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21/10/16

Che cosa è la libertà ? (Bonhoeffer)



"Colui che è responsabile agisce nella libertà della sua persona, senza mettersi al riparo dei suoi simili, delle circostanze o di certi principi, ma tenendo conto di tutte le circostanze di carattere umano e ambientale e delle considerazioni di principio. 

Il fatto che nulla lo può difendere, che non può scaricarsi se non sui suoi atti e su se stesso, è la prova della sua libertà. Egli stesso deve osservare, giudicare, pesare, decidere, agire; lui solo dovrà esaminare i motivi, le possibilità di riuscita, il valore e il senso della sua azione. Ma né la purezza della motivazione né le condizioni favorevoli, né il valore, né la scelta giudiziosa dell'azione progettata potrà diventare la regola, dietro la quale trincerarsi o dalla quale possa essere giustificato e assolto. Altrimenti non sarebbe più realmente libero."

"La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: dal vincolo con l'uomo e con Dio, e dalla libertà della vita personale.  Quel vincolo dà origine alla libertà della vita del singolo.  Non esiste responsabilità al di fuori di quel vincolo e di quella libertà.  La vita che quel vincolo ha reso altruistica e disinteressata è l'unica veramente libera di esplicarsi e di agire in modo personale.  Il vincolo assume la forma di una sostituzione a favore del prossimo e di un atteggiamento conforme alla realtà, mentre la libertà si esprime nell'autocritica della vita e dell'azione e nel rischio della decisione concreta."

"Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente -- non cronologicamente -- la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell'uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo."

"E' infinitamente più facile soffrire ubbidendo ad un ordine dato da un uomo, che nella libertà dell'azione responsabile personale.
E' infinitamente più facile soffrire comunitariamente che in solitudine.
E' infinitamente più facile soffrire pubblicamente e ricevendone onore, che appartati e nella vergogna.
E' infinitamente più facile soffrire nel corpo che nello spirito.
Cristo ha sofferto nella libertà, nella solitudine, appartato e nella vergogna, nel corpo e nello spirito, e da allora molti cristiani con lui."

Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – campo di concentramento di Flossenbürg, 9 aprile 1945) teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo.


18/09/16

E' morto padre Gabriele Amorth. Il ricordo di un sacerdote che lo ha conosciuto.




E' morto ieri all'età di 91 padre Gabriele Amorth. Questo è il ricordo di un sacerdote, Don Alessio (nome convenzionale), che lo ha conosciuto. 


Lei ha avuto occasione di conoscerlo bene. Che ricordo ha di lui ?

L'ho frequentato quando celebrava esorcismi nella sua chiesa vicino a via Manzoni. Un individuo serafico anche davanti a casi che erano impressionanti pure per chi aveva i nervi saldi. Aveva una teoria eccellente sul male: l'essere umano non ha bisogno del demonio per farlo, ci riusciamo anche da soli, ma quando il male travalica una certa soglia e diventa troppo disumano è ragionevole pensare che intervenga il maligno. Dopo le sue benedizioni i suoi pazienti restavano anche mezz'ora in stato di incoscienza ed erano incapaci di camminare o di parlare. Mai visto cose del genere. E questo solo con semplici preghiere in latino.

Padre Amorth prima di essere ordinato prete nel 1954 fu anche partigiano, rifiutandosi di rispondere alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò. In lui c'era anche impegno civico ?

In gioventù scampò una condanna a morte. Il suo impegno civile era quello di un sacerdote che desidera contribuire a migliorare il mondo con la preghiera e aiutando gli altri a stare meglio con sé stessi e con Dio. Poi a quanto ne so, ha aiutato moltissimo i bisognosi con fondi personali. Arrivava perfino a pagare degli affitti a persone vessate dal maligno che non erano in grado di mantenersi.

Con il tempo, Amorth, grazie alle sue pratiche esorciste, è diventato quasi un personaggio leggendario. Perché intorno a questa pratica esiste un alone così oscuro, gotico?

Perché il genere horror vende bene (sorride). Abbiamo una tradizione di film più o meno riusciti che parlano del demonio (L'Esorcista, L'esorcismo di Emily Rose etc) quindi il pubblico conosce gli esorcisti tramite il genere hollywoodiano ma in realtà l'esorcismo è innanzi tutto una attività di consolazione. Gesù dice "se scaccio il demonio col dito di Dio è giunto tra voi il regno dei Cieli". Si capisce quindi che l esorcismo e anzitutto un evento di gioia, una vittoria del bene sul male anche se ha risvolti talora drammaticissimi.

 Anche lei ha esercitato pratiche esorcistiche ? In quali casi esse possono essere messe in atto ?

Sono stato esorcista per qualche anno dopo aver seguito le sedute di don Amorth. Vanno messe in atto quando si ha la ragionevole certezza che dati disturbi abbiano origine malefica (malefici, fatture messe nere etc.). Quindi occorre prima una adeguata anamnesi del soggetto affinché si possa ricostruire la sua storia. Talora sono proprio gli psichiatri che richiedono l aiuto di un esorcista perché dati sinonimi non hanno riscontro nella letteratura scientifica!

E' una tradizione molto antica ?

Il primo esorcista fu proprio Gesù. E si badi che non curava malattie con l'esorcismo ma proprio cacciava i demoni perché nel Vangelo si dice "alcuni li guarì altri li esorcizzò". Anche la Madonna lo è. Di lei si dice che col calcagno schiaccia il capo del serpente che è simbolo del male. Un giorno chiesi a don Gabriele "ha mai avuto paura in un esorcismo?" Rispose "paura io? È il demonio che deve averne..."

Fabrizio Falconi - riproduzione riservata. 

20/04/15

Cacciari: "Nietzsche non ha nulla a che fare con un volgare ateismo."




Cacciari: «L’ateismo oggi? Volgare e mondano»

"L’affermazione nietzschiana della morte di Dio non è affatto volgarmente ateistica come qualcuno può pensare".
Massimo Cacciari – protagonista di un dibattito con il filosofo francese Rémi Brague – da non credente si è occupato a fondo Dell’inizio e Della cosa ultima, per dirla con il titolo di due suoi volumi ponderosi. E rifiuta con sdegno l’idea che Nietzsche sia uno dei grandi padri dell’odierna negazione di Dio.

Professore, eppure è a lui, spesso in coppia con Heidegger, che tanta parte della cultura che rifiuta il monoteismo cristiano guarda con riconoscenza...

"Un autore come Nietzsche non ha nulla a che spartire con un volgare ateismo. Anche Hegel, che si professava filosofo cristiano, affermava che la proprietà essenziale del monoteismo cristiano consisteva nel pensare la morte di Dio. C’è un modo di pensare questa morte che può essere propriamente cristiano, che anzi costituisce la proprietà specifica del cristianesimo. Tanto meno in Heidegger c’è una posizione di stupido ateismo. Caso mai si può pensare a una critica di Heidegger alla tradizione che pensa Dio in termini ontoteologici, che pensa Dio con la categoria dell’ente sommo e quindi dimentica la differenza tra ente ed essere, la differenza ontologica. Ma è una critica che può benissimo essere intesa come interna alla tradizione monoteistica non solo cristiana, ma anche giudaica e islamica. Perché la critica all’ontoteologia è presente in tutte e tre le grandi correnti del monoteismo abramitico. Quindi bisogna stare molto attenti nel pensare che la filosofia di stampo nietzscheano-heideggeriano significhi l’abbandono della questione di Dio. Anzi, è un affrontamento radicale di tale questione".


Quali sono per lei le vere forme dell’ateismo filosofico contemporaneo?
"La vera forma dell’ateismo, che non ha a che vedere né con Nietzsche né con Heidegger, è la visione per cui, detto in estrema sintesi, noi siamo soltanto un essere nel mondo: noi siamo accasati, addomesticati nel nostro essere mondano. E al di là di questo non c’è nulla, o meglio, c’è il nulla, di cui non bisogna assolutamente avere cura. Questa sì è una posizione ateistica presente in varie correnti del pensiero contemporaneo".

Lei oggi interviene sul rapporto fra il Dio cristiano e le altre religioni. Tanto per stare sull’attualità: come giudica un’alleanza che si propone sempre più spesso, quella tra cristianesimo e liberalismo ateo o immanentista in funzione anti-islamica?

"L’ateismo nei termini che le ho appena detto, moneta corrente al giorno d’oggi, è essenzialmente opposto a ogni possibile versione o declinazione della radice abramitica del monoteismo. Un’alleanza di questo ateismo e di un liberalismo immanentista con il monoteismo cristiano in funzione anti-islamica non può far altro che tradire quella che è l’essenza del cristianesimo. Direi di più: è una totale aberrazione. Un liberalismo di stampo immanentistico condivide con le posizioni genericamente ateistiche l’idea che al di là dell’esserci non c’è nulla. Anzi, che Dio è il nulla. Il che, mi lasci dire, per tornare al punto iniziale, è ben diverso dal dire: Dio è morto".

Tratto da Avvenire, 11 dicembre 2009.

16/03/15

David Lynch parla di Dio e della creatività. (intervista di Antonio Monda).


Brano dell'intervista a David Lynch realizzata da Antonio Monda per il suo libro: Tu credi ? Conversazioni su Dio e la religione, Fazi editore, 2006, pagg. 95 e seguenti. 


A.M.: Vorrei chiederti come mai le tue storie privilegiano il mistero, il paranormale e l'assurdo.

D.L. : Potrei limitarmi a dire che sono affascinato da tutti questi elementi, ma anche che ritengo che nessuno possa arrogarsi il diritto di dire cosa sia assurdo e cosa logico, cosa sia normale e cosa paranormale.
E sul concetto di mistero potremmo parlare a lungo: la mente umana lavora di intuizione, e quindi è in grado di intuire anche l'astrazione. 
Il cinema è il linguaggio delle immagini in movimento, e quindi costringe l'autore ad esprimere queste astrazioni con gesti e azioni. Come artista sono affascinato da ogni creazione che nasce da questo contrasto. 

A.M. : Una domanda diretta: credi in Dio ?

D.L. : Credo che esista un essere divino, onnipotente ed eterno. 

A.M. : Come te lo immagini ?

D.L. : Non me lo immagino, se non per le caratteristiche che ti ho appena detto.

A.M.: Nei tuoi film il male è assoluto, e il bene è segno di una purezza infinita che sconfina nella santità. Non ti sembra una impostazione manichea ?

D.L. : La prima risposta che mi viene da darti è che si tratta unicamente di un modo di esprimermi artisticamente. Ma voglio aggiungere che non credo esista qualcosa che sia in sé cattivo o buono: è il nostro modo di vederlo che lo rende tale.

A.M. : Intendi dire che non esiste il bene o il male ?

D.L. ; Quello che intendo è che sono dentro di noi, e da lì provengono.

A.M. : Negli ultimi anni hai dedicato molta energia e passione alla meditazione trascendentale. Cosa c'è di diverso dal Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homini habitat veritas di Sant'Agostino?

D.L. : La meditazione trascendentale è una tecnica mentale - che io pratico due volte al giorno - che consente ad ogni essere umano di tuffarsi nel proprio io e raggiungere la pura coscienza e la pura felicità. In Sant'Agostino è invece tutto strettamente legato alla rivelazione cristiana. Detto questo, ritengo che ogni essere umano sia destinato alla felicità, che ogni forma di negatività sia come il buio, che scompare appena accendi la luce della pace, della pietà e dell'unità. 


Brano dell'intervista a David Lynch realizzata da Antonio Monda per il suo libro: Tu credi ? Conversazioni su Dio e la religione, Fazi editore, 2006, pagg. 95 e seguenti.

10/03/15

Fabiola Gianotti (direttrice del CERN di Ginevra): Una mente intelligente ordinatrice nella Natura ?




Riporto dal sito GLI SCRITTI curato da Andrea Lonardo un brano dell'intervista realizzata da Giovanni Minoli a Fabiola Gianotti (che QUI si può ascoltare in tuta la sua interezza), scienziato, direttrice del CERN di Ginevra

All’inizio la Gianotti parla dei suoi studi classici, di latino, greco e filosofia, affermando che “è stata una formazione complementare. Consiglierei un percorso simile a giovani che vogliono intraprendere la ricerca scientifica”. 

Ricorda di essersi avvicinata alla scoperta della bellezza della ricerca scientifica durante il liceo classico, leggendo una biografia di Marie Curie, che univa la cucina e il laboratorio. Ma è stata poi la scoperta “dell’interpretazione che Einstein dette dell’effetto fotoelettrico” che la avvicinò ancor più: “mi colpì per la sua semplicità, per la sua eleganza”. 

Minoli le domanda del rapporto tra filosofia e fisica e lei risponde

“La filosofia mi piaceva moltissimo perché come la fisica affronta le questioni fondamentali”. 

Perché allora il passaggio alla fisica? 

“La fisica va al dunque, da delle risposte. Ho percepito che la fisica dava delle risposte più concrete”. 

Parla poi della scoperta del Bosone di Higgs che ci ha avvicinato ad un centesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. 

“Non sappiamo cosa c’era prima, è una domanda per le speculazioni, non per la scienza”. 

Allora Minoli domanda
(e qui trascriviamo letteralmente il dialogo) 

Giovanni Minoli: Questa ricerca la avvicina o la allontana dall’idea dell’esistenza di Dio? 

Fabiola Gianotti: Penso che la scienza e la religione siano due domini separati. Non si contraddicono. La scienza non potrà mai dimostrare l’esistenza o no di Dio. Quindi penso che sia una situazione di parallelismo, di approcci diversi. 

Minoli: Ma lei che è filosofa e scienziata personalmente [la ricerca] l’ha avvicinata o è un problema che non si pone? 

Gianotti: Quello che io vedo nella natura, la sua semplicità, la sua eleganza, mi avvicina all’idea di una mente intelligente ordinatrice dietro, perché la natura è bellissima e anche le leggi fondamentali della fisica sono estremamente esteticamente belle, essenziali e, come diremmo in inglese, compelling, si motivano quasi da sé. 

Minoli: Insomma ci crede in Dio sì o no? 

Gianotti: Sì.

L'intervista è stata realizzata da Giovanni Minoli per Mix24 nel Faccia a Faccia con Fabiola Gianotti, mandato in onda il 4/2/2014. I passaggi riportati si riferiscono dal minuto 7.33 circa al minuto 8.36 circa.

17/02/15

Dio non è felice.


Dio non è felice. Lo sento. 

E’ per questo che non risponde, e non esaudisce mai le mie preghiere. Lui ci ha riempito di bene e di male, e lo ha fatto perché così noi abbiamo anche bisogno di temerlo. Altrimenti, non servirebbe a nulla rivolgersi a Lui, e nemmeno sperare, servirebbe. Che senso avrebbe, sennò, un Dio che non risponde ? 

Oppure, non risponde semplicemente perché non esiste. Ma questa è un’idea ovvia, e perfino troppo strana, e per questo preferisco pensare che non risponda non per questo, ma perché non è felice. In questa sua infelicità c’entriamo anche noi, per forza. 

E’ lo stesso motivo per cui, quando torno a casa, Nero non mi viene incontro, scodinzolando, come faceva nel tempo beato che fu. Non è felice. I cani, poi, hanno un modo risentito di mostrarti che non sono felici. 
Si ricordano di quando non avevi occhi e attenzione che per loro, e io li vedo - durante la passeggiata al giardino - quei padroni ciondolanti e indecisi sotto la chioma di qualche licustro aspettare che loro finiscano di odorare il prato: vedo i cani tornare indietro di malavoglia, ingobbiti e depressi. 

Come se i padroni fossero invisibili li sopravanzano, conoscendo già a memoria la strada, si voltano alla fine come per dire: “allora ? Ci vuole così tanto?”. 

Anche Nero mi rimprovera. Non a caso: è un cane sveglio, lo è sempre stato. E’ sveglio, ma non è più un cane felice. E l’istinto canino gli deve dire, a gran voce, che io c’entro qualcosa con questa sua infelicità. Non arriverà mai ad accusarmi esplicitamente, a pretendere, a ringhiare come fanno i cani quando non sono soddisfatti, o a vendicarsi, perché un cane è un cane, e Nero è – da questo punto di vista – il migliore dei cani. 

Ma il suo modo di farmi capire che non è felice, mi colpisce, non mi aiuta. Non afferra più il bordo del guinzaglio per concedersi un quarto d’ora di matte risate canine, come faceva fino a poco tempo fa. Non mi concede nemmeno qualcuna delle sue goffe imboscate con cui mi spaventava sbucando fuori dalle porte nei lunghi pomeriggi invernali.


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata - 2015.

10/02/15

Saul Bellow: "Il mio lavoro è essere me stesso."



"Ho delle risposte e ho anche delle domande, e con questo voglio dire che ho smesso da un po' di cercare qualcosa di definitivo.  Ho l'impressione di credere in cose in cui non ho mai pensato di credere, e che agiscono che io voglia o no. Quindi non si tratta di rifletterci sopra, ma di imparare a conviverci. 


E bisogna accettare il fatto che stai cercando di convivere con le preferenze o con le decisioni segrete di cui un modo o nell'altro non sei mai riuscito a liberarti. E non te ne libererai mai. Adesso lo sai. Per esempio, ho smesso di tormentarmi riguardo alla fede in Dio. Non è una domanda vera.


La domanda vera è: "Come mi sono sentito in tutti questi anni?" e "In questi anni ho creduto in Dio?" tutto qui. Cosa ci puoi fare ? Non si tratta dunque di liberare l'intelletto dai vincoli, si tratta innanzitutto di cercare di decidere se la fede sia un vincolo e poi accettare ciò in cui si crede, perché per ora è ciò che possiamo fare." 

Allora torniamo alla scrittura, la tua immagine...

"Il mio lavoro è essere me stesso. E nell'essere me stesso divento un fenomenologo elementare, o fondamentale.   
Ed è così che faccio tornare i conti, prima di andarmene.  Mi chiedi cosa significa essere un artista. Prima di tutto vedi ciò che non hai mai visto prima; hai aperto gli occhi e c'era il mondo; il mondo era un posto molto strano; ne hai ricavato la tua versione, non quella di qualcun altro; e sei rimasto fedele alla tua versione e a quello che hai visto.  Credo che, in senso personale, sia questa la radice del mio essere scrittore. E tu sai perfettamente di cosa sto parlando."

Cosa pensi del mondo?

"Be' posso dire senza alcun problema che non credo che il mondo si sia sviluppato o evoluto in maniera casuale e non diretto da una intelligenza superiore.
Non può essere stato casuale.  Una volta ho avuto una discussione con un famoso biologo che sosteneva: " Se c'è abbastanza tempo può accadere in base a un processo casuale, e visto che sono passati miliardi e miliardi di anni, il tempo c'è stato."  Io ho risposto: "Sufficiente a spiegare l'equilibrio ormonale nel corpo di una donna incinta ? Aleatorio ? Io non credo."  Non credo che sia andata così, questo è il mio scetticismo naturale, diretto contro la scienza, non contro la religione.

Ci fu una famosa controversia, forse un litigio tra Einstein e Bohr. Bohr aveva una visione diversa - sul grande gioco della natura, sul fatto che sia casuale - ed Einstein gli disse: "Senti, io non credo. Sono d'accordo che Dio giochi, e quel gioco non lo capiamo, ma sappiamo comunque che si tratta di un gioco."

"Sì adesso me lo ricordo. Non dico che le conclusioni cui sono giunte siano quelle corrette.  Quello che dico è che è arrivato il momento di fingere che io non ci creda.  In un certo senso ci credo. Uso la conoscenza che ho accumulato in ottantacinque anni. Lo applico a queste domande e mi dico: come può tutto questo essere il risultato di miliardi di episodi casuali ? E' impossibile."



Tratto da Saul Bellow, "Prima di andarsene", Una conversazione con Norman Manea, Il Saggiatore, 2013. 




02/07/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (4./)



Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (4./)


Queste parole trovano una stretta correlazione con la testimonianza commovente scritta dal confratello Frère Francois di Taizè, all’indomani dell’assassinio del Priore, e intitolata significativamente: La morte di Frère Roger: perché ?  (4)  Una testimonianza – da parte di chi lo ha conosciuto molto da vicino –  che descrive un uomo davvero molto umano, incapace di trincerarsi dietro la certezza degli assiomi della fede.

      Il dubbio non ha mai abbandonato frère Roger, scrive Frère Francois, È per questo che egli amava le parole “Non lasciare che le mie tenebre mi parlino!” Le tenebre significavano le insinuazioni del dubbio. Ma il dubbio non intaccava l’evidenza con la quale egli percepiva l’amore di Dio. Può essere persino che proprio questo dubbio reclamasse un linguaggio che non lascia spazio ad alcuna ambiguità. L’evidenza di cui parlo non si situava a livello intellettuale, ma più in profondità, a livello del cuore. E come tutto ciò che non si può proteggere mediante dei ragionamenti convincenti o delle certezze saldamente costruite, questa evidenza era necessariamente fragile.

L’evidenza di cui parla Frère Francois, fu la grande forza di Frère Roger, la forza che gli permise di realizzare l’utopia di una comunità ecumenica nel cuore della vecchia europa, aperta a tutte le confessioni religiose, e capace di parlare al cuore di uomini di tutte le età, razze e credenze.

Già dalla fine degli anni ’50, il numero dei giovani che si recavano a Taizè cominciò a crescere in modo esponenziale.   L’alacre, infaticabile attività di Frère Roger portò,  a partire dal 1962 a inviare alcuni fratelli e giovani, nei luoghi più sperduti del mondo, o in quei paesi dell’Oltre Cortina dove allora era davvero molto rischioso parlare di Cristo e della fede professata da una Chiesa.

Nello stesso tempo, lo stesso Frère Roger cominciò a trascorrere lunghi periodi in luoghi di povertà ( dall’Etiopia ad Haiti, dalle Filippine a Calcutta) dai quali compilava la sua lettera, che veniva poi tradotta nelle diverse lingue, e spedita in molte nazioni a coloro che cominciavano a conoscere la realtà di Taizé.

E’ esattamente quel processo di fondazione continua, di cui parla Olivier Clément nel libro che ha dedicato a Taizé.  Questa comunità, spiega Clément, non è stata ‘fondata una volta per tutte’.  E’ piuttosto una realtà che continua e si sviluppa continuamente. Ciò è dovuto, suggerisce Clément, alle stesse modalità che hanno accompagnato la nascita di Taizè, modalità fondate su una visione, e non su una previsione.  “ C’è la visione di Frère Roger, “ scrive Clément,  “ che all’inizio era una visione di riconciliazione fra i cristiani e di servizio agli uomini tramite i cristiani.  E non era una previsione: non aveva mai previsto ciò che sarebbe potuto succedere e ciò che è successo oggi. Prima di tutto abbiamo una personalità fuori dal comune e questa personalità attrae senza volerlo.  Poi abbiamo questo aspetto di non previsione e di attrazione involontaria che troviamo sempre nella grande storia del monachesimo.  E’ una legge della storia della Chiesa: quando viviamo qualcosa di autentico, le persone arrivano numerose. Chi si mette a riflettere nella sua camera dicendo: “fonderò una comunità che attrarrà migliaia di giovani” ha già fallito in partenza. In questo modo non funziona !” (5)


Questo qualcosa di autentico è esattamente l’evidenza di cui parla Frère Francois. Il progetto di Frère Roger – quello che gli consentì di ricevere in terra gli onori dei grandi del mondo, ricevendo ad esempio il premio UNESCO dell’educazione alla Pace nel 1988 o il Premio Robert Schuman per il suo contributo alla costruzione dell’Europa nel 1992 – giunse a compimento, in una misura oltremodo inaspettata e impensabile all’inizio, proprio grazie al fatto di basarsi su un cammino personale, umano, vissuto ed esperito in prima persona.  Tu non ignori la fragilità delle tue risposte, scrisse nella Regola di Taizè, rivolto a uno dei suoi confratelli, ma anche a se stesso,  Ti senti sprovveduto di fronte all’assoluto del Vangelo.  Un credente della prima ora diceva, già allora, al Cristo: “io credo, aiuta la mia incredulità.” Sappilo una volta per tutte: né i dubbi, né l’impressione del silenzio di Dio ti tolgono il suo Spirito Santo.  Quello che Dio ti chiede è abbandonarti al Cristo nella fiducia della fede e accogliere il suo amore.  Anche se ti senti tirato da molte parti, spetta a te fare una scelta. Nessuno può farla al posto tuo.  (6) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

4.       La testimonianza La morte di Frère Roger: perché ? di Frère Francois di Taizé è stata pubblicata, all’indomani della morte del Priore, sul sito della Comunità, dove ancora è leggibile alla pagina: http://www.taize.fr/it_article3796.html
5.     O.Clément, Taizé… Op.cit. pag. 34.
6.     Le Fonti di Taizè, Op.cit. pag. 11 

27/05/14

Una bellissima intervista ad Eugenio Borgna, di Antonio Gnoli per Repubblica.





Vi propongo questa bellissima intervista ad Eugenio Borgna realizzata da Antonio Gnoli. 


Eugenio Borgna: "L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra" Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina - di  Antonio Gnoli - Da Repubblica.it 


LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. 

Nelle movenze dinoccolate di quest'uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l'altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell'ascolto. 

Ci fermiamo, vista l'ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: "Qui veniva Scalfaro", ricorda Borgna. E ho l'impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.


Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
"Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita".

Che ha avuto inizio dove?
"A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l'adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l'ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo".

Quanto durò?
"Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l'Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose ".

Perché quel tipo di scelta?
"Sulle orme paterne avrei potuto fare l'avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza".

Essere autentici è un dovere?
"Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".

Mi faccia capire.
"Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".

Perché?
"Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".

Non le bastava la verità clinica?
"No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".

E invece?
"Decisi  -  tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici  -  di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".

Una scena irreale?
"Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".

Come reagì?
"Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".

Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
"Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".

Non è facile trovare un varco per la comprensione.
"Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".

Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
"La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".

di Antonio Gnoli - da Repubblica.it

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23/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (5 - fine)



Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (5 - fine)

Vincendo la resistenza a quel gesto, Etty Hillesum tornerà ad inginocchiarsi molte volte su quel ruvido tappeto di cocco, e a implorarlo: Signore, fammi vivere di un unico, grande sentimento – fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni a un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. (13)

E ancora: Mio Dio prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza.  Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto nel modo migliore. Ma concedimi di tanto in tanto un breve momento di pace… Andrò dappertutto allora, e cercherò di non aver paura.  (14)
      Ma chi è questo Dio che la ragazza ebrea invoca, insegue e accoglie ?  Etty, come scrive Cristiana Dobner in un recente volume, “ha coscienza precisa di essere creata a immagine e somiglianza di Dio. E’ il suo appartenere al popolo della berith dell’alleanza, che le ha trasmesso questa certezza. Non è un vago progetto ma una realtà rivelata, approfondita dalla teologia che la ritiene forza innata, donata e presente, nella persona; Dio, a motivo della sua immensità in quanto causa efficiente di tutto l’essere e di tutto l’operare, inerisce intimamente a tutte le creature con un’esistenza interiore alla stessa sostanza.” (15)

Il percorso verso Dio di Etty è insomma, pienamente consapevole ed è frutto di una doppia conoscenza, quella tutta interiore del corpo – Etty sente Dio dentro di sé, come un nascente che preme e che lotta contro le distorsioni   - ed esteriore, quella che avviene – come per grazia – nell’incontro con l’altro, con il servizio e con il darsi incondizionato.

      Come ha fatto notare Patrick Lebeau, la conversione di Etty è il frutto di tre incontri differenti:  “Spier, del quale abbiamo ricordato il ruolo e che la aiuterà a convertire la sua forza amorosa ed erotica in un’unica forza raggiante di amore spirituale verso gli altri, Dio e, infine, l’incontro di Etty con se stessa.   Quest’ultimo incontro non è aneddotico o narcisistico: le darà un’immagine di sé che non si aspettava, un’immagine in cui si riconoscerà progressivamente per appropriarsene, rendendola trasparente ai suoi occhi e poi visibile agli occhi degli altri.” (16)  

Etty manifesta questa il senso di questa triplice ricerca in modo paradigmatico e limpido in un passaggio del suo Diario, scritto il 17 settembre del 1942: In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio.  E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta parte più essenziale e più profonda dell’altro. Dio a Dio.   (17)
       L’introspezione dolorosa di Etty nei propri ‘inferni personali’ non è mai dunque fine a se stessa.   Etty sembra inconsciamente convinta di quello che Shakespeare annotava nei suoi Sonetti, ovvero che “ ripeness is all ”, la maturità è tutto: la maturità è andare fino in fondo, nella discesa verso il centro di se stessi dove è possibile trovare la faccia dell’altro e con essa il volto stesso di Dio.  Una discesa verso l’autenticità più profonda del proprio essere, che non scantona, non prende scorciatoie,  non pretende di glissare e vive il dolore personale come una strada maestra verso l’affermazione di un senso divino dell’esistenza.  Anche il lutto di Spier – lacerante per Etty -  viene vissuto come il tramite per qualcosa di altro e qualcosa di oltre.   Spier, dotato di una personalità così straordinaria, ‘magica’ secondo molti dei suoi contemporanei – è l’aggettivo che si dà quando le cose sono razionalmente inspiegabili,  sembra quasi farlo intenzionalmente, una specie di addio al mondo volontario:  si ammala improvvisamente, infatti, e muore il 12 settembre 1942, esattamente il giorno prima di essere inviato anch’egli, ebreo e intellettuale, al campo di smistamento di Westerbork.

Etty scrive nei giorni seguenti, pagine accorate dedicate a lui:  Sei tu che hai liberato le mie forze, tu che mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio.   Sei stato l’intermediario tra Dio e me,  e ora che te ne sei andato la mia strada porta direttamente a Dio e sento che è un bene, Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere. (18)
        Sarà esattamente così. 
        Nelle testimonianze dei sopravvissuti c’è fino all’ultimo istante il ricordo di una ragazza dai modi indimenticabili, che anche nel momento stesso di salire sul treno per la Polonia, ha “una parola gentile per tutti quelli che incontra, piena di umorismo scintillante anche se forse un pochino malinconico, proprio la nostra Etty come voi la conoscete..:” (19)

E’ il segno di una consapevolezza piena, di una maturità piena, che Etty ha trovato nel fondo della sua anima, come presenza di Dio, una consapevolezza e una maturità che è presumibile non l’abbiano abbandonata del tutto neanche nei giorni della prova finale, nel recinto spinato del campo di Auschwitz, prima della doccia  a gas fatale.

Quella stessa consapevolezza e maturità che espresse in modo così cristallino e toccante in una delle ultimissime pagine del Diario, il 18 agosto del 1943,  venti giorni prima di partire (20):   Mi hai resa così ricca, Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio.   A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. .. Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà, tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita. Io non combatto contro di te, mio Dio, tutta la mia vita è un grande colloquio con te. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.

    
13.      E. Hillesum, Diario … op.cit. pag. 82.
14.      E.Hillesum, Diario… op.cit. pag. 74.
15.      Etty Hillesum, Pagine mistiche, tradotte e commentate da Cristiana Dobner, Ancora edizioni, Milano 2007, pag.35.
16.      P. Lebeau, Il Diario di Etty Hillesum, in “La Civiltà Cattolica” q. 3603-3604 (2000), pag.240.
17.      E. Hillesum, Diario, Op.cit. pag. 203
18.      E. Hillesum, Diario, Op. cit. pag. 196
19.     E’ il commovente resoconto dell’addio di Etty dalla stazione di Westerbork, narrato dall’amico Joseph (Jopie) Vleeschouwer e che conclude il racconto del Diario nella edizione curata da J.G. Gaarlandt.  Ho con me i miei diari, la mia piccola Bibbia, la mia grammatica russa e Tolstoj e non so quante altre cose, furono le sue ultime parole all’amico.
20.     E. Hillesum, Diario, Op. cit. pag.253.

22/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (4./)



Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (4./)

Cos’è che spinge una persona in questa condizione - nella condizione di vittima designata di un sistema folle che opera per distruggere e cancellare dalla faccia della terra una intera genia di innocenti -  a prendere le parti di Dio, a proporre addirittura di aiutarlo, anziché protestare contro di lui, inveire contro la Sua ingiustizia profonda, il suo silenzio complice, il suo assistere impassibile alla rovina e all’abominio che si consuma ?

Per spiegarlo dobbiamo capire il senso della teologia personale di Etty, il cui disegno coraggioso appare chiaro – pur con tutte le sofferenze e le lacerazioni  - nel dipanarsi febbrile delle pagine del diario e delle lettere  scritte negli ultimi mesi prima della sua morte.

L’atteggiamento della Hillesum di fronte agli spaventosi eventi della modernità è radicalmente diverso da quello della maggioranza delle intelligenze ebraiche che angosciosamente si interrogano sul silenzio di Dio. Pensiamo ad esempio ad esempio ad Elie Wiesel  per il quale questo silenzio rappresenta la fine della fede o almeno di quella fede tradizionale. Se l'Eterno ci sta mandando tutta questa manna senza poter far nulla – scrive Wiesel -  o questo Eterno è impotente o talmente sadico che nessun disegno Provvidenziale e Imperscrutabile potrà giustificarlo (agli occhi di un uomo e soprattutto di un uomo disperato che vive l'esperienza del campo) (11).

Di fronte a questo umanissimo pensiero, Etty offre invece una prospettiva del tutto rovesciata:  Sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così ora… dentro di me c’è una fiducia in Dio  che in un primo tempo quasi mi spaventava per la sua crescita veloce, ma che sempre più diventa parte di me..   

Questa fiducia, questo abbandono non sono, per la Hillesum gratuiti, non scaturiscono dal cuore in modo immotivato: sono piuttosto il prezzo di una presa di consapevolezza, di una umanità raggiunta al prezzo di un coraggio personale introspettivo che non cerca infingimenti o facili consolazioni e nemmeno mai cerca scorciatoie liquidatorieIl misticismo deve  fondarsi su una onestà cristallina, scrive,  quindi prima bisogna aver ridotto le cose alla loro nuda realtà, cioè come è stato fatto notare recentemente da una studiosa del pensiero di Etty, “ sempre dentro lo spessore del contraddittorio e difficile. Di lì si è rimandati all’Oltre, all’Inafferrabile vicino che sollecita aperture inattese, e crescite impensate, itinerari sconosciuti (12).”

Esempi di questa fede contraddittoria e difficile ma sempre vissuta fino in fondo, sempre vissuta senza sconti e visceralmente, nel senso che oggi si definirebbe più autentico, sono disseminati lungo il diario, nel racconto personale di Etty che si segue come lo svolgimento di un romanzo: l’esperienza dell’aborto, vissuta con determinazione lucida e dolorosa (ho giurato che nel mio grembo non nascerà mai un essere altrettanto infelice, scrive dopo aver assistito all’ennesima scenata del labile fratello Mischa, che viene portato in una casa di cura); quella del darsi a uomini diversi (solo dodici ore fa ero tra le braccia di un altro uomo e gli volevo e gli voglio bene)  quella della totale mancanza di autostima (Etty, mi disgusti, così egocentrica e meschina)  sono stazioni di una via crucis personale, che hanno come epilogo la partenza del vagone dalla stazione di Westerbork e l’annientamento nel campo polacco.


Eppure, in questo cammino  così controverso e difficile, Etty riesce a non perdere di vista l’essenziale.  Sa che Dio non le scapperà di mano, se lei non lo lascerà scappare.  Lo insegue, lo ricerca, lo ascolta, lo accoglie.  E una specie di grazia salvifica sembra scendere a proteggerla, a illuminarla, feconda di nuove scoperte:  ieri sera, scrive in una domenica mattina del 1941, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel bel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa più forte di me.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.   

      
11.     E. Hillesum, Diario, Op.cit. pag. 169.
12. Così Elie Wiesel in quello che è considerato il suo capolavoro-autobiografia, il romanzo La notte, edito in Italia da La Giuntina, 1992.

21/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (3./)




Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (3./) 


Lo stesso percorso di vita di Etty parla il linguaggio della coerenza e del coraggio. L’adesione incondizionata, a prezzo della sofferenza personale, all’ideale della giustizia e del bello.    Dai tempi del ginnasio, che frequentò a Deventer, dove cominciò a frequentare un gruppo di giovani sionisti, imparando anche l’ebraico.  E poi, da studentessa universitaria, quando pur non facendo parte di alcun gruppo politico, mise in campo la sua passione personale nei rapporti con un’infinità di conoscenti, amici e colleghi universitari, fino al conseguimento della laurea in legge, e al fatale incontro con Julius Spier, lo psicologo e psicoanalista ebreo tedesco, allievo di Jung, che Etty conobbe casualmente il 3 febbraio del 1941 durante un concerto in ambito domestico e che praticava la psicochirologia, basata sulla lettura della mano.

Spier fu l’incontro determinante per Etty: divenne la segretaria e anche l’amante di un uomo carismatico e molto ambito, che la prese in terapia, le insegnò a dominare i suoi stati depressivi e caotici, la spinse ad iniziare la stesura di quel Diario che diventerà un testo capitale della spiritualità moderna, la protesse dall’angoscia opprimente del cerchio che la persecuzione nazista andava stringendo giorno dopo giorno intorno a lei e a quelli come lei.

Come ha scritto F. MichaelDavide: “la duplice esperienza di umanità – la relazione con Spier – e di disumanità – lo sterminio nazista – sono state la trama sulla quale si tesse la tela di questa vita che seppe trovare consistenza nell’ordito della presenza intima e discretissima del Dio dei padri: così vicino e così lontano. Senza la relazione con Spier, fatta di delicatissima e ardita umanità, Etty sarebbe stata senza dubbio sopraffatta dall’orrore e dal logoramento della persecuzione.  Senza queste ultime, non sarebbe stata sollecitata con tanta forza ad andare avanti nel cammino di interiorità fino a scegliere di essere consapevolmente sterile per essere feconda nella trasmissione di un amore più grande sempre pronto alla morte, come paradigma di incompiuta prontezza al dono di sé in ogni momento. (8)”

Le pagine del Diario raccontano di una relazione – quella con Spier – che nella sua profonda umanità, e anche con il corollario di una passione erotica a tratti travolgente (sto proprio rischiando di rovinare questa amicizia con l’erotismo, scrive Etty)  diventa la chiave per maturare e per crescere, e “attraversare la vita senza finzione ma nel coraggio di una verità su se stessi talora assai dura”. (9)


Julius Spier


Questo stesso metodo    che non concede sconti a sé stessa, sul piano del cammino personale, Etty applica, con la pazienza di un entomologo al suo “Discorso con Dio”, che procede di pari passo lungo le pagine del Diario stilato in quei due anni terribili per la storia dell’Europa e del mondo.

E’ soltanto la fedeltà a questo metodo che permette a Etty di non perdere mai totalmente La fiducia in Dio, nonostante l’orrore che vede ogni giorno, nonostante la sensazione di una ingiustizia così conclamata che vede diffondersi nel mondo, nel suo mondo, tra i suoi amici, tra i suoi più stretti famigliari, perseguitati per essere semplicemente appartenenti ad una razza sbagliata.  Il dramma del silenzio di Dio, in questi anni così orribili, Etty lo risolve a suo modo, con una professione di fedeltà interiore commovente, che giunge a spalancare nuovi orizzonti di comprensione spirituale. E’ una consapevolezza nuova – quella di essere il cuore pensante della baracca, come lei stessa si definisce – a permettere ad Etty Hillesum di poter scrivere una pagina come questa:

       Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano… Ti prometto una cosa Dio, soltanto una piccola cosa… Cercherò di aiutarti  affinché tu non venga distrutto in me, ma a priori non posso promettere nulla.  Una cosa però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo noi aiutiamo noi stessi.    L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. … Dicono: me non mi prenderanno.  Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia.  (10)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.   


1.    Fr. MichaelDavide, Etty Hillesum: Dio Matura, edizioni La Meridiana (Pagine altre), Molfetta (BA) 2005, pag.16.
2.     F.MichaelDavide, Etty Hillesum… Op.cit, pag. 151
3.     E. Hillesum, Diario, Op.cit. pag. 169.