23/06/22

Dopo "Normal People" arriva "Conversations with friends" la nuova serie tratta dal romanzo di Sally Rooney ed è una delusione


C'era molta attesa tra i tanti - e io fra di loro - che avevano salutato Normal People, la serie tratta dall'omonimo romanzo di Sally Rooney, uscita nel 2020 (visibile su StarzPlay), come un piccolo vero miracolo.

Vincitrice di una cascata di premi e osannata dalla critica in patria e fuori, Normal People aveva trovato due giovanissimi attori in stato di grazia, realizzando un'opera moderna e autentica, sorvegliata dall'autrice che aveva supervisionato la scrittura e tutta la realizzazione della Serie targata BBC.
E' perciò notevole la delusione per Conversation with Friends con la quale serie è stato tentato il bis della prima: stessa produzione identica, stessa autrice (altro romanzo, best seller in Europa), stesso formato di mini puntate da 25/30 minuti per 12 episodi.
Eppure, Conversation with Friends non funziona per niente. Si rivela anzi, puntata dopo puntata, scialba e indigesta, sonnolenta e inconcludente.
A causa soprattutto dei due protagonisti, male amalgamati e totalmente inespressivi - due "facce" e basta - privi totalmente di chimica reciproca (l'esatto contrario di ciò che avveniva in Normal People), alla lunga perfino irritanti nella loro passività amebica.
Due protagonisti che potremmo definire "indecisi a tutto": dialoghi inesistenti monosillabici, ritrosie, smorfiette, lunghe scene a bordo di treni, camminate, diecimila tazze di té preparate.
Anche lo spirito del romanzo di Rooney, basato sulle conversazioni (come recita il titolo perfino), è del tutto tradito.
Si gira a vuoto e si capisce che questo sarebbe il famoso "messaggio" dell'opera, sugli amori inconcludenti o per dirla alla Bauman, liquidi": il tutto già visto e risaputo e appesantito da attori e messa in scena completamenti privi di allure o di carisma.
Peccato.

21/06/22

Libro del Giorno: "Spettri della mia vita" di Mark Fisher

 


Mark Fisher è uno dei pensatori più importanti e originali degli ultimi anni. E la sua lucidità analitica, la sua penna virtuosistica, ha influenzato notevolmente le generazioni fuoriuscite dal vecchio secolo in cerca di modernità e soprattutto di senso. 

L'opera di Fisher si lega indissolubilmente alla sua vicenda esistenziale: noto anche con lo pseudonimo di k-punk Fisher è nato a Leicester l'11 luglio 1968 ed è morto suicida a Felixstowe, 13 gennaio 2017.

Oltre ad essere filosofo, Fisher, divorato da una fame di curiosità e conoscenza, è stato anche sociologo, critico musicale, blogger, saggista e accademico britannico. 

Ha cominciato ad acquisire notorietà in patria nei primi anni 2000 come blogger, per poi diventare famoso per i suoi scritti riguardanti politica, musica e cultura popolare. 

Ha pubblicato diversi libri, diventati oggetto di studio e di culto tra cui Realismo capitalista (2009), opera che ha ottenuto un inaspettato successo, e ha scritto per diverse riviste, tra cui The Wire, Fact, New Statesman e Sight & Sound. 

Dopo ultimi anni difficili, in bilico sulla depressione, è morto suicida nel gennaio 2017, poco dopo la pubblicazione del suo ultimo libro, The Weird and the Eerie (2017). 

Fisher si è formato soprattutto sulla stampa musicale sul post-punk di fine anni 70, in particolare da riviste come NME, le quali trattavano non solo di musica, ma anche degli aspetti interdisciplinari che collegano musica a politica, cinema e fiction. Ha ottenuto un Bachelor of Arts in Letteratura inglese e Filosofia alla Università di Hull nel 1989, per poi finire il dottorato di ricerca alla Università di Warwick nel 1999, con una tesi dal titolo Flatline Constructs: Gothic Materialism and Cybernetic Theory-Fiction. 

Dopo un periodo in cui ha insegnato filosofia nelle scuole superiori, ha fondato nel 2003 il blog k-punk, che è stato considerato uno dei blog più di successo riguardanti gli studi culturali, un luogo nel quale  cultura popolare, musica, cinema, politica e teoria critica venivano discusse parallelamente da giornalisti, filosofi, amici e colleghi. 

Dopo altri anni molto febbrili, Fisher si è tolto la vita il 13 gennaio 2017 a 48 anni. 

La sua lotta contro la depressione è stata trattata da Fisher stesso in vari articoli e in Realismo capitalista, nel quale ha affermato che "la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere capita adeguatamente, né curata, finché viene vista come un problema personale di cui soffrono singoli individui malati"

L'intuizione - e la battaglia - di Fisher era quella di far capire come alla base della depressione vi siano spesso o quasi sempre, il peggioramento delle condizioni sociali, l'abbattimento degli strumenti sociali da parte dei regimi neoliberali in Inghilterra come nelle altre parti del mondo. 

Dopo l’exploit di Realismo capitalista, Mark Fisher si confermò con Spettri della mia vita, che raccoglie molti articoli sparsi e che riuniti insieme descrivono il filosofo inglese come un grande e fidato navigatore in questi tempi fuor di sesto, "attraverso tutti i loro brividi e squarci, in mezzo a tutte le loro apparizioni e spettri, passati, presenti e futuri". 

Così scriveva perfettamente David Peace, all’uscita dell’edizione originale di questo libro. 

Spettri della mia vita è l’opera ardita di un uomo nato sotto Saturno che affrontava ogni giorno i suoi fantasmi, è il racconto struggente di uno scrittore e critico geniale che sentiva la nostalgia del futuro.  Per un futuro ormai cancellato dalle dinamiche perverse del mondo economico. 

Intrecciando indissolubilmente pubblico e privato, il libro coglie Mark Fisher nei suoi momenti più intimi e scoperti. 

La critica culturale sconfina in analisi esistenziale e cultura pop, «di massa», si incarna nel singolo, che vive nella sua concreta esperienza i fenomeni di cui scrive. Tra letture di Sebald e Peace, ascolti di Joy Division e Burial, visioni di Stalker di Tarkovskij e Inception di Cristopher Nolan, Fisher compone una mappa del sentimento individuale e collettivo.

Fabrizio Falconi

Mark Fisher

20/06/22

Italo Calvino e l'allergia di Fellini per gli intellettuali



Italo Calvino fu incredibilmente lucido nel descrivere l'allergia che Fellini nutriva per l'intellettualismo e gli intellettuali.

Scrive Calvino: "Del resto il suo (di Fellini ndr) anti-intellettualismo programmatico non è mai venuto meno: l'intellettuale è per Fellini sempre un disperato, che nel migliore dei casi si impicca come in 8 e 1/2 e quando gli scappa la mano come nella Dolce Vita si spara dopo aver massacrato i figlioletti.
(La stessa scelta in Roma viene compiuta in epoca di stoicismo classico).
Nelle intenzioni dichiarate di Fellini, all'arida lucidità intellettuale raziocinante si contrappone una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell'universo: ma sul piano dei risultati, né l'uno né l'altro termine mi pare abbiano un risalto cinematografico abbastanza forte.
Resta invece come costante difesa dall'intellettualismo la natura sanguigna del suo istinto spettacolare, la truculenza elementare da carnevale e da fine del mondo che la sua Roma dell'antichità o dei nostri giorni immancabilmente evoca."
Leggendo queste parole, Calvino sembra quasi sentirsi un po' parte in causa, in prima fila nella schiera dei blasonatissimi (e a ragione) intellettuali. La distanza di Fellini dagli intellettuali italiani fu pagata dal regista riminese in termini di incomprensioni e qualche volta di aperta ostilità.
Quello che è difficile condividere è però il fatto che entrambi quei "termini", come scrive Calvino, non abbiano avuto in Fellini "un risalto cinematografico abbastanza forte".
La più grande eredità linguistica lasciata dal cinema di Fellini è infatti, indubitabilmente, quella del mistero, della fantasia magica, dell'imprevedibile, dell'irrazionale e del grottesco. Che sono sempre state e restano la cifra stilistica inimitabile di Fellini. Talmente "forti" da essere oggi universalmente riconosciute e da aver fatto entrare il regista riminese in quell'Olimpo ristretto o ristrettissimo, dei maggiori e più influenti (e moderni) registi della intera storia del cinema.

17/06/22

* Domani il leggendario Paul McCartney compie 80 anni ! Storia della sua canzone forse più intima e più famosa*

 

Paul McCartney fotografato dalla moglie Linda

Domani Paul McCartney di sicuro il musicista vivente più famoso al mondo, compie la bellezza di 80 anni. Nato il 18 giugno 1942, sotto il segno dei Gemelli, a Liverpool, McCartney, in coppia con il collega John Lennon ha scritto qualcosa come 170 canzoni fondamentali nella storia della musica. A queste sono da aggiungere poi, ovviamente, quelle della sua lunga carriera solista. 

Tra quelle 170 forse la canzone più intima e famosa, quella che meglio di ogni altro disegna il mito di Paul, inserite nell'ultimo album dei Beatles, omonimo, è Let it Be, esattamente la sesta traccia di quel capolavoro, canto del cigno del gruppo. 

Come è noto, Paul McCartney rivelò che l'ispirazione per la canzone gli venne da un sogno, nel quale aveva parlato con la madre Mary, morta di cancro nel 1956 quando lui aveva solo 14 anni. 

Paul, infatti, al momento dell'incontro fatale con John Lennon era orfano di madre, come lo stesso John, che aveva perso la sua all'età di 16 anni.

Nel sogno, secondo il racconto del musicista, la madre consigliava a Paul, preoccupato per le tensioni nel gruppo, di lasciare correre, cioè to let it be, nel senso che "tutto si sarebbe aggiustato".

John Lennon accolse la canzone con malcelato sarcasmo, poiché la considerava troppo "pseudo-religiosa". Secondo alcuni, l'antipatia di Lennon per il brano sarebbe confermata proprio dalla collocazione della canzone sull'album, posta appena dopo l'irridente frase di Lennon: «And now we'd like to do "Hark The Angels Come"!» ("Ed ora vorremmo eseguire Udite! Gli angeli cantano!"), e subito prima dell'esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool.

Il singolo raggiunse la prima posizione in classifica in mezzo mondo. 

Fu l'ultimo singolo dei Beatles pubblicato prima dello scioglimento della band. Infatti sia l'album Let It Be che il singolo The Long and Winding Road uscirono quando il gruppo ormai ufficialmente non era più in attività. 


Nel 2004 il brano ha raggiunto il ventesimo posto nella classifica delle 500 canzoni migliori di tutti i tempi pubblicata dalla rivista Rolling Stone.

La versione finale venne registrata il 31 gennaio 1969, come parte del progetto Get Back (l'album che successivamente diventerà Let It Be). McCartney suonava un pianoforte a coda Blüthner, Lennon il basso, Billy Preston l'organo, George Harrison la chitarra elettrica e Ringo Starr la batteria.

In questa seduta furono registrate due versioni della canzone. In entrambe le versioni il pianoforte suonato da McCartney presenta un accordo dissonante a 2:58.

Recentemente McCartney nella sua autobiografia (Paul McCartney - The lyrics. Parole e ricordi dal 1956 a oggi - A cura di Paul Muldoon, Traduzione di Franco Zanetti e Luca Perasi, Rizzoli e © 2021) è tornato con un più ampio racconto, sulla genesi di Let it be. Ecco il passo relativo: 

 "Sting una volta mi ha detto che cantare Let it be al Live Aid non è stata una buona scelta da parte mia. Pensava che fosse implicito che era necessario agire, e "non cercate di cambiare, le cose vanno già bene così" non era un messaggio adatto in quell'occasione, in quell'enorme chiamata alle armi che il Live Aid rappresentava. Ma Let It be non è una canzone sull'autosoddisfazione, o sulla connivenza. Parla dell'avere un senso del quadro d'insieme, del rassegnarsi alla visione globale. 

La canzone è nata in un momento di angoscia. Era un periodo difficile, perché stavamo andando verso la separazione dei Beatles. E un periodo di cambiamento, in parte anche perché John e Yoko si erano messi assieme e questo aveva condizionato le dinamiche del gruppo. Yoko si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso. Ma era anche qualcosa con cui dovevamo fare i conti. Sino a che non vi fosse stato un problema davvero serio - sino a che uno di noi non avesse detto: "Non posso cantare se lei è qui" - dovevamo lasciare che fosse così. Non eravamo polemici, ce la siamo messa via e siamo andati avanti. Eravamo ragazzi del Nord, quell'atteggiamento era parte della nostra cultura. Sorridi e sopporta. Una cosa interessante di Let It be che mi hanno fatto ricordare di recente è che, all'epoca in cui studiavo letteratura inglese al Liverpool Institute High School for Boys con il mio insegnante preferito, Alan Durband, ho letto l'Amleto. A quel tempo dovevi imparare brani a memoria perché quando li portavi all'esame dovevi essere in grado di citarli parola per parola. Ci sono un paio di frasi, verso la fine che recitano: "O, I could tell you - But let it be. - Horatio, I am dead".  Mi sa che quei versi mi si sono conficcati nella memoria, senza che ne fossi consapevole. Quando stavo scrivendo Let it be stavo facendo troppo di tutto, ero sfinito, e ne stavo pagando il prezzo. La band, io... stavamo tutti passando "times of trouble", brutti momenti, come dice la canzone, e non sembrava esserci modo di uscire da quel casino. Un giorno mi sono addormentato stanchissimo e ho sognato che mia mamma (che era morta più di dieci anni prima) era, letteralmente, venuta da me. Quando sogni di vedere qualcuno che hai perso, anche se a volte è solo per una manciata di secondi, sembra proprio che sia lì con te, ed è come se ci fosse sempre stato. Penso che chiunque abbia perso una persona cara lo capisca, specialmente nel periodo immediatamente successivo alla loro morte.

Ancora oggi sogno John e George e parlo con loro. E in quel sogno, vedere il bel viso premuroso di mia mamma e trovarmi con lei in un luogo tranquillo mi ha dato molto conforto. Mi sono subito sentito a mio agio, amato e protetto. Mia mamma era una persona molto rassicurante, e come molto spesso fanno le donne, era lei che mandava avanti la famiglia. Ci teneva su il morale. Nel sogno sembrava aver capito che ero preoccupato per quello che stava succedendo nella mia vita e per quello che sarebbe successo, e mi ha detto: "Andrà tutto bene. Così sia".   Mi sono svegliato pensando che fosse una grande idea per una canzone. Ho cominciato pensando alle circostanze in cui mi trovavo - alle grane sul lavoro. All'epoca in cui abbiamo registrato Let It be stavo spingendo affinché la band ritornasse a esibirsi in piccoli club - per tornare alle origini e rinnovare il legame che ci univa, chiudere il decennio come lo avevamo iniziato, suonando solo per il piacere di farlo. Non lo abbiamo fatto, come Beatles, ma quell'idea è stata alla base della direzione presa dall'album Let It be. Non volevamo trucchetti di studio. Volevamo un album onesto, senza sovraincisioni. Non è andata a finire proprio così, ma quella era l'intenzione. La cosa triste è che i Beatles non hanno mai suonato questa canzone in concerto. Dunque l'esecuzione al Live Aid è stata, per molte persone, la prima volta che hanno sentito il pezzo suonato su un palco.

Comunque sia, Let It be è entrata ormai da tempo nella scaletta dei miei concerti. È sempre stata una canzone collettiva, sull'accettazione degli altri, e credo che il suo momento funzioni proprio bene quando sei davanti a una folla. Vedi molta gente che abbraccia i propri partner o gli amici o i propri cari e che canta in coro. Le prime volte, quando la suonavo, si vedevano anche tantissimi accendini tenuti sollevati. Adesso ai concerti non si può più fumare, e le luci vengono dai cellulari. Riesci sempre a capire quando una canzone non è molto popolare, perché la gente mette via il telefono. Ma quando faccio questa, lo tirano fuori.  Anni fa eravamo in Giappone e abbiamo suonato al Budokan di Tokyo. Avevamo appena fatto tre serate alla Tokyo Dome, un grande stadio da baseball da cinquantacinquemila posti. Per compensare abbiamo chiuso il tour con una serata al Budokan, che in confronto offre una certa intimità. Non erano passati proprio cinquant'anni da quando i Beatles ci avevano suonato, ma è stato uno spettacolo speciale, in un posto che mi suscita molti ricordi. Ai miei addetti al tour piace farmi delle sorprese, e in quell'occasione hanno distribuito a tutto il pubblico dei braccialetti. Non sapevo cosa stesse per accadere, ma durante Let it be tutta la sala si è illuminata, con migliaia di braccia che si muovevano. In momenti come questi, a volte è difficile continuare a cantare. 

Alcuni hanno detto che Let it be ha una leggera connotazione religiosa, e sembra un po' una canzone gospel, in particolare per via del pianoforte e dell'organo. Probabilmente il termine Mother Mary viene in prima battuta inteso come un riferimento a Maria Vergine, la Madre di Dio. Come forse ricorderete, mia madre Mary era cattolica, mio papà invece era protestante, e io e mio fratello siamo stati battezzati. Per quanto riguarda la religione, quindi, sono ovviamente influenzato dal cristianesimo, ma ci sono tanti validi insegnamenti in tutte le religioni. Non sono particolarmente religioso nel senso convenzionale del termine, ma credo nell'idea che ci sia una specie di forza superiore che ci aiuta. Questa canzone allora diventa una preghiera, o una piccola preghiera. Da qualche parte, nel fondo di essa, c'è un desiderio. E la stessa parola "amen" significa "e così sia" - o "let it be"".

fonti: Wikipedia - LaRepubblica

16/06/22

*Quando Goffredo Parise fu inviato nella "sporca guerra" in Vietnam - La dura polemica con Noam Chomsky*

 


Il grande Goffredo Parise fu, come tutti sanno, un grande inviato di guerra (oltre ad essere un grande scrittore).
La prima volta che partì per il Vietnam in guerra, fu tra l’aprile e il maggio del ’67. Scrisse quattro lunghi articoli con le prime corrispondenze, comparsi su L’Espresso, quattro pezzi che Giangiacomo Feltrinelli mandò in libreria qualche mese dopo in un piccolo volume intitolato "Due, tre cose sul Vietnam".
Tornò ad Hanoi a distanza di un anno, quando una importante rivista sovietica, Novij Mir, avendo tradotto e pubblicato i reportage dell’Espresso, che erano molto piaciuti al governo di Hanoi, decise di commissionargli una corrispondenza. Una visita di venti giorni “molto ufficiale”, ricorderà anni dopo, durante la quale strinse contatti con i soldati comunisti del Laos.
Ancora un anno, e Parise è di nuovo in visita nei territori del Nord Vietnam. Fa un giro in Cambogia, resta qualche giorno nel Laos, poi salta a bordo dell’aereo della Commissione internazionale di controllo che fa la spola tra Saigon, Phnom Penh, Vientiane, Hanoi.
Il mezzo è appena decollato verso un cielo chiaro, sopra macchie di boschi verde cupo, quando Parise si accorge che il suo vicino di posto è Noam Chomsky. Scambiano qualche parola, Parise scopre che anche a lui è arrivato il medesimo invito del governo di Hanoi. «Ha letto della presenza di combattenti vietnamiti in Laos e Cambogia? Una ingerenza massiccia e ingiustificata nei loro affari, a quanto pare…», dice Parise, sporgendosi un po’ verso il professore. Dopo quelle parole si spalanca come il vuoto di un salto altissimo, Chomsky fissa gli arabeschi sottili di ghiaccio sul finestrino. «Propaganda americana», dice, prima di chiedere all’hostess quanto manchi all’atterraggio. La donna sorride, dice qualcosa in francese. «Hanoi è un luogo libero e democratico», taglia corto Chomsky, prima di restare in silenzio per il resto del viaggio.
Fu l'inizio di una schermaglia molto dura, in cui sostanzialmente, nei mesi seguenti, Chomsky, americano, accusò apertamente Parise di faziosità e di filoamericanismo. Mentre dal canto suo Parise disse che Chomsky negava con ogni evidenza l'ingerenza sovietica nella guerra.
Freddamente, anni dopo, Parise così ricordò la vicenda:
«Io feci il viaggio con Noam Chomsky che rividi dopo pochi giorni e mi assicurò che la facoltà di Linguistica dell’Università di Hanoi era di altissimo livello. Era antipatico e supponente e anni più tardi ebbi con lui una polemica per le sue bugie. Chomsky è uno che legge anche le virgole di un giornale turco, se parla di lui, e polemizza. In realtà egli scrisse per la New York Review of Books dei reportage vergognosi su Vietnam, Cambogia e Laos. Così fecero i suoi soci tipo Susan Sontag, Mary McCarthy e altri americani bugiardi e troppo snob».

14/06/22

*L'infelice destino di Daniel Auster, il figlio del grande Paul Auster*


Qui sopra una foto dell'unica apparizione al cinema di Daniel Auster, figlio nato dal primo matrimonio del grande scrittore americano Paul Auster, nei panni del ladruncolo che scappa inseguito da Harvey Keitel nel film "Smoke", scritto e co-diretto dal padre nel 1995.

Daniel è morto per overdose il 29 aprile scorso, a 44 anni, ritrovato dalla polizia nel suo appartamento di New York.
Daniel era stato arrestato nei giorni di Pasqua per la morte di sua figlia Ruby, neonata, causata da overdose di fentanyl ed eroina.
Daniel Auster era stato liberato su cauzione. Rischiava l’incriminazione per omicidio colposo e negligenza criminale. La piccola Ruby, appena dieci mesi di vita, era morta mentre il padre le dormiva accanto, sotto gli effetti degli stupefacenti. L’avevano trovata nell’appartamento a Brooklyn cianotica, priva di sensi, stroncata dalla droga. La madre Zuzan Smith non si trovava in casa, era a lavoro.
Il padre aveva parlato di un incidente, dicendosi convinto che la piccola avesse ingerito la droga mentre lui dormiva. Il pubblico ministero aveva parlato di così tanta droga nel corpo della piccola che “avrebbe fatto perdere i sensi anche a un adulto”.
Daniel era il figlio dello scrittore, avuto con la prima moglie, la scrittrice e traduttrice Lydia Davis.
Sempre definito un “ragazzo difficile”, molto emotivo, “fragile”, cresciuto nell’East Village. Avrebbe sofferto la mancanza del padre, divorziatosi dalla madre appena un anno dopo la sua nascita.
Architetto paesaggista, aveva avuto problemi di droga fin da adolescente. A 18 anni si trovava nell’appartamento dove venne ucciso uno spacciatore di droga: Andre Angel Melendez, colombiano, era stato ucciso a martellate, fatto a pezzi, parzialmente sciolto nell’acido e buttato nel fiume Hudson. Il “principe delle notti newyorkesi” Michael Alig, “il party monster”, venne condannato a 20 anni. Auster invece riuscì a strappare il patteggiamento: ammise di essere in quell’appartamento, fu accusato solo del furto di tremila dollari che Melendez aveva con sé. Fu condannato alla libertà vigilata. Venne arrestato nuovamente negli anni successivi per possesso di droga e piccoli furti.

Paul Auster e il figlio Daniel, morto il 29 aprile scorso


13/06/22

VLADIMIR SOROKIN: "Perché la Russia è così violenta? Perché qui il Cristianesimo non ha messo radici."*

 

Vladimir Sorokin

Vladimir Georgievič Sorokin è uno dei più importanti scrittori (ma anche drammaturgo, pittore e sceneggiatore) russi, tradotto in molti paesi del mondo. Autoesiliatosi da due mesi, dall'inizio della guerra in Ucraina, a Berlino, ecco come spiega, nel passaggio di una intervista rilasciata a Sette-Il Corriere della Sera, la Russia contemporanea e il perché di questa ondata di violento nazionalismo.
"Sono sempre stato assillato da una domanda:
Perché in Russia c'è così tanta violenza? Sono cresciuto nella Russia sovietica dove tutto, asilo, famiglia, strada, esercito, istituzioni, ne erano sature.
Ma anche la Russia zarista faceva affidamento sulla violenza: le punizioni corporali erano all'ordine del giorno nelle scuole e nelle famiglie, la censura era crudele, i dissidenti erano perseguitati, e così via.
Dai tempi del Terribile, nel XVI secolo, il potere è una piramide oscura, opaca, imprevedibile, una sorta di spietato invasore del proprio paese.
In cima alla piramide c'è il sovrano con un potere assoluto e l'oprichnina, che serve l'autorità, è viva ancora oggi.
Mi sembra che molti dei problemi della Russia odierna siano dovuti al fatto che il cristianesimo da noi non ha messo radici.
L'URSS anticristiana è crollata 30 anni fa ma anche se oggi ci sono molte chiese c'è poca fede.
Di fatto siamo rimasti dei pagani che partecipano con più devozione alla festa di Capodanno, come in epoca sovietica, piuttosto che ai riti di Pasqua e Natale.
A ciò si aggiunga che la Chiesa negli ultimi 20 anni si è completamente screditata sostenendo il Cremlino in tutto.
Il patriarca e i gerarchi non hanno mai contraddetto le autorità e ora sostengono pure questa guerra insensata e brutale contro l'Ucraina."

12/06/22

Il grande Saul Bellow, uno dei più grandi narratori americani: perché ci manca


 

Saul Bellow, di cui due giorni fa, il 10 giugno, ricorrevano i centosette anni dalla nascita e il 5 aprile i diciassette dalla morte, è una figura che non farà che prendere spazio nella prospettiva storica della letteratura americana di cui ha rappresentato un legame con la grande tradizione e, assieme, il momento di rottura, di innovazione.
Dopo i libri cesellati e minuziosi degli inizi, come L'uomo in bilico o La vittima che derivano dalle indagini sullo stile e la scrittura di Henry James, si propose di scrivere un libro del tutto americano, "libero dalla schiavitù autoimposta e arbitraria dei modelli inglesi", e nacque il suo primo grande romanzo, Le avventure di Augie March.

Premio Nobel per la letteratura nel 1976, Bellow (1915-2005) è considerato quindi uno dei grandi della letteratura americana, forse il più grande dal dopoguerra, che va ben oltre il ricco filone della produzione ebraica americana e leggerlo essenzialmente legandolo a quella sua intima e evidente matrice sarebbe un errore, una limitazione.
Figlio di immigrati ebrei russi, nato in a Lachine, nel Quebec (Canada), il 10 giugno 1915, Bellow è cresciuto a Chicago negli anni '20 e '30 ed ha avuto una vita sentimentale movimentata, con cinque mogli (e quattro divorzi), oltre a numerosissime amanti.

Uno scrittore diventato punto di riferimento essenziale con opere, per fare solo tre titoli, come Herzog (1964), Il pianeta di Mr. Sammler (1970), Il dono di Humboldt (1975) in cui predomina, sullo sfondo di una curiosità onnivora e prettamente umanista, la descrizione dello spaesamento intimo, che nasce da radici fisiche e culturali (l'ebraismo) e diventa universale e metaforico dei nostri tempi, sotto la continua minaccia di una realtà sempre più incomprensibile, in un mondo che ha perso chiarezza, in cui bene e male si confondono e le eterne domande sul senso dell'esistenza, restano dolorosamente senza risposta.
Augie March riprende il tema caro alla letteratura americana del ragazzo libero e dalle avventure picaresche (il modello sono Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain), col protagonista che racconta di sé e si interroga sul proprio destino, mischiando energia vitale e comicità, brutale solitudine e feroce lotta col mondo nel tentativo di non essere schiacciato e di non perdere i brandelli della propria individualità, rifiutando di essere conglobato e omologato, in difesa della propria umanità.

E quest'ultimo è il tema di fondo dell'opera di Bellow e delle altre sue opere, da Humboldt l'intellettuale che interrogandosi sui mali del Novecento, si chiede come sia potuto accadere tutto e finisce per chiudersi in se stesso, a Mr Sammler, un anziano che guarda con amara coscienza alla propria vita alienata e pressata dalle ingiustizie, dal razzismo, della società americana, come una condanna senza uscita.
I suoi eroi, con i loro lunghi, scintillanti monologhi interiori, sono esuberanti, innamorati, intellettuali, capaci di guardare con autoironia alla propria incapacità a sottrarsi alle seduzioni femminili (spesso rappresentate da donne virago, assetate di sesso e di conto in banca), in un'epoca in cui la famiglia ha perso il suo valore e va disintegrandosi.

Perdenti che non soccombono, e che rielaborano e destrutturano i miti della frontiera e del sogno americano, infranti sulla soglia della modernità.

Una lucidità di pensiero, prima che di scrittura, ineguagliabile. Che aiuta a districarsi nel caos e si ostina a dare voce alla ragione e alle ragioni del cuore. Ultimo grande lascito di una grande letteratura che aiutava non poco a comprendere (e a dare un nome) al mondo.

"La colonna vertebrale della letteratura americana del Novecento - disse Philip Roth alla morte di Bellow - è stata fornita da due romanzieri, William Faulkner e Saul Bellow. Insieme sono i Melville, gli Hawthorne e i Twain del ventesimo secolo".

Fabrizio Falconi - 2022

Fabrizio Falconi

11/06/22

Oscar Wilde in Vaticano: l'attrazione per il cattolicesimo e la conversione in punto di morte


Oscar Wilde fu, nella sua vita, assai attratto dal cattolicesimo, che trovava seducente anche per la sua ricca liturgia, e più volte discusse con amici sacerdoti dell'intenzione di convertirsi.

Desiderava fortemente partecipare ad una udienza in Vaticano, cosa che fece nel 1877, visita a cui si riferisce la foto qui sopra che lo ritrae in una deserta Piazza San Pietro.
Al termine dell'incontro - il papa era Pio IX - scrisse «Ieri ero in prima fila con i pellegrini in Vaticano ed ho ricevuto la benedizione del Santo Padre. Era meraviglioso mentre sfilava di fronte a me portato sulla sua Sedia gestatoria, non era né carne né sangue, ma un'anima candida vestita di bianco, un artista ed un santo. Non ho mai visto nulla di simile alla straordinaria grazia dei suoi modi; di tanto in tanto si sollevava probabilmente per benedire i pellegrini, ma certamente le sue benedizioni erano rivolte a me».
In seguito così ricordò la figura di Leone XIII: «Quando vidi il vecchio bianco Pontefice, successore degli Apostoli e padre della Cristianità, portato in alto sopra la folla, passarmi vicino e benedirmi dove ero inginocchiato, io sentii la mia fragilità di corpo e di anima scivolare via da me come un abito consunto, e ne provai piena consapevolezza».
A papa Leone XIII Wilde attribuì addirittura il miracolo di averlo guarito con la benedizione pasquale, da una grave forma di dermatite che lo affliggeva: «Il Vicario di Cristo ha fatto tutto», dichiarò. Da quel momento iniziò ad andare molto spesso, durante il suo soggiorno romano, alle udienze pontificie.
In quegli anni lesse avidamente i libri del cardinale Newman, il noto sacerdote anglicano che si era convertito al cattolicesimo e nel 1878, quando incontrò il reverendo Sebastian Bowden, sacerdote dell'Oratorio di Bromptonche che aveva ricevuto alcuni convertiti di alto profilo, gli annunciò la volontà di convertirsi.
Ma Wilde, il supremo individualista, si rifiutò all'ultimo minuto di impegnarsi in qualsiasi credo formale, e nel giorno stabilito del suo battesimo al cattolicesimo, inviò invece a padre Bowden un mazzo di gigli d'altare.
Ciò nonostante Wilde mantenne per tutta la vita un forte interesse per la teologia e la liturgia cattolica.
Tre settimane prima di morire, dichiarò ad un corrispondente del «Daily Chronicle»: «Buona parte della mia perversione morale è dovuta al fatto che mio padre non mi permise di diventare cattolico. L'aspetto artistico della Chiesa e la fragranza dei suoi insegnamenti mi avrebbero guarito dalle mie degenerazioni. Ho intenzione di esservi accolto al più presto».
Mentre si trovava in punto di morte, il suo amico Robert Ross condusse presso di lui il reverendo cattolico irlandese Cuthbert Dunne. Non essendo Wilde in grado di parlare, Ross gli chiese se voleva vedere il sacerdote dicendogli di sollevare la mano per rispondere affermativamente. Wilde la sollevò. Il sacerdote gli domandò, con la stessa modalità, se voleva convertirsi, e Wilde sollevò nuovamente la mano. Quindi padre Dunne gli somministrò il battesimo condizionale, lo assolse dai suoi peccati e gli diede l'estrema unzione.

Fabrizio Falconi

10/06/22

Krishnamurti e la sessualità


Imparando dalle molte biografie scritte su di lui, e dalle persone che vissero vicino a lui, è molto probabile che Krishnamurti non abbia mai avuto rapporti sessuali nella sua vita.

Circostanza che secondo il pensiero comune oggi, della postmodernità fluida, sembra quasi incomprensibile. 

Eppure chi conosce il pensiero e la vita di uno dei più grandi pensatori del Novecento, non riscontra nessuna sorpresa. Piuttosto una scelta piuttosto coerente, come tutte quelle operate da Krishnamurti in vita.

Coerente con quanto K. affermò più volte nella sua vita: che i rapporti sessuali sono molto spesso (quasi sempre) una distorsione. Il mondo interiore, secondo il pensiero di K., è sovrastato, nel sesso - al pari molte altre e diverse attività umane - dall'affermazione dell'ego, dal narcisismo, dal bisogno, dalla sopraffazione, dal ricatto, dalla gelosia, dall'auto affermazione, dalla immaturità.

Sono tutte le maschere quotidiane dietro le quali si nasconde la nostra incapacità di essere in pace, di essere menti osservanti e non giudicanti, di non imporre a noi stessi e agli altri, la dittatura del nostro insignificante ego, tenendo in gabbia la parte più preziosa che abbiamo e che releghiamo nei recessi più inferiori e disabitati del nostro mondo interiore.

E queste maschere, controfigurazioni del nostro ego - nei suoi aspetti più deteriori - le mettiamo in scena quasi sempre, anche e spesso nei rapporti sessuali, come purtroppo dimostrano i racconti e le cronache quotidiane, in qualunque parte del mondo.

Fabrizio Falconi

08/06/22

*Quando Charles Manson il guru killer di "Bel-Air" era convinto che le canzoni dei Beatles gli parlassero e il caso di "Sexy Sadie".*

 


Non solo "Helter Skelter", il titolo della canzone dei Beatles che fu trovato scritto con il sangue delle vittime, da Manson e dai suoi carnefici dopo uno dei loro massacri, in particolare sul frigorifero nella casa dei coniugi Leno & Rosemary LaBianca nell'agosto del 1969, il giorno dopo il massacro compiuto nella villa di Roman Polanski a Bel-Air, Hollywood in cui furono uccise Sharon Tate, la compagna di Polanski, in cinta al nono mese, e altre 4 persone che erano ospiti della casa al 10050 di Cielo Drive.
L'ossessione folle di Manson, musicista fallito, per le canzoni dei Beatles era cominciata già qualche tempo prima.
In particolare alla canzone "Sexy Sadie", tratta dal nono e omonimo album dei Beatles The Beatles, noto anche sotto la denominazione di White Album (album bianco) che era stata composta quasi esclusivamente dal solo Lennon.
Questa canzone aveva una origine molto particolare:
Il primo abbozzo del brano si fa risalire all'aprile 1968, nel giorno in cui George e John si trovavano, durante il famoso soggiorno in India, sulla via verso Delhi dopo avere abbandonato Rishikesh, dove il gruppo aveva seguito un corso di meditazione trascendentale tenuto dal guru indiano Maharishi Mahesh Yogi.
La scritta "Healter Skelter" (storpiata rispetto all'originale
sul frigorifero della casa di Leno e Rosemary LaBianca

La guida spirituale, presentata l'anno precedente ai Beatles dalla moglie di George Harrison Pattie Boyd in un periodo particolarmente delicato del loro percorso esistenziale, aveva suscitato dapprima curiosità e fiducia nei membri del gruppo, specialmente in Harrison e Lennon. Quest'ultimo sosteneva fermamente che nel guru risiedeva la risposta a tutti i suoi problemi, che magari gli sarebbe stata elargita con una semplice e risolutiva frase, foriera di una verità talmente profonda e paradossale da cambiare radicalmente in lui il modo di concepire difficoltà e avversità. Tuttavia questa frase tardava a venire, fintantoché il gruppo cominciò a nutrire seri dubbi sui metodi e sulla filosofia di vita del Maharishi.

Inoltre, il gruppo trovava alquanto inusuale come un sedicente santone potesse disporre di domestici, commercialisti e una dépendance di assoluto rispetto, oltre alla tenuta che vantava letti a baldacchino e centro benessere, alla ridondante presenza di belle donne e perfino alla piattaforma di decollo e atterraggio di un elicottero privato.
Così, uno dopo l'altro, cominciarono a nutrire un crescente scetticismo nei confronti del Mahesh Yogi. Il primo a collidere con la personalità del filosofo/santone fu senz'altro Lennon, che arrivò addirittura a comporre una canzone finalizzata a denunciare la presunta truffa della quale erano stati oggetto. La traccia assunse il titolo temporaneo di Maharishi, what have you done?.
Successivamente, anche per evitare querele, il titolo fu mutato in Sexy Sadie. Malgrado ciò, inequivocabili risultano le allusioni alla trascorsa esperienza insieme al guru indiano.
Per esempio, nel verso «Sexy Sadie, what have you done? / You made a fool of everyone» ("Cos'hai fatto? / Ti sei presa gioco di tutti"), Lennon fa trasparire il proprio astio verso l'effimera esperienza di felicità passata nella fastosa tenuta del maestro di meditazione trascendentale. Ma sono anche altri gli attacchi nei confronti dell'ambigua figura del Maharishi considerato un truffatore megalomane corroso dalla bramosia verso il denaro.
Ma cosa c'entra Charles Manson con tutto questo?
Nel suo delirio psicopatico, Charles Manson verso la fine del 1968 Manson si convinse che la canzone fosse dedicata a una sua seguace, Susan Atkins, da lui stesso ribattezzata "Sadie Mae Glutz".
La presenza nell'album di un brano intitolato Sexy Sadie, laddove Manson aveva dato a Susan il nome "Sadie" molto tempo prima della pubblicazione del disco, fortificò in lui la convinzione che i Beatles "gli parlassero", con messaggi nascosti nei solchi del 33 giri (principalmente nelle canzoni Helter Skelter, Honey Pie, Piggies, Blackbird, Revolution 9), e gli indicassero la via da seguire nella guerra razziale globale che di lì a poco si sarebbe scatenata, ispirando i suoi deliri omicidi.
Una follia distruttiva che comportò a Manson la condanna all'ergastolo comminata nel 1972, che scontò fino alla morte avvenuta nell'ospedale di Bakersfield, nel novembre del 2017.

Fabrizio Falconi - 2022

07/06/22

* L'incredibile "esoterismo" dei Beatles: la storia di Eleanor Rigby, che fu inventata da Paul Mc Cartney, ma esisteva davvero.*

La lapide di Eleanor Rigby nel cimitero di St Peter’s, Liverpool

 

Gli appassionati di esoterismo sanno che non esiste forse terreno più fertile in materia, delle vicende, delle canzoni, delle musiche, della epopea del quartetto di Liverpool, i Beatles.

Personalmente ogni volta che scopro una nuova "coincidenza", mi stupisco di più, anche se storie e aneddoti sono ormai infiniti.

L'ultimo della serie è la celebre canzone "Eleanor Rigby", una delle più belle, intense, drammatiche, dei Beatles, seconda traccia dell'album "Revolver", pubblicato dai Beatles il 5 agosto del 1966.

Interrogato in proposito di questa donna, al centro della storia della canzone, una persona sola, che va in chiesa e condivide la sua solitudine con quella del "father" Mc Kenzie (il prete del villaggio),
McCartney, che aveva scritto il testo, dichiarò che l'idea di chiamare il suo personaggio "Eleanor" fu probabilmente dovuta a Eleanor Bron, l'attrice che ha recitato con i Beatles nel loro film del 1965 Help!

Per mischiare le carte, Mc Cartney inventò un cognome diverso: "Rigby", prendendolo dal nome di un negozio di Bristol, Rigby & Evens Ltd.

McCartney notò il negozio mentre faceva visita alla sua ragazza dell'epoca, l'attrice Jane Asher , durante la sua corsa al Bristol Old Vic's  produzione di The Happiest Days of Your Life nel gennaio 1966.

Ha ricordato Mc Cartney in una intervista rilasciata nel 1984: "Mi piaceva solo il nome. Stavo cercando un nome che suonasse naturale."

Qualche anno più tardi, in un articolo dell'ottobre 2021 sul New Yorker, scrisse che la sua ispirazione per "Eleanor Rigby" era venuta da un'anziana signora che viveva da sola e che Paul aveva conosciuto molto bene. Andava a fare la spesa per lei e si sedeva nella sua cucina ad ascoltare storie e la sua radio a transistor . McCartney ha detto: "il solo sentire le sue storie ha arricchito la mia anima e influenzato le canzoni che avrei scritto in seguito". In quella occasione confermò anche che il nome della donna era Daisy Hawkins, un nome e un cognome che non poteva funzionare nei testi.

Di recente però, "cacciatori di tracce beatlesiane" che come si sa, sono sparsi in ogni angolo del pianeta, hanno trovato una coincidenza impressionante.

Nel piccolo cimitero della chiesa di St. Peter, a Liverpool, infatti, esiste la TOMBA DI una FAMIGLIA Rigby ed Eleanor viene citata tra coloro che vi sono sepolti (purtroppo senza le date di nascita e di morte).

La circostanza ancora più sorprendente è che la chiesa si trova in una zona molto precisa di Woolton (Liverpool), esattamente dove avvenne IL PRIMO INCONTRO tra Paul e John il 6 luglio 1957 durante una festa parrocchiale!

John si stava esibendo con il suo gruppo "The Quarrymen" nei locali della parrocchia e Mc Cartney "casualmente" si trovò lì. I due si presentarono per la prima volta alla fine di quel concerto. 

E' molto probabile insomma, che senza quell'incontro "casuale" a pochi metri di distanza dalla tomba di questa Eleanor Rigby, i Beatles non sarebbero mai neppure esistiti.

Fabrizio Falconi -2022 

The Beatles