23/09/21

Quella volta che Pasolini perse le staffe e si scatenò la rissa

 


E' un episodio poco conosciuto della vita di Pier Paolo Pasolini, anche se è perfino documentato da questa rara foto che fu scattata da un reporter di quotidiani. 

Roma, 22 settembre 1962. In occasione della prima di "Mamma Roma" al cinema Quattro Fontane, alla fine della proiezione giornalisti e spettatori si avvicinano a Pasolini per fargli i complimenti, intervistarlo, stringergli la mano, chiedere un autografo

Dalla folla si stacca un giovane studente fascista che dopo averlo insultato prova a assestargli uno schiaffo. Pasolini reagisce furiosamente e mena il fascista. 

Dal Messaggero del 23 settembre 1962: «Pasolini ha avuto una reazione improvvisa, non si è lasciato intimorire dalla spavalderia del giovinastro e lo ha afferrato restituendogli, e con gli interessi, la razione di ceffoni. I due sono scivolati in terra ed hanno continuato a picchiarsi fin quando non sono intervenuti alcuni spettatori che hanno separato i contendenti. Pasolini, accompagnato da uno dei direttori del cinema — gremito ieri sera in ordine di posti — ha raggiunto uno dei camerini subito raggiunto dal giovane Ettore Garofolo e da altri attori. È qui che siamo riusciti a parlare con lo scrittore: "L'episodio — ha detto ancora stravolto in viso — mi addolora alquanto. La pellicola non era stata disturbata assolutamente ed il pubblico aveva gradito lo spettacolo. Quando il giovane si è avvicinato, ho creduto che anche lui, come molti altri, volesse stringermi la mano e congratularsi con me. Sono stato preso alla sprovvista ed ho reagito come ho potuto. Credetemi, non posso pensare che in Italia succedano ancora cose del genere. Durante la proiezione non vi era stato un solo fischio, perché i giovani neofascisti non avevano potuto appigliarsi ad un solo momento della pellicola che potesse far nascere il malcontento. Anche a Venezia avevano voluto provare a disturbare il film ma non c'erano riusciti. Non so proprio come spiegare quanto è avvenuto". Dopo l'inqualificabile gesto del teppista, gli agenti di polizia sono intervenuti ed hanno provveduto a far sgombrare al più presto la folla che ancora si attardava a commentare il fatto. Sono stati operati alcuni fermi, una decina tra i giovani estremisti e sono stati invitati negli uffici di polizia anche Sergio Citti, fratello di Franco e Paolo Morgia, uno dei protagonisti della pellicola. All'una e trenta Pier Paolo Pasolini, a bordo di un taxi, ha lasciato il Quattro Fontane applaudito dagli ultimi spettatori i quali gli hanno voluto ancora una volta confermare la loro solidarietà».

21/09/21

Un quadro fiammingo meraviglioso e misterioso da scoprire nei particolari


E' un quadro meraviglioso. 

Un ragazzo che porta il pane (c. 1663) è un olio su tela del pittore olandese Pieter de Hooch che rappresenta la cosiddetta "età dell'oro" della pittura fiamminga

Un ragazzo offre un cesto di pane a una signora in un interno; dietro di loro un cortile piastrellato conduce in un altro interno buio, oltre il quale si può vedere un canale con una seconda donna, forse la madre del ragazzo, che guarda la transazione da lontano

La porta si affaccia su un sentiero, pavimentato con piastrelle e delimitato da una recinzione, che conduce attraverso il cortile all'ingresso sotto una porta di pietra decorata con uno stemma. 

Al di là c'è un canale, dall'altro lato del quale una donna sta dietro la mezza porta di una casa. In primo piano a destra è una sedia con un cuscino

L'intera scena è dominata dal rosso e dal nero del costume della donna. Ci sono toni bluastri nell'ombra.

Lo stemma sopra la porta dice "o, un azzurro azzurro".

Le insegne sulla finestra recano l'iscrizione, a sinistra "Cornelis Jansz" o "Jac.", A destra "Marnie" o "Maerti". 

A sinistra è il monogramma della famiglia dell'uomo: una "M", in mezzo alla quale si alza un albero che porta una piccola "c" e termina con un "4." 

A destra è quella della famiglia della donna: in una losanga, un albero, con due tratti incrociati in alto e due tratti che si incontrano in un angolo inferiore, ha una "M" a sinistra e una "C" a destra. 

Con la sua magistrale illusione di una profondità sfuggente, l'immagine dimostra la sensibilità di De Hooch ai diversi effetti della luce del giorno negli spazi adiacenti, focalizzando l'attenzione dello spettatore e infonde alla scena una calma profonda. 

Il dipinto è attualmente conservato alla Wallace Collection in Manchester Square a Londra.

20/09/21

L'incredibile storia del chitarrista dei Nirvana e dei Soundgarden diventato soldato in Afghanistan e Iraq e ora barista

 

Everman ai tempi dei Nirvana e nell'esercito qualche anno dopo

E' davvero incredibile la storia di Jason Everman, che già nel suo cognome custodiva forse il destino di una vita dalle mille vite, molto diverse l'una dall'altra.  Sembrerebbe l'ottima sceneggiatura per un film o per una serie televisiva. 

Ripercorriamola insieme. 

Jason Mark Everman è nato il 16 ottobre 1967 e in una intervista del 2013 al New York Times Magazine, quando gli è stato chiesto della sua nascita ha detto: "Il mio certificato di nascita dice che sono nato a Kodiak, ma sono abbastanza sicuro che fosse Ouzinkie, dove i miei genitori vivevano in una capanna di due stanze con un gattopardo domestico, chiamato Kia." I

In effetti i suoi genitori si erano allora trasferiti nella remota Spruce Island per "tornare alla natura", ma il loro matrimonio non "ha funzionato"

Sua madre partì con Jason quando era un bambino, si trasferì a Washington, risposandosi con un ex militare della Marina; la famiglia alla fine si stabilì a Poulsbo, a un'ora da Seattle.

Secondo la sorellastra di Everman, con la quale è cresciuto, la madre di Jason "era estremamente depressa, un genio artistico che era anche un'alcolizzata ingoia-pillole. Jason e io abbiamo imparato a camminare sui gusci d'uovo e abbiamo davvero imparato a prenderci cura di noi stessi"


Dopo un incidente in cui lui e un amico hanno fatto esplodere una toilette con un petardo M-80, la nonna è intervenuta perché affrontasse sessioni di terapia per affrontare i suoi problemi emotivi. 

Everman iniziò così  suonare la chitarra durante le sessioni di terapia; inizialmente utilizzò una delle chitarre che il terapeuta teneva nel suo ufficio, e il terapeuta poi decise di suonare con lui, sperando che lo aiutasse ad aprirsi. 

Ha continuato a suonare in diverse band durante gli anni del liceo. 

Inoltre, ristabilì un contatto con il padre biologico, che a quel tempo possedeva una barca da pesca in Alaska, e lavorò diverse stagioni sulla barca. 

Prima di unirsi ai Nirvana , suonò la chitarra in una band locale chiamata Stonecrow con il futuro batterista dei Nirvana Chad Channing . 

Jason Everman oggi

Everman si unì poi ai Nirvana nel febbraio 1989 come secondo chitarrista. È elencato come secondo chitarrista in Bleach dei Nirvana e appare sulla copertina, ma in realtà sembra che non abbia suonato in nessuna delle tracce. Nell'edizione rimasterizzata del 2009 di Bleach , Everman non è più accreditato ma gli viene dato un ringraziamento speciale nel libretto. 

Everman comunque andò in tour con i Nirvana nell'estate del 1989 per il lancio di Bleach. Ma la collaborazione con i Nirvana - Everman sostituì dal vivo Cobain quando ruppe  la sua chitarra la notte precedente del concerto - durò poco: i Nirvana licenziarono Everman dopo la fine del tour a causa dei suoi scatti d'umore. 

Everman si unì allora ai Soundgarden nel 1990 come successore temporaneo di Hiro Yamamoto al basso.

Ma anche qui durò poco: se ne andò subito dopo che i Soundgarden completarono il loro tour promozionale per Louder Than Love a metà del 1990. 

Nel settembre 1994, la svolta improvvisa della sua vita: influenzato dall'icona del Rinascimento italiano Benvenuto Cellini (che Everman dichiarò essere un uomo a tutto tondo: artista, guerriero e filosofo), lasciò il rock, per arruolarsi nell'esercito degli Stati Uniti, con le Forze Speciali, effettuando campagne militari in prima linea in Afghanistan e Iraq. 

Dopo aver completato il servizio, si prese una pausa dall'esercito e visse a New York, dove lavorò brevemente come fattorino in bicicletta. 

Ha poi viaggiato in Tibet e ha lavorato e studiato in un monastero buddista prima di tornare negli Stati Uniti. 

Dopo aver ricevuto un congedo con onore nel 2006 dall'esercito, Everman ha conseguito un Bachelor of Arts in filosofia presso la Columbia University School of General Studies il 20 maggio 2013.

Nel luglio 2013, il New York Times ha pubblicato un ritratto su Everman, in cui si racconta come vada "ancora regolarmente all'estero, lavorando come consulente per l'esercito". 

Nel maggio 2017 Everman ha incontrato il collega veterano Brad Thomas a New York e i due hanno deciso di formare una band. A luglio la band, chiamata Silence & Light, aveva una formazione completa composta da veterani militari con Everman che suonava la chitarra. Hanno iniziato a registrare un album nel gennaio 2019 a Van Nuys in California. Una canzone è stata pubblicata nell'ottobre 2019 e l'album completo è stato pubblicato nel dicembre 2019. I profitti della band sono dedicati ad aiutare i membri della comunità delle operazioni speciali, i militari e i primi soccorritori. 

L'ultima attività riconosciuta di Everman è quella di barista in alcuni locali californiani. 


Fabrizio Falconi - 2021

19/09/21

Storia di una foto bellissima: Le Tre Ragazze a Campo dei Miracoli nel 1946

 


E' una foto meravigliosa quella che Federico Patellani, uno dei più grandi fotografi italiani, ha chiamato: Tre ragazze nel campo dei Miracoli a Pisa, nel 1946, il cui originale è conservato presso la Regione Lombardia al Museo di Fotografia Contemporanea).

C'è tutto in questa foto: la liberazione del popolo italiano dopo anni terribili, tragici. La nuova libertà conquistata, ma soprattutto la tenerezza, la dolcezza, la consapevolezza di poter tornare a meravigliarsi della bellezza del mondo.  E nessun luogo forse è più simbolico di quel Campo dei Miracoli di Pisa, dove davvero ogni miracolo appare possibile, e dove le tre ragazze hanno scelto di godere il sole sdraiate tra l'erba alta. 

E' il miracolo della tranquillità e del riconoscimento del mondo, ancora possibile, ancora intatto, ancora sorprendente e meraviglioso.

Federico Patellani, nato a Monza il 1º dicembre 1911 e morto a Milano nel 1977 è stato un fotografo e regista italiano, fotoreporter di guerra e vero caposcuola del fotogiornalismo in Italia, la cui notorietà si deve proprio ai suoi famosi reportages  sulla ripresa della società italiana nel dopoguerra. 

Ma già con lo pseudonimo Pat Monterosso era stato fotografo di guerra documentando la guerra in Russia nella seconda guerra mondiale. Il Fondo delle sue fotografie è immenso, consiste in più di 700.000 scatti, ed è conservato presso il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo. 

Figlio di Aldo, un avvocato di Monza, Federico comnciò a ad avvicinarsi alla fotografia da adolescente grazie proprio al padre, che oltre alla ripresa (gli regalò una macchina a tendina di piccolo formato), gli insegnò lo sviluppo e la stampa fotografica in camera oscura. 

Come ufficiale dell'esercito italiano nel 1935, fu incaricato di fotografare le operazioni del Genio in Africa orientale. Al suo ritorno in Italia scelse di lasciare la carriera di avvocato per dedicarsi completamente alla fotografia. La seconda guerra mondiale lo consacra fotografo di guerra: è infatti reporter sul Fronte orientale, poi in Italia dove nel 1943 fotografa gli effetti distruttivi dalla guerra a Milano e Valmontone, Cassino e Napoli. 

Nel dopoguerra è testimone della ripresa italiana per le maggiori riviste e giornali italiani. Negli anni '70 allarga le sue prospettive ad altre parti del mondo come il Kenya e diversi altri stati africani, Messico, Ecuador e nel 1976 in Ceylon. 

Muore a 65 anni, il 10 febbraio 1977, a Milano.

La professione di Federico Patellani era quella del fotoreporter di razza anche se aveva studiato legge e probabilmente avrebbe fatto l'avvocato se l'urgenza di testimoniare quello che vedeva non avesse preso il sopravvento. Il primo fotoreporter dell'Italia che usciva dal dopoguerra con le ossa rotte, le case sgarrupate, il lavoro da inventare, un po' come oggi, ma anche con una grande voglia di vivere. 

Rendiamo omaggio al grande fotografo e anche a queste tre sconosciute ragazze, i cui volti purissimi e i sorrisi resteranno sempre un simbolo di bellezza e di rinascita.

Fabrizio Falconi

18/09/21

Libro del Giorno: "Vite che non sono la mia" di Emmanuel Carrère

 


E' uno dei libri migliori che abbia letto negli ultimi anni. Un libro nel quale - come capita molto di rado - il forte impatto emotivo (che co-stringe il lettore a non rimanere impassibile, ma anzi ad essere profondamente turbato visto che in massima parte si tratta di fatti reali) si sposa alla maestria di uno stile letterario impeccabile, di livello molto alto. 

Vite che non sono mie è stato pubblicato da Emmanuel Carrère nel 2009 e subito tradotto in italiano da Einaudi, prima che l'editore Adelphi non acquisisse il catalogo completo delle opere di Carrère per il nostro paese. 

Scritto dopo La vita come un romanzo russo (scritto nel 2007), una storia sulla sua famiglia e quindi completamente autobiografica, Emmanuel Carrère decise di realizzare un libro in cui non fosse il primo protagonista, come già viene dichiarato dal titolo, ma dedicato invece alla vita delle persone che incontra, anche se lo scrittore resta fondamentalmente in scena per tutto il romanzo.

Che si tratti però della famiglia della bambina scomparsa durante il terrificante tsunami del 2004, di Patrice, Etienne e anche delle famiglie vittime del sovraindebitamento, Carrère concepisce la missione di descrivere ai lettori la loro sofferenza, la loro situazione, il loro carattere, in una parola il loro destino.

La storia inizia in Sri Lanka, dove Carrère trascorreva le vacanze con la sua compagna Hélène, suo figlio Jean-Baptiste e il figlio di Hélène, Rodrigue proprio all'epoca del grande tsunami che ha devastato lo Sri Lanka e l'indocina nel 2004. 

Carrère, scampato lui stesso insieme alla famiglia alla tragedia per mere circostanze fortuite, decide allora di raccontare la tragedia che ha subito una famiglia francese in vacanza: Juliette, la loro unica figlia morta durante lo tsunami, raccontando l'impatto devastante di questo lutto su di essa. Le due famiglie diventeranno presto amiche. 

Al suo ritorno a Parigi, l'autore deve poi affrontare un'altra tragedia: la morte della sorella di Hèléne,  Juliette, sposata e madre di tre giovani figlie. 

Racconterà la storia dell'agonia di questa donna per una malattia incurabile e il viaggio di accompagnamento di chi le sta intorno. 

Dopo la morte di Juliette, la famiglia è invitata a visitare un amico ed ex collega di Juliette, Étienne. 

Quest'ultimo spiega i legami che aveva con il defunto. Ed è proprio seguendo questa affascinante storia che Carrère avrà l'idea di realizzare questo libro. 

Incontrerà più volte quest'uomo che gli racconterà del suo lavoro come giudice, il suo cancro gli ha fatto perdere una gamba (come Juliette). Conosce Juliette perché insieme erano giudici del tribunale distrettuale di Vienne, dove si occupavano di colossali casi di sovraindebitamento che interessavano gente comune. 

Étienne racconta la loro lotta comune a favore delle famiglie povere e contro i grandi istituti di credito. 

Carrère conosce meglio  Patrice, il marito di Juliette. Quest'ultimo ripercorre la sua vita matrimoniale e gli ultimi giorni della moglie. 

Le vicende che interessano le due Juliette, dunque, la bambina morta per lo tsunami e la cognata giudice, apparentemente non collegate, finiscono invece per formare, nella narrazione di Carrère una unica, profonda, dolente, angosciosa, meditazione sulla sofferenza e sulla morte (il caso ha voluto infatti che Emmanuel Carrère fosse in vacanza nello Sri Lanka quando lo tsunami ha devastato le coste del Pacifico, e che si trovasse a sostenere una coppia di connazionali nelle strazianti incombenze burocratiche per rimpatriare il corpo della figlia di quattro anni; e che, solo pochi mesi dopo, gli accadesse di seguire un’altra vicenda dolorosa, quella che avrebbe portato alla morte per cancro la sorella della sua compagna, che era stata «un grande giudice», strenuamente impegnato al fianco delle vittime del sovraindebitamento). 

C’è un solo modo per ricevere il dolore degli altri, ci dice Carrère: dargli voce, farlo diventare il proprio dolore. Ed è questo il compito che si è assunto come romanziere, riuscendo a scrivere – senza mai cadere nell’enfasi, ma mettendo a fuoco con la precisione ossessiva di un reporter ogni minimo particolare – il suo libro più lacerante e temerario.

«Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. La vita mi ha reso testimone di queste due sciagure, l’una dopo l’altra, e mi ha assegnato il compito, o almeno io ho capito così, di raccontarle»


Emmanuel Carrère 

15/09/21

Due fratelli geni: Heinrich e Thomas Mann, la storia del loro lungo soggiorno a Palestrina, dove è ambientato il patto col diavolo del "Doktor Faustus"




Molto si è scritto sul genio, l'affetto e la rivalità tra i due fratelli Mann, nati e cresciuti nel pieno tormento che tra fine Ottocento e inizio Novecento, mandò in fiamme e in rovina l'intera Europa. Heinrich, il fratello maggiore, primo di cinque figli, nacque proprio nell'anno in cui  - 1871 - la Germania viene unificata a seguito della guerra franco-prussiana. E' l'inizio di una serie di accadimenti tragici e devastanti per le popolazioni europee.

Suo padre è un commerciante all'ingrosso a Lubecca. Heinrich capisce ben presto che la sua vocazione non è quella di proseguire l'attività di famiglia, ma di dedicarsi all'arte, frequentando il Katharineum, il liceo più prestigioso della città, dove dimostra la sua irrequietudine, interrompendo prematuramente gli studi. 

Inizia un apprendistato presso una libreria a Dresda, ma presto finisce per stancarsi anche di questo. 

Finalmente trasferitosi a Berlino, Heinrich assapora il mondo artistico della capitale, dedicandosi ad una assidua e dissoluta bohème, spendendo tutti i soldi del padre nei bordelli della città. 

La morte del padre lo richiama a casa, il testamento del padre prevede la vendita dell'attività commerciale e tutta la famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera e a Heinrich viene garantita una piccola rendita mensile. 

Inizia così per Heinrich, nell'ultimo decennio del XIX secolo, una nuova vita con molti viaggi: Parigi, l'Austria, l'Alto Adige e il Trentino (dove tornerà spesso, soprattutto per curarsi nel sanatorio di Riva del Garda), Milano, Firenze, Roma, Venezia, Monaco, Berlino e le Alpi bavaresi. 

Questo suo peregrinare senza meta e senza pace avrà fine nel 1895, quando si ferma a Roma per circa due anni, dove assume la direzione di una rivista, Das Zwanzigste Jahrhundert ("Il XX secolo"), un periodo molto controverso della sua vita in cui Heinrich si cimenta anche in invettive di carattere antisemite, misogine e monarchiche. 

Un periodo che metterà in imbarazzo più avanti Heinrich, profondamente cambiato dalle scelte politiche ed esistenziali della sua vita futura (divenne ferocemente antinazista e fu il primo fra i due fratelli a trasferirsi negli Stati Uniti). 

Nel frattempo, nel 1894 pubblica il suo primo romanzo: In einer Familie.

Negli anni successivi, Heinrich stringe ancora di più i rapporti col fratello Thomas, il secondogenito della famiglia e dal 1895 al 1898, durante i mesi estivi, soggiornano a Palestrina presso la “Pensione per stranieri” di Anna Bernardini, nel Palazzo omonimo al Borgo. 

La scelta di questa cittadina, che sorge su una delle sommità dei monti Prenestini, fu probabilmente dettata dalla notorietà raggiunta negli ultimi decenni dell’Ottocento, a seguito degli importanti rinvenimenti archeologici e delle campagne di scavo che lì si effettuarono; non si esclude, tuttavia, che abbia influito sulla scelta anche la passione che Thomas Mann nutriva nei confronti di Pierluigi da Palestrina, il grande compositore rinascimentale che in questo luogo ebbe i natali

Le estati trascorse nella cittadina furono per i due scrittori molto proficue. Heinrich Mann si ispirò a Palestrina per il romanzo “La piccola città” (1909) e vi ambientò la novella “Storie di rocca dei fichi”, inserita nel volume “Il meraviglioso" (1897); Thomas Mann, non solo la evocò ne “La montagna incantata”, ma vi ambientò una parte del Doktor Faustus (1947)

La scena centrale di questo romanzo, ossia il patto tra il diavolo e Adrian, il protagonista, si svolge nel salotto della pensione in cui i fratelli Mann avevano alloggiato

Ecco due brani da quel grande romanzo: l’arrivo a Palestrina di Serenus e l’apparizione di Mefistofele a Adrian, (nella traduzione di Luca Crescenzi): 

“Quando durante le ferie del 1912, partendo ancora da Kaisersaschern, feci visita in compagnia della mia giovane moglie a Adrian e a Schildknapp nel nido fra i monti sabini che avevano scelto come luogo di residenza, i miei amici vi stavano già trascorrendo la seconda estate: avevano passato l’inverno a Roma e a maggio, con l’aumentare del caldo, si erano recati nuovamente in montagna, nella stessa dimora ospitale in cui l’anno precedente, nel corso di un soggiorno durato tre mesi, avevavo imparato a sentirsi di casa. 

Il posto era Palestrina, paese natale del compositore, chiamata anticamente Praeneste, fortezza dei principi Colonna menzionata da Dante nel ventisettesimo canto dell’Inferno col nome di Penestrino, un paesino pittoristicamente adagiato lungo la montagna al quale conduceva, dal piazzale della chiesa sottostante, un vicolo a gradini non proprio pulito e protetto dall’ombra delle case. 

Vi si aggiravano dei maiali di una razza piccola e nera, e al passante disattento poteva capitare facilmente di essere schiacciato contro i muri delle case dal carico sporgente di uno degli asini dal largo basto che, pure, andavano e venivano. 

Superato il paese, la strada diventava un sentiero di montagna, passava oltre un convento di cappuccini e conduceva fino alla cima dell’altura e all’acropoli di cui restavano pochi ruderi accanto alle rovine di un teatro antico. Helene e io salimmo spesso, durante il nostro soggiorno, a quelle nobili vestigia, mentre Adrian che “non voleva veder nulla”, non oltrepassò, in tanti mesi, l’ombroso giardino dei cappuccini che era il suo rifugio preferito”. […] 

“Sedevo qui nella sala, lunga dinanzi a me, presso le finestre dalle imposte serrate e accosto al mio lume, leggendo le parole di Kierkegaard sul Don Juan di Mozart. Subito mi sentii pungere da un freddo tagliente, come quando d'inverno uno siede in una stanza calida e d'un tratto una finestra si spalanca al gelo. Il freddo, però, non mi veniva dalle spalle, ove son le finestre, bensì di fronte. Levo gli occhi dal libro e guardo nella sala, vedo che forse Schildknapp è già tornato perché non sono più solo: qualcuno siede nel buio sopra il divano di crine, con le gambe accavallate. È un uomo piuttosto allampanato, più piccolo di me, i capelli rossigni; ha le ciglia rossicce, gli occhi infiammati, il viso cereo, con la punta del naso un po’ curva in giù. Sopra una camicia a maglia a righe traversali porta una giacca a quadretti, con le maniche troppo corte, donde sporgono le mani dalle dita tozze. Ha i calzoni troppo stretti e le scarpe gialle trite, che non si possono più pulire. Un lenone, uno sfruttatore, con una voce articolata da attore di teatro.”

Qui sotto la targa che ricorda i soggiorni dei fratelli Mann a Palestrina:





14/09/21

Quando Marta Argerich vide il paradiso: Il celebre video nel commento di Emmanuel Carrère, da "Yoga"


Ci sono prodigi che soltanto la musica riesce a compiere. Avviene per esempio con questo vecchio leggendario video - risale al 1965 - nel quale una giovanissima Marta Argerich, oggi monumento vivente dell'arte pianistica, esegue la Polonaise Eroica Op. n.53 di Fryderyk Chopin. Un video ipnotico che emana un fascino meraviglioso e sensuale.

Questo video ha ispirato anche Emmanuèl Carrère  che nel suo ultimo libro, Yoga, gli dedica pagine bellissime.  Ne riportiamo un brano (p.336), divenuto già un piccolo classico:


Quando Marta Argerich arriva a quel punto, trattieni il fiato. La pianista è in una specie di trance languida, sospesa.  

L'indicazione di Chopin per questo passaggio è smorzando, una indicazione rarissima che significa: spegnendo. Marta Argerich si spegne in diretta, snocciolando una serie di note incantate ma sa, e lo sappiamo anche noi, che tra un istante tornerà il tema principale della polacca e che questo eclatante ritorno sarà il culmine dell'opera.

Siamo a 5.15, quindici secondi prima dei 5.30 indicati da Erica, mi chiedo cosa succederà ed ecco che cosa succede: sono le ultime note della ghirlanda prima che il tema principale ritorni, grandioso e appagante, a partire dal lato destro della tastiera, dal lato sinistro dello schermo.

Martha Argerich si lascia trasportare dal tema, lo prende come un surfista prende l'onda. Ci si abbandona totalmente, l'inquadratura non la contiene più, dà un colpetto con la testa verso destra, con la sua massa di capelli neri, per un istante quasi scompare a sinistra dello schermo e quando torna nell'inquadratura, dopo il colpetto con la destra, sorride. 

Ed è allora che... Dura pochissimo, quel sorriso da ragazzina, un sorriso che viene al tempo stesso dall'infanzia e dalla musica, un sorriso di pura gioia. Dura esattamente cinque secondi, dal minuto 5.30 al minuto 5.35, ma in quei cinque secondi hai intravisto il paradiso. Lei c'è stata per cinque secondi, certo, ma cinque secondi bastano, e guardandola ci andiamo anche noi. Per procura, ma ci andiamo. Sappiamo che esiste.

Ecco il video:



Fabrizio Falconi - 2021



13/09/21

L'incredibile storia di Antonio Pigafetta, uno dei 19 superstiti (tra 256) del primo viaggio intorno al mondo - tornano i diari



E' una delle vicende storiche umane più incredibili e ha per protagonista un italiano diventato celebre non tanto e non solo per essere uno dei 19 sopravvissuti su 256 uomini partiti, quanto per aver tenuto il diario di bordo continuo - giorno per giorno - della straordinaria impresa del primo viaggio attorno al mondo.

A far tornare d'attualità il vicentino Antonio Pigafetta, nel quinto centenario della circumnavigazione del globo tentata da Fernando Magellano, l'uscita di una nuova edizione del resoconto del navigatore, che scrisse giorno dopo giorno, tutti i giorni e che andò perduto e fu poi miracolosamente ritrovato (il manoscritto originale fu smarrito e soltanto all'inizio del 1800 uno studioso, Carlo Amoretti – prima agostiniano e poi prete secolare, poligrafo e accademico di formazione enciclopedista – scovò in un andito della Biblioteca Ambrosiana di Milano uno scartafaccio che diede alle stampe).

Il resoconto, editato con il titolo “Relazione del primo viaggio intorno al mondo” ebbe diverse versioni e riporta, nei  particolari, «le grandi e stupende cose del mare Oceàno» di quella che definita da Stefan Zweig, la «più superba odissea della storia dell’umanità», grazie al quale furono definiti una volta per tutti i reali confini e le reali dimensioni del mondo. 

Pigafetta si imbarcò da Siviglia il 20 settembre 1519 su una delle cinque caracche che avrebbero tentato l'impresa navigando verso Occidente, con il nome di Antonio Lombardo (pseudonimo derivante dai suoi natali geografici). 

Il resoconto è scritto in lingua italiana, con divertenti (per noi) forme dialettali tipiche degli scrittori veneti non molto colti della prima metà del secolo XVI. Ed ebbe un enorme successo dalla sua prima stampa in francese e poi nelle sue innumerevoli traduzioni. 

Della vita di questo incredibile personaggio, Pigafetta, si sa molto poco. Nel suo resoconto  raccoglie informazioni sui costumi delle popolazioni che incontra, – dal Brasile alla Terra del Fuoco e dalle Filippine alle Molucche -, e quando riferisce, per esempio, delle fanciulle che ingravidano per effetto del vento, o degli uccelli di Giava che trasportano bufali ed elefanti sulla cima degli alberi; o, ancora, delle donne della Malesia che hanno orecchie tanto grandi da coprire l’intero corpo, cita sempre la fonte – l’interprete, il pilota o i nativi del luogo – e si avvale di formule generiche come: «ci dissero, mi raccontarono» e simili

Dopo tre anni di avventurosa e terribile navigazione, solo una delle cinque caracche, seppur malconcia e rappezzata, fece ritorno a Siviglia

Aveva un carico di 26 tonnellate di spezie. Una fortuna, se è vero – come si legge – che il pepe valeva all’epoca più dell’argento e che con un sacchetto di nemmeno una libbra ci si comprava una casa

Della variopinta ciurma di 256 uomini partiti dalla Spagna solo 19 sopravvissero.

 E tra questi, per nostra fortuna, Antonio Pigafetta, che pure, mesi addietro, aveva rischiato di morire  tra i flutti come racconta lui stesso in una colorita descrizione: «Andai a bordo della nave per pescare, ma me slizegarono [scivolarono] li piedi sopra una antenna, perché era piovesto [piovuto], e così cascai nel mare che niuno me vide». 

Riuscì comunque a mettersi in salvo, il nostro autore, e nel rendere omaggio al suo resoconto, secoli dopo, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez gli ha addirittura attribuito la patente di padre de «lo real maravilloso de Hispanoamérica».

Quando arrivò al Porto di Siviglia da dove era partita, la Victoria (unica nave sopravvissuta, anche se in realtà anche una seconda riuscì ad arrivare molto tempo dopo, in seguito alla decisione di invertire la rotta e rifare il viaggio a ritroso, per tornare, ormai stremati dalla ricerca del ritorno passando da Occidente) era il 6 settembre 1522 ed erano passati, dalla partenza 2 anni, 11 mesi e 17 giorni. 

A bordo della piccola nave comandata Juan Sebastián Elcano (Magellano era stato ucciso durante una battaglia svoltasi nelle Filippine), che stazzava solo 85 tonnellate, che imbarcava acqua e aveva una velatura di fortuna,  vi erano soltanto 19 uomini malmessi, ammalati e denutriti, tra marinai e soldati. Tra essi due italiani, Antonio Pigafetta, colui che scriverà la storia della spedizione, e Martino de Judicibus.

Pigafetta, tornato a casa, si stupì che il giorno non corrispondesse a quello che avrebbe dovuto essere, secondo il suo diario di viaggio.  Ricontrollò scrupolosamente il diario e si accorse di non aver sbagliato nulla, di non aver saltato alcun giorno. Quello che ancora non poteva sapere era che avendo navigato da oriente a occidente e avendo circumnavigato il globo, una giornata era andata persa per puri motivi astronomici dovuti alla rotazione terrestre.

Fabrizio Falconi - settembre 2021 

10/09/21

Carrère, l'autofiction, le accuse della moglie e i confini dei racconti coniugali privati

Emmanuel Carrère con la moglie Hélène Devynck ai tempi della loro relazione 

Leggendo in questi giorni Vite che non sono la mia, pubblicato in Italia nel 2009 (da Einaudi e poi ristampato da Adelphi), non si può non ammirare, ancora una volta, la capacità di scrittura e di racconto di Emmanuel Carrère, anche se, tra una pagina e l'altra, affiora costante per tutto il volume il fantasma, in realtà piuttosto concreto di Hélène Devynck, l'ex moglie dello scrittore, a sua volta giornalista anchor-woman e produttrice televisiva. 

Come nello stile che lo ha reso famoso, Carrère raccontando le vite di altri che non sono lui - in questo caso persone incontrate casualmente durante e dopo lo tsunami dell'Oceano Indiano del 2004, dal quale Carrère e la moglie si salvarono per circostanze fortuite, la sorella morta precocemente di tumore della moglie, a Parigi, e il collega giudice di questa - racconta anche molto, anzi moltissimo di se stesso e delle persone che gli sono vicine, in primis, la moglie Hélène. 

Ma quel che racconta Carrère di se stesso e di ciò che accade nella sua vita è tutto vero? 

La domanda sarebbe peregrina - visto che ogni autore, anche nella pratica ormai molto diffusa della cosiddetta autofiction, inventa, se non fosse che Carrère ha più volte spiegato di pretendere da se stesso una fedeltà assoluta a quanto racconta, anche a costo di mettersi più a nudo di quanto vorrebbe (o che vorrebbe comunque visto che piovono da anni su di lui accuse di megalomania e narcisismo).   

Questo va bene per sé, ma per gli altri? 

Le note vicende seguite all'uscita dell'ultimo libro, Yoga (sempre pubblicato da Adelphi) -  nel quale lo scrittore racconta duramente la sua depressione profondissima seguita al fallimento del suo matrimonio, le cure a base di elettroshock, il ricovero in una clinica di rehab, ecc.. -  hanno riaperto la questione, visto che nuove accuse sono arrivate, roventi, proprio dalla ex seconda moglie Hélène. 

Hélène Devynck, subito dopo la pubblicazione del libro è andata giù assai pesante con un lungo intervento pubblicato sul Vanity Fair francese, nel quale accusa palesemente, in primis, l'ex marito di aver violato l’accordo tra loro due stipulato dopo il divorzio e presenta “Yoga” come una “storia falsa”.

Ricordiamo qualche passo di quell'intervento:

Emmanuel ed io siamo vincolati da un accordo che lo obbliga ad ottenere il mio consenso per utilizzarmi nel suo lavoro. Non ho acconsentito al testo così com’è apparso, nonostante l’autore e il suo editore siano ben consapevoli della mia determinazione a far rispettare questo contratto. Negli anni in cui abbiamo vissuto insieme, Emmanuel ha potuto usare le mie parole, le mie idee, persino la mia sessualità: era innamorato e la mia persona era rappresentata in un modo che si addiceva ad entrambi. 

Ma dopo il divorzio, dice Hélene, le cose sono cambiate e Emmanuel aveva acconsentito ad assumere un impegno a lungo termine: da quel momento in poi avrebbe dovuto chiedere sempre il consenso di lei per poterla rappresentare e non avrebbe dovuto mai inserirla contro la sua volontà. Per sempre, per tutta la durata della sua vita letteraria e artistica. Impegno che ricade anche sulla rappresentazione della figlia. 

Ma proprio mentre Emmauel accettava il patto, mentiva, nascondeva che stava disegnando il mio ritratto. L’ho capito solo pochi giorni dopo la firma di questo accordo, quando ho ricevuto il manoscritto di Yoga con questa nota: “Che io scriva libri autobiografici non deve essere una sorpresa per voi. (...) Questa storia sarebbe incomprensibile se non dicessi nulla sul contesto”. Il contesto, in questo caso, ero io”. 


Hélène accusa esplicitamente Carrère di aver mescolato deliberatamente realtà e finzione. Questa storia, presentata cioè  come autobiografica, è falsa, dice Hélène, organizzata per servire l’immagine dell’autore e totalmente estranea a ciò che la mia famiglia ed io abbiamo passato al suo fianco con omissioni in cui l’autore dice di “essere scivolato, deliberatamete”. 


Il lettore può credere che dopo Saint-Anne (l’ospedale psichiatrico in cui Carrère è stato ricoverato per quattro mesi ndr), Emmanuel se la cavi con due mesi di viaggio per incontrare le disgrazie del mondo, quelle dei giovani rifugiati sull’isola greca di Leros. I due mesi sono durati solo pochi giorni, in parte in mia compagnia. Ma soprattutto, è stato prima dell’ospedale, ancor prima che si facesse la diagnosi del suo comportamento folle e aggressivo, che io cercavo, con i mezzi a disposizione, di contenere. L’episodio dilatato si presenta come una via d’uscita dalla depressione, un ritorno alla vita. L’opposto della realtà. E potrei moltiplicare gli esempi.

Yoga è una favola, l’uomo nudo, onesto, sofferente, che è tornato dall’orlo del baratro. I lettori sono liberi di credere o di dubitare. L’autore è libero di raccontare la sua vita come vuole, come può. Volevo avere la libertà di non farne parte, di non essere associata a uno spettacolo presentato come autentico ma nel quale non mi riconosco perché non l’ho vissuto

E' difficile, leggendo queste parole, non riconoscere la ragione in quello che afferma Hélène. 

Fino a che punto arriva il diritto di raccontare "le vite degli altri"?  Se si professa fedeltà ai fatti, come si possono mescolare ad essi invenzioni arbitrarie?  Se si verifica che diverse cose raccontate nel libro non sono vere, ma frutto di invenzione, come si può credere alla fedeltà degli altri fatti?  Se invece, tutto è scrittura e tutto è letteratura, non si dovrebbe rispettare la scelta di chi  non vuol far parte del "contesto"?  

Domande che ronzano nella testa durante la lettura e che rovinano abbastanza il grande piacere di leggere un gran bel libro come questo. 

Fabrizio Falconi 

09/09/21

Le geniali opere di Simon Stålenhag che hanno ispirato la bellissima serie "Tales From The Loop"

 


Chi l'ha vista - in Italia su Amazon video/prime - sa che si tratta di uno dei prodotti migliori degli ultimi anni, in assoluto: si tratta di Loop (Tales from the Loop), la serie televisiva statunitense del 2020 creata da Nathaniel Halpern e basata sulle opere illustrate dell'artista svedese Simon Stålenhag. 

Per chi non l'avesse ancora vista diremo, per non rovinare nulla, che la serie è ambientata negli anni ottanta in una zona rurale dell'Ohio, in cui gli abitanti vivono e lavorano in un misterioso luogo chiamato il "Loop".

Si scopre che in effetti venti anni prima, negli anni sessanta, in quella regione è stato costruito un grande acceleratore di particelle nelle profondità della campagna circostante. 

Ogni puntata della serie - valorizzata dalle bellissime musiche di Philip Glass e da una meravigliosa fotografia - racconta in modo straordinario le vicende quotidiane e personali degli abitanti di quel luogo, stravolte da eventi e paradossi legati al Loop.

Ma chi é Stålenhag?

Cresciuto in un ambiente rurale vicino a Stoccolma, l'artista svedese ha cominciato a realizzare opere grafiche di fantascienza solo dopo aver scoperto concept artist come Ralph McQuarrie e Syd Mead; la genialità del suo lavoro è quella di combinare la sua infanzia con temi tratti da film di fantascienza, dando vita a un paesaggio svedese stereotipato con una tendenza neofuturistica

Secondo Stålenhag, questo focus nasce dalla sua percepita mancanza di connessione con l'età adulta, con gli elementi di fantascienza aggiunti in parte per attirare l'attenzione del pubblico e in parte per influenzare l'umore del lavoro. Queste idee si traducono in un corpus di lavori che possono presentare robot giganti e megastrutture accanto a normali articoli svedesi come le automobili Volvo e Saab. 

Man mano che il suo lavoro si è evoluto, Stålenhag ha creato un retroscena per esso, incentrato su una struttura sotterranea governativa.

Stålenhag solitamente per i suoi lavori utilizza un tablet e un computer Wacom, progettato per assomigliare alla pittura ad olio.

La maggior parte del suo lavoro si basa su fotografie preesistenti che scatta; queste vengono quindi utilizzate come punto di partenza per una serie di schizzi prima che il lavoro finale sia completato.

La maggior parte delle opere d'arte di Stålenhag era inizialmente disponibile online, prima di essere successivamente venduta come stampe. 

I risultati sono veramente stupefacenti. 
Qui qualcuna delle sue opere:

Labyrinth 

Vimpelturbiner

Collater.al





07/09/21

I Quattro Libri che Cesare Pavese regalò a Fernanda Pivano da studentessa e che le cambiarono la vita


Fernanda Pivano a vent'anni

Sono reduce dalla lettura di Olivia, l'unico romanzo scritto da Dorothy Strachey (1865-1960) completamente focalizzato sulla importanza deflagrante dell'imprinting educativo che scaturisce dalla lettura della grande poesia e della grande letteratura, in ambito scolastico-adolescenziale. 

Un esempio di questa folgorazione, destinata molto spesso a determinare le scelte e la vita successiva di un giovane che si affaccia alla vita è sicuramente data dalla vicenda di Fernanda Pivano, che nacque a Genova il 18 luglio 1917 da una famiglia alto borghese che lei stessa soleva definire vittoriana (come quella di Dorothy Strachey) secondogenita di Riccardo Newton Pivano (1881-1963), direttore dell'Istituto di Credito Marittimo, d'origini in parte scozzesi, e di Mary Smallwood (1891-1978) nata dal matrimonio tra Elisa Boggia e Francis Smallwood uno dei fondatori della Berlitz School italiana. 

Anche se genovese di nascita, la formazione della Pivano avvenne a Torino, dove si trasferì dodicenne  al seguito della famiglia, nel 1929. 

A Torino la Pivano fu iscritta al liceo classico Massimo d'Azeglio dove ebbe la fortuna di avere come compagno di classe in quarta e quinta ginnasio Primo Levi e come supplente di italiano Cesare Pavese, allora ventinovenne. 

La Pivano e Levi, dimostrandosi già mentalmente avanti, non vennero ammessi agli orali dell'esame di maturità nella scuola superiore già completamente fascistizzata, perché i loro temi per lo scritto furono  giudicati "non idonei".

Ma nel 1938 Pavese regalò alla giovane allieva quattro libri in inglese che segnarono il suo destino di scrittrice e traduttrice, facendo esplodere in  lei la passione per la Letteratura american: 

I quattro libri erano: Addio alle armi di Ernest Hemingway – che la giovane Fernanda tradusse clandestinamente in lingua italiana –, Foglie d'erba di Walt Whitman, Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e l'autobiografia di Sherwood Anderson.

Sono in effetti quattro libri - soprattutto i primi tre - fondamentali per la Letteratura Americana del Novecento: libri sui quali si formarono le generazione future, anche nel dopoguerra, grazie anche all'opera di divulgazione e di traduzione di Fernanda Pivano.

Pavese avrebbe potuto sceglierne anche altri ovviamente.

Ma quelli li scopri da soli, Fernanda, se si pensa che qualche anno più tardi, il 17 giugno 1941, si laureò in Lettere, proprio con una tesi su Moby Dick di Herman Melville.

06/09/21

Libro del Giorno: "Olivia" di Dorothy Strachey


E' un piccolo grande caso letterario, che bisognerebbe recuperare. Un breve romanzo di cento pagine, che in Italia è attualmente possibile trovare solo in una scarna edizione di Baldini Dalai. 

Eppure Olivia è un piccolo gioiello che non sfigura accanto a classici come La Principessa di Clèves di Madame de La Fayette e Morte a Venezia di Thomas Mann. 

Racconta della educazione sentimentale - e del conseguente amore proibito - che lega la giovane inglese Olivia, iscritta ad una prestigiosa scuola francese a una delle sue insegnanti e direttrice della scuola, Mademoiselle Julie.

Raramente in un romanzo accade di trovare così ben descritti le ingenue tempeste, i momenti di inaudita felicità e tetra disperazione, l'estasi e il tormento, tipici di ogni passione amorosa, che si scatenano nel cuore di una giovane, suo malgrado, mischiandosi alla scoperta della conoscenza della poesia e della letteratura, incarnandosi nella figura di una insegnante affascinante e per alcuni versi misteriosa. 

Nel 1949 all'epoca della sua pubblicazione - senza rivelare il nome dell'autrice -  grazie anche alla straordinaria nitidezza della prosa e delle sfumature che lasciano aperto per il lettore il gioco enigmatico del non detto e non risolto, questo breve racconto, diventò immediatamente un caso letterario.

In Inghilterra fu pubblicato col titolo misterioso di "Olivia by Olivia" e soltanto negli anni Ottanta fu restituito, grazie a una nuova edizione, alla sua autrice Dorothy Strachey. 

Apparve allora chiara la sua appartenenza alla cerchia di intellettuali noti sotto il nome di Circolo di Bloomsbury, di cui facevano parte Virginia Woolf, cui il libro è dedicato, e lo storico Lytton Strachey, fratello di Dorothy.

"Olivia" restò l'unico libro scritto da Dorothy Strachey e, come raramente accade nel caso di un'opera prima, si rivelò senza ombra di dubbio un capolavoro sui generis.

Dorothy Bussy era nata Strachey da una famiglia aristocratica, nel  1865 e a riprova che il suo primo e unico romanzo ha precisi riferimenti autobiografici, studiò alla scuola femminile Marie Souvestre a Les Ruches, Fontainebleau , in Francia e successivamente in Inghilterra quando Souvestre trasferì la scuola ad Allenswood. 

Successivamente Dorothy divenne insegnante e tra le sue allieve vi fu perfino Eleanor Roosevelt . V

Nel 1903 Dorothy sposò il pittore francese Simon Bussy (1870-1954), che conosceva Matisse , ed era ai margini del circolo di Bloomsbury . Aveva cinque anni in meno ed era figlio di un calzolaio della città giurassiana di Dole . Il liberalismo di Lady Strachey vacillò alla vista di lui che puliva il suo piatto con pezzi di pane. Il dramma familiare "scosse alle fondamenta il regime di Lancaster Gate" (Holroyd) e, nonostante la silenziosa disapprovazione degli Strachey più anziani, Dorothy rimase determinata a sposarlo con quello che suo fratello Lytton in seguito chiamò "straordinario coraggio". 

Dorothy era bisessuale ed era coinvolta in una relazione con Lady Ottoline Morrell . Divenne amica di Charles Mauron , l'amante di EM Forster . 

Nella seconda parte della sua vita la Strachey divenne amica di André Gide , che incontrò per caso durante l'estate del 1918 quando aveva cinquantadue, e con il quale intraprese una fitta corrispondenza. 

La loro amicizia a distanza è durata oltre trent'anni. Le loro lettere sono pubblicate in Selected Letters of Andre Gide and Dorothy Bussy di Richard Tedeschi , e c'è anche un'edizione francese in tre volumi. Gli originali sono conservati nella British Library

Fabrizio Falconi



Dorothy Strachey


Olivia

05/09/21

Poesia della Domenica - "E' l'amore (o Il Minacciato)" di Jorge Luis Borges



 È l’amore (o Il minacciato)

Dovrò nascondermi o fuggire.
Crescono le mura del suo carcere, come in un sogno atroce.
La bella maschera è ormai cambiata,
ma come sempre è l’unica.
A che mi serviranno i miei talismani:
l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione,
l’apprendimento delle parole che utilizzò l’aspro Nord
per cantare i suoi mari e le sue spade,
la serena amicizia,
le gallerie della Biblioteca,
le cose comuni,
le consuetudini,
l’amore giovane di mia madre,
l’ombra militare dei miei morti,
la notte intemporale,
il sapore del sogno?
Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo.
Già la brocca si rompe sulla fonte,
già l’uomo s’alza al canto dell’uccello,
già si sono scuriti quelli che guardano dalla finestra,
ma l’ombra non ha portato la pace.

È, lo so, l’amore:
l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce,
l’attesa e il ricordo,
l’orrore di vivere successivamente.
È l’amore con tutte le sue mitologie,
con tutte le sue piccole magie inutili.
C’è un angolo dove non oso passare.
Già mi accerchiano gli eserciti, le orde.
(Questa stanza è irreale, lei non l’ha vista).
Il nome di una donna mi denunzia.
Mi fa male una donna in tutto il corpo.


Jorge Luis Borges 

03/09/21

Un Luogo Magico: La Cava Abbandonata "Le Tagliate" o "Henraux" in Toscana - LE FOTO

 


C'è un luogo veramente incredibile nel cuore della Garfagnana, nei pressi del Passo del Vestito (1151 metri sul livello del mare), nella zona delle meravigliose Alpi Apuane, nella valle dei Tre Fiumi ai piedi del piccolo paese di Arni nel comune di Stazzema, centro dolorosamente conosciuto per la tragedia che qui ebbe luogo durante l'occupazione nazista. 

Tra i diversi agri marmiferi, si scopre, seminascosta lungo la strada provinciale di Arni, e senza nessuna indicazione che ne dia segnale, la cava abbandonata delle “Tagliate”

Questo giacimento divenne proprietà di Marco Borrini di Seravezza, assieme al francese Jean Baptiste Alexandre Henraux nel 1821. 

I due diedero vita ad una società, con lo scopo di riaprire tutti gli insediamenti marmiferi, che erano stati abbandonati da molto tempo.

Le istituzioni dell'epoca diedero l'accordo e il progetto venne realizzato e con ulteriori lavori vennero riaperte ben 132 cave. 

Merito del pregio del famoso Marmo di Carrara, ricercato in tutto il mondo, da occidente a oriente, fino all'impero russo, visto che lo zar Nicola I ordinò una enorme quantità di marmo per i palazzi e le chiese di San Pietroburgo. 

La grande espansione del mercato del marmo ebbe una improvvisa e drammatica contrazione quando  durante il Secondo conflitto Mondiale l’esercito tedesco delle SS Waffen-Grenadier, occupò la zona, sterminando gran parte della popolazione locale e deturpando in maniera brutale gli stessi siti marmiferi

Da quel momento, sebbene la cosiddetta cava "Le Tagliate" sia tutt’ora di proprietà della società Henraux le attività di estrazione non sono state più riprese, anche se il nome campeggia su una grande scritta arrugginita sulla sommità della roccia:



Per accedere al luogo abbandonato bisogna percorrere una enorme e strettissima feritoia scavata nel marmo. 




Oltrepassata la quale si apre uno spettacolo imponente e straniante: alte pareti verticali di marmo bianco, precipizi e piccoli laghetti creati dall’acqua piovana. 



Ma tutta l'area oggi abbandonata è stata colonizzata da writers decisamente spericolati con i loro graffiti e murale bellissimi realizzati nel tempo sul marmo scavato. 




Pubblico una serie di foto scattate in questo luogo recentemente (agosto 2021). 

Fabrizio Falconi 










01/09/21

Le Meraviglie della Toscana e "Good Morning Babilonia" dei Taviani. Essere "i figli dei figli dei figli" di Leonardo e Michelangelo

 


Vagando a lungo per la Toscana in giorni recenti, e tornando ad ammirare la magnificenza della creatività espressa dagli avi di questo paese in ogni campo, mi è tornato spesso alla mente Good Morning Babilonia, dei Fratelli Taviani, presentato a Cannes nel 1987.

In quell'anno, 40mo anniversario del Festival, ero tra i giornalisti accreditati durante la proiezione ufficiale (la Palma d'Oro, in ossequio al solito sciovinismo francese andò a un brutto e dimenticato film, "Sous le soleil de Satan", di Maurice Pialat, a fronte di una rappresentanza italiana sontuosa - a parte i Taviani, Fellini con "Intervista", "Cronaca di una morte annunciata" di Francesco Rosi e "La Famiglia" di Ettore Scola).

Il film dei Taviani raccontava la storia (vera ma romanzata) di una famiglia di scalpellini restauratori toscani (il padre Omero Antonutti, i figli Vincent Spano e Joaquim de Almeida) emigrati in America negli anni '10 in cerca di fortuna e finiti a lavorare nel cinema addirittura per il grande David W. Griffith.

Il film comincia con il padre e i figli al lavoro sulla facciata di uno dei sublimi duomi toscani - che io ricordavo fosse Lucca e come si può controllare dalla foto sopra, era invece il Duomo di Piazza dei Miracoli a Pisa. Scena bellissima.

Ma il clou di quel film - solo in parte riuscito - fu per noi che assistevamo alla proiezione, la memorabile scena in cui, durante la lavorazione del film di Griffith, i due italiani vengono maltrattati insieme ai loro connazionali, dal direttore di produzione, con una sequela di insulti razziali e luoghi comuni sull'italianità più becera.

Punti sull'orgoglio, i due umili scalpellini trovano il coraggio di reagire, all'arrogante direttore:

"Queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa, Lucca, Firenze. Chi siamo noi?  Noi, noi siamo i figli dei figli di Michelangelo e di Leonardo ! Di chi sei figlio, tu?" - (QUI SOTTO TROVATE LA SCENA ORIGINALE)

In quella sala buia, a Cannes, scoppiò uno spontaneo piccolo ma entusiasta applauso della delegazione di giornalisti italiani. Me compreso.

Me ne ricordo spesso, e me ne ricordo soprattutto adesso, perché tornare ad ammirare ancora una volta, ciò di cui è stato capace l'ingegno italiano nei secoli rende orgogliosi di essere nati qui, in questo luogo e da questa progenie così ricca, e allo stesso tempo rende del tutto sconsolati nel constatare la sparizione pressoché totale di quella grandezza, disciolta in una contemporaneità di così grande ed estesa volgarità.


Fabrizio Falconi - 2021