luogo in cui questa foto iconica è stata scattata 85 anni fa (o anche sulla strada per l'ascensore sul tetto, dove potete entrare voi stessi nella foto).