30/05/11

Hic iacet - Le parole della soglia - 3


In qualche caso l’Epitaffio è qualcosa di ancora ulteriore. Le parole usate come iscrizione funebre sono quelle pronunciate dallo stesso morente. Questo è avvenuto, avviene ancora oggi quando quelle parole rimandano ad un segno particolare, significativo.

Sembra ad esempio che le ultime parole pronunciate da Karl Barth il 10 dicembre del 1968 poco prima di morire, e incise quindi sulla sua lapide siano state queste:

Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi. Essi vivono tutti per Lui. Dagli apostoli fino ai padri dell’altro ieri, e di ieri.

Straordinario. Barth cita l’evangelo di Luca ( 20,38 ): Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui.

E sceglie proprio un passo cruciale: un passo dove il Cristo sembra quasi ‘penalizzare’ i morti, in favore dei vivi. Ma poi, appena si prova a rileggere la frase, a farne fermentare il senso, si capisce invece che questa frase spiega invece proprio quel senso di ‘soglia’ di cui parla anche la De Monticelli: i morti, secondo il Cristo, sono vivi, attraverso la morte sono vivi, e vivono per Dio.

I vivi diventeranno morti e devono vivere per Dio, seguendo proprio l’esempio dei morti, di coloro che hanno oltrepassato la soglia.

In questo senso l’epitaffio di Karl Barth, le ultime parole pronunciate prima di morire, rappresentano una sorta di testamento esemplare, per uno dei più grandi e tormentati teologi dell’era moderna.

Le parole di Barth sembrano suggerire anche un ulteriore riflessione, nella seconda parte di quella frase: “Dagli apostoli fino ai padri dell’altro ieri, e di ieri. “

Il senso dell’appartenenza ad una comunità si trasmette attraverso queste parole.

Si trasmette attraverso una parola che ‘si rinnova di generazione in generazione’.

E’ proprio questo che qui mi interessa molto.

Il luogo della sepoltura comunica ai sopravvissuti una continuità: lì c’è il corpo dell’assente. Lì ci sono le parole dell’assente. Fondando una costruzione sul corpo dell'assente si perpetua una tradizione, si ‘mette forza’ alla costruzione, si procede in avanti. Allo stesso modo, ‘fondando’ un discorso sulle parole dell’assente, che riguardano l’assente, anche semplicemente pronunciando il suo nome, si ‘ mette forza‘ , si dà senso al nostro progredire psichico. La memoria di queste parole è come materia pura. Che fa rivivere lo spirito, l’essenza di un’assenza. Essenza e assenza del resto sono quasi simili: una sola lettera ne definisce la differenza: la lettera iniziale.

La poesia questo l’ha capito da sempre.

Gli esempi sarebbero innumerevoli.

In una famosa poesia di Mallarmè si può ritrovare il senso di tutto quello che abbiamo detto fin qui:

‘Sonetto', scritta da Mallarmè in un giorno non casuale, il 2 novembre, il giorno dei morti del 1877, con la dedica:  Per la vostra cara morta, un suo amico.

• ( poesia- Mallarmè )

“Sui boschi obliati quando passa il buio inverno,

Solitario prigioniero della soglia, ti lamenti

Che questa doppia tomba futuro nostro orgoglio

Solo di ricchi fasci assenti ahimè ! si grava.


Inascoltata Mezzanotte, che il vano numero gettò,

Ti esalti nella veglia per non chiudere gli occhi

Fin che nelle braccia della vecchia poltrona

L’ultima fiamma non rischiari la mia Ombra.


Chi vuol sovente avere la Visita non deve

Di troppi fiori opprimere la pietra che il mio dito

Solleva nello stremo di una forza defunta.


Anima che trema d’assidersi al chiaro focolare,

Per rivivere mi basta alle tue labbra cogliere

Il soffio del mio nome a lungo sussurrato una sera."

Dunque cosa occorre per ‘rivivere’ ? Cogliere il soffio del mio nome a lungo sussurrato una sera, questo dice l’assente.

E’ la pronuncia di quel nome, da parte del vivente, del sopravvissuto, che restituisce vita, che prolunga vita.

La memoria dei morti è la memoria delle loro parole, di qualcuno che continua a raccontare la loro storia.

La stessa forza ritroviamo in una famosa poesia di Giuseppe Ungaretti, che mi ha sempre molto colpito, scritta nel 1916, che si intitola proprio ‘In memoria’.

• ( poesia da L’allegria- Il porto Sepolto – Ungaretti )


In memoria


Si chiamava

Moammed Sceab



Discendente

di emiri di nomadi

suicida

perché non aveva più

Patria



Amò la Francia

e mutò nome



Fu Marcel

ma non era Francese

e non sapeva più

vivere

nella tenda dei suoi

dove si ascolta la cantilena

del Corano

gustando un caffè



E non sapeva

sciogliere

il canto

del suo abbandono



L’ho accompagnato

insieme alla padrona dell’albergo

dove abitavamo

a Parigi

dal numero 5 della rue des Carmes

appassito vicolo in discesa



Riposa

nel camposanto d’Ivry

sobborgo che pare

sempre

in una giornata

di una

decomposta fiera



E forse io solo

so ancora

che visse.

Qui, nel camposanto di Ivry, che Ungaretti descrive in maniera così tetra, e che oggi è un quartiere satellite di Parigi abitato da impiegati e stranieri di tutte le razze, avviene qualcosa di diverso. Qui addirittura le parole pronunciate dal poeta, ‘ in memoriam ‘ costituiscono l’identità stessa di questo sconosciuto, di questo Moammed Sceab, che esiste – post mortem – solo in quanto vi è qualcuno che ricorda il suo nome. Un testimone il quale potrebbe ‘confessare’ , parafrasando Neruda, ‘che Moammed Sceab ha vissuto.’

Anche il luogo della morte, un luogo indefinito ‘ che pare sempre in una giornata di decomposta fiera ‘, è un luogo sperduto, inesistente, reale solo perché la voce, la parola di un poeta rende testimonianza.

3/5
 
Fabrizio Falconi © riproduzione riservata

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