31/01/25

"Il Libro dei Bambini" di Antonia S. Byatt - Un grande libro


Ci sono libri difficili che ripagano la fatica del lettore. Con il tempo capisci quando vale la pena di insistere perché ti verrà dato il premio di un grande libro.

La Byatt, virtuosa della scrittura, scrive un'opera colossale: 700 pagine nelle quali si muovono, avanzando paralleli lungo la stessa linea di narrazione [neanche 1 solo flashback e nemmeno 1 flash forward] circa 50/60 personaggi contemporaneamente, dei quali la metà bambini che diventano poi adolescenti e adulti.
La capacità di portare avanti una narrazione così complessa [i personaggi sono tutti tra loro imparentati o relazionati] dove ad ogni personaggio sono dedicate ogni volta non più di 2 o 3 pagine è prodigiosa. Il lettore rischia di perdersi mille volte ma ogni volta riaffiora perché tutto avviene sullo sfondo di un'epoca e di luoghi che (ci) parlano della crescita, della evoluzione e della consapevolezza, della creazione artistica, del vero e del falso. L'Inghilterra vittoriana e poi edoardiana, la Baviera dei teatri e delle filosofie e delle ideologie. Prima che tutto venga ingoiato dal demone della guerra.
Antonia Byatt sì, avrebbe meritato il Nobel.


Dall'Inghilterra a Parigi, a Monaco e infine alle trincee della Somme, le vicende di un gruppo di uomini e donne che si propongono di modificare convinzioni, comportamenti, stili di vita e che per propria cecità e per l'incalzare della storia finiranno per soccombere.
Una lucida analisi sulla perfettibilità degli esseri umani, sul crudele egoismo della natura d'artista, sulla fascinazione per l'infanzia.

2010
Supercoralli
pp. 700
€ 25,00
ISBN 9788806199241

14/01/25

Ricordo di un incontro-intervista con Vittorio Gassman




Era l'estate del 1990. Vittorio Gassman era, ancora e pienamente, il "mattatore" del cinema e del teatro italiano e io un giovane cronista di cultura e spettacolo. 

Panorama, per cui lavoravo già da tempo, mi chiese di andare a intervistare Gassman a casa sua: una intervista piuttosto di routine, incentrata su quelli che erano in quel momento i progetti del grande attore. 

Varcai dunque il cancello di Villa Brasini - che i romani chiamano familiarmente "Il Castellaccio" per via della sua bizzarra architettura - nei pressi di Ponte Milvio, a Roma. Gassman era in quel periodo, da poco uscito dalla sua famosa "depressione", durata circa due anni, di cui l'attore parlò spesso anche in pubblico, in particolare durante la sua partecipazione al Maurizio Costanzo Show di quell'anno - un notevole e breve estratto è visibile su Youtube cliccando qui

Probabilmente, con il senno di poi (cioè dell'oggi), in quella occasione, avrei considerato non certo una felice scelta, quella, per un depresso, di andare a vivere proprio a Villa Brasini (pur splendido edificio), per via della fama sinistra che vi aleggia, anche per episodi assai recenti e di cui ho scritto in un libro di qualche successo (clicca qui).

Gassman mi venne incontro, affabile ed elegante,  mi fece accomodare nel grande salone vetrato della casa - con vista su un giardino interno - poi venne a sedersi, interrotto durante la nostra chiacchierata, dal figlio più piccolo, Jacopo, avuto dalla terza moglie, Diletta D'Andrea, nato nel 1980 e che dunque aveva all'epoca dieci anni, e del quale il padre dimostrava di essere innamorato. Riuscì a un certo punto a convincerlo a lasciarci soli e iniziò il nostro colloquio. 

Parlò a lungo del progetto assai ambizioso che all'epoca portava avanti: la messa in scena del Moby Dick di Melville, a teatro, con l'impianto scenico di Renzo Piano, che effettivamente andò in prima durante  le celebrazioni colombiane di Genova con il Teatro Stabile di quella città, poi portato anche a Siviglia e infine negli Stati Uniti (sempre nell'ambito di quelle celebrazioni). L'intero spettacolo è visibile cliccando qui

Mi parlò poi della serie TV Tutto il mondo è teatro alla quale stava lavorando e che avrebbe condotto l'anno seguente (1991) su RaiUno con grande successo (visibile un estratto qui).

Infine mi parlò di un progetto a cui teneva tantissimo e che invece - per quel che mi risulta - non si fece mai: un film dal terzo libro che aveva scritto, dopo Un'avvenire dietro le spalle (1981) e Vocalizzi (1989): Memorie dal sottoscala, di cui avrebbe dovuto essere regista, ma non protagonista ("preferisco concentrarmi sulla regia: l'interprete sarà forse straniero, magari un inglese, qualcuno che incarni lo spirito di quest'uomo inquietante e goffo"), nonostante fosse totalmente autobiografico e raccontasse "in chiave grottesca una nevrosi, non gli anni della mia depressione." 

Chissà che fine ha fatto quel copione, scritto con Giancarlo Scarchilli e chissà che prima o poi qualcuno non si decida a rispolverarlo. 

L'incontro, che ricordo vivamente - per la gentilezza e la simpatia che mi dimostrò - si concluse e salutai Gassman, che come molti grandi dell'epoca sapeva anche essere umile o semplice, che dir si voglia. Appena dieci anni dopo, ci ha lasciato. Con molti (nostri, di spettatori) rimpianti.

L'intervista uscì su Panorama il 19 agosto del 1990. 




11/01/25

19 Settembre 1969: quel giorno che i Beatles si separarono (dal Libro "La Fine del Sogno")


“Le cose erano diventate appiccicose, durante il White Album e anche durante la lavorazione di Let it Be (il progetto inizialmente chiamato Get Back n.d.a.)”, racconta Mc Cartney, “George lasciò per qualche tempo il gruppo in quel momento, e anche Ringo, ma riuscimmo a risolverlo”.  La questione però è destinata a ripresentarsi, più gravemente, finita la registrazione di Abbey Road, con Paul che ha pronto anche lui, il suo primo album solista. “Più o meno in quel momento”, continua McCartney, “tentai l’ultima carta. Avemmo un incontro negli uffici Apple (nel mese di settembre 1969, n.d.a.), e feci agli altri un discorso: «sentite, se c’è qualcosa che non va, dobbiamo sistemarlo. Quello che penso è che dovremmo tornare a essere una band, tornare come quella piccola unità che siamo sempre stati. Penso che dovremmo andare in piccoli club e fare un piccolo tour. Impariamo ad essere di nuovo una band insieme, non uomini d’affari». A quel punto, John mi ha guardato negli occhi e ha detto: «Penso che tu sia uno sciocco. E in effetti non avevo pensato di dirtelo ora, ma… lascio il gruppo». A quanto mi ricordo, queste furono le sue esatte parole. E le nostre mascelle sono cadute. Poi ha continuato, spiegando quanto fosse una bella sensazione togliersi di dosso quel peso, un po’ come quando aveva annunciato a sua moglie di voler divorziare. Un vero sollievo. Il che sarà stato sicuramente molto bello per lui, ma non per noi.”[1]

                Dal canto suo, John, a posteriori, riconosce che l’arrivo di Yoko nella sua vita ha dato l’impulso determinante per la decisione che venne comunicata quel giorno: “Ero un Beatle,” racconta nel 1980, “ma le cose avevano cominciato a cambiare. Nel 1966, poco prima che incontrassi Yoko, ero andato in Almeria, in Spagna per girare un film. Mi ha fatto molto bene. Sono stato lì per sei settimane. Ho scritto Strawberry Fields Forever, fra l’altro. Mi ha dato il tempo di pensare, lontano dagli altri. Da quel momento in poi stavo cercando un posto dove andare, ma non ho avuto il coraggio di scendere da solo dalla barca e spingerla via. Quando però mi sono innamorato di Yoko, ho capito tutto: “mio Dio, questo è diverso da qualsiasi altra cosa. Questo è qualcos’altro. Questo è più di un disco, di un successo, più dell’oro, più di tutto. È indescrivibile”.”[2]

                 Il drammatico (per le sorti del gruppo) incontro alla Apple, termina con un compromesso: la decisione presa da John, e il conseguente scioglimento dei Beatles, non verrà per ora annunciato. Ci sono importanti faccende economiche in ballo – rinegoziare il contratto discografico – e c’è da decidere cosa fare del progetto lasciato in sospeso - Get Back - dove ci sono canzoni straordinarie, tra le più importanti in assoluto scritte dai Beatles.

                 Quel giorno segna comunque la fine (ufficiosa) della loro avventura insieme. Il bilancio definitivo dice che dal 1963 al 1969, cioè in soli sei anni, i Beatles hanno scritto centottantatré canzoni. Lennon ne ha scritte in tutto settantatré e Paul quattro in meno, sessantanove. I due, insieme, ne hanno composte “soltanto” diciassette, anche se – in base all’accordo di ferro stipulato in gioventù, di cui ho già detto – tutti i loro brani sono firmati insieme con il marchio: Lennon & McCartney. Harrison ha scritto ventidue canzoni, Ringo soltanto due. Un’analisi approfondita, che i musicologi e i fan del gruppo hanno fatto, mostra la diversa preponderanza di uno o dell’altro, nel corso degli anni: all’inizio si devono alla penna di Paul i successi più importanti del gruppo, mentre nella fase centrale il peso creativo di John diventa prevalente; nella fase finale, infine, è di nuovo Paul a firmare come autore praticamente tutti i maggiori successi del gruppo, complice, sicuramente, il progressivo distacco di John.

               La separazione in atto, avvenuta in quella fine di settembre, segna l’inizio della “lunga morte” del gruppo, come la definì Lenno

TESTO tratto da LA FINE DEL SOGNO - Beatles, Manson, Polanski, di Fabrizio Falconi, Arcana Editore, 2024 - diritti riservati.




[1] K. Loder, McCartney Interview, op. cit.

[2] D. Sheff, John Lennon Interview, op. cit