11/11/14

"Facebook, l'orrore e l'incanto" - di Sandra Petrignani.



Facebook, l’orrore e l’incanto 
di Sandra Petrignani
Il Foglio

“Da quando ho letto ‘Se niente importa’ di Jonathan Safran Foer non sono più riuscita a mettere una bistecca in bocca”, mi ha detto un’amica. “Nemmeno io”, ho risposto. 

Lo scambio, però, non avveniva a tu per tu o al telefono, ma su Facebook, ed ecco che in pochi minuti ai nostri commenti se ne aggiungevano molti altri di convinti vegetariani o viceversa di irrecuperabili mangiatori di carne, che contestavano le posizioni animaliste dello scrittore americano, e di altri ancora che non avevano mai sentito parlare di quel libro e sarebbero corsi a comprarlo grazie al piccolo, insignificante scambio di battute fra noi. 

Perché Fb è così: getti un sasso nello stagno e i cerchi, quando l’argomento è sentito, si allargano a dismisura e la tua chiacchiera a due diventa dibattito pubblico, hai l’impressione di appartenere a una comunità, di essere seduto accanto al fuoco a scambiare racconti della tua vita e di quella altrui come si faceva prima dell’epoca dell’incomunicabilità. 

E’ l’orrore e l’incanto di questa geniale invenzione del mondo contemporaneo: tornare a vivere in piazza, e non nella piazzetta del paese, ma in una piazza globale dove puoi farti i fatti del vicino di casa, che non hai mai visto, nemmeno sai che è proprio il tuo vicino di casa, come quelli di uno sconosciuto che vive all’altro capo del pianeta.

Non era questo all’inizio il progetto del giovane inventore Mark Zuckerberg, studente di Harvard che, con un paio di amici, nel febbraio del 2004 voleva solo mettere in contatto fra loro gli iscritti alla sua università perché potessero scambiarsi alla grande notizie utili allo studio, prendere appuntamenti, dividere i costi di un appartamento. 

Fare, insomma, via rete ciò che facevano anche prima stringendo amicizia sui prati del campus o nei frequentatissimi baretti di Harvard Square o affiggendo bigliettini nelle varie bacheche dei vari istituti. Non è certo un caso che la pagina-profilo su Facebook si chiami, appunto, “bacheca” (wall) e che il sito prenda il nome dall’annuario che raccoglie le fototessera degli studenti, il face book con cui abbiamo familiarizzato attraverso tanto cinema americano. 

Non immaginava il geniale Mark dal viso cavallino e le guance implumi che nel giro di dieci anni avrebbe invaso la terra intera e superato i 500 milioni di utenti per un fatturato di 1,1 miliardi di dollari. Perché oltre agli harvardiani si sono mano mano registrati al servizio anche gli studenti di altre università americane, e poi quelli europei e poi quelli delle scuole superiori e a un certo momento (alla fine del 2006 più o meno) non erano più solo studenti, ma dai tredici anni in su chiunque dotato di duttilità tecnologica poteva connettersi a Fb. 

Cosicché, inevitabilmente, i contenuti iniziali finivano con il modificarsi. “Facebook ti aiuta a connetterti e rimanere in contatto con le persone della tua vita” è lo slogan del sito. E forse per questo i detrattori pensano, senza saperne molto, che “ritrovare i vecchi compagni di scuola” ne sia lo scopo principale. “Cosa vuoi che me ne importi di riprendere i rapporti con persone che conoscevo a sei anni! Se le ho perse di vista ci sarà una ragione”, mi dicono amici perplessi e ostili alla mia passione per il social network secondo solamente a Google, stando al numero di visitatori. 

Ma che c’entrano i compagni di scuola! mi tocca spiegare ogni volta: ne ho ritrovata una sola di compagna di scuola, due va’. A parte il fatto che sono proprio le due compagne di scuola che mi fa piacere frequentare, Facebook non è una triste festa planetaria di “ex amichetti d’asilo cinquant’anni dopo”, tanto è vero che gli utenti più attivi sono giovani e giovanissimi, che l’asilo se lo sentono troppo vicino per provarne nostalgia. Ma allora che diamine è questo Facebook? E soprattutto: “Cosa ci trovi di così attraente?”, mi viene chiesto con incredulo sconcerto ogni volta che mi dichiaro dipendente dal popolare “gioco” di società virtuale, che sta ridisegnando il modo di stringere relazioni fra le persone. 

Buone domande a cui non è per niente facile rispondere. Ci proverò cominciando dall’inizio della mia, chiamiamola, “militanza feisbuchiana”. Innanzitutto devo spiegare che non appartengo alla pattuglia della prima ora: mi sono affacciata sul sito, per altro frenata dalle stesse resistenze e dagli stessi sospetti dei miei amici più critici, solo un anno e mezzo fa, quando una giovane editor mi convinse che per uno scrittore far circolare su Facebook i propri libri è un ottimo investimento pubblicitario. Insomma ero animata, lo confesso, unicamente da spirito affaristico e se non fosse stata lei stessa, quella intraprendente ragazza, a iscrivermi mostrandomi quanto fosse facile entrare a far parte della modernità tecnologicamente più avanzata, sarei ancora lì a chiedermi: mi butto o non mi butto? Mi sono buttata. 

E, subito lasciata a me stessa, ho capito che potevo nuotare senza problemi anche ignorando totalmente i segreti di parole misteriosissime come “tag” (con annesso verbo “taggare”), come “poke” (con annesso “pokare”). Anzi ancora oggi qualche dubbio lo conservo e sulla questione “taggare” non ho ben capito se è l’andare importunando le persone imponendo loro la lettura di nostre “note” o se, più semplicemente, il tag è la scrittura del loro nome dentro una fotografia in cui compaiono o se l’una e l’altra cosa. 

Il risultato non cambia: ho imparato a taggare a più non posso nell’una e nell’altra direzione. Quanto al poke, me l’ha spiegato mio figlio, per motivi generazionali più a suo agio di me dentro l’universo dei naviganti internettiani. “Poke” mi ha detto “è fare così” e mi ha dato con un dito una spintarella sulla spalla. E dunque? ho chiesto continuando a non capire. “Ma sì, è un modo per attirare l’attenzione. Tu mandi un poke a qualcuno e quello si accorge di te. E’ come un saluto”. Ma insomma qui non siamo l’Accademia della Crusca, non tuteliamo l’integrità della lingua e, dunque, se proprio volete saperlo, quando qualcuno su Facebook riceve un poke, e lo ricambia, per una settimana consentirà al pokante di curiosare nel suo profilo (o bacheca che dir si voglia). 

E adesso veniamo al nocciolo: cosa succederà mai su queste “bacheche”? Di tutto, di più. Qui sta il bello: tu credi di piegare ai tuoi interessi l’intero trappolone convincendo a comprare i tuoi prodotti i pochi o tanti “amici” che sei riuscito ad accalappiare in rete, e presto, se non subito, la trappola scatta su di te. 

E se non scatta, mi chiedo, che ci stai a fare su Fb? Se non scatta, non ti diverti. Se non scatta, se non ti fai invischiare, se stai lì a difenderti e a fare il sostenuto, se non dai qualcosa di te di autentico, se sei un tipo freddo che gli altri devono stare al loro posto e guai se si avvicinano, se sei pauroso di tutto e di tutti e fai il prezioso, sempre con la puzza al naso, sempre lì a valutare “chi mai sarà questo sconosciuto/a che mi chiede l’amicizia, gliela do o non gliela do”… se insomma, come certi innamorati che non vogliono scoprirsi e fanno gli indifferenti finché l’amata si scoccia e sceglie un altro, stai su Facebook con l’aria di non starci, con la paura di perdere tempo, con il contagocce, non saprai mai cosa può succedere fra una bacheca e l’altra, nella ragnatela indistricabile di rapporti virtuali che qualche volta (spesso) diventano reali e di rapporti reali che, diventando virtuali, finalmente si approfondiscono. 

Mi rendo conto che, a chi non lo pratica, non ho ancora chiarito niente del complesso sistema di relazioni messo in campo da Fb. E allora un poco di casistica. Una volta iscrittisi a Facebook si deve andare a cercare nomi di persone note (solo a noi o in generale) già interne al “gioco” chiedendo loro l’amicizia per costituire un proprio gruppo di persone con cui interagire. Ognuna di queste persone possiede un suo tesoretto di nomi (corredati di simboli, foto, disegni che le rappresentano) che possono essere messi in comune, previo accordo degli interessati. 

C’è chi cerca solo persone che conosce già nella vita vera, o comunque garantite da presentazioni affidabili, e chi si lascia incuriosire dagli sconosciuti, purché simili a lui, e chi non si fa impressionare negativamente neppure dagli elementi che nel suo gruppo sociale vengono generalmente banditi: un modo ruspante di proporsi, una battuta ingenua, una foto scollacciata, un tatuaggio selvaggio… Inutile dire che a maggior apertura corrisponde più grande divertimento. Ma siccome la natura umana è selettiva e conservatrice e simile chiama simile, ecco che poi all’interno anche del più sterminato campo-amicizie finiranno per legare solo quelli che hanno gusti, idee politiche, cultura analoghi. Insomma uno può arrivare a totalizzare anche cinquemila amici (limite massimo consentito) ma a interagire sul serio e assiduamente è grasso che cola se saranno in cinquecento. 

Ancora un po’ di esempi: c’è chi lancia temi di discussione e chi va a ruota. C’è chi ama polemizzare e chi butta acqua sul fuoco, c’è chi discute solo di politica e chi propone spezzoni di film, canzoni, brani teatrali (attraverso i video YouTube) o proprie immagini. Chi scrive poesie e le sottopone al giudizio della comunità, chi invita a feste, presentazioni di libri, degustazioni, sfilate di moda e chi cerca appartamenti al mare. 

Chi scrive articoli per i giornali e li rilancia sul suo profilo (il suo wall) dove avrà il piacere di vederli discutere da una massa di gente, spesso molto agguerrita e intelligente, non sempre e comunque adorante e acritica. Chi si mobilita per qualche (giusta?) causa, chi denuncia, chi informa, chi chiama a raccolta per scendere in piazza, chi fa propaganda elettorale (uno stuolo – in genere noioso – di politici noti, notissimi o alle prime armi accompagnati da slogan e bandiere), chi dà lezioni di cucina, chi sistema cani randagi, chi commenta in diretta una trasmissione televisiva, chi si sfoga per i tradimenti del coniuge e chi cerca nuovi innamorati/e. 

Chi non ha inventiva e si affida a scambi preconfezionati con invii (virtuali, ma a pagamento) di mazzi di fiori, orsacchiotti, cuoricini… Dove altro puoi andare di corsa a dirne quattro a David Sassoli perché ha votato a favore di una vergognosa legge sulla vivisezione al Parlamento europeo (e lui sta faticosamente cercando di spiegare le sue ragioni) o congratularti con Vito Mancuso, se sei d’accordo con le sue posizioni, perché lascia la Mondadori? 

Fai amicizia in quattro e quattr’otto con Michela Murgia e le dici quanto ti è piaciuto il suo libro e lei ti risponde un ovvio “grazie”, o qualcosa di articolato dedicato esclusivamente a te, se sei stato capace di interessarla (perché, per esempio, Michela Murgia, grande esperta di blog e comunicazione in rete, è di quelli che non si risparmiano: non lo faceva prima da semisconosciuta, non lo fa adesso che ha vinto il Campiello). Ma, soprattutto, Facebook dà i superpoteri. Questo è il segreto del suo successo. 

Diventi ubiquo: puoi festeggiare il matrimonio di un tuo lontano parente in uno sperduto villaggio degli Stati Uniti e insieme trovarti a Ibiza a condividere la vacanza di tua sorella. Ti fai invisibile: puoi controllare i figli che si danno appuntamento per il sabato sera e verificare se il tuo amante fa il cascamorto con le altre. Hai superudito, supervista, superenergie. Puoi cambiare personalità, identità, persino sesso senza ricorrere alla chirurgia. 

Eppure su Facebook vengono a galla pregi e difetti, la generosità o la supponenza dei vari tipi psicologici, che si tratti di soliti noti o di imprevedibili ignoti. C’è chi viene inseguito e chi insegue in modo anche indipendente dalla notorietà acquisita altrove. Non che il mito del successo non alligni in rete come negli altri mondi, ma la possibilità di strappare la maschera e guardare cosa ci sia dietro al personaggio famoso è a disposizione di chi non si lasci incantare. 

E la bella sorpresa è che di gente autonoma, gentilmente critica, attenta e sensibile è pieno il mondo di Fb quanto di cretini, invadenti e opportunisti. Ma con un clic puoi liberarti dello scocciatore senza strascichi. E adesso la domanda delle domande: è davvero una rivoluzione il modo di stare insieme su Facebook o solo un’illusione collettiva di amicizie inesistenti, di compagnie fittizie? Sposta qualcosa nell’inconscio collettivo, nel modo di informarsi e costruirsi idee autonome su ciò che ci circonda o non sarà la pericolosa anticamera di uno spropositato narcisismo alla portata di tutti, un’immaginaria fabbrica di scatenati egocentrismi, un contagiarsi inutile per blaterare rivendicazioni al vento, un’invasione senza limiti della privatezza, del segreto delle persone? Che ricadute avrà tutto questo sulla vita vera della gente? E, soprattutto, qual è a questo punto la vita vera e quella falsa? 

Vale di più avere un vicino di cui non sappiamo niente e al quale non rivolgeremmo mai la parola sul pianerottolo perché è di destra e noi siamo pervicacemente di sinistra, o ritrovarselo amico su uno schermo imparando che fiori preferisce, chi ha amato alla follia, di che cosa sta soffrendo e scoprirci capaci di una viva simpatia perché come noi si getterebbe nel fuoco per salvare un gatto? In un recente articolo sul Corriere della Sera Maria Laura Rodotà riferiva le tesi di Stephen Coleman, un sociologo che a Londra studia la “cittadinanza digitale” e che non è per niente ottimista sulle ricadute sociali dell’impegno dimostrato in rete dagli under 40 (non più precisamente riconoscibili nelle tradizionali categorie di sinistra e di destra): si mobilitano su temi specifici ma senza capacità di organizzare una militanza attiva, agitano opinioni in rete facendo proseliti senza incidere sul reale perché non sono in grado di elaborare proposte politiche concrete. 

Prova ne sia la parabola di Obama, eletto grazie all’appoggio dei social network da persone che non sanno andare oltre la configurazione del “fan” e che non hanno elaborato strategie per sostenerlo nel tempo.

Ora, siccome Maria Laura Rodotà è anche un’attiva presenza su Facebook con un parco amici di poco inferiore ai fatidici cinquemila, il suo articolo ha subito suscitato una discussione in rete rilanciata da un altro giornalista e scrittore, Fabrizio Falconi, portatore di una visione meno pessimista, e i commenti si stanno moltiplicando.

Il famoso sasso nello stagno. E se ogni causa ha un effetto, anche gli infiniti cerchi provocati dal quotidiano dibattito feisbuchiano da qualche parte andranno a parare. La comunità digitale avanza, né più buona né più cattiva di quella reale, né particolarmente diversa negli usi e costumi, ma avanza, con qualche inevitabile, magari per ora impercettibile, slittamento verso il nuovo. 

Il visconte di Valmont e la marchesa di Merteuil avrebbero di che sbizzarrirsi manovrando un’arma potente come il computer e un teatro umano vasto come quello di una rete digitale per manipolare i destini amorosi delle loro vittime. Sono relazioni pericolose, molto pericolose, tanti scambi fra amanti spiati da mogli e mariti gelosi sotto false identità (chiunque può aprire un profilo con un nome di fantasia), ma si sa anche di storie d’amore risbocciate fra partner di vecchia data che avevano ripreso ignari a corteggiarsi, sotto altro nome, riscegliendosi inesorabilmente fra sterminate nuove possibilità… 

Chissà se Zuckerberg aveva previsto almeno questo nell’inventare la sua micidiale macchina: la possibilità di moltiplicare gli scenari delle vicende sentimentali, complicarne gli strazi, pervertirne le delizie, centuplicare gli equivoci. Nell’altalenante pendolo fra virtuale e reale, se un social network non riesce a far trionfare un presidente (o viceversa a decretarne la fine) almeno produce il flusso multicolore di tante storie possibili, il grande romanzo di un’umanità chiacchierona e invadente che, minacciata dall’incomunicabilità, dalla separazione, dall’individualismo, ha trovato la via di fuga (o di salvezza, chissà) di una perenne, promiscua compagnia. 

09/11/14

Poesia della domenica - "Roba violenta" di Luigi Attardi/Nail Chiodo.




Luigi Attardi (conosciuto anche con lo pseudonimo di Nail Chiodo) è morto in Svizzera pochi giorni fa, a 62 anni, il 31 ottobre 2014, dopo aver scoperto nella primavera scorsa una malattia terminale. 

Laureato in Filosofia a Yale nel 1974, Attardi negli ultimi anni si era dedicato esclusivamente alla scrittura di versi in lingua inglese e alla sua agenzia professionale di traduzione internazionale Lyrical
Traduzioni. 

Propongo qui una sua poesia e di seguito la sua Lettera d'addio in versi (Rambling Poem-Final Poem) a poeti, amici e conoscenti. 


Roba violenta

Quale, allora, il motivo di tanta sofferenza?
Che sono sempre in moto le nostre menti?
Difficoltà trovate quando uno comunica?
No, nonostante tutto diamo aria
al recinto che esaspera,
e nell’isolamento
troviamo sollievo:
in ogni trappola del tormento,
calma perfetta nel perfetto affanno.

(traduzione di Francesco Dalessandro)



Final Poem

Rambling Poem

being a Farewell Letter in Verse
to Relatives, Friends, and Acquaintances
One should not be surprised, as Ludwig observed,
when those who possess not the key
to a lock of one’s own creation fail to accede
to whatever, by its means, one would preserve
from indiscreet and inopportune attention.
Prosody can either entice or dissuade:
those whom it fails to persuade
cannot delve into the verses in question.
The privacy formal constraints thus afford,
the cover they provide against ill-disposed scrutiny,
is both a privilege and an opportunity
by which a poem’s point may be scored.
Take, for example, the present composition:
thanks to rhymes and rhythms of uncertain distinction
it is sure to turn off both die-hard esthetes
and inveterate prose-mongers after but a few feet.
What there may still be of value in it
will depend entirely on its potential effect,
not upon those contingents of stiff necks,
but on that exiguous minority who thinks
there are always important new things to be learned
that can only be stumbled into as it were,
since our thoughts are rambling by nature;
and that a poem that rambles on from beginning to end
may in fact be where best to first learn them.
I have become sick and will soon meet my maker.
Confident, thanks to their lackadaisical meter,
that I can proceed to speak frankly and freely
without fear of being overheard by anyone really
not in tune with the spirit of these lines,
I shall try to commit to paper considerations
hopefully of interest and use to at least some
of those who do lend an ear and their time –
“… and I’ll try not to sing out of key.”
“Dear relatives, friends, and acquaintances,”
that is how I’ll begin what I now know must be
a letter of farewell to all whom I recall
and who may remember me: a poem that bares
my thoughts and feelings about departure;
one which, though of unproven lyrical quality,
might still gratify a natural curiosity.
“I write to you from a new, standing position
I’ve adopted because less painful to me than sitting.
I won’t go into the etiology of my specific condition:
suffice it to say it is skeletal, terminal, and befitting
a poet who began his inquiry long ago,
intrigued by pain’s forms from the word go.
“Apart from a bout with acute encephalitis
(among the most excruciating of nature’s devices,
rather like a screw applied to your skull),
luckily by doctors promptly cured,
back when I was a kid, I’ve no woe to mull
over for having been by my body endured
in all of sixty-two years of a bountiful life.
Most of the agony encountered until
only five months ago has been spiritual.
More or less all that I’ve gathered from mental strife,
I’ve also managed to keep record of,
so it is meet that I should finish my treatment
of dolorous lessons with what recent events
have taught me of pain’s push come to shove.
“Very sharp physical suffering has a way
of sweeping aside the entire spectrum of worries
that normally occupy a man’s day;
without them to distract him, it hurries
his thoughts straight toward a paramount goal:
to either obtain relief or die as soon as possible.
Ways of killing oneself that once appeared
impracticable suddenly seem feasible
after all; technical hurdles are cleared,
or all too easily dismissed with a shrug.
If it weren’t for stopgap palliative drugs
I would not be here now, still standing tall,
writing a long parting letter to you all.
“With the aid of those medicines one can
again aspire to virtue, to the ideal of a mens sana
in corpore moribundo
, to putting to best use
the time one has left. But the truce
with death cannot, as we know, last forever:
what such best practice will consist in
remains an exquisitely personal matter
of style, taste, and the values they underpin.
If adding a few last points to an already long segment
is one’s cup of tea, fine. I would rather
have mine be a bit shorter at the end and bent
to form a circle, take things into my own hands.
Of course, I live alone and don’t have any children.
“I apologize in advance for any surprise
my suicide may cause: I’ve tried to explain why
it is d’oblige. More interesting to my mind
is the way I am going about it – not
all on my own, but with the help of others.
I enjoy the challenge advocacy
poses to poetry, and to do justice
to the team in question is not easy;
but, it goes without saying, I’ll do the best I can.
“By helping me to die by my own hand,
they are most probably saving my life
from the disparagement of overtime
spent at the mercy of unidentified others –
not least were I instead to use a knife
on myself and botch it up miserably!
That is where they draw their line for dignity
in death, and it is difficult not to agree
if one knows what they are talking about.
One doesn’t have to be on one’s way out
to learn why, where, and how they operate,
to support their pro-health-to-the-last,
humanitarian association: just go straight
to their website, www.dignitas.ch,
and think of your own future, what it might reserve.
The patient’s instructions and protection service
they offer is well worth subscribing to
when death seems still far from the corner.
“But enough talk of death! Lest the relatives
disown, the friends disavow, the acquaintances
sneer if ever they chance to think of me.
It is what I am departing from, not how
or where I am departing to – by my very heart
and mind – that is the real crux of this letter.
I don’t mean the larger world outside, that hootenanny,
but all whom I cherish and cannot write to
one at a time because they are too many
and there would be too much for me to say.
The personal exchanges that once made our day,
what we have already shared, will have to do.
“May this so-long epistle with occasional rhymes
also in some manner serve to make up
for the fact that, being quite rushed,
I shall fail to rendezvous one last time
even with those of you within easy reach.
But here I trust that all will believe
I do indeed regret not feasting my eyes
again upon them, not giving in to a sob or a sigh
while trying to remain as composed as I can;
but, most of all, not gently shaking their hand
as in those kindred scenes once portrayed
in bas-relief on ancient Greek funerary stelae.
“I started by telling I was in a standing
position as I wrote you, which indeed
remains more congenial than others to me
even as I near the end of these ramblings.
All my previous poetry, I wrote recumbent:
it has even been suggested by an Austrian lady
that if ever a statue were to be made of me
it would be most true to its subject
if it showed him to be lying in bed.
She said it – bless her kind soul! – sarcastically,
but the idea is a good one and, quite frankly,
were it to be done by a humorous sculptor,
I would not object to being so honored.
“My dears, the time has come to finally part.
In valediction, take this token of a rambler’s art.”

08/11/14

Murakami Haruki, l'Incolore e il mio Rosso cadmio (di Antonello Viola).



Nell'ultimo romanzo di Murakami Haruki, L'incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, c'è un ottimo congegno narrativo: nella città di Nagoya abitano cinque ragazzi, tre maschi e due femmine, che tra i sedici e i vent'anni vivono la piú perfetta e pura delle amicizie.

Almeno fino al secondo anno di università, quando uno di loro, Tazaki Tsukuru, riceve una telefonata dagli altri: non deve piú cercarli. Da quel giorno, senza nessuna spiegazione, non li vedrà mai piú: non ci saranno mai piú ore e ore passate a parlare di tutto e a confidarsi ogni cosa, mai piú pomeriggi ad ascoltare la splendida Shiro suonare Liszt, mai piú Tsukuru avrà qualcuno di cui potersi fidare.

Il dolore è cosí lacerante che nel cuore del ragazzo si spalanca un abisso che solo il desiderio di morire è in grado di colmare.

Questi ragazzi, ai tempi della loro bellissima, travolgente amicizia, sfiorita, appassita senza motivo, avevano preso l'usanza di chiamarsi ognuno con il nome di un colore: Rosso, Blu, Bianco, Nero.

Solo Tazaki non ha colore.  Ed è perciò chiamato dagli amici, Incolore.

A Murakami interessa entrare nella radice di questo cuore umano abbandonato e desideroso di doloroso riscatto (si inizia a vivere solo quando si comincia a morire un po', è la morale non certo freschissima del libro).

Ma è interessante questo spunto del colore come elemento del cuore umano.

Ciascuno, suggerisce Murakami nasce con addosso (o meglio, dentro: in quella che Murakami se vi credesse, chiamerebbe anima) un colore.

Questo mi fa venire in mente la capacità quasi ultra-percettiva che hanno alcuni artisti di sentire il colore assoluto, nel riconoscerlo nel cuore di una persona, di un essere umano. Il catalogo è ovviamente infinito.

Nel mio caso, io sarei chiamato (o vorrei chiamarmi o chiamerei la mia anima se vi credessi come vi credo) Rosso.  Ma una certa qualità molto particolare di rosso, che ho riconosciuto in tanti anni solo in questo quadro:



E' un'opera di Antonello Viola. E la prima volta che l'ho vista l'ho riconosciuta. O forse, meglio dire, lei ha riconosciuto me.

Fabrizio Falconi

Cadmium Red Deep è un'opera di Antonello Viola (2008- Premio Terna 01).

07/11/14

Le anime di Bernini al Museo del Prado di Madrid.



Le anime del Bernini. Arte a Roma per la corte spagnola e' la mostra che il Museo del Prado di Madrid dedica da oggi all'8 febbraio allo scultore, pittore e architetto Gian Lorenzo Bernini e, in particolare, ai rapporti del maestro del barocco con la monarchia spagnola. 

Organizzata in collaborazione con l'ambasciata d'Italia in Spagna, in occasione del semestre di presidenza italiana della Ue, l'esposizione - curata dal cattedratico di Storia dell'arte dell'universita' Complutense di Madrid, Delfin Rodriguez - include una quarantina di opere, fra sculture, dipinti a olio e disegni dello scultore, nato a Napoli nel 1598 e morto a Roma nel 1680. 

Organizzata intorno alle complesse relazioni artistiche, culturali, diplomatiche e politiche mantenute dall'artista con Filippo VI, Carlo II e i loro ambasciatori nel XVII secolo, la mostra propone per la prima volta in Spagna le 'Anime' suggerite dal titolo: due sculture abitualmente esposte nell'ambasciata spagnola davanti alla Santa Sede. 

L'allestimento dell'esposizione non e' stato esente da polemiche, riferite oggi da El Pais, fra la pinacoteca del Prado e il Patrimonio Nazionale spagnolo, che aveva reclamato l'estate scorsa la restituzione di quattro opere, depositate per legge nel museo madrileno dal 1943: 'Il giardino delle delizie' e 'I sette peccati capitali' di Bosch; 'La deposizione dalla croce' di Van der Weyden e 'Il lavatoio' di Tintoretto. 

A causa del contenzioso, i prestiti sollecitati dal Prado al Patrimonio Nacional per l'esposizione di Bernini - il 'Cristo crocifisso', del Monastero dell'Escorial, e il 'Modello della Fontana dei Quattro Fiumi', conservato nel Palazzo Reale - sono stati negati.

06/11/14

La legge della durezza e l'intelligenza romantica.




Dove sono la letizia e la pace, dovunque io volga gli occhi non scorgo che infelicità e durezza, e in mezzo a questo affannoso frastuono, vuoi che io trovi la calma necessaria per l'opera delle muse ?

Così scriveva Erasmo, nel 1493, all'età di 24 anni.

Sono parole moderne. Infelicità, durezza, frastuono. Durezza. Come può un cuore bianco, un cuore sensibile, un cuore attento mettere radici e crescere in mezzo ad un paesaggio così inospitale ?

Come può il nero o bianco - di cui è fatta sempre di più la nostra vita, a base di velleitarismi e pensiero razionale, di essere pura superficie, senza nessuna capacità di guardare dentro  - non soccombere di fronte alle pretese di quello che Pirsig chiamava il pensiero classico ?

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili.

L'intelligenza romantica è destinata a soccombere, ad arrendersi, a ritrarsi da questo mondo (con il quale non ha (più) nulla a che fare). 

03/11/14

Lenny (Bob Fosse) - il prezzo della verità.





La grandezza di un film come Lenny (Bob Fosse, 1974) è quella di mostrarci il prezzo amaro, personale, cristico che si paga per testimoniare la verità. 

Lenny Bruce nella realtà (e nella trasposizione di Fosse) era uno sgradevole, un ciarlatano, insopportabile narcisista e rompiballe, ma sentiva su di sé l'ossessione di combattere l'ipocrisia borghese, specie sulle cose riguardanti il sesso e i sentimenti 'amorosi'. 

Raccontare le cose come stanno, spargere napalm su quello che la gente ama sentirsi dire e raccontarsi da sé sull'amore, per mantenersi in vita, fu quello che lo trasformò in un buffo e tragico Don Chisciotte, votato all'autodistruzione e all'annientamento da parte di un sistema che può accettare tutto (corruzione, bombe, dissidenza) ma non la lucida dichiarazione che tra le persone c'è in atto un continuo fraintendimento anche (e soprattutto) quando si parla d'anima, d'amore, ecc.. e che tutto è ahimé estremamente più prosaico.

Lenny faceva questo. Come un pazzo kamikaze, scagliandosi contro ogni forma di discriminazione basata sull'ipocrisia.



In definitiva Lenny combatteva - a suo modo, determinato e lucido ma allo stesso tempo sconsiderato e autolesionista - per la verità dei rapporti umani. Una verità  spesso alquanto amara.

Ma la capacità di autoinganno è il primo requisito che si dovrebbe considerare (e combattere) se si desidera essere pienamente umani, umanamente maturi.

Scriveva Luigi Pirandello:

Che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci, non ci siamo intesi affatto.

Credere di guardare nel cuore dell'altro - specie quando affastelliamo i sensi di un malinteso amore - è una illusione.  Si può soltanto essere se stessi, interamente. Essere con il proprio cuore, anche rischiando di restare soli o di darlo in pasto al primo venuto, per una necessità non autentica. Dunque, essere. Lenny lo era.


Fabrizio Falconi 


02/11/14

La poesia della domenica - 'Stamattina, il fosso' di Fabrizio Falconi.




Stamattina, il fosso.


Stamattina
sono passato sotto un albero
le sue fronde cadenti
mi hanno carezzato i capelli,
- un tocco morbido e duro
allo stesso tempo.

Non me ne ero accorto:
quando, molto tempo dopo,
mi sono guardato allo specchio
ho scoperto
di avere tra i capelli
minuscoli frammenti
di foglie, rami
e polvere di terra
come una ghirlanda bruna
mi adornava la testa.

E ho pensato:
sarà così quando sarò morto,
gli alberi e la terra
sfioreranno la mia testa
se ne impadroniranno
dolcemente
con terribile silenzio
mi copriranno
nello stesso modo
- tocco morbido e duro
allo stesso tempo.

Ma poi un coro vittorioso
e perduto, come di bimbi afflitti
- per tutto quel non vissuto,
la vita gettata al vento del rischio –
ho sentito sussurrarmi
un poema nuovo:

“ E’ già ora così.
Non correre, non andare
non oltre.
E’ qui, ora il tuo fosso
da aprire, da svellere
e vivere,  bonificare
e nutrire nel fondo del fondo
di tutte le ere che lo hanno generato.

Tu sei l’odore di salvia
l’umidore del mattino, la luce
che fa il giro nuovo 
nei segreti dell'ombra."



Fabrizio Falconi -  tratto da M.C. Biggio (a cura di) - Luci da "Il Fosso" – Ventiquattro segni terrestri per Laudomia Bonanni (nel centenario della nascita). Poesie di Anedda, Biggio, Bre, Buffoni, Calandrone, Cavalera, Falconi, Giancarli, Gualtieri, Kinsella, Loi, Loreto, Mariani, Marzaioli, Merini, Pecora, Pizzi, Precht, Sica, Spaziani, Stewart, Tocci, Valesio. In copertina un olio di A. Arrivabene. Pp. 63, La Vita Felice, Milano 2008.

01/11/14

Una bellissima mostra sui Numeri al Palaexpò di Roma.

proprio mentre preparavo la mia conferenza a Riva del Garda, il 19 ottobre scorso, integralmente pubblicata su questo blog nei giorni scorsi, ho scoperto che il Palaexpò di Roma allestiva, stava allestendo, una grande mostra sui Numeri.  Che davvero vale la pena di essere vista. 




NUMERI
Tutto quello che conta, da zero a infinito

Al Palazzo delle Esposizioni parliamo di numeri e lo facciamo con l’ambizioso obiettivo di coinvolgere tutti: da chi ha pochissima confidenza con la materia e qualche curiosità, fino al visitatore più preparato ed esigente. Molte attività di laboratorio, studiate appositamente per le diverse età e classi scolastiche e per il pubblico adulto con differenti conoscenze della materia, accompagneranno tutti, proprio tutti, all’interno di un mondo affascinante e fondamentale per comprendere molto di ciò che ci circonda.

L’idea di fondo è mostrare i numeri nella loro duplice essenza: da una parte sono oggetti naturali e utili, che il cervello umano è predisposto naturalmente a trattare e di cui la società ha continuamente bisogno per quantificare; dall’altra sono oggetti artificiali e sociali, costruzioni teoriche con implicazioni linguistiche e culturali che hanno viaggiato nel tempo e nello spazio. I numeri non sono solo l’alfabeto di ogni discorso scientifico ma, da sempre, esercitano un fascino profondo sul pensiero filosofico e teologico, sulle arti, le parole, l’architettura, la musica.

Il nostro racconto segue questa logica. Il percorso di scoperta parte dal cervello, naturalmente predisposto a manipolare numeri e quantità. Dopo aver afferrato l’idea di numero, il passaggio successivo è quello di dare un nome alle cose e di scriverle: mostreremo come “contare” e “registrare” si sono evoluti e come siano diversi da luogo a luogo. Arriviamo, quindi, agli strumenti di calcolo, pensati e costruiti, dagli uomini di ogni epoca, per cercare di superare i propri limiti di comprensione e conoscenza. Passiamo, allora, dai numeri «puri» a quelli «applicati», cioè a quelli che ci consentono di misurare. Partiremo dalle unità di misura (nella vita di ogni giorno, in medicina, in economia) per arrivare alle costanti fondamentali dell’universo. Terminiamo il nostro percorso riflettendo sulla dimensione astratta dei numeri: da sempre, l’uomo ha meditato sulle loro proprietà e sul loro significato. Anche chi sostiene di poterne fare a meno, per riuscirci, deve conoscerli e studiarli.


Per l'immagine di Albert Einstein
Einstein Writing Equation on Blackboard
© Bettmann/CORBIS

31/10/14

I numeri come archetipi e l'Anima. 8. Il numero 137, Pauli e Jung (Conferenza Riva del Garda, L'arte di Essere, 19 ottobre 2014).

8.  IL NUMERO 137, PAULI E JUNG


E terminiamo questo excursus con ultimo numero, il 137.
Sul quale si potrà sapere tutto leggendo un bellissimo saggio di Arthur J. Miller, professore  di storia e filosofia della scienza presso l'University  College di Londra: L'equazione dell'anima, pubblicato da Rizzoli nel 2009, che racconta l'ossessione per un numero nella vita di due geni, Carl Gustav Jung e il fisico Wolfgang Pauli.
Negli anni '30, ad appena trent'anni, Pauli è uno dei teorici più brillanti della nascente fisica quantistica.  Eppure ogni notte si ritrova a vagare nei quartieri a luci rosse in preda all'alcol e alla depressione.




Ed è proprio la sua doppia vita ad indurlo a rivolgersi a Carl Gustav Jung, il discepolo eretico di Freud, divenuto in quegli anni un punto di riferimento della ricerca psichica mondiale.
L'incontro tra questi due geni, tra ragione e misticismo, diviene una potente alleanza tra due giovani scienze, la psicoanalisi e la meccanica quantistica, all'insegna di quello che appare come un numero magico: il 137. 

Un numero che da un lato descrive con grande precisione il dna della luce e dall'altro è la somma dei valori numerici dei caratteri ebraici che compongono la parola Kabbalah (Cabala). 


Perché il Dna della luce ? Perché – detto con parole semplici – 137, o meglio 1/137 è la cosiddetta COSTANTE DI STRUTTURA FINE, cioè uno di quei numeri che stanno alla base stessa dell’universo e di tutta la materia.



Le righe spettrali infatti, rappresentano una sorta di impronta digitale di un atomo e si rivelano quando la luce colpisce un atomo.

C’era qualcosa in questo numero primo (il 33.mo per l’esattezza) e primordiale, che stuzzicava la curiosità e l’immaginazione di tutti, fisici e scienziati, nel secondo dopoguerra.

I fisici – Planck fu preceduto in questa ossessione da Arthur Eddington – si convinsero che la costante di struttura fine non può avere quel valore per caso. Esiste là fuori, indipendentemente dalla struttura della nostra mente.

Ma Pauli rimase esterrefatto quando, dopo aver stretto amicizia con Gershom Sholem, uno dei massimi esperti di misticismo ebraico, scoprì che la parola Cabala in ebraico si scrive con quattro lettere, la cui somma dà proprio 137.
Ma altrettanto, gli disse Scholem, fanno altre parole contenute nella Bibbia, come “il dio fedele”, “circondato da splendore” e la parola ebraica che significa “crocefisso”, tutte danno come risultato 137.


Pauli cominciò a parlare di questo a Jung, durante le sedute e nei loro incontri di lavoro,  e anche Jung, ovviamente ne restò enormemente affascinato,  diventando anche un terreno di indagine parallela per Jung e per le sue ricerche sulla essenza e sul Sè.



L’ossessione per il numero 137, come simbolo accompagnò  Pauli fino al letto di morte. In modo veramente incredibile.  Il 5 dicembre del 1958, durante una lezione pomeridiana, Pauli fu colto da dolori lancinanti allo stomaco. Fino ad allora aveva sempre goduto di ottima salute, nonostante la sua vita non certamente morigerata.  Fu portato in tutta fretta all’ospedale della Croce Rossa di Zurigo.
Un amico, Charles Enz andò a trovarlo. Pauli era visibilmente agitato.  Aveva notato il numero della stanza ? Chiese ad Enz. ‘No’, rispose il suo assistente.  “E’ il 137!” gemette Pauli, “Non uscirò mai vivo da qui.”   Quando lo operarono i medici scoprirono un grosso carcinoma al pancreas. Pauli morì nella camera 137 il 15 dicembre. La sua ultima richiesta era stata di parlare con Jung.



Insomma, abbiamo chiuso con questo che è molto più di un aneddoto, questo piccolo viaggio nel mondo dei numeri archetipici.


La suggestione, come abbiamo visto, era ed  è ancora  quella di trovare un numero alla base dell'universo, un numero primordiale, un numero da cui tutto dipende e dà conto di tutto. Anche in questo momento in cui parliamo qui, in diverse parti del mondo matematici e fisici sono al lavoro per trovare le tracce di quel raccordo finale che speriamo un giorno di intravvedere dentro all’enorme, spaventoso mistero in cui la nostra vita biologica e spirituale sembra calato.

E' un vecchio sogno umano, inseguito da astronomi, scienziati, alchimisti, mistici, filosofi, matematici che prosegue e che probabilmente accompagnerà l’evoluzione dell’intelligenza umana ancora per molto.

La Galassia dell'Aquila, fotografata dal telescopio spaziale Hubble della Nasa


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata (8- fine) 

30/10/14

I numeri come archetipi e l'Anima. 7. Il numero 25 e il Quadrato Magico (Conferenza Riva del Garda, L'arte di Essere, 19 ottobre 2014).


7. IL NUMERO 25 E IL QUADRATO MAGICO.


E ora nel nostro viaggio tra i numeri, ne affrontiamo un altro, legato ad uno dei più singolari enigmi dell’antichità.  Il numero 25, che è strettamente legato al cosiddetto ‘Quadrato magico’, o  ‘Quadrato Sator’, o ‘Latercolo pompeiano’ sul quale sono stati versati veri e propri fiumi di inchiostro.
Il Quadrato è conosciuto fin dai tempi dell’antichità, perché esemplari di esso sono stati rinvenuti in luoghi di culto e in luoghi di sepoltura di mezza Europa.
Si tratta di cinque parole, disposte in 25 caselle, leggibili sia da sinistra a destra, che da destra a sinistra, ovvero cinque palindromi, che però, è questa la particolarità, possono essere lette anche verticalmente, dall’alto in basso e dal basso in alto:



Le parole centrali, i due TENET incrociantesi, e palindromi, formano fra l’altro una perfetta croce.
Su questo Quadrato dal significato misterioso – le cinque parole latine formano una frase apparentemente priva di senso – sono fiorite le teorie più bizzarre nel corso dei secoli, e non è ovviamente il caso qui di darne conto. 
Il Quadrato, per alcuni è solo un gioco enigmistico, per altri una formula alchemica, per altri ancora nientemeno che il lasciapassare, la parola d’ordine degli appartenenti all’Ordine dei Templari.
Fra l’altro il Quadrato è stato rinvenuto in diverse versioni. Con, ad esempio la prima parola SATOR, anziché ROTAS.  La difficoltà nella traduzione dipende dal termine AREPO  che non esiste in latino. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si tratta di un nome proprio. In questo caso la frase suonerebbe più o meno: “ il contadino Arepo conduce l’aratro nei campi.“ 


Questo secondo alcuni studiosi, come Margherita Guarducci, proverebbe l’origine pagana del quadrato: un semplice gioco enigmistico.
Qualcun altro ha sottolineato che leggendo invece il Quadrato in modo bustrofedico, cioè a serpentina, cambiando direzione ad ogni riga, si otterrebbe: Sator opera tenet – tenet opera Sator. Cioè: “ Il Seminatore possiede le Opere, “ ovvero “ Dio è il signore del Creato. “    Significato religioso, ispirato.
Comunque sia il  gioco delle interpretazioni si può continuare all’infinito.
Quel che ci interessa accennare è la svolta avvenuta nel 1936 a Pompei, quando, durante gli scavi,  un esemplare del Quadrato fu rinvenuto su una delle colonne della Palestra Grande.



La scoperta, vero e proprio evento per gli archeologi, ha retrodatato l’invenzione del Quadrato Magico almeno al 79 dopo Cristo, e ha rinforzato una serie di teorie riguardante la controversa presenza dei cristiani a Pompei, nell’anno dell’eruzione.
Questo perché al Quadrato si è attribuito da più parti una sicura rilevanza di simbolo cristiano, legato al culto dei morti  e alla Risurrezione.
Incredibile a credersi infatti, il Quadrato misterioso contiene al suo interno, come una fantastica scatola cinese, un ulteriore piccolo prodigio.
Tutte le parole del Quadrato, messe insieme – anagrammate - formano due Paternoster incrociati con due lettere alle estremità della croce, due A e due O, che rappresenterebbero due Alfa e Omega.



 (Esemplari del Quadrato Magico sono stati ritrovati :
-          a Verona, nell’Oratorio di Santa Maria Maddalena di Campomarzio.
-          In Gran Bretagna su in intonaco di rovine romane risalenti al III sec. a Cirencester ( l’antica Corinium ), dove fu rinvenuta anche una gran quantità di tombe.
-          A Pescarolo, in provincia di Cremona, sul pavimento della bellissima chiesa di S. Giovanni Decollato.
-          A Siena, nel Duomo di S. Maria Assunta.
-          A Fabriano, nella chiesa di S. Maria in plebis flexiae.
-          A Roma, nei locali catacombali sotto la Basilica di Santa Maria Maggiore – il quadrato fu rinvenuto durante gli scavi archeologici del 1960.
-          A Santiago de Compostela, in Spagna.
-          In Austria, nell’attuale Altofen, l’antica Buda.
-           In Ungheria, graffito su una tegola, negli scavi  dell’antica Aquincum, graffito databile al 107, 108 d.c.)

In realtà il Quadrato è molto più antico. E oggi quasi tutti gli studiosi sono concordi nel ritenerlo un’espressione ingegnosa della prima comunità cristiana stabilitasi in Italia alla fine del I secolo dopo Cristo.
In realtà ciò che appare evidente è il legame che nel tempo si è instaurato tra il Quadrato, il  rito della sepoltura e il culto dei morti.  Forse l’origine di questo legame, l’aver associato il Quadrato alla sepoltura, deriva proprio da Pompei.
Il simbolo della croce è infatti inserito due volte nel Quadrato. Con i due Paternoster incrociati come abbiamo visto, e con le due parole TENET che si intersecano formando una croce, nella lettera N che secondo alcuni starebbe appunto per NAZARENUS.
Il Quadrato Magico ‘SATOR’ è  fra l’altro inciso sulla lapide di un uomo famoso. Il compositore austriaco Anton von Webern, l’erede di Schomberg, da molti considerato l’inventore della dodecafonia.
( a.v.webern. ( 1883 – 1945 )).
 Anton von Webern ebbe, in vita, una specie di vera e propria ossessione per il Quadrato Magico. Al punto che scrisse anche un’opera musicale ispirata al Quadrato: II CANTATA OPERA 31, che fra l’altro è l’ultima opera del suo catalogo.
Webern, affascinato, ossessionato per tutta la sua vita dalle possibilità geometriche, matematiche della musica, dalla serialità e dagli enigmi, non poteva non trovare nel Quadrato una specie di ‘summa’ del suo credo filosofico, prima che musicale.
Webern, che aveva fatto della razionalità un dogma, anche in musica, finì i suoi giorni in un modo quasi incredibile. Venne ucciso per sbaglio nel 1945 da un soldato americano durante un coprifuoco. Massima irruzione del caso in una vita dominata dal calcolo.
Sulla sua casa a Mittersill figura un Quadrato posto in mezzo alle sue date di nascita e di morte. La stessa cosa sulla sua lapide.



Webern, a proposito del Quadrato scriveva:
“Variazioni sopra un tema. Questa è la forma primordiale che sta alla base di tutto. Due cose che sembrano completamente diverse fra di loro in realtà sono la stessa cosa. E così si genera la più larga coerenza."
“ Due cose che sembrano completamente diverse tra di loro e che in realtà sono la stessa cosa “: non è che Webern si sta riferendo alla croce e al quadrato ? Beh sì. Webern parla proprio del Quadrato magico: una STESSA COSA che contiene due cose completamente diverse: la Croce e il Quadrato.
Il Quadrato, simbolo della razionalità, della geometria, della costruzione, della casa, delle fondamenta.
La Croce, simbolo della spiritualità, dell’idea, dell’innalzamento verso l’alto, verso il trascendente, il divino.
Ma perché il 25 ?? 25 il numero delle caselle del Quadrato ?
Beh, non è affatto sorprendente forse scoprire che il 25 è quello che in matematica si chiama  un NUMERO QUADRATO CENTRATO, e per l’esattezza il QUARTO. Un numero quadrato centrato è infatti un numero poligonale centrato, che rappresenta un quadrato, con un punto al centro e gli altri intorno a raggiera.
I primi numeri quadrati centrati sono: 1,5,13 e 25 e possono essere rappresentati nel seguente modo.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata (7./ segue)