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26/01/17

Riemerge dall'acqua, ritrovata da un Sub, una statua del IV secolo a.C.




E' stato un tennista professionista di Martina Franca, Luca Dinoi, a trovare ieri pomeriggio nei fondali al largo di capo San Vito, a Taranto, una statuetta di circa 80 centimetri, di probabile eta' ellenistica, raffigurante una donna che si deterge il piede e che rappresenta probabilmente Afrodite, ottimamente conservata.

E' quanto, nel corso di una conferenza stampa, ha rivelato il sindaco di Taranto Ippazio Stefano, che ha preso in custodia temporanea il reperto e che, contrariamente a quanto egli stesso aveva riferito in un primo momento ai giornalisti, ha precisato che la statuetta non e' stata trovata tra i resti di un relitto navale greco. 

 Il sub ha precisato di aver intravisto anche un vaso e quindi andranno fatte ulteriori ricerche nella zona

Dinoi, secondo da quanto lui stesso riferito ai giornalisti, era in immersione a circa 15 metri di profondita' quando ha poggiato il gomito sul fondale e ha sentito una superficie ruvida. 

Scavando ha poi recuperato la statuetta, l'ha ripulita e portata a casa. In un primo momento aveva pensato di "tenerla in salotto", ma poi suo padre gli ha detto che probabilmente si trattava di un reperto da museo e a quel punto, tramite uno zio avvocato, hanno deciso di contattare un consigliere comunale, loro conoscente, Aldo Renna, che a sua volta ha informato il sindaco.

 La statuetta e' stata consegnata al primo cittadino, che ha subito chiamato la Soprintendenza e il Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Bari, a cui sara' affidato il reperto per i successivi accertamenti.

 Secondo un'archeologa a cui il sindaco si e' rivolto, la statuetta potrebbe risalire al IV secolo avanti Cristo. Reperti simili si troverebbero al parco archeologico di Saturo. 



25/01/17

Torna a splendere - con una nuova illuminazione - il Mosè di Michelangelo !




La celebre statua di Mosè e la Tomba di Giulio II di Michelangelo, nella splendida cornice della Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma, tornano a risplendere, grazie a un nuovo straordinario progetto di illuminazione, manutenzione e restauro, realizzato dalla Soprintendenza per il Colosseo e l'area archeologica centrale di Roma. 

La nuova illuminazione ha per obiettivo quello di restituire le condizioni in cui la Tomba venne realizzata nel XVI secolo, negli anni completamente cambiate con la chiusura di una finestra. 

L'impianto, curato dal progettista Mario Nanni in collaborazione con il restauratore Antonio Forcellino, è stato realizzato con tecniche informatiche e lampade a led a risparmio energetico, in grado di restituire i colori e l'intensità della luce nella zona di San Pietro in Vincoli. 

"La cosa più importante e che mi dà più soddisfazione di questo lavoro - ha detto Mario Nanni - è che ho impiegato giorni a studiare la luce che entrava dentro la chiesa. I primi giorni li ho passati a verificare quanta luce entrava. Ho inserito una luce che dialoga moltissimo con la luce naturale. Ho creato una sinergia tra luce artificiale e luce naturale e soprattutto un impianto che consuma pochissimo, con un importante valore del risparmio energetico. Non ho dato luce a chi ha illuminato gli uomini, ma ho tirato le sue ombre a quest'opera straordinariamente importante rinascimentale del Michelangelo". 

L'investimento è stato realizzato da Il Gioco del Lotto. 

Dopo 15 anni dall'ultimo intervento, il monumento - visitato gratuitamente da migliaia di persone ogni anno - è stato pulito e restaurato, recuperando gli straordinari colori del marmo di Carrara scelto e scolpito da Michelangelo. 

L'illuminazione del transetto nel corso degli anni è profondamente cambiata: la finestra verso cui guarda Mosè è stata chiusa, mentre quella sul lato opposto è stata ingrandita, con un capovolgimento di 180 gradi dell'illuminazione originaria. 

Ora il nuovo progetto di Forcellino e Nanni vuole restituire le condizioni in cui Michelangelo progettò l'intero monumento e finì le sue statue. 

Per realizzare l'impianto sono stati misurati l'intensità e i colori della luce del sole nelle varie ore del giorno intorno alla basilica e al suo interno; progettati programmi computerizzati che rendono una illuminazione quadro e una simulazione dell'andamento della luce durante le ore del giorno.

18/10/16

La "Dea Roma" di Igor Mitoraj, un meraviglioso esempio di arredo urbano.




Ogni volta che ci passo davanti, penso che l'installazione - permanente - del volto colossale della Dea Roma di Igor Mitoraj alla fine del Viale Mazzini, di fronte  a Ponte Risorgimento, sia uno dei più bei esempi - anche perché negli ultimi anni ce ne sono stati ben pochi - di decoro, abbellimento urbano. 

Questo enigmatico volto di pietra accoglie  tutti i giorni gli automobilisti e i passanti che attraversano il Ponte. emergendo da uno spazio metafisico, dalle siepi e dai cipressi che segnano l'inizio del quartiere Prati. 

La grande scultura - in realtà una fontana - fu posata il 16 settembre 2003, sotto la prima giunta Veltroni - regalo di Finmeccanica alla città di Roma. 

Felice fu la scelta dell'opera, felice fu la sua collocazione. 

Meno - come per quasi tutti i monumenti e i luoghi antichi e moderni della città - la sua manutenzione.

In una intervista a Rai Radio 3 del 23 gennaio 2005 e pubblicata dal sito Medea , Mitoraj spiegava la genesi dell'opera: 

"Questa dell’estrazione della Dea Roma era un mio saluto, un sentimento,una specie d’atto d’amore per la città di Roma che volevo che emergesse dal sottosuolo con gli stessi materiali di vecchi palazzi, vecchi ponti, Bernini, eccetera eccetera …e il travertino di Tivoli. 

E che sia un punto di…un po’ quello che sta diventando, un punto di riferimento un pochino…che si scende da Valle Giulia e da tutti i Musei…si passa là e vedi questa scultura che piano piano si alza davanti a te e poi giri. È uno scenario perfetto…estremamente romantico, perché ci sono i pini romani, ci sono dei cipressi, ci sono dei lecci, ho fatto aggiungere altre piante, tipo melograni, olivi, altre cose dietro, per fare una specie di giardinetto all’antica

Ma è una cosa molto simbolica perché questa fontana dovrebbe…non so se funziona adesso o no, così è…L’acqua scorre come i nostri ricordi…come i nostri giorni che scorrono su questo viso… Io vorrei lasciare queste felci…queste incrostazioni…perché si amalgamasse di più ancora al tessuto romano… poi di questo giardino qua… Poi vediamo… È un po’ nuova ancora…vediamo come vivrà la sua vita… " 

(Igor Mitoraj, intervista Radio Rai 3, 23 gennaio 2005) 


In un'altra conversazione, sempre riportata dallo stesso Sito, Mitoraj spiega ancora "Jorge Luis Borges soleva dire che a Roma non si va, si torna soltanto. Anche se non ci si è mai stati prima. Perché Roma è un mito che vive nell’immaginazione universale….Anche per me Roma è un mito, vive nella mia immaginazione da quando sono diventato adulto. Mi sedevo lì e contemplavo il panorama di Roma, d’una bellezza struggente. Il travertino è la pietra più vicina alla terra, alla natura,. Io lo avevo già usato per altre sculture , come Tindaro travertino, ma mi è diventato familiare quando ho fatto la Dea Roma. 

E’ stata per me un’operazione affascinante lavorare questo marmo. Ho impiegato due anni e mezzo. Avevo la sensazione che fosse come una sorgente di pietra dalla quale fluiva l’acqua, alla stregua delle celebri fontane di Tivoli. Ma spero che non fluisca via come l’acqua, che sopravviva come sopravvivono i monumenti e le statue di travertino che fanno la gloria di Roma." 



12/10/16

L'Estasi di Santa Teresa nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, un capolavoro immortale.



Qualche giorno fa sono tornato a visitare la chiesa di Santa Maria della Vittoria in via XX settembre, una delle più magnifiche della capitale.  E sono rimasto come sempre colpito dal tipo di turismo di massa selvaggio che ormai si consuma a Roma, come in molte altre città. 

Uno stuolo di turisti - forse americani - tutti con cappellino da baseball e asta per lo smartphone, sono entrati in Chiesa, incuranti dei tesori che vi si conservano e sono andati diretti davanti all'Estasi di Santa Teresa (o Transverberazione di Santa Teresa d'Avila come sarebbe più giusto chiamarla) scolpita da Gian Lorenzo Bernini che evidentemente le loro guide ritengono uno dei must   da vedere in quelle che presumo visite-lampo nella capitale.  Così, giusto il tempo per uno scatto al gruppo scultoreo, in fila uno per uno,e poi tutti fuori dalla Chiesa, in pochi secondi. 

E' un peccato. Ma questo è lo stato dell'arte attualmente. E dispiace che si dedichino a quest'opera meravigliosa soltanto pochi secondi (spesso neanche osservati con il proprio occhio, ma solo con lo schermo di uno smartphone). 

La Transverberazione, nella Cappella Cornaro, è forse il più grande capolavoro del Bernini. 

I lavori gli furono affidati dal cardinale Federico Cornaro nel 1647 e nella realizzazione della intera cappella il Bernini si superò, colpito nell'orgoglio dalla tiepida accoglienza che il Cardinale aveva riservato ad altre sue opere. 

Bernini realizzò una specie di macchina teatrale, creando una nicchia nel transetto che, attraverso i vetri gialli utilizzati, fornisce un vero e proprio spot di luce (come si direbbe a teatro), diretto sul gruppo scultoreo, in linea con il dardo spiccato dall'angelo verso il cuore della Santa e con quelli di luce, in stucco che scendono dall'alto dorati. 

Il vero capolavoro però è la scultura del corpo della Santa, avvolto nelle vesti che sembrano agitate e sollevate da venti tempestosi. Il volto di Teresa è sconvolto dalla visione, gli occhi sono rivoltati verso l'alto, tutto il corpo è sconvolto da un sentimento quasi erotico di condivisione passionale, in perfetta ottemperanza di quanto la Santa scrisse nella sua autobiografia: 

Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura.  Vidi nella sua mano una  lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore tanto da penetrare dentro di me.  Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata.  (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13)


Bernini, nel pieno della maturità, aveva allora quarant'anni e la sua fede si era rafforzata attraverso la pratica degli esercizi spirituali di Sant'Ignazio, eseguiti sotto la guida dei padri Gesuiti, che allora frequentava. 

Non sono mancate interpretazioni esoteriche, non nuove fra l'altro nell'arte del Bernini, che leggono questa opera come segno di iniziazione verso stati di coscienza superiori, con l'angelo spirito di luce che guida verso il contatto ultraterreno. 

La potenza di quest'opera è comunque intatta. Basta soltanto tornare a visitarla nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, magari, se possibile, scansando le frotte dei distratti turisti. 


Fabrizio Falconi





17/09/16

Il mistero di Antinoo a Palazzo Altemps ! Il busto romano ritrova il suo volto da Chicago .




"Abbiamo trovato il busto!". La sorpresa deve essere stata incontenibile in quella telefonata. Una conferma ufficiale era tutta da costruire, ma l'egittologo W. Raymond Johnson, in visita a Roma, ne era convinto: il busto in marmo lunense che aveva davanti era l'altra meta' del volto riccioluto custodito al di la' dell'oceano all'Art Institute di Chicago. 

Proprio con quella telefonata, nel 2005, inizia a dipanarsi il mistero, lungo ormai secoli e ancora non del tutto risolto, intorno al celebre busto del II d.C. dedicato ad Antinoo, amatissimo pupillo dell'imperatore Adriano, fino al 15 gennaio protagonista di "Antinoo. Un ritratto in due parti", a Palazzo Altemps. 

Una mostra, promossa da Soprintendenza Speciale per ilColosseo e Museo Nazionale Romano con Electa, che ripercorre il giallo della scultura acquistata dallo Stato nel 1901 dalla Collezione Boncompagni Ludovisi e della quale gia' nel 1756 l'archeologo J.J. Winkelmann disse avere "un volto nuovo", rifatto. 

Oggi sono l'uno accanto: l'Antinoo "italiano", con l'aria piu' assorta, malinconica, i riccioli folti, i lineamenti aggraziati e rotondi; e l"'americano", creduto a lungo un bassorilievo, con lo sguardo piu' volitivo, sensuale e torbido

"Era il 2013 - racconta il direttore di Palazzo Altemps, Alessandra Capodiferro - quando Karen Manchester, del Dipartimento di arte greco-romana del'Art Institute, arrivo' portandoci una riproduzione in resina del loro frammento di volto"

Insieme agli specialisti del J. Paul Getty Museum e dell'Universita' di Chicago, "siamo andati per tentativi, seguendo quella grossa 'ferita' che segna un lato del viso che avevamo noi". 

Il risultato e' nel modello in gesso 1:1 esposto insieme agli originali, che riproduce, finalmente, come l'opera doveva apparire in eta' romana. 

"Per noi non ci sono dubbi che i due pezzi si appartengano - prosegue la Capodiferro - Ce lo dice la prova della materia e l'evidenza fisica". 

Il mistero pero' e' ancora tutto da dipanare. Se infatti il mito di Antinoo, incarnazione di bellezza e gioventu' adorato come un Dio da Adriano, si e' alimentato nei secoli, accendendo l'interesse antiquario soprattutto in eta' rinascimentale e barocca, ancora nulla si sa dell'origine dell'opera ne' della sua dolorosa mutilazione. 

Probabilmente il busto era nella Collezione del Cardinal Ludovisi esposta nella villa sul Quirinale. Nel 1641 nell'inventario compare un Busto di Antonio, forse errore di scrittura, e nel 1693 un Busto di Antino. 

Ma e' nel 1756 che Winkelmann lo vede, completamente restaurato, con quei riccioli dai volumi rinascimentali e perfettamente in linea con il gusto per l'archeologia 'perfetta' del tempo. 

Tanto che sul taccuino annota "volto nuovo". Il frammento del viso compare invece nel 1898 a Roma, quando C. L. Hutchinson, primo presidente dell'Art Institute di Chicago, lo compra dall'antiquario A. Simonetti. 

"E' possibile - ipotizza la Capodiferro - si fosse creata una frattura all'interno della testa: accade, dicono gli esperti, quando si lavora il marmo controverso. Ma e' vero anche che e' piu' facile 'portar via' un volto che un'intera statua". 

Senza contare che "a fine '800 le leggi impedivano ai privati come i Ludovisi di vendere opere del genere. Potevano farlo solo gli antiquari". Purtroppo le carte dell'archivio Ludovisi-Boncompagni in Vaticano "non dicono nulla di piu"' dell'Antinoo. "Le nostre speranze sono affidate ai documenti ancora di proprieta' della famiglia, al momento allo studio e di prossima pubblicazione".

20/05/16

L'incredibile Cappella di San Severo a Napoli.



La Cappella di San Severo a Napoli
 di Fabrizio Falconi


Dieci anni della mia vita pur d’essere lo scultore del Cristo Velato !  La celebre esclamazione, frutto di una sconfinata ammirazione unita alla irrefrenabile invidia degli artisti, suole essere attribuita nientemeno che ad Antonio Canova quando nel 1780, in visita a Napoli, alla Cappella dei principi di Sansevero, si trovò di fronte l’incredibile ritratto scolpito del Cristo morto velato, adagiato su di un giaciglio, la testa reclinata su due cuscini, ai piedi gli strumenti del supplizio. 

Lo stupore di Canova, però, come anche il nostro oggi, era pienamente giustificato: come aveva fatto un giovane scultore di soli trentadue anni, Giuseppe Sanmartino,  ancora poco conosciuto, a realizzare un’opera di tale virtuosismo ? Il Cristo, sotto il velo minutamente realizzato in ogni piega, in ogni spessore, come forse mai prima di allora, sembrava davvero appena cristallizzato dopo il supplizio e la morte, ancora palpitante, come se la vita l’avesse appena lasciato. 

Com’era possibile un tale prodigio ? 

Se lo continuarono a chiedere in tanti, anche dopo la visita di Canova, e riuscirono anche a darsi una spiegazione: quella magia, quella straordinaria esibizione di bravura, non era tutta farina del sacco del giovane scultore, non era opera sua l’invenzione di una simile tecnica di lavorazione del marmo. No, c’era di mezzo qualcuno di molto più sapiente, nello studio e nell’utilizzo delle più segrete tecniche alchemiche.  Era stato lui, era stato sicuramente il principe Raimondo de Sangro, l’erudito colto studioso misantropo, che aveva commissionato l’opera dapprima al veneziano Antonio Corradini e poi alla morte di questo proprio al Sanmartino e che a quest’ultimo aveva insegnato le segreti arti di trasformazione dei materiali, per permettergli di realizzare un’opera unica al mondo.

A questo proposito c’è da dire che le leggende a proposito del Principe Raimondo sono fiorite e hanno prosperato con il passare dei decenni a Napoli, città dove lo scambio e la tradizione orale hanno potere come in pochi altri posti al mondo, e c’è da capirlo vista la fama che circondò in vita l’artefice della Cappella.

Raimondo proveniva, per nascita, dall’alta aristocrazia dei Grandi di Spagna. La sua famiglia vantava estesi possedimenti nelle Puglie, ed è proprio qui, nel feudo di Torremaggiore che nacque Raimondo, nel 1707. (1)

I suoi genitori erano Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, membro di una delle casate patrizie più antiche d’Italia, e Antonio di Sarno, duca di Torremaggiore.

La madre Cecilia, morì pochi mesi dopo il parto.  Al suo ricordo, Raimondo rimase per sempre devoto, e nel suo Pantheon personale, che è la Cappella di cui ci stiamo occupando,  a lei dedicò la statua della Pudicizia velata, che fece realizzare da Antonio Corradini nel 1752, dove già si evidenziano i prodigi della lavorazione del velo che copre il corpo della donna, sostenuto da una lapide spezzata, a simboleggiare proprio la prematura scomparsa della madre. 
Il padre, Antonio di Sangro, era invece un nobile dal carattere vanesio e libertino. Troppo preso dalle sue tresche, pensò  bene di affidare il figlio, orfano di madre, alla cura dei nonni paterni.  Nel frattempo, invaghitosi di una giovane ragazza, ne fece uccidere il padre che si opponeva alla relazione. Il fattaccio avvenne in Puglia, nella città di Sansevero, dove i duchi avevano sempre goduto di fama e rispettabilità. Stavolta però il delitto fu talmente sfacciato da non poter essere perdonato: il sindaco di Sansevero impugnò un procedimento penale contro il principe Antonio, che fu costretto a fuggire e a rifugiarsi presso la Corte di Vienna, da dove cercò di difendersi dalle accuse grazie alla protezione dell'Imperatore. Quando il Tribunale pugliese, su pressione diplomatica, archiviò il caso, Antonio poté rientrare nei suoi feudi ma ancora non pago, decise di vendicarsi ordinando l’uccisione di quello che era stato il suo principale accusatore.  Una nuova fuga lo portò stavolta a Roma, dove però Antonio di Sangro trovò il modo di convertirsi, dopo essersi pentito dei suoi misfatti, prese i voti e si ritirò in convento.


07/11/14

Le anime di Bernini al Museo del Prado di Madrid.



Le anime del Bernini. Arte a Roma per la corte spagnola e' la mostra che il Museo del Prado di Madrid dedica da oggi all'8 febbraio allo scultore, pittore e architetto Gian Lorenzo Bernini e, in particolare, ai rapporti del maestro del barocco con la monarchia spagnola. 

Organizzata in collaborazione con l'ambasciata d'Italia in Spagna, in occasione del semestre di presidenza italiana della Ue, l'esposizione - curata dal cattedratico di Storia dell'arte dell'universita' Complutense di Madrid, Delfin Rodriguez - include una quarantina di opere, fra sculture, dipinti a olio e disegni dello scultore, nato a Napoli nel 1598 e morto a Roma nel 1680. 

Organizzata intorno alle complesse relazioni artistiche, culturali, diplomatiche e politiche mantenute dall'artista con Filippo VI, Carlo II e i loro ambasciatori nel XVII secolo, la mostra propone per la prima volta in Spagna le 'Anime' suggerite dal titolo: due sculture abitualmente esposte nell'ambasciata spagnola davanti alla Santa Sede. 

L'allestimento dell'esposizione non e' stato esente da polemiche, riferite oggi da El Pais, fra la pinacoteca del Prado e il Patrimonio Nazionale spagnolo, che aveva reclamato l'estate scorsa la restituzione di quattro opere, depositate per legge nel museo madrileno dal 1943: 'Il giardino delle delizie' e 'I sette peccati capitali' di Bosch; 'La deposizione dalla croce' di Van der Weyden e 'Il lavatoio' di Tintoretto. 

A causa del contenzioso, i prestiti sollecitati dal Prado al Patrimonio Nacional per l'esposizione di Bernini - il 'Cristo crocifisso', del Monastero dell'Escorial, e il 'Modello della Fontana dei Quattro Fiumi', conservato nel Palazzo Reale - sono stati negati.

15/02/14

Michelangelo e il Monte dell'Altissimo .




Il 18 febbraio 1564, all’età di 88 anni, Michelangelo Buonarroti muore nella sua casa romana. 

A 450 anni dalla sua morte si ricorda uno degli episodi più importanti e tormentati della sua vita: il sogno mai realizzato di cavare e rifornirsi gratuitamente dello statuario del Monte dell’Altissimo, nel territorio lucchese, in Alta Toscana. 

Dopo aver ottenuto l’incarico per la realizzazione della facciata della Chiesa Fiorentina di San Lorenzo, obbedendo alla volontà di Leone X (Giovanni dei Medici), Michelangelo, nel 1518 inizia a costruire la strada che sarebbe servita per raggiungere i bacini marmiferi dell’Altissimo. 


Seguendo un’intuizione pari alla sua capacità di svelare le figure celate nei blocchi di marmo, il Buonarroti percepisce le potenzialità e la qualità del marmo racchiuso nelle cave dell’Altissimo, uno statuario ancora più bello e prezioso di quello carrarino: di grana unita, omogenea, cristallina, e ricorda lo zucchero. Michelangelo qui desidera cavare e far cavare ogni et qualunque quantità di marmi o di qualunque altra miniera in decte montagne dello Altissimo, et loro vicine circustanze

Il Monte, un bacino marmifero di enorme ampiezza era ripieno di marmi in tutte le parti che ve n’è da cavare fino al giorno del Giudizio.

Nel dare il via alla sua impresa più ambiziosa, e consapevole del grande tesoro custodito dalla montagna, Michelangelo aveva chiesto e ottenuto, non senza penare, dall’Opera di Santa Maria del Fiore e dai Consoli dell’Arte del Lana di potersi rifornire gratuitamente e per tutto il resto della sua vita di marmi dell’Altissimo, una volta che fosse riuscito a mettere in esercizio quelle cave. 


Malauguratamente un “breve” di papa Leone X del 20 di febbraio 1520 sollevava Michelangelo dall’incarico della costruzione della strada

Per l’artista, giunto alla soglia dei quarantacinque anni e attento imprenditore di se stesso, ciò fu motivo di grande delusione. Ricordava il Vasari nella “Vita” che a Michelangelo …convenne fare una strada di parecchi miglia fra le montagne

Ma il sogno di Michelangelo, da lui mai realizzato, prese forma. 

Nei quasi cinquecento anni che separano l’inizio della costruzione della strada dell’Altissimo il bacino marmifero di Seravezza ha donato un capitolo sostanzioso alla storia, all’arte e all’architettura mondiali. 

 Le cave dell’Altissimo vengono raggiunte dalla strada che si completò per volere di Cosimo I dei Medici nel 1567, che riusciva, laddove aveva fallito il divino Michelangelo, a dare il via all’estrazione di quei marmi bianchi che “…producono colonne alte più di 50 cubiti”. 

Di quel marmo, che il Buonarroti sognava già per la facciata di San Lorenzo in Firenze, venne calato alla marina nel 1569 il primo blocco fra l’esultanza del popolo seravezzino che vedeva, nel discendere del carro a valle, l’inizio di un’attività economica rilevante per la comunità. 

Fu il Giambologna a realizzare la prima figoura di marmi bianco ocire fuora di quel monto del Haltissimo la “Fiorenza”, o Vittoria, oggi al Bargello. 

Al disegno di Michelangelo e di Cosimo I seguì quello di Francesco I dei Medici. Le cave di Seravezza rappresentavano un vero patrimonio. 

Nel sunto storico della cava si intersecano anche periodi di abbandono, ma una nuova vita ha inizio con l'arrivo nelle Apuane del Signor Jean Baptiste Alexandre Henraux nel 1820. Il Signor Henraux è Soprintendente Regio alla scelta e acquisto dei marmi bianchi e statuari di Carrara per i monumenti pubblici nella Francia di Napoleone

E il Signor Henraux che visita le cave di Michelangelo stringe la storia degli ultimi duecento anni del Monte dell’Altissimo al suo stesso nome, e da attento imprenditore quale è dona nuova vita al bacino marmifero seravezzino. 

Sono numerose e importanti le opere portate a compimento con i marmi dell’Altissimo, dall’epoca di Cosimo e di Francesco dei Medici le pagine di storia dell’arte e dell’architettura si arricchiscono considerevolmente con i materiali estratti dalle cave. 

Ma dal 1821 Monsieur Henraux traccia la via a commesse di notevole prestigio, come quella del 1845 per lo Zar di Russia che ordinava grandi quantità di marmo per la costruzione della Cattedrale di Sant’Isacco a Pietroburgo. Anche Auguste Rodin fu ospite di Henraux a Querceta. 

L’Altissimo è un importante comprimario di quel genio dell’uomo che costruisce bellezza. Da qui iniziano storie di opere e capolavori dell’arte concepiti da artisti, per citarne alcuni in epoca moderna o contemporanea, quali Henry Moore, Hans Jean Arp, Joan Mirò, Antoine Poncet, Jacques Lipchitz, Rosalda Giraldi, lsamu Noguchi. 

E ancora le cave dell'Altissimo, come profetizzato da Michelangelo, continuano a fornire materiale per la realizzazione di grandi opere in tutto il mondo: da qui sono stati realizzati numerosi progetti quali il pavimento policromo della Basilica di San Pietro, o la ricostruzione della chiesa Abbaziale di Montecassino come, più recentemente la Grand Mosque per lo Sceicco Zayed Bin Sultan al Nayhan II ad Abu Dhabi, il Campus Exxon Mobile a Houston (detto anche Delta project), e negli Stati Uniti il Devon Energy World Center, One Market Plaza a San Francisco e molti altri.

Ancora oggi le cave sono proprietà della Henraux Spa e della Fondazione Henraux ad esso collegata.

21/05/13

40 anni fa il restauro 'miracoloso' della Pietà di Michelangelo.






Un restauro esemplare, ancora oggi in ottime condizioni, quello che 40 anni fa restitui' all'originario splendore il gruppo marmoreo della Pieta' di Michelangelo dopo le 12 martellate inferte il 21 maggio 1972 dal geologo australiano di origini ungheresi Laszlo Toth sul volto e sul busto della Vergine.

A consentire (in soli sei mesi) il recupero almeno formale del capolavoro giovanile del Buonarroti contribui' senza dubbio l'esistenza di un calco in gesso, fatto auspicabile per tutte le opere d'arte a rischio di gesti vandalici e che al giorno d'oggi puo' essere sostituito dalla messa a punto di piu' economici modelli virtuali in 3D. 

A discuterne, un convegno dal titolo 'La Pieta' di San Pietro, in memoria del 21 maggio 1972. Storia di un restauro', che nell'anniversario della vicenda che sconvolse il mondo intero ha riunito ai Musei Vaticani gli esperti che a suo tempo si occuparono del caso e le nuove generazioni di studiosi per proporre ulteriori strategie per mirati interventi di recupero. 

Prima di tutto, pero', l'incontro presieduto dal direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci ha voluto indagare ancora una volta la magia sprigionata da quel marmo che sotto lo scalpello di Michelangelo si e' fatto carne. 

"Miracolo di suprema bravura", tanto da volerla firmare, la Pieta' del Buonarroti, ha detto Paolucci, vede nella sua straordinaria "finitezza formale il carattere distintivo dell'opera, la ragione del suo fascino". 

Proprio questa caratteristica ha imposto, dopo la devastazione inflitta dalle martellate di Toth (spezzato il braccio di Maria, la mano, le dita, parte del velo, l'occhio sinistro, il naso), di contravvenire a principi consacrati del restauro e optare per un intervento integrale invece che critico.

"Lo stesso Cesare Brandi la pensava cosi' - ha proseguito Paolucci - in qualsiasi altra scultura la visibilità della lesione, ancorché dolorosa, sarebbe stata tollerabile", ma il capolavoro firmato nel 1499 da un Michelangelo appena ventiquattrenne era da secoli una "figura base della devozione popolare". 

Grazie a una copia in gesso dell'opera realizzata nel 1930 e conservata nella Sagrestia della basilica, i restauratori dei Musei Vaticani e della Fabbrica di San Pietro poterono puntare "alla restituzione perfettamente mimetica dell'immagine violata". 

Sei mesi di lavori, raccontati nel documentario del regista Brando Giordani (co-produzione dei servizi culturali Rai e della Ds Cinematografica, oggi in versione Hd) riproposto in apertura del convegno, in cui vennero recuperati i circa 50 frammenti, realizzato un mastice trasparente, ripulito il marmo, colmate tutte le lacune con precisione millimetrica. 

"Attualmente il restauro sta bene, e' duraturo - dice Nazareno Gabrielli dei Musei Vaticani - nella forma ora tutto cio' che vediamo e' Michelangelo. Quel calco fu provvidenziale". "Oggi non avremmo potuto fare di meglio", conclude Ulderico Santamaria, nuova generazione di restauratori che ipotizza una 'Gipsoteca virtuale', dove la tecnologia tridimensionale sostituisca il calco in gesso.

fonte ANSA - Nicoletta Castagni.

15/10/12

Louise Favreau, una poetessa 17enne delle indie occidentali ispirò una delle più belle tombe di Santa Croce a Firenze. Ora il restauro.



Il mecenatismo americano a Firenze, organizzato nell'Advancing Women Artists Foundation, restaura il monumento sepolcrale in marmo della poetessa Louise Favreau, realizzato dalla scultrice francese ottocentesca Felicie De Fauveau nella basilica di Santa Croce. 

L'iniziativa sara' illustrata oggi alle ore 12, nella Sala del Cenacolo di SantaCroce, dove interverranno le autrici del volume "L'arte delle donne a Firenze: una guida attraverso cinque secoli", Jane Fortune, presidente e fondatrice della Awa Foundation, e Linda Falcone, direttrice della stessa Awa. 

Conduce l'incontro Alessio Assonitis, direttore del Medici Archives Project. Per l'occasione sara' possibile visitare il cantiere dell'ultimo intervento tuttora in corso della Advancing Women Artists Foundation: il mantenimento del monumento eseguito da Felicie De Fauveau. 

Il monumento sepolcrale De Fauveau a Santa Croce commemora Louise Favreau, una poetessa diciassettenne delle Indie occidentali, ed e' stato ispirato da una poesia scritta da quest'ultima. Originariamente creato per la Cappella Medicea della basilica nel 1854, il monumento si fregia di elaborate tecniche di incisione e i suoi motivi decorativi in altorilievo ricordano l'opera di un maestro orafo. 

Il progetto di manutenzione, sponsorizzato dalla Advancing WomenArtists Foundation e dalla sua fondatrice Jane Fortune, e' stato programmato e realizzato da Nike Restauro Opere d'Arte utilizzando trattamenti protettivi e di pulizia volti a migliorare l'equilibrio cromatico e l'appeal estetico della scultura. 

Il volume "Art by Women in Florence: A Guide through Five Hundred Years" (L'arte delle donne a Firenze: una guida attraverso cinque secoli) aspira a illuminare le figure di numerose artiste dall'eccezionale quanto misconosciuto valore, le cui vite e opere continuano a essere una parte non rivelata e dell'identità culturale di Firenze. 

I proventi del libro, pubblicato in inglese da The FlorentinePress, saranno impiegati per sostenere i progetti di restauro a favore delle opere di donne artiste a Firenze organizzati e patrocinati dalla Advancing Women Artists Foundation, operante dal 2006. Il volume sara' disponibile nelle librerie di Firenze a partire dal 20 ottobre.